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scienza-magia · 1 year ago
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Sistema pensionistico dell'INPS vicino al crack finanziario
L’INPS è il più grande schema Ponzi della storia. Ecco perché l'INPS è un gigantesco schema Ponzi e riformare il sistema previdenziale è pressappoco impossibile. Agli inizi del secolo scorso tale Carlo Ponzi partì giovane dal porto di Genova con meta il Nord America. Storia comune a quella di milioni di altri emigranti italiani. Pochi spiccioli in tasca e la voglia di rifarsi una vita. Messo piede sul suolo degli States, americanizzò il suo nome in Charles. Non avrebbe immaginato che il suo cognome avrebbe fatto la differenza, diventando in futuro sinonimo di “truffa”. Già, perché il ragazzo si fece subito una fama attirando i capitali dei risparmiatori locali, perlopiù italoamericani in una prima fase. Prospettò loro guadagni elevati e ben sopra i livelli medi di mercato. Giustificò l’alta remunerazione con la capacità di trarre elevati profitti dagli investimenti in buoni di risposta internazionale, particolari francobolli vigenti agli inizi del Novecento per le missive inviate a soggetti residenti all’estero. In breve, Ponzi promise guadagni stellari, ma ben presto si scoprì che la vicenda fosse un raggiro ai danni degli ignari risparmiatori. Questi furono allettati dai pagamenti anche con interessi del 50% in tre mesi effettuati ai primi investitori. E’ la logica sottostante ad ogni catena di Sant’Antonio. Offro rendimenti altissimi ai primi investitori con i capitali versati dagli investitori arrivati dopo. In questo modo si sparge la voce che l’investimento sia realmente sicuro e redditizio e arrivano ulteriori capitali. Senonché l’italoamericano non stava investendo alcunché, limitandosi a prelevare i fondi degli ultimi arrivati per pagare coloro che volevano riscattare la quota con annessi interessi. “Buco” pensioni si allarga Fu questo il famoso “schema Ponzi”, che valse al suo ideatore anni di galera e il rimpatrio dopo la scarcerazione in Italia. Questo meccanismo è fallace, destinato a durare fintantoché l’ammontare dei nuovi capitali supera quello dei riscatti. Quando accade il contrario, il castello di carte crolla in un attimo. Ma quello di cui vi vogliamo parlare non è la truffa di un secolo fa, replicata in tempi recenti da personaggi come Bernard Madoff sempre negli Stati Uniti fino alla crisi finanziaria mondiale del 2008. Esiste un gigantesco schema Ponzi propinato dai governi di gran parte del pianeta. In Italia, riguarda l’INPS. Lo scorso anno, l’ente di previdenza spese più di 283 miliardi di euro in pensioni, coperte per poco più di 230 miliardi dai contributi. La differenza di quasi 53 miliardi l’ha dovuto coprire lo stato, pardon i contribuenti. Più o meno va così ogni anno e, soprattutto, nei prossimi decenni andrà probabilmente molto peggio. Come funziona l’INPS? Preleva i soldi dei lavoratori per pagare gli assegni a chi attualmente si trova in pensione. A loro volta, i lavoratori di oggi saranno mantenuti in pensione dai lavoratori di domani. Questo sistema, contrariamente a quanto molti di noi si ostinano a pensare, non presuppone alcun investimento. I nostri contributi, che pure sono annualmente rivalutati in base ad un dato coefficiente fissato per legge, nei fatti non arrivano mai sui mercati finanziari neppure per un euro. Vengono subito spesi per pagare le pensioni. Il sistema va avanti fino a quando la massa dei contributi versati è almeno pari alla spesa per le pensioni. Ciò è possibile a condizione che il numero dei lavoratori resti stabile o cresca e i salari da cui prelevare i contributi crescano anch’essi. Se per ragioni socio-demografiche la popolazione attiva si riduce e la crescita dell’economia rallenta, il sistema salta. Esattamente come per qualsiasi schema Ponzi. Ed ecco rendersi obbligatori rimedi come l’allungamento dell’età pensionabile, la riduzione degli assegni futuri, l’aumento dei contributi, l’importazione di un numero crescente di immigrati, ecc. Schema Ponzi per l’INPS, impossibile uscirne
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Lo schema Ponzi su cui si basa l’INPS è noto in economia come sistema a ripartizione: i contributi dei lavoratori sono ripartiti tra i pensionati. Il modello alternativo si chiama sistema a capitalizzazione. E’ privatistico, cioè funziona così: i contributi dei lavoratori sono investiti sul mercato e generano rendimenti, così che i futuri pensionati possano percepire un giorno un assegno sufficiente per vivere. Qui, non esiste alcun legame tra lavoratori e pensionati. Ciascuno paga per sé. Perché non tendere a questo sistema? Perché se all’improvviso tutti investissimo i contributi solo per il nostro futuro, come farebbe l’INPS a pagare le pensioni di oggi? Almeno una generazione tra pensionati o lavoratori soffrirebbe: o i primi non riceverebbero alcun sostentamento o i secondi dovrebbero pagare il doppio dei contributi: per sé e per i pensionati del momento. Sarebbe in ogni caso ingiusto. Uscire dal sistema a ripartizione è impossibile senza sostenere grosse perdite per lunghi anni. Proprio come lo è disinvestire da uno schema Ponzi senza che il sistema imploda. Fu la miopia dei governi nel Secondo Dopoguerra ad avere intrappolato per sempre i popoli in una logica di “solidarietà intergenerazionale” divenuta semplicemente insostenibile per ragioni di matematica. Charles Ponzi sarebbe stato orgoglioso di avere ispirato niente di meno che i modelli previdenziali pubblici di mezzo mondo. Gli stipendi sono troppo bassi per garantire una pensione futura sufficiente ai giovani lavoratori. Manca (da troppo tempo) un salario minimo in Italia. Il problema delle pensioni future in Italia si chiama salario minimo. Cosa che da noi non esiste. L’Italia, come noto, è uno dei pochi Paesi fra i 27 membri della Ue a non aver ancora adottato il salario minimo. Ne deriva che, nel sistema contributivo, a bassi livelli di retribuzione non possa corrispondere un domani una pensione dignitosa. Con l’effetto che lo Stato debba continuamente intervenire con politiche assistenziali, per sostenere il potere di acquisto di chi non arriverà a percepire una rendita sufficiente per vivere. Negli ultimi dieci anni, giusto per rendere l’idea delle cifre in ballo, la spesa pubblica per il sostegno alle prestazioni più basse è passata da 140 a 208 miliardi di euro. Costi spalmati sulla fiscalità generale, ovviamente. Pensioni: cosa non funziona A fare il punto sulla criticità del nostro sistema welfare è il presidente uscente dell’Inps Pasquale Tridico in una intervista rilasciata dal Salone Internazionale del Libro a Tornio. Secondo il numero dell’Istituto, la sostenibilità delle pensioni passa anche e soprattutto dalla necessità di garantire a chi lavora una retribuzione dignitosa al pari di quanto già avviene da anni negli altri Paesi Ue. Cioè un salario minimo garantito per legge.Mentre gli altri membri europei – dice Tridico – hanno adottato misure di salvaguardia del potere di acquisto per lavoratori e pensionati, noi siamo rimasti fermi. Anzi siamo anche andati indietro diventando il fanalino di coda del continente. E’ quindi necessario intervenire subito per garantire a ogni lavoratore almeno 9 euro all’ora di retribuzione, come indicato dalla Ue nel 2022. Cifra anche bassa, oggi, considerando l’esplosione dell’inflazione. Il sistema pensionistico a ripartizione si regge, infatti, sulla contribuzione apportata dai giovani lavoratori ai pensionati. In Italia questo sistema è, oggi, compromesso da due problemi fondamentali: il primo è il salario minimo che manca, il secondo è il deterioramento del rapporto fra lavoratori e pensionati. Abbiamo oggi 1,4 lavoratori regolari per ogni pensionato, anziché 1,6 (soglia minima) come avviene in Francia e in Germania. Gli effetti sulle pensioni Ma torniamo al salario minimo. Come noto, l’Italia è rimasta molto indietro sul livello delle retribuzioni generali. Guadagniamo il 40% in meno dei francesi e il 60% in meno dei tedeschi che, al contrario, negli ultimi 10 anni hanno saputo adeguare le retribuzioni all’inflazione reale. In compenso, però, abbiamo più di mille tipologie di contratti di lavoro, ognuno dei quali nasconde insidie di vario genere per pagare il meno possibile la manodopera. Siamo l’unico Paese in cui negli ultimi 40 anni i salari sono diminuiti in percentuale (-1,9%) anziché cresciuti. Nemmeno la Grecia o Cipro hanno saputo fare peggio di noi. E la produttività degli ultimi 10 anni è stata 9 volte più bassa della media Ue, siamo ultimi con la Grecia per tassi di occupazione e di lavoro nero. L’introduzione del salario minimo porterebbe quindi notevoli benefici ai lavoratori italiani e, di consegneza, anche alle pensioni. Come sostiene da tempo Tridico “fissare una soglia sotto la quale le retribuzioni non possono scendere aiuta a far crescere l’importo delle pensioni future dei giovani”. Salario minimo e pensioni da fame Ottenere una pensione dignitosa, pari a quella delle generazioni del secolo scorso, quindi, sarà impossibile se il livello delle retribuzioni resta basso. Tridico suggerisce al governo di introdurre al più presto il salario minimo per i lavoratori ed estinguere la piaga cronica del lavoro nero che coinvolge più di 3 milioni di persone. In futuro, solo chi avrà alle spalle una carriera piena, continuativa e un lavoro degnamente retribuito potrà percepire una pensione sufficiente a campare. Oggi è possibile individuare tale soglia in 1.000 euro al mese. Livello che, però, non può essere sostenuto all’infinito con interventi assistenziali, ma dal lavoro regolare ed equamente pagato. In sintesi, bassi livelli salariali non possono sostenere a lungo la spesa per le pensioni. Il nostro Paese – sottolinea Tridico – produce troppi pochi posti lavoro, e questo non è un problema di rigidità, o di ragazzi che non hanno voglia di lavorare, né un problema di sussidi che fanno stare sul divano. Torna a salire l’inflazione ad aprile (+8,2%), per rivalutare le pensioni nel 2024 serviranno altri 20 miliardi. Riforme addio e Quota 41 sempre più lontana. L’inflazione non si ferma e per le pensioni si mette male. L’Istat ha certificato che ad aprile la corsa dei prezzi non si è arrestata, anzi ha ripreso a salire a fronte di un potere di acquisto delle famiglie che continua ad erodersi. L’inflazione di conseguenza si è attestata al 8,2% su base annua con un dato in crescita rispetto al 7,6% del mese precedente. In questo contesto diventa quindi difficile se non impossibile attuare una riforma pensioni favorevole per i lavoratori. In altre parole, trovare una quadra per future e nuove pensioni anticipate a partire dal 2024. Ricordiamo che a fine anno scade Quota 103 e, al momento, non è in previsione alcuna proroga della misura ponte verso il ritorno integrale alle regole Fornero. Inflazione alle stelle e riforma pensioni nella palude Di fronte a questi preoccupanti dati Istat a cui non eravamo più abituati da molto tempo, diventa difficile sostenere la spesa previdenziale nei prossimi anni. Soprattutto per via del fatto che la spesa pensionistica è in tendenziale rialzo, al netto dei dati inflativi. Cosa che peserà oltre misura sul bilancio dello Stato se bisognerà intervenire sulla rivalutazione degli assegni.Per il 2023 sono stati stanziati più di 22 miliardi di euro per la perequazione automatica di oltre 16 milioni di pensioni. Pur tenendo conto dei tagli che il governo ha apportato agli adeguamenti superiori a quattro volte l’importo del trattamento minimo. Ma nel 2024, di questo passo se l’inflazione non decresce, servirà un altro intervento di finanza pubblica pari a quello del 2023. Soldi che non si sa bene dove potranno essere trovati, anche perché non è più possibile aumentare la tassazione generale. Serviranno quindi altri tagli alle prestazioni visto che la base contributiva non sarà sufficiente a coprire interamente la spesa. Col rischio – come avverte il presidente dell’Inps Pasquale Tridico – che il patrimonio netto dell’Inps vada in rosso per 92 miliardi entro i prossimi sei anni. Riforma a rischio, cosa aspettarsi nel 2024 Sicché, se il taglio delle rivalutazioni delle pensioni (perequazione automatica) previsto anche per il 2024 non dovesse bastare, serviranno altri interventi strutturali. Uno di questi è sicuramente la non conferma di Quota 103 che, come per legge, terminerà il 31 dicembre di quest’anno. A ciò si potrebbe aggiungere la soppressione di Opzione Donna che potrebbe confluire in Ape Sociale, sia per caratteristiche che per questioni economiche. Il ritorno pieno alle regole Fornero è quindi scontato. Dal 2024 le possibilità di pensionamento saranno quindi ridotte a due: pensione di vecchiaia a 67 anni o anticipata con 42 anni e 10 mesi di contributi (12 mesi in meno per le donne) a prescindere dall’età anagrafica. Resteranno in piedi le varie deroghe per i lavoratori in difficoltà e per i precoci. Mentre per Quota 41, come insiste la Lega, non ci sarebbero i presupposti per attuarla. Soprattutto dopo il flop di Quota 100 voluto proprio dal Carroccio col governo Conte I. A pesare sui conti delle pensioni sono soprattutto le rendite concesse in passato con troppo anticipo e con un sistema di calcolo (retributivo) diventato troppo oneroso per lo Stato. Sia numericamente (i pensionati sono oggi 16,1 milioni), sia quantitativamente (il costo è salito a 313 miliardi di euro nel 2021), circa il 16% del Pil. Inflazione picchia duro, Quota 41 verso il tramonto In questo contesto, Quota 41 (in pensione con 41 anni di contributi) – come detto – perde appeal. La rivalutazione delle pensioni nel 2024 sarà pesante e c’è ancora da recuperare per quest’anno uno 0,8% di differenza fra quanto già riconosciuto in via provvisoria (+7,3% di aumento) e quanto spetta in via definitiva (+8,1%). Bisognerà rivalutare circa 22 milioni di prestazioni previdenziali fra sette mesi e questo richiederà uno sforzo a bilancio straordinario. Unica soluzione, quindi, sarebbe quella di concedere in futuro la pensione anticipata con Quota 41 solo con il ricalcolo contributivo dell’assegno, come avviene per Opzione Donna. Read the full article
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