#cattivamadre
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Chi ten’ ‘a mamm’ è ricc’ e nun ‘o ssap’.
Cara mamma
oggi ti ho sognata. Non pensavo più di dover andare a toccare nuovamente l’argomento che tu sei. E invece. Ecco, già la malattia del pianto mi torna, a scrivere questa introduzione! Capisci perché non vorrei proseguire?
Nel mio sogno eri giusto un po’ migliore di come sei davvero. Eri anziana, ma attiva, sul depresso, ma presente; non dormivi con papà nello stesso letto, ma nella stessa stanza sì; non eri allegra né gentile, ma ti prendevi cura di me, in qualche modo, senza fare della guerra, senza sminuire, biasimare, insultare, colpevolizzare, sbraitare né mentire. Eri molto simile a come sei: solo un po’ meno cattiva.
Tante volte mi sono chiesta come sarebbe stato avere una mamma sana di mente, non perfetta, solo più o meno sana. Forse saresti stata come in questo sogno.
Non è qualcosa che è sempre esistita, questa mia concezione di te. Da principio -nell’Era che sono Io- era normale che tu fossi come eri. Scontato. Non c’erano altre madri nel mio mondo. Al principio di tutto io ero una fogliolina sballottata di qua e di là dal vento che eri tu. Quando stavi bene, mi volevi bene, e qualche volta poteva capitare che mi facessi fare il cavalluccio canticchiandomi una filastrocca. La sera era il nostro momento, e per nulla al mondo mi sarei persa i suoni della tua pancia mentre guardavamo la tv e io ci stavo appoggiata come su un cuscino. Decidevi tu cosa guardare, sempre tu: non c’erano programmi più o meno adatti ai bambini. Così, in tenera età, ho visto Hitchcock, film drammatici, talk-show politici, programmi con quel pizzico di erotismo di troppo. Non potevo cavillare, erano momenti da cogliere al volo: chissà quando ancora saremmo state io e te, vicine.
Quando qualcosa ti offendeva te la prendevi con me, con tutti veramente, e anche con me. La mia età non contava. Ti ricordi quando non mi hai parlato per giorni perché non ero voluta andare alla festa di una bambina della tua classe? Essere timida, era un lusso che non potevo permettermi.
Nella mia mente mi ero fatta l’idea che tu fossi cattiva con il rossetto, e buona senza: non era così, ma sembrava pur sempre una regola cui aggrapparsi. Quando qualche volta eri struccata, dunque, quando eri in buona, mi chiamavi “Musica”: che nomignolo bellissimo! Cosa può esserci di più piacevole di una musica? Tanto mi sentivo gradita a te, in quei momenti.
Una volta ho sognato che morivi, avrò avuto 10 anni -minacciavi così spesso di andartene o ucciderti! Mi sono appiccicata alla tua schiena, attenta a non farti svegliare, per controllare che respirassi. Ti arrabbiavi così tanto quando ti svegliavano! Anche la pipì dovevo farla pianissimo, e, non potendo uscire dalla stanza per non fare rumore con la porta, mi avevi messo un vaso da notte in camera, che dovevo usare al buio. Ho voluto dormire con te fino alla pre-adolescenza: chissà che nottetempo non te ne fossi andata, o peggio. Tanto con papà non ci dormivi più già da anni: non me lo ricordo nemmeno quando avete smesso. Per me non avete mai iniziato.
Amavi il potere e l’apparenza, li hai sempre amati. Dovevamo farti fare bella figura e per questo ci esibivi e non potevamo ribellarci -pena che non ci avresti più voluto bene. Se venivi invitata a una cena in centro dove poteva, magari, esserci qualche politico, una delle possibili opzioni era lasciarmi da sola chiusa in casa -a 12 anni o 10- se io non desideravo venire con te. Quella volta c’era Casini al tavolo accanto al nostro, wow. Il risotto al limone mi faceva schifo.
Ti piaceva il potere e in particolare ti piacevano gli uomini potenti, per questo, credo, ti è sempre piaciuto tanto il duce, anche se non sei così vecchia da averlo conosciuto. Purtroppo. Come lui, però, non esitavi a fare la guerra, a noi bambini, anche, ma soprattutto a papà, che ti lasciava passare ogni cosa e al massimo sibilava “mascalzona”, mentre tu gli auguravi di morire in vari brutti modi. Non ti ha mai lasciato, papà, anche se il divorzio era già legge l’anno prima che vi sposaste. Urlavi sempre con lui e lo insultavi piangendo, se però comparivamo noi, svegliati dalle urla, ti comportavi come se non stesse accadendo niente, come se avessimo potuto non sentire, e sorridevi con gli occhi rossi e umidi.
Poi a un certo punto ho iniziato a capire. Ho iniziato a notare le mamme degli altri, quelle dei telefilm: delle prime avevo paura -sia mai che fossero come te. Le seconde mi sembravano fantascienza. Ho iniziato ad arrabbiarmi perché non potevi, semplicemente, amarmi come avevo bisogno che mi amassi? Se eri malata, perché non ti curavi, semplicemente? Qualsiasi fosse la soluzione, perché non la trovavi? Ho iniziato ad arrabbiarmi e a spaccare le cose, ormai avevo imparato da te a dubitare di ogni mio pensiero ed emozione, perché i miei pensieri, e anche le emozioni, che non ti piacevano dicevi che non erano veri, e non erano leciti.
Ma io volevo essere felice, ma’, non so perché mi sono messa in testa questa idea stramba, non so da chi l’ho presa. E così mi sono fatta aiutare. Ho iniziato a seppellirti, piano piano, nel mio cuore. Da essere la persona più importante in assoluto per me (I needed you, you didn’t need me, cantava John Lennon), sei diventata una cicatrice: insensibile e inutile.
Ho rinunciato a te così tanto tempo fa che nemmeno me lo ricordo, eppure due anni fa ti ho pensato con tenerezza, con perdono. Ho pensato a quanto ti sia sentita un fallimento, quanto spesso, e ho provato pena. “Certa gente è meglio se non si rende mai conto di quanto è disturbata”, mi ha detto una volta qualcuno: “se se ne rendesse conto potrebbe anche ammazzarsi”. E tu mi sa che conto non te ne sei resa mai, meglio così. Averti pure sulla coscienza, se no...
Sei stata la personificazione dell’incomunicabilità, dell’impossibile e della tragica frustrazione. Del non capire mai, del non ascoltare mai, del colpire con brutali parole, del farsi beffe delle proprie vittime auto-elogiandosi. Mi hai cresciuto con la convinzione di essere predestinata alla sfiga, brutta e anche cattiva. Hai generato una famiglia apparentemente solo per poi distruggerla, hai risucchiato -e continui a risucchiare- chiunque entra in relazione con te nel buco nero che sei. Tu che hai preso ogni possibile decisione sbagliata, che spendevi milioni per i tuoi abiti e che lasci, ora che è anziano e disabile, che papà non abbia che vecchie magliette lise e bucate e solo un paio di pantaloni. Tu che innalzi su un piedistallo chi ti può servire e lo scaraventi poi nel nulla assoluto non appena ti contraddice. Tu che nessuno è stato capace di fermarti o opportisi, in tutta l’Era che sono Io. Tu che psichiatri, assistenti sociali, avvocati, consigliano di “lasciar perdere”.
Sono stanca, mamma. Non so come devo finirlo questo pezzo. Forse perché non è finito.
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