Tumgik
#clashcatsandlovesongs
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Stuck in Emerald City
Alla fine hai fatto quello che ti era stato detto: hai indossato le scarpette rosse, hai battuto i tacchi tre volte e ripetuto a memoria tutte le parole giuste per ritornare a casa, ma non è successo niente e sei rimasta bloccata nella Città di Smeraldo. E poco importa che tu abbia affrontato l’uragano, battuto le streghe e percorso uno a uno il sentiero di mattoncini gialli, perché alla fine solo quello che ti era stato detto di fare ti avrebbe riportato a casa, anche se alla fine comunque non è successo niente. Intanto tutti gli amici che erano con te hanno trovato il cuore, il cervello e il coraggio che cercavano e se ne sono andati per altri sentieri fatti di altri mattoncini, lasciandoti sola col mago di Oz, che si è rivelato essere solo un uomo come tutti capace di vendersi molto bene agli altri, un’anima inquieta capitata per sbaglio in questo posto ma che alla fine vuole solo tornare a casa, proprio come te. E allora aspetti col naso all’insù che il vento ti riporti di nuovo in Kansas, col cielo grigio, le casette di legno, i campi di grano e il male del mondo, senza però il bagliore accecante dei brillanti colori e le scimmie volanti. Intanto in alto nel cielo passano solo le mongolfiere difettose di chi ti aveva promesso di darti una mano e non ci è riuscito mentre tu rimani sola, con in testa tutte le parole giuste di una formula inutile e a i piedi solo un paio di scomodissime scarpette rosse, ancora incessantemente e irreparabilmente bloccata nella Città di Smeraldo.
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Low-fi
Ok, facciamo un rapido punto della situazione:
Per una vita intera ci hanno detto che la musica commerciale era brutta mentre quella di nicchia era bella; 
Per una vita intera ci hanno detto che la sinistra era buona mentre la destra era cattiva;
Per una vita intera ci hanno detto che i poveri erano i buoni mentre i ricchi (ovviamente) i cattivi;
Che l'orgasmo vaginale esisteva ma che noi non sapevamo procurarcelo a causa del porno;
Che studiare ci avrebbe aiutato a farci spazio all'interno della società
Ok.
Poi succede che cresci, non di tanto, eh, basta poco, arrivi a 23 anni, che non sono tanti, ti affacci nel mondo e scopri che:
La musica commerciale molto spesso è di gran lunga superiore a quella di nicchia;
Che essere di sinistra o di destra non conta;
Che i poveri possono essere dei grandissimi figli di puttana (così come i ricchi);
Che, udite, udite, l'orgasmo vaginale non esiste (e qui ho le prove, ragazzi: http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05/04/sesso-lorgasmo-vaginale-non-esiste/3561858/) e che quindi per anni ci siamo sentiti anormali, bugiardi e frustrati per una cosa che era perfettamente normale, naturale, scontata cercando un punto G buono solo ad essere menzionato in un romanzo di Tolkien;
E, infine, che studiare non ci avrebbe creato nessuno spazio all'interno della società, se non forse quello tra un binge watching e un altro in attesa di un Just Eat pagato coi soldi dei nostri genitori.
Quindi, se permettete, signori della corte e amici da casa, io da oggi in poi smetto di credere a ciò che mi si dice.
Anzi, vi dirò di più, io da oggi in poi smetto proprio di CREDERE.
Eppure la vita è stata buona con me: vengo da una famiglia che non mi ha fatto mancare nulla e che mi ha dato la possibilità di formarmi e (in)seguire il lavoro dei miei sogni, mi ritengo una persona interessante, con mille cose da fare, ho qualche chilo di troppo ma ci convivo tranquillamente, perché lamentarmi? 
Perché sentire sempre questo maremoto interiore che mi lascia senza fiato e col vomito facile ogniqualvolta mi relaziono con la società in cui vivo?
Perché sono pesante (hey, ex fidanzati all'ascolto, dico a voi, sto facendo coming out: avevate tutti fottutamente ragione)
Che io, poi, non è che chissà cosa cazzo mi aspettassi dalla vita, a 13 anni, quando tutte le mie amichette volevano fare i dottori e gli ingegneri io volevo fare la casalinga, andare in chiesa tutte le domeniche e fare figli a manovella secondo i dettami dell'Opus Dei, a 15 ho capito che a stare a casa non je la potevo proprio fa, che la religione cattolica è un concetto sopravvalutato e che poi tutta sta voglia di gestire 15 ragazzini non è che ce l'avessi tanto. 
Poi c'era la musica. 
Questo leitmotiv maledetto che se ti capita nella vita sei fottuto per davvero. Altro che test di medicina e esami di ingegneria. Provateci voi a spiegare ai vostri genitori che se ti svegli tardi tutti i giorni è perché la sera lavori e che, no, non puoi scendere per la comunione di tua cugina perché quel weekend sei in tour a Cinisello Balsamo. Provateci voi a lavorare quando gli altri sono in ferie, a lavorare quando gli altri lavorano e a riposarti con la testa due giorni al mese, se va bene. Provateci voi a mantenere una relazione sentimentale stabile con l'unica persona che forse forse vi può capire ma solo perché fa parte del vostro stesso microcosmo lavorativo dove se è un addetto ai lavori sarà un pesaturo tale e quale a voi mentre se è un musicista molto probabilmente sarà un egomaniaco in tour nel 90% dei momenti in cui tutte le vostre coppie di amici saranno a fare un viaggio on the road in Portogallo o con le pacche nell'acqua in Salento e nel restante 10% del tempo rimasto vi farete un fegato di dimensioni bibliche perché i ¾ dei messaggi su Facebook che sentirete arrivare sul sul telefonino saranno foto di tette e di culi di donne conosciute nei tour di cui sopra. Ma voglio dirvi proprio tutto, perchè altrimenti penserete che io sia esagerata (oltre che pesante) Provateci voi a farvi degli amici che siano dei veri e propri amici. Che non siano direttori artistici, booking agent, promoter, manager, musicisti più legati a ciò che fai che a ciò che sei, che ridono alle tue battute cretine solo perchè sperano che alla fine presto o tardi li prenderai nel roster della tua agenzia, li farai suonare ad un tuo evento o li ospiterai in radio, che ti offrono caffè ed aperitivi per mettere su fantasiose cordate per combattere il male cosmico della musica indie (che in realtà nessuno sa qual è, ma combattere qualcosa che non si sa cosa sia fa figo dai tempi di Don Chisciotte della Mancia, quindi va bene) mentre tu passi le sere della settimana in giro tra un concerto e un altro per farti vedere, per essere presente nella scena, ridere alle battute cretine di qualcuno e offrire aperitivi a qualcun altro per restare a galla, ma alla fine rimani seduta in un angolo col drink in mano a chiederti se la musica che hai appena definito come “interessante e innovativa” ti piaccia per davvero oppure no, mentre i sabati e le domeniche in cui non sei in tour ti ricordi di avere degli amici, che però giustamente ti odiano perchè tu non ci sei mai e ti fai sentire poco.  Lo so, penserete che è solo colpa mia e che non dovrei lamentarmi. Però, vi ripeto, provateci voi.  Ecco, avete visto? ve l’avevo detto che sono pesante. 
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Piccole considerazioni sull’andare al cinema da soli (di sabato pomeriggio)
“Non avrei mai il coraggio” con questa sentenza mia madre sancisce, senza possibilità d’appello, il mio irreparabile status di solitaria, con la tenerezza tipica delle mamme ma la compassione comune della gente di paese, che in una 23enne da sola al cinema ci legge solo un trattamento sanitario obbligatorio senza speranze. 
Nel momento in cui la sentenza viene emessa però, diversamente da tutte le altre volte in cui lo ha fatto, non sento di darle ragione, di infilarmi nella prima metro e tornare a casa, di chiamare il primo amico disponibile e stare in compagnia, di aprire Tinder e scoprire quale grado di disagio sociale e sesso insoddisfacente mi regalerà questo mio disperato tentativo di sfuggire ad una, in fin dei conti, placida solitudine. 
Mi accendo una sigaretta, fuori piove e fa un freddo cane, o forse sono io che ho sbagliato giacchetto, confidando in una refola di primavera. Penso che in fin dei conti mi piaccia andare al cinema da sola almeno quanto non mi piace farmi accompagnare da chi non mi fa bene, compagnia di circostanza per non sentirsi a disagio, come l’amica a cui vuoi benissimo (ma che ascolta solo Tiziano Ferro) che ti accompagna al concerto del gruppetto sconosciuto solo per non farti sembrare un caso umano appoggiata al bancone del bar. 
Mi piace andare al cinema da sola, ma mi piace perché libera sto meglio: arrivo prima agli spettacoli, prendo quasi sempre un posto centrale, non ho il dovere morale di dividere per forza tutti i miei pop corn e prima dell’inizio mi piace perdermi nei centomila pensieri dell’umanità che mi circonda: dai commenti cretini, passando per quelli impegnati, fino allo smastichio di una porzione di nachos dei ragazzini tre file più in là, essere un voyeur della compagnia ha un che di magico e per quelle due ore il tempo si ferma e mi regala sinestesie mitiche: mio padre che la domenica pomeriggio mi accompagna al cinema e si addormenta dopo i primi 20 minuti, mia madre che, se arrivavamo in ritardo aspettava stizzita l’inizio dello spettacolo successivo per non perdersi neanche un minuto del film, il mio ex che zittisce il primo tamarriello pronto a dire una cazzata epocale al momento clou della pellicola. 
Io non sono così, non arrivo in ritardo, non mi addormento e anche se il vicino di posto mi parlasse nell’orecchio sinistro, userei il destro senza per forza di cose trasformarlo in un conflitto globale senza precedenti, eppure ho la netta sensazione che tutte queste cose rivivano e mi rincuorino tra quelle poltroncine bordeaux e in quell’intervallo di vita di 120 minuti e rotti. 
Negli ultimi mesi della mia vita sto sviluppando un istinto di autoconservazione superiore alla norma: faccio solo quello che mi va di fare, non do peso alla solitudine e non provo più di tanto vergogna per me stessa, sola in mezzo agli altri. Penso che in fondo mi piaccia sentirmi sola tra la gente, apprezzare una bellezza che sia mia e solo mia ed avere tutte le carte in regola per vestirmi bene, fare un tot. di km, guardare un film, godermi una mostra e argomentare al barista a cui sto chiedendo un spritz in questo momento i motivi per cui mi piace uscire da sola il sabato pomeriggio e per cui “no, la mia vita non è come ‘Il favoloso mondo di Amèlie’ solo perché vado al cinema da sola e porto un basco alla francese” . Mi piace perché alla fine ho capito che non ho più niente da dover dimostrare e che a sembrare tristi al mondo sono solo quelli che effettivamente sono tristi, da soli o in compagnia, in coppia o in comitiva, non i solitari che vanno al cinema da soli o sembrano casi umani ai banconi del bar.
Perché in fin dei conti quando si raggiunge questa enorme autoconsapevolezza ci si sente sempre un po’ meno soli, perché si scopre sempre qualcuno di diverso, qualcuno che non si conosce mai fino in fondo ma che alla fine ci fa compagnia per davvero, con cui si finisce a parlare di niente o a parlare di tutto, con cui si divide uno spritz e si fa pace dopo tanto. 
Se non avete capito a chi mi riferisco molto probabilmente ancora non ci siete arrivati, ma sono sicura che in un momento, di un sabato pomeriggio solitario qualsiasi, lo farete.
Ah, comunque poi mi ha richiamato mia madre. Mi ha detto che forse, settimana prossima, al cinema da sola ci va anche lei. 
Ho sorriso.
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Riflessioni piccolissime sullo stato dell’arte dei miei capelli la domenica pomeriggio
Nonostante la permanente i capelli mi sono tornati di nuovo lisci. Pensavo fosse l’ennesimo tentativo fallito di asciugatura, ma invece niente, sono tornati lisci e sottilissimi, 40 cm di seta castana tra le mie mani. Mi chiedo se anche questo non sia solo un altro evidente segnale della mia fisiologica poca inclinazione al dissimulare, al costruirsi, al sembrare cento cose ed esserne in realtà solo una. 
Mi guardo ancora allo specchio. 
Ho portato i capelli in 40 modi diversi. Li ho colorati di tutti i colori possibili e tagliati nelle forme più strane per poi ritornare sempre ai miei naturalissimi riflessi ramati lunghi fino alle spalle. Se avessi qui una foto di me da bambina sarebbe impressionante notare come nel giro di vent’anni la mia estetica abbia seguito un eterno e ciclico ritorno di cose già mie ma mai apprezzate, dal colore di capelli alla forma delle spalle, dalle mani tozze fino ad arrivare alle piante dei piedi sempre troppo larghe, come quando nei film, per coerenza narrativa, il protagonista bambino sembra proprio la copia in scala del protagonista adulto. Persino i tatuaggi, che mia madre ancora oggi sostiene che a un certo punto mi annoieranno, mi sembrano essere stati lì da sempre, a coprire cicatrici vere o metaforiche, a raccontare una storia, la mia, per quanto esagerati e/o brutti possano sembrare agli altri. 
Mi dispiace, però io non ci riesco proprio, non ce la faccio a essere qualcosa che non sono, a prestarmi a questa finzione scenica del personaggio costruito che torna a casa, si spoglia ed è lo stesso mostro di sempre, non ce la faccio ad amare a comando, per sentirmi meno sola, a regalare sconfinata tenerezza e premurose attenzioni a chi mi dorme di fianco quando non riesco a sopportare neanche che qualcuno dorma dal mio lato del letto (il sinistro, se vi interessa). Non ce la faccio ad avere amici che non mi piacciono, che non stimo, che non apprezzo, non mi piace salire sul carro dei vincitori, perché penso sempre che poi a un certo punto la parata finisce e bisogna comunque farsela a piedi (e da soli).
Credo invece nelle cose spontanee, nel tremolio del labbro superiore che sgama tutti i miei tuffi al cuore, negli abbracci goffissimi che raramente riesco a dare, nel martorizzarmi le ferite fresche perchè non mi importa quasi niente dei segni che potrebbero lasciare.
Credo nelle mie prese di posizione stupide, nella sincerità profonda delle coppie all’apparenza veramente molto brutte, nei sentimenti sinceri vomitati di getto, con la balbuzie e le parole morsicate per l’emozione e in questa mia tendenza autodistruttiva e antidignitosa alla chiarezza, la mia.
Nonostante io sappia che tutto questo, presto o tardi, mi distruggerà.
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