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Quando Giovanni XXIII riconsegnò al Clero il Catechismo Tridentino "dono del cielo alla Chiesa"
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Quesito Caro padre Angelo, volevo sapere una cosa, noi sappiamo che i peccati contro lo Spirito Santo sono sei: disperazione della salvezza, presunzione di salvarsi senza merito, impugnare la verità conosciuta, invidia della grazia altri, ostinazione nei peccati, impenitenza finale. Le mie due domande sono queste: 1) Perché l’elenco di questi sei peccati contro lo Spirito Santo non si trova scritto nel Catechismo della Chiesa Cattolica? 2) Anche se non si trovano scritti nel Catechismo della Chiesa Cattolica, possiamo dire che questi sei peccati contro lo Spirito Santo sono comunque verità infallibili perché sono comunque stati scritti dalla santa madre Chiesa Cattolica? Risposta del sacerdote Carissimo, 1. i sei peccati contro lo Spirito Santo non sono elencati nel Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale però parla del peccato contro lo Spirito Santo (cfr. CCC 1864). 2. Non li troviamo enumerati neanche nel Catechismo Romano del Concilio di Trento. Nei peccati contro il secondo precetto del decalogo, che vieta di invocare il nome di Dio invano, questo Catechismo menziona il giurare il falso (lo spergiurare), il pervertire la parola di Dio nella Sacra Scrittura piegandola a sostenere dottrine eretiche. Infine menziona coloro che "con labbra impure vergognosamente bestemmiano e maledicono il nome Santo di Dio" (n. 312). Ma, diversamente del Catechismo della Chiesa Cattolica, non riporta neanche la parola peccato o bestemmia contro lo Spirito Santo. Tuttavia all'interno del sacramento della penitenza o confessione ne fa un chiaro riferimento con queste parole: “Quando occorrono nella Sacra Scrittura o nei Padri sentenze che sembrano affermare che per alcuni peccati non c’è remissione, bisogna intenderle nel senso che il loro perdono è oltremodo difficile. Come una malattia vien detta insanabile quando il malato respinge l’uso della medicina, così c’è una specie di peccato che non si rimette né si perdona perché rifugge dalla grazia di Dio, che è il rimedio suo proprio” (Catechismo Romano, II, c. 5, 19). 3. Il curatore dell'edizione italiana, il genovese Mons. Luigi Andrianopoli, ha annotato: “Un solo peccato Cristo esclude dal perdono, il peccato contro lo Spirito Santo. È il peccato dei giudei, avversari di Cristo. Attribuire a Satana le opere che il Salvatore compie evidentemente in virtù di poteri divini – i giudei riconoscono che Gesù effettivamente scaccia i demoni - significa rifiutarsi di capire e di credere, avere gli occhi e non voler vedere. Dio è pronto ad accogliere il peccatore che si pente, ma i farisei non vogliono pentirsi e quindi sono in condizione di non poter essere perdonati. Il peccato contro lo Spirito Santo consiste perciò nel fatto che l'uomo, pur riconoscendo la missione di Gesù, tuttavia per ostinazione vi si ribella e con pertinacia la rifiuta. Finché rimane in questa posizione, il suo peccato e imperdonabile”. 4. Neanche il catechismo di Pio X parla dei peccati contro lo Spirito Santo. Tuttavia ne presenta l'elenco tra le formule e le preghiere. È l’elenco che tu hai trascritto. 5. San Tommaso stesso, quando parla dei peccati contro lo Spirito Santo, presenta tre interpretazioni date dai teologi, tutte e tre accettabili. Alla fine, egli stesso presenta i sei tradizionalmente conosciuti. La loro formulazione però non è un dogma di fede, ma una conclusione teologica che è stata poi pacificamente condivisa. 6. Il Catechismo della Chiesa Cattolica sembra ridurli ad uno: nel mantenere il proprio cuore indurito nei confronti del Signore, che equivale all'impenitenza finale. Ecco le testuali parole: “Qualunque peccato o bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata” (Mt 12,31). La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eter
na” (CCC 1864). 7. In conclusione possiamo dire che è verità infallibile l'esistenza del peccato contro lo Spirito Santo perché il Vangelo ne parla esplicitamente. Non possiamo dire invece che la catalogazione dei peccati contro lo Spirito Santo in numero di sei sia verità di fede. È una catalogazione o conclusione teologica. Ti benedico, ti ricordo nella preghiera e ti auguro ogni bene. Padre Angelo
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Che cosa crede la Chiesa? Una introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica: proporre l’unità e la perenne novità della fede
dell’allora cardinal Joseph Ratzinger
Il testo che mettiamo a disposizione on-line è la trascrizione della riflessione tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger, durante il Sinodo Romano, il 18 gennaio 1993, per presentare il Catechismo della Chiesa Cattolica. Il testo è apparso sui Quaderni-Nuova Serie del Sinodo Romano, n.2, dal titolo La fede della Chiesa di Roma, Vicariato di Roma, 1993, pagg.67-73.
Il Centro culturale Gli scritti 12.11.2006
Permettetemi di iniziare con un episodio verificatosi nei primi tempi dopo il Concilio. Il Concilio aveva aperto per la Chiesa e la teologia ampie prospettive di dialogo, soprattutto con la sua Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ma anche con i Decreti sull'ecumenismo, sulla missione, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa. Nuovi temi si aprivano, e nuovi metodi divenivano necessari. Per un teologo, che voleva essere all’altezza dei tempi e aveva un concetto giusto della sua missione, appariva come ovvio, innanzitutto lasciare per un momento da parte i vecchi temi e dedicarsi con tutte le energie ai nuovi problemi, che da ogni parte si ponevano.
In quell’epoca io avevo inviato un piccolo lavoro ad Hans Urs von Balthasar, il quale come sempre mi ringraziò immediatamente con un cartoncino ed al ringraziamento aggiunse una frase pregnante che per me divenne indimenticabile: non presupporre, ma proporre la fede. Fu un imperativo che mi colpì. L’ampio spaziare in nuovi campi era buono e necessario, ma solo a partire dal presupposto che esso stesso traesse origine dalla luce centrale della fede e da questa luce fosse sostenuto. La fede non ha permanenza di per se stessa. Non la si può mai semplicemente presupporre come una cosa già in se conclusa. Deve continuamente essere rivissuta. E poiché è un atto, che abbraccia tutte le dimensioni della nostra esistenza, deve anche essere sempre ripensata e sempre di nuovo testimoniata.
Perciò i grandi temi della fede - Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia e peccato, Sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna - non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi, che ci colpiscono più nel profondo. Devono sempre rimanere centro dell’annuncio e quindi anche centro nel pensiero teologico.
I Vescovi del Sinodo del 1985 con la loro richiesta di un catechismo comune di tutta la Chiesa hanno avvertito esattamente ciò che Balthasar aveva allora espresso in parole nei miei confronti. L’esperienza pastorale aveva mostrato loro che tutte le molteplici nuove attività pastorali perdono il loro terreno portante, se non sono irradiamento e applicazione del messaggio della fede. La fede non può essere pre-supposta, essa deve essere pro-posta. Per questo c’è il nuovo Catechismo. Esso vuole pro-porre la fede con la sua pienezza e la sua ricchezza, ma anche nella sua unità e semplicità.
Che cosa crede la Chiesa? Questa domanda include le altre: chi crede? E come credere? Il Catechismo ha trattato entrambe le due domande fondamentali, la domanda del “che cosa” e quella del “chi” della fede, come un’unità interiore. Detto in altre parole: illustra l’atto della fede ed il contenuto della fede nella loro inseparabilità. Ciò suona forse un po’ astratto: cerchiamo di sviluppare un poco che cosa si intende con questo.
Si ritrova nelle confessioni di fede tanto la formula “io credo” come l'altra “noi crediamo”. Parliamo della fede della Chiesa, e parliamo del carattere personale della fede, e infine parliamo della fede come di un dono di Dio, come di un “atto teologale”, secondo un’espressione oggi corrente nella teologia. Che cosa significa tutto questo?
La fede è un orientamento della nostra esistenza nel suo insieme. È una decisione di fondo, che ha effetti in tutti gli ambiti della nostra esistenza. La fede non è un processo solo intellettuale, né solo di volontà, né solo emozionale, è tutto questo insieme. È un atto di tutto l’io, di tutta la persona nella sua unità raccolta insieme. In questo senso viene designato dalla Bibbia come un atto del “cuore” (Rom10,9). È un atto altamente personale. Ma proprio perché è il nostro io, afferma in un passo Sant’Agostino, laddove l’essere umano come un tutto è in gioco, egli supera se stesso; un atto di tutto l’io è nello stesso tempo anche sempre un divenire aperti per gli altri, un atto dell'essere con.
Ancor più: non può realizzarsi senza che noi tocchiamo il nostro fondamento più profondo, il Dio vivente, che è presente nella profondità della nostra esistenza e la sostiene. Laddove è in gioco l'essere umano come un tutto, insieme con l’io è in gioco il noi ed il tu del totalmente altro, il tu di Dio. Ciò significa però anche che in un tale atto viene superato l’ambito dell'agire puramente personale. L’essere umano come essere creato è nel suo più profondo non solo azione, ma sempre anche passione, non solo essere donante, ma essere accogliente.
Il Catechismo esprime questo così: Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza (166). San Paolo ha espresso questo carattere radicale della fede nella descrizione della sua esperienza di conversione e di battesimo con la formula: io vivo, ma non più io... (Gal2,20). La fede è uno scomparire del semplice io e così un risorgere del vero io, un divenire se stessi attraverso il liberarsi del semplice io nella comunione con Dio, che è mediata attraverso la comunione con Cristo.
Abbiamo cercato finora di analizzare con il Catechismo “chi” crede, quindi di individuare la struttura dell’atto di fede. Ma in tal modo si è già venuto delineando il contenuto essenziale della fede. La fede cristiana è nella sua essenza incontro con il Dio vivente. Dio è il vero ed ultimo contenuto della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è molto semplice: io credo in Dio. Ma la realtà più semplice è sempre anche la realtà più profonda e che tutto abbraccia.
Possiamo credere in Dio, perché Dio ci tocca, perché egli é in noi e perché egli anche dall’esterno si avvicina a noi. Possiamo credere in lui, perché esiste colui che egli ha mandato: “Egli ha visto il Padre (Gv6,46)”, dice il Catechismo; egli “è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare” (151). Potremmo dire che la fede è partecipazione allo sguardo di Gesù. Nella fede Egli ci permette di vedere insieme con lui, ciò che egli ha visto. In questa affermazione la divinità di Gesù Cristo è inclusa, così come la sua umanità. A motivo del fatto che egli è il Figlio, egli vede continuamente il Padre. A motivo del fatto che egli è uomo, noi possiamo guardare insieme con lui. A motivo del fatto che egli è entrambe le cose allo stesso tempo, Dio e uomo, egli non è mai una persona del passato e non è mai soltanto nell’eternità, sottratto ad ogni tempo, ma è sempre al centro del tempo, sempre vivo, sempre presente.
In tal modo però si tocca anche allo stesso tempo il mistero trinitario. Il Signore diviene presente per noi attraverso lo Spirito Santo. Ascoltiamo di nuovo il Catechismo: “Non si può credere in Gesù Cristo se non si ha parte del suo Spirito ... Dio solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo, perché è Dio” (152).
Se si considera bene l’atto di fede, si sviluppano in conformità con esso come da se stessi i singoli contenuti. Dio diviene per noi concreto in Cristo. Così da una parte diviene riconoscibile il mistero trinitario, dall’altra diviene visibile che egli stesso si è inserito nella storia fino al punto che il Figlio è divenuto uomo e dal Padre ci manda lo Spirito. Nell’incarnazione tuttavia è contenuto anche il mistero della Chiesa, poiché Cristo in realtà è venuto per “radunare in unità i dispersi figli di Dio” (Gv11,52). Il noi della Chiesa è la nuova, ampia comunità, nella quale ci attira (cfr. Gv12,32). Così la Chiesa è contenuta nell’inizio stesso dell’atto di fede. La Chiesa non è un’istituzione, che sopraggiunge alla fede dall’esterno e crea una cornice organizzativa per attività comuni dei fedeli; essa appartiene allo stesso atto di fede. L’ “io credo” è sempre anche un “noi crediamo”. Dice il Catechismo a questo proposito: “Io credo: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’ ” (167).
Avevamo precedentemente constatato che l’analisi dell’atto di fede ci rivela anche immediatamente il suo contenuto essenziale: la fede risponde al Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Possiamo ora aggiungere che nello stesso atto di fede è contenuta anche l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, il suo mistero umano-divino e quindi tutta la storia della salvezza; si rende ora evidente che il Popolo di Dio, la Chiesa, come portatrice umana della storia della salvezza è presente nell’atto di fede stesso. Non sarebbe difficile dimostrare similmente come siano sviluppi dell’unico atto fondamentale dell’incontro con il Dio vivente anche gli altri contenuti della fede. Infatti la relazione con Dio proprio per la sua natura ha a che fare con la vita eterna. E supera necessariamente l’ambito puramente antropologico. Dio è veramente Dio solo se è il Signore di tutte le cose. Così creazione, storia della salvezza, vita eterna sono temi che fluiscono immediatamente dal problema di Dio. Se parliamo della storia di Dio con l’umanità, si tocca con questo anche il problema del peccato e della grazia. È toccato il problema di come noi incontriamo Dio, quindi il problema della liturgia, dei sacramenti, della preghiera, della morale.
Ma non vorrei ora sviluppare tutto questo nei particolari; ciò che mi stava a cuore era propriamente la considerazione dell’interiore unità della fede, che non è un cumulo di proposizioni, ma un semplice intenso atto, nella cui semplicità è contenuta tutta la profondità ed ampiezza dell’essere. Chi parla di Dio, parla del tutto; impara a distinguere l’essenziale da ciò che non è essenziale, e scopre qualcosa della logica interiore e dell’unità di tutto il reale, anche se sempre solo in frammenti e per enigma (1Cor13,12), finché la fede sarà fede e non diverrà visione.
Per concludere vorrei ancora soltanto toccare l’altra questione, che abbiamo incontrato all'inizio delle nostre riflessioni: quella che riguarda il come della fede. In Paolo si trova in proposito una parola singolare, che ci potrà aiutare. Egli dice che la fede è un’obbedienza di cuore a quella forma di insegnamento, alla quale siamo stati consegnati (Rom6,17). Si esprime qui in fondo il carattere sacramentale dell’atto di fede, l’intimo legame fra confessione di fede e sacramento. È propria della fede una “forma di insegnamento”, dice l’apostolo. Non la inventiamo noi. Non ci viene come un’idea dal di dentro di noi, ma come una parola dal di fuori di noi.
È in certo qual modo parola dalla parola, noi veniamo “consegnati” a questa parola, che indica nuove vie al nostro pensiero e dà forma alla nostra vita. Questo “essere consegnati” ad una parola che ci precede si realizza attraverso la simbologia di morte dell’immersione nell’acqua. Ciò ricorda la frase precedentemente citata, “Io vivo, ma non più io”; ricorda che nell’atto della fede si compiono morte e rinnovamento dell’io. La simbologia di morte del battesimo unisce questo nostro rinnovamento alla morte ed alla resurrezione di Gesù Cristo.
Questo essere consegnati alla parola che ci ammaestra è un essere consegnati a Cristo. Non possiamo accogliere la sua parola come una teoria, come si apprendono ad esempio formule matematiche e opinioni filosofiche. La possiamo apprendere solo nella misura in cui accettiamo la comunione di destino con lui, e questa la possiamo attingere solo laddove egli stesso si è legato permanentemente con gli uomini in una comunione di destino: nella Chiesa. Usando il suo linguaggio chiamiamo questo processo dell'essere consegnati “sacramento”. L’atto di fede non è pensabile senza il sacramento.
A partire di qui possiamo però capire la costruzione letteraria concreta del Catechismo. Fede, così abbiamo udito, è essere consegnati ad una forma di insegnamento. In un altro passo Paolo chiama questa forma di insegnamento professione di fede (cfr. Rom10,9). Qui emerge un altro aspetto dell’evento della fede: la fede, che come parola viene a noi, deve diventare di nuovo parola anche presso di noi stessi, in quanto nello stesso tempo si esprime la nostra vita. Credere significa sempre anche confessare. La fede non è privata, ma è pubblica e comunitaria. Da parola diviene innanzitutto concezione, ma deve anche continuamente da concezione diventare parola ed azione.
Il Catechismo indica le diverse forme di confessione della fede, che ci sono nella Chiesa: professioni di fede battesimali, professioni di fede formulate da Concili, professioni di fede formulate da Papi (192). Ciascuna di queste professioni di fede ha il suo significato specifico. Ma l’archetipo della professione di fede, sul quale tutti gli altri si fondano è la professione di fede battesimale. Laddove si tratta della catechesi, cioè dell’introduzione alla fede e alla vita nella comunione di fede della Chiesa, si deve partire dalla professione di fede battesimale. Ciò avviene fin dai tempi apostolici e doveva pertanto essere anche la strada del Catechismo. Esso svolge la fede a partire dalla professione di fede battesimale. Appare così chiaramente in quale maniera vuole insegnare la fede: catechesi è catecumenato. Non è una semplice lezione di religione, ma il processo del donarsi e del lasciarsi donare alla parola della fede, nella comunione di destino con Gesù Cristo.
È proprio della catechesi l’itinerario interiore a Dio. Sant’Ireneo dice in un passo, a questo proposito, che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si è abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita. La catechesi dovrebbe anche essere sempre un processo del genere di assimilazione a Dio, poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza.
“Se l’occhio non fosse solare, non potrebbe riconoscere il sole”, ha scritto Goethe a commento di un detto di Plotino. Il processo della conoscenza è un processo di assimilazione, un processo vitale. Il noi, il che cosa ed il come della fede sono strettamente legati. In tal modo diventa ora visibile anche la dimensione morale dell'atto di fede: esso implica uno stile di esistenza umana, che non produciamo da noi stessi, ma che apprendiamo lentamente attraverso l’immersione del nostro essere immersi nel battesimo, nel quale continuamente Dio agisce in noi e nuovamente ci attira a sé. La morale fa parte del Cristianesimo, ma questa morale è sempre parte del processo sacramentale del divenire cristiano, nel quale noi non siamo soltanto attori, ma sempre, anzi, addirittura in primo luogo ricettori, in una ricezione, che significa trasformazione.
Non è quindi per mania di archeologismo che il Catechismo sviluppa il contenuto della fede a partire dalla professione di fede battesimale della Chiesa di Roma, dal cosiddetto Simbolo apostolico. In esso si manifesta piuttosto la vera natura dell’atto di fede e così la vera natura della catechesi come un esercitarsi ad esistere con Dio.
Così, appare anche che il Catechismo è totalmente determinato dal principio della gerarchia delle verità, come la ha intesa il Vaticano secondo. Infatti il Simbolo è innanzitutto, come abbiamo visto, professione di fede nel Dio trino, che si sviluppa dalla formula battesimale ed è ad essa legata.
Tutte le “verità della fede” sono sviluppi dell’unica verità, che noi scopriamo in esse come la perla preziosa, per la quale merita dare tutta la vita. Si tratta di Dio. Solo egli può essere la perla, per la quale noi vendiamo tutto il resto. Dio solo basta. Chi trova Dio, ha trovato tutto. Ma noi lo possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato. Egli è in primo luogo colui che agisce e, per questo la fede in Dio è inseparabile dal mistero dell’incarnazione, dalla Chiesa, dal sacramento.
Tutto ciò che viene detto nella catechesi è sviluppo dell’unica verità, che è Dio stesso – l’amore che muove il sole e l'altre stelle (Dante, Paradiso XXXIII,145).
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La fede ed il suo simbolo”: Catechesi di Don Federico Bortoli Don Federico ci propone la sua catechesi che si è tenuta mercoledì 19 febbraio 2020 presso la parrocchia di santa Maria a mare di Viserba di Rimini.
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also i find it extremly weird when they are protestants™ and half of their post are just being mad at catholics... Like thats valid but i guess i am just used to homophobic catholic rethoric
everytime i find christian fundamentalist blogs on tumblr i am exceptionally weirded out, like... why would you be homophobic...on tumblr dot gov... just go to twitter like everybody else
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LUNEDÌ 06 GIUGNO 2022 - ♦️ MARIA MADRE DELLA CHIESA ♦️ Madre della Chiesa (in latino: Mater Ecclesiae) è un appellativo che la Chiesa cattolica usa per riferirsi a Maria, la madre di Gesù. Papa Paolo VI ha richiamato questo appellativo nell'allocuzione all'ultima sessione pubblica del Concilio Vaticano II, il 7 dicembre 1965. Lo stesso papa aveva usato l'appellativo nel promulgare la Lumen Gentium, documento dello stesso concilio sulla Chiesa. Durante l'udienza generale del 18 novembre 1964 annunciò ufficialmente che sarebbe stato riconosciuto a Maria il titolo di "Mater Ecclesiae". Il 21 novembre 1964 infatti, al termine della terza sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, papa Montini dichiarò la Vergine "Madre della Chiesa" con le seguenti parole: «A gloria dunque della Vergine e a nostro conforto, Noi proclamiamo Maria Santissima Madre della Chiesa, cioè di tutto il popolo di Dio, tanto dei fedeli come dei Pastori, che la chiamano Madre amorosissima; e vogliamo che con tale titolo soavissimo d’ora innanzi la Vergine venga ancor più onorata ed invocata da tutto il popolo cristiano»(Mater Ecclesiae 1965, 1, p. 5)[4]. Nell'Enciclica Christi Matri del 15 settembre 1966 il papa invita i fedeli ad invocare l'intercessione di Maria Madre della Chiesa per ottenere il dono della pace. Nel 1975 la Santa Sede propose una messa votiva in onore della Beata Vergine Maria Madre della Chiesa che fu inserita nel Messale Romano. Nel 1980 per volere di papa Giovanni Paolo II il titolo mariano venne inserito nelle Litanie Lauretane. Dal 7 dicembre 1981 l'immagine musiva di Maria “Mater Ecclesiae”, opera dei maestri dello Studio del Mosaico Vaticano, campeggia su piazza San Pietro. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, promulgato nel 1997, è presente un paragrafo intitolato "MARIA - MADRE DI CRISTO, MADRE DELLA CHIESA". Il 3 marzo 2018 papa Francesco ha istituito la memoria obbligatoria di Maria Madre della Chiesa, da celebrarsi il lunedì dopo Pentecoste. Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia #Tradizioni_Barcellona_Pozzo_di_Gotto_Sicilia #Sicilia_Terra_di_Tradizioni Rubrica #Santo_del_Giorno (presso Roma, Italia) https://www.instagram.com/p/CeeZmI0s9_1/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Martedì 22 Febbraio 2022 : Commento Catechismo della Chiesa cattolica
Martedì 22 Febbraio 2022 : Commento Catechismo della Chiesa cattolica
Il collegio episcopale e il suo capo, il Papa: Cristo istituì i Dodici « sotto la forma di un collegio o di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro ». « Come san Pietro e gli altri apostoli costituirono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono tra…
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Lectio Divina: San Barnaba Apostolo
Lectio
Martedì, 11 Giugno, 2019
1) Preghiera
O Padre, che hai scelto san Barnaba,
pieno di fede e di Spirito Santo,
per convertire i popoli pagani,
fa’ che sia sempre annunziato fedelmente,
con la parola e con le opere,
il Vangelo di Cristo,
che egli testimoniò con coraggio apostolico.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
2) Lettura del Vangelo
Dal Vangelo secondo Matteo 10,7-13
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi”.
3) Riflessione
• Oggi è la festa di san Barnaba. Il vangelo parla degli insegnamenti di Gesù ai discepoli su come annunciare la Buona Novella del Regno alle “pecore perdute di Israele” (Mt 10,6). Loro devono: a) guarire i malati, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni (v.8); b) annunciare gratuitamente ciò che gratuitamente ricevono (v.8); c) non procurarsi oro, né sandali, né bastone, né bisaccia, né due tuniche (v.9); d) cercarsi una casa dove poter esser accolti fino al termine di una missione (v.11); e) essere portatori di pace (v.13).
• Al tempo di Gesù c’erano vari movimenti che, come lui, erano alla ricerca di una nuova maniera di vivere e convivere, per esempio, Giovanni Battista, i farisei, esseni ed altri. Molti di loro formavano comunità di discepoli (Gv 1,35; Lc 11,1; At 19,3) ed avevano i loro missionari (Mt 23,15). Però c’era una grande differenza! I farisei, per esempio, quando andavano in missione, erano prevenuti. Pensavano che non potevano fidarsi degli alimenti della gente, perché non sempre erano ritualmente “puri”. Per questo, portavano bisaccia e denaro per poter occuparsi loro stessi di ciò che mangiavano. Cosi, le osservanze della Legge della purezza, invece di aiutare a superare le divisioni, indebolivano ancora di più il vissuto dei valori comunitari. La proposta di Gesù è diversa. Il suo metodo traspare nei consigli che lui dà agli apostoli quando li manda in missione. Per mezzo delle istruzioni, cerca di rinnovare e riorganizzare le comunità di Galilea in modo che fossero di nuovo un’espressione dell’Alleanza, una mostra del Regno di Dio.
• Matteo 10,7: L’annuncio della vicinanza del Regno. Gesù invita i discepoli ad annunciare la Buona Novella. Loro devono dire: “Il Regno dei cieli è vicino!” Cosa vuol dire che il Regno è vicino? Non significa una vicinanza nel tempo, nel senso che basta aspettare un poco di tempo e dopo il Regno verrà. “Il Regno è vicino” significa che già è alla portata della gente, già “è in mezzo a voi” (Lc 17,21). E’ bene acquisire uno sguardo nuovo, per poter percepire la sua presenza o prossimità. La venuta del Regno non è frutto della nostra osservanza, come volevano i farisei, ma si rende presente, gratuitamente, nelle azioni che Gesù raccomanda agli apostoli: guarire i malati, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni.
• Matteo 10,8: Guarire, risuscitare, purificare, scacciare. Malati, morti, lebbrosi, posseduti erano gli esclusi dalla convivenza, ed erano esclusi in nome di Dio. Non potevano partecipare alla vita comunitaria. Gesù ordina di accogliere queste persone, di includerle. Il Regno di Dio si rende presente in questi gesti di accoglienza e di inclusione. In questi gesti di gratuità umana si nota l’amore gratuito di Dio che ricostruisce la convivenza umana e ricuce i rapporti interpersonali.
• Matteo 10,9-10: Non portare nulla. Al contrario degli altri missionari, gli apostoli non possono portare nulla: “Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento”. L’unica cosa che potete e dovete portare è la Pace (Mt 10,13). Ciò significa che devono fidarsi dell’ospitalità e della condivisione della gente. Perché il discepolo che non porta nulla con sé e porta la pace, indica che ha fiducia nella gente. Crede che sarà ricevuto, e la gente si sente valorizzata, apprezzata e confermata. L’operaio ha diritto al suo alimento. Facendo questo, il discepolo critica le leggi di esclusione e riscatta gli antichi valori della condivisione e della convivenza comunitaria.
• Matteo 10,11-13: Vivere insieme ed integrarsi in comunità. Giungendo a un luogo, i discepoli devono scegliere una casa di pace e lì devono rimanere fino alla fine. Non devono passare da una casa all’altra, bensì vivere lì stabilmente. Devono divenire membri della comunità e lavorare per la pace, cioè per ricostruire i rapporti umani che favoriscono la Pace. Per mezzo di questa pratica, loro riscattano un’antica tradizione della gente, criticano la cultura di accumulazione, tipica della politica dell’impero romano ed annunciano un nuovo modello di convivenza.
• Riassunto: le azioni raccomandate da Gesù per l’annuncio del Regno sono queste: accogliere gli esclusi, fidarsi dell’ospitalità, spingere alla condivisione, vivere stabilmente e in modo pacifico. Se questo avviene, allora possiamo e dobbiamo gridare ai quattro venti: Il Regno è tra di noi! Annunciare il Regno non consiste in primo luogo nell’ insegnare verità e dottrine, catechismo o diritto canonico, ma portare le persone ad una nuova maniera di vivere e convivere, una nuova maniera di pensare e di agire partendo dalla Buona Novella, portata da Gesù: Dio è Padre e Madre, e quindi tutti siamo fratelli e sorelle.
4) Per un confronto personale
• Perché tutti questi atteggiamenti raccomandati da Gesù sono segni del Regno di Dio in mezzo a noi?
• Come fare oggi ciò che Gesù ci chiede: “Non portare bisaccia”, “Non passare di casa in casa”?
5) Preghiera finale
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo. (Sal 97)
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Appello ai Cardinali di Santa Romana Chiesa. Errore del papa sulla pena di morte
Il sito statunitense “LifeSiteNews” promuove un appello, ripreso da numerosi siti cattolici, firmato da numerose personalità del mondo accademico, religioso e culturale, rivolto ai cardinali della Chiesa romana perché consiglino il Pontefice regnante di ritirare dal Catechismo la variazione aggiunta qualche giorno fa in tema di pena capitale. Anche noi lo riproponiamo ai nostri lettori insieme alla lista dei primi firmatari, tra cui la mia.
Nota: gli studiosi, sacerdoti e laici, che desiderino firmare l'Appello possono presentare il loro nome e le credenziali a questo indirizzo email: [email protected]. Una volta verificati, i nomi verranno aggiunti all'elenco dei firmatari.
Papa Francesco ha modificato il Catechismo della Chiesa cattolica nel senso che «la pena di morte è inammissibile perché attenta all'inviolabilità e alla dignità della persona ». Questa affermazione è stata compresa da molti, sia dentro che fuori la Chiesa, come un insegnamento che la pena capitale è intrinsecamente immorale e quindi è sempre illecita, anche in linea di principio.
Sebbene nessun cattolico in pratica sia obbligato a sostenere l'uso della pena di morte (e non tutti i sottoscrittori la sostengono), insegnare che la pena capitale è sempre un male intrinseco contraddirebbe la Scrittura. Che la pena di morte possa essere un mezzo legittimo per assicurare la giustizia retributiva è affermato in Genesi 9: 6 e in molti altri testi biblici, e la Chiesa sostiene che la Scrittura non può insegnare l'errore morale. La legittimità in linea di principio della pena capitale è anche insegnamento coerente del magistero per due millenni. Contrastare la Scrittura e la tradizione su questo punto metterebbe in dubbio la credibilità del magistero in generale.
Preoccupati per questa grave e scandalosa situazione, desideriamo esercitare il diritto affermato dal Codice di diritto canonico della Chiesa, che al canone 212 afferma:
§2. I fedeli hanno il diritto di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie necessità, soprattutto spirituali, e i propri desideri. §3. In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l'integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l'utilità comune e la dignità della persona.
Siamo guidati anche dall'insegnamento di San Tommaso d'Aquino, che afferma:
"Quando ci fosse un pericolo per la fede, i sudditi sarebbero tenuti a rimproverare i loro prelati anche pubblicamente" e, citando Agostino (Glossa ordinaria su Galati, 2, 11), prosegue: "Pietro stesso diede l'esempio ai superiori di non sdegnare di essere corretti dai sudditi, quando capitasse loro di allontanarsi dalla retta via". ( Summa Theologiae, Parte II-II, Domanda 33, Articolo 4, ad 2)
Pertanto il sottoscritto formula il seguente appello:
Alle reverendissime eminenze, i cardinali della santa Chiesa romana. Dal momento che è una verità contenuta nella parola di Dio, e insegnata dal magistero ordinario e universale della Chiesa cattolica che i criminali possono legittimamente essere messi a morte dal potere civile quando ciò sia necessario per preservare il giusto ordine nella società civile, e dal momento che il presente pontefice romano ha più di una volta manifestato il suo rifiuto di insegnare questa dottrina, e ha invece portato una grande confusione nella Chiesa sembrando contraddirlo, inserendo nel Catechismo della Chiesa Cattolica un paragrafo che farà sì, e già sta facendo sì che molte persone, sia credenti che non credenti, suppongano che la Chiesa consideri, contrariamente alla parola di Dio, che la pena capitale è intrinsecamente malvagia, noi facciamo appello alle Vostre Eminenze affinché consiglino Sua Santità che è suo dovere porre fine a questo scandalo, e ritirare questo paragrafo dal Catechismo, e insegnare la parola di Dio senza adulterazioni; e osiamo dichiarare la nostra convinzione che questo è un dovere che Vi impegna seriamente, di fronte a Dio e di fronte alla Chiesa.
Elenco dei firmatari
Hadley Arkes
Edward N. Ney Professor in American Institutions Emeritus
Amherst College
Joseph Bessette
Alice Tweed Tuohy Professor of Government and Ethics
Claremont McKenna College
Patrick Brennan
John F. Scarpa Chair in Catholic Legal Studies
Villanova University
J. Budziszewski
Professor of Government and Philosophy
University of Texas at Austin
Isobel Camp
Professor of Philosophy
Pontifical University of St. Thomas Aquinas
Richard Cipolla
Priest
Diocese of Bridgeport
Eric Claeys
Professor of Law
Mason University
Travis Cook
Associate Professor of Government
Belmont Abbey College
S. A. Cortright
Professor of Philosophy
Saint Mary’s College
Cyrille Dounot
Professor of Legal History
Université Clermont Auvergne
Patrick Downey
Professor of Philosophy
Saint Mary’s College
Eduardo Echeverria
Professor of Philosophy and Theology
Sacred Heart Major Seminary
Edward Feser
Associate Professor of Philosophy
Pasadena City College
Alan Fimister
Assistant Professor of Theology
St. John Vianney Theological Seminary
Luca Gili
Assistant Professor of Philosophy
Université du Québec à Montréal
Brian Harrison
Scholar in Residence
Oblates of Wisdom Study Center
L. Joseph Hebert
Professor of Political Science
St. Ambrose University
Rafael Hüntelmann
Lecturer in Philosophy
International Seminary of St. Peter
Fr. John Hunwicke
Priest
Personal Ordinariate of Our Lady of Walsingham
Robert C. Koons
Professor of Philosophy
University of Texas at Austin
Peter Koritansky
Associate Professor of Philosophy
University of Prince Edward Island
Peter Kwasniewski
Independent Scholar
Wausau, Wisconsin
John Lamont
Fellow of Theology and Philosophy
Australian Catholic University
Roberto de Mattei
Author
The Second Vatican Council: An Unwritten Story
Robert T. Miller
Professor of Law
University of Iowa
Gerald Murray
Priest
Archdiocese of New York
Lukas Novak
Lecturer in Philosophy
University of South Bohemia
Thomas Osborne
Professor of Philosophy
University of St. Thomas
Michael Pakaluk
Professor of Ethics
Catholic University of America
Claudio Pierantoni
Professor of Medieval Philosophy
University of Chile
Thomas Pink
Professor of Philosophy
King’s College London
Andrew Pinsent
Research Director of the Ian Ramsey Centre
University of Oxford
Alyssa Pitstick
Independent Scholar
Spokane
Donald S. Prudlo
Professor of Ancient and Medieval History
Jacksonville State University
Anselm Ramelow
Chair of the Department of Philosophy
Dominican School of Philosophy and Theology
George W. Rutler
Priest
Archdiocese of New York
Matthew Schmitz
Senior Editor
First Things
Josef Seifert
Founding Rector
International Academy of Philosophy
Joseph Shaw
Fellow of St Benet’s Hall
University of Oxford
Anna Silvas
Adjunct Senior Research Fellow
University of New England
Michael Sirilla
Professor of Dogmatic and Systematic Theology
Franciscan University of Steubenville
Joseph G. Trabbic
Associate Professor of Philosophy
Ave Maria University
Giovanni Turco
Associate Professor of Philosophy
University of Udine
Michael Uhlmann
Professor of Government
Claremont McKenna Collegre
John Zuhlsdorf
Priest
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James Bogle Esq.
, TD MA Dip Law, barrister (trial attorney), former President FIUV, former Chairman of the Catholic Union of Great Britain
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...Nel Rito romano lo scambio del segno di pace, posto fin dall’antichità prima della Comunione, è ordinato alla Comunione eucaristica. Secondo l’ammonimento di san Paolo, non è possibile comunicare all’unico Pane che ci rende un solo Corpo in Cristo, senza riconoscersi pacificati dall’amore fraterno (1 Cor 10,16-17; 11,29). La pace di Cristo non può radicarsi in un cuore incapace di vivere la fraternità e di ricomporla dopo averla ferita. La pace la dà il Signore: Egli ci dà la grazia di perdonare coloro che ci hanno offeso..Il gesto della pace è seguito dalla frazione del Pane, che fin dal tempo apostolico ha dato il nome all’intera celebrazione dell’Eucaristia (OGMR, 83; Catechismo della Chiesa Cattolica, 1329). Compiuto da Gesù durante l’Ultima Cena, lo spezzare il Pane è il gesto rivelatore che ha permesso ai discepoli di riconoscerlo dopo la sua risurrezione. Ricordiamo i discepoli di Emmaus, i quali, parlando dell’incontro con il Risorto, raccontano..come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane..(Lc 24,30-31.35)..La frazione del Pane eucaristico è accompagnata dall’invocazione dell’..Agnello di Dio..figura con cui Giovanni Battista ha indicato in Gesù..colui che toglie il peccato del mondo..(Gv 1,29). L’immagine biblica dell’agnello parla della redenzione (Es 12,1-14; Is 53,7; 1 Pt 1,19; Ap 7,14). Nel Pane eucaristico, spezzato per la vita del mondo, l’assemblea orante riconosce il vero Agnello di Dio, cioè il Cristo Redentore, e lo supplica..Abbi pietà di noi … dona a noi la pace..Abbi pietà di noi..dona a noi la pace..sono invocazioni che, dalla preghiera del .Padre nostro. alla frazione del Pane, ci aiutano a disporre l’animo a partecipare al convito eucaristico, fonte di comunione con Dio e con i fratelli..Non dimentichiamo la grande preghiera: quella che ha insegnato Gesù, e che è la preghiera con la quale Lui pregava il Padre. E questa preghiera ci prepara alla Comunione..
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Presentazione di Mons. Vincenzo Restivo
Mio chiarissimo Preside,
grazie per l’invito e per lo spazio, e consentimi di ridurre al minimo le nostre formali distanze professionali e darci le dimensioni del cuore, della stima e della gratitudine. Tu, illuminato docente e preside di lungo corso in prestigiosi istituti scolastici, continui ad impegnarti nella nobile missione di estrarre l’uomo d’oggi dalla caligine invadente e dalla dispersione dei valori, osando tuttavia tempo e fatica per dare sfogo alle tue tante attitudini culturali. Ho letto con grande interesse le tue rivisitazioni della storia di gloriosi istituti scolastici di Canicattì, come la Scuola ”Salvatore Gangitano” e il Tecnico “Galileo Galilei”, nel quadro dell’evoluzione culturale ed economica della nostra città. Ho apprezzato lo stile brillante e la sottile ironia con la quale hai affrontato vicende e personaggi locali come l’Accademia del Parnaso ed il poeta dialettale Peppi Paci. Particolarmente corposa e saporosa mi è apparsa la biografia del barone Agostino La Lomia, da te definito “un gattopardo nella terra del Parnaso”, che ha avuto numerose gratificazioni da parte di autorevoli critici. Dire poi della tua “La Canicattì di mons. Restivo”, mi suona un’autoreferenza che, onorandomi, mi mortifica. Cicero prò domo sua!
E, tornando alle distanze, in tutto questo io, modesto lavoratore nella vigna del Signore, vorrei “mettere vino nuovo in otri vecchi” che sanno di spregiudicati secolarismi e di aridi laicismi. E, a 94 anni suonati, mi sento ancora di essere, di fare, di dare… e di incontrare te, mio carissimo figlioccio, in questa tua nobile fatica. E sai perché questa prolissa e più opportuna captatio benevolentiae? Per dirti un sentitissimo “grazie”: mi hai tolto dalla coscienza un grosso peso penitenziale che mi mordeva da anni, quello di non essere riuscito io a dare ordine al tanto materiale documentario che gelosamente ho raccolto e prodotto sulla vita, il pensiero, l’apostolato del nostro concittadino mons. Angelo Ficarra. “dotto e santo” che onora l’episcopato del ventesimo secolo e Canicattì sua diletta patria natale.
A me il tempo e il lavoro l’hanno vietato. Tu, invece, con sapienza di maestro e certosina pazienza nella ricerca, nel coordinamento, nella vasta consultazione dì carte e di testi, hai dato a Canicattì, alla chiesa di Sicilia e passi, un documento di alto valore sociale e religioso che forse farà scalpore. Compiacimenti e… ad meliora; mi ci sento coinvolto e ne godo.
Sono stato alunno, uditore delle “nenie domenicali” sapienti e incisive del Ficarra. Fatto prete e arciprete-parroco e quindi suo successore in Canicattì, me ne sono fatto un modello di pastore e di maestro sulla scia dei suoi “Grandi Amori”: Liturgia, Catechismo, Carità. Ho portato avanti il suo impegno nella direzione dell’Istituto S. Angela Merici e nelle tante attività formative dalla San Vincenzo all’Azione Cattolica e al Movimento dei Laureati Cattolici.
Nella stima e nel devoto affetto mi sono ritenuto in filiale obbligo di onorarne e la vita e la morte nel modo più solenne. Le partecipazioni sono state plebiscitarie sia di vescovi sia di autorità civili e di un popolo esultante e commosso, così da far dire: neppure per padre Gioacchino… Ne sono scaturiti numeri unici, la pubblicazione delle lettere pastorali e, nel 1986, un’artistica “memoria” per il centenario della nascita, il cinquantenario della consacrazione episcopale, il venticinquesimo della morte. La salma imbalsamata dal prof. Del Carpio si conserva in Matrice in un bel sarcofago con relativo mezzo busto del prof. Lo Giudice.
Mi sono dilungato non perché ne voglia lode ma come anticipata excusatio per quanto segue sul tuo “Ficarra – La giustizia negata”. Tu, caro Preside, ti sei avventurato e districato nella “selva selvaggia e forte” della spinosa vicenda sofferta santamente dal Ficarra, che ha avuto ampia risonanza soprattutto per il pamphlet di Leonardo Sciascia Dalle parti degli infedeli e sei riuscito a “rivedere le stelle” tra gli “osanna” delle Palme e i “crucifige” del Venerdì Santo. Ebbene, in qualche modo, proprio io che auspico sugli altari, ampiamente meritati, il “dotto e santo”, mi sento il povero “Pilato”, perplesso e profano nella cabala degli scribi e farisei lontani mille miglia dalla concezione religiosa degli Augusti della Roma pagana. Piiate tutore e garante dei poteri delle 12 tavole o in cerca di detergenti per la purificazione delle mani… ad un certo punto al suo Ecce homo domanda: “Cos’è la Verità, ov’è la Verità?”. La risposta è stata negata. Jesus autem tacebat, scrive San Giovanni. Gli anatomisti del Vangelo l’han trovata. E Lui in persona, il Cristo, la Verità: Io sono la Via, la Verità e la Vita. Cristo è la risposta alla domanda dell’uomo: dinanzi al cieco Giudice romano e dinanzi agli analisti del pensiero e della psiche, di ieri e ancor più di oggi. Una risposta univoca ed esaustiva non è stata trovata e data, da Protagora a Platone ed Aristotele e giù giù fino a Cartesio, Kant, Russell. Ognuno vuole la sua porzione e la tunica inconsutile del Cristo – sìmbolo di verità – è “divisa in quattro parti”. Ecco il mio sofferto problema, e chiedo venia nello spirito di un non sospetto maestro. “Non condivido la tua opinione, ma son disposto a dare la vita per difenderla” (Voltaire).
E mi chiedo. Possiamo noi dare serenamente un giudizio definitivo, senza offendere la maestà della verità, nella sostenuta presunzione di “giustizia negata”? Non mi sento uno sprovveduto, tanto meno di parte, e so anche quanti nella Chiesa e proprio “dalla Chiesa” hanno sofferto ingiustamente. E penso al cardinal Ferrari e a mons. Cognata, a P. Pio da Pietrelcina, a don Milani… e su su fino al Savonarola, al Galilei, a Giovanna d’Arco, senza scomodare le Guerre di Religione e di Re e Papi. E Dio spesso è costretto a scrivere dritto in righe storte… e cavare il bene dal male nel corso della storia.
Mons. Ficarra, per temperamento nativo, per la sua profonda formazione culturale umanistica, per la sua sconfinata paterna comprensione delle miserie umane e, mi permetto di aggiungere, forse anche per una inconscia suggestione dello Spirito, rifletteva la tolleranza misericordiosa del Padre che “fa i conti col figlio più giovane” e gli permette le avventure di cuori sognanti. L’attende, l’accoglie, fa festa…, col mugugno del fedelissimo fratello maggiore che rimane alla porta. Il Sillabo nella correttezza dell’essenziale tentò l’esuberante fanatismo dei “novatori” ma fece le vittime oggi riabilitate. Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, una graduale maturazione delle idee e degli indirizzi hanno spazzato le nebbie e ci hanno ricondotto allo spirito del Vangelo. “Non sono venuto per i giusti ma per i peccatori… e si fa giù tanta festa per il peccatore pentito piuttosto che per il servo fedele: “Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa”. Ha ragione il poeta pagano. “Ci sono confini al di qua e al di là dei quali si corre l’errore”.
Il Ficarra, sempre attento, zelante, intraprendente e talvolta dirompente – penso alla sua vivace polemica in favore degli operai nel quindicinale Il Lavoratore di Ribera, penso alle sue Meditazioni vagabonde – fermamente critico contro usanze festaiole paganeggianti – penso all’amicizia con Buonaiuti e Murri, Collaboratore fedelissimo del battagliero vescovo Peruzzo e successivamente come vescovo a Patti, il Ficarra -va tenuto in conto – lentamente, e per gli anni e per taluni disturbi fisici non bene avvertiti e tempestivamente curati, dava segni di stanchezza e di disattenzione alle insorgenze socio-politiche, nonché a talune sbavature di preti esuberanti e diversamente chiacchierati. Recepiva e trasmetteva fedelmente le direttive che da Roma provenivano su clero e laicato nella complessa e scomposta bagarre politica, ma non sembrava tenersi alla pari con tanti confratelli dell’episcopato siciliano mobilitato in difesa dei valori cristiani e della democrazia. Col senno di poi si può eccepire sul collaborazionismo chiesa-partito, sui Comitati Civici di Gedda, sull’atteggiamento e la scomunica di Pio XII e si può eccepire sui preti politicanti sulle bigonce e nelle piazze; si può contestare su Madonne piangenti e pellegrinanti, ma l’Italia restava la sola barriera contro ideologie e carri armati che avevano invaso la Mitteleuropa. Di certo a Patti e diocesi “preti ribelli” e dissenzienti legati al carro di forze sotterranee, rocciatori di partito, sfruttanti il riserbo prudenziale del vescovo che si sentiva padre di tutti al di sopra delle fazioni, giocarono il ruolo dirompente del tessuto ecclesiale.
Si voleva forse fare del Ficarra un nuovo Pietro l’Eremita nella crociata contro il Saladino. Scrisse il buon pastore: “Non mi sono piegato alle pretese insane e losche di tre o quattro preti megalomani”. Ma erano solo quattro, ovvero con loro l’orchestra investiva una platea più vasta? Annota qualcuno bene informato: “II presule si trovò a svolgere il suo ministero episcopale in una zona dominata da quel tristo intreccio tra massoneria, affari e mafia che vide tra i suoi principali esponenti il faccendiere Michele Sindona nativo di Patti”. La scomposta bagarre non si accese e si spense tra le mura delle sacrestie o delle segreterie politiche ma, bene orchestrata, pervenne intenzionalmente alle rive del Tevere. Qualcuno, tonacato. scrisse: “E’ vergognoso, se non delitto imperdonabile, che ciò sia avvenuto a Patti, sede del Vescovo. Dappertutto si lavora per Dìo. a Patti si lavora per Satana”. Destinatario il card. Piazza, nella qualità di presidente della Congregazione Concistoriale e pertanto il tutore e il garante della ortodossia dottrinale e disciplinare della Chiesa universale. Saremmo curiosi e divertiti a conoscere l’intricato carteggio di andata e ritorno tra Patti e Roma; ma siamo sub secreto Sancti Officii e la gran parte dorme i sonni eterni delle catacombe vaticane. Conosciamo appena quanto il Ficarra “ha gelosamente conservato” e che i nipoti hanno poi affidato a Leonardo Sciascia. Domanda: tutte le carte sono state conservate e consegnate e tutte lo Sciascia ha pubblicato? Non ne dubitiamo ma corre la tentazione. La storia, la grande e la piccina, non ne corre il rischio se è vero, come è vero, che la storia la scrive chi non la fa da Erodoto al Muratori a Renzo De Felice per il fascismo?
Un giorno mi chiama mons. Peruzzo e mi dice: “Sono stato a conferire col card. Piazza, l’ho trovato duro come una roccia… Vada Lei che, come concittadino e successore nell’arcipretura, conosce bene quel sant’uomo del Ficarra. Lui non sa nemmeno come si facciano certi peccati”. Pivellino, ultimo della classe, mi sono risparmiato il biglietto ferroviario. Il card. Piazza ha due orecchie e due occhi: ascolta le due campane e legge gli spartiti che vengono da mille e più chilometri dalla chiacchierata Sicilia. Legge, riflette, si consulta e prega. Anche lui come Filato: “Cos’è, dove sta la Verità?”. La diocesi soffre, i preti sono Orazi e Curiazi, le correnti di sud e tramontana soffiano e scombinano teste e busti; i labirinti di mafia e massoneria fibrillano: il Regno di Dio è diviso e il buon popolo è “strumento cieco di occhiuta rapina”. Tutto per colpa del Ficarra! Ma mons. Angelo è il capro espiatorio per un popolo giocato dalle mene oscure di forze opposte: siamo al Cristo dinanzi al pretorio di Pilato. Scrive il buon Padre: “Noi abbiamo superato tante tempeste con la forza tenace del silenzio e la fiducia in Dio”. Ma Roma non può, non deve tacere.
E allora? Da Roma mandano l’ausiliare; non è tutto, ma non è niente; in qualche modo, con un po’ di intelligenza e un po’ di diplomazia, dividendo i compiti, si può salvare il salvabile. E’ prosaico? Viene scelto ed eletto don Giuseppe Pullano nativo di Pentone: ha ben operato, ha le carte in regola con la curia e da’ sufficiente garanzia di convivenza e di efficienza per sanare la situazione e dare maggiore impulso alle esigenze pastorali. Il rimedio non da i buoni frutti sperati: una formale diarchia che purtroppo chiarisce meglio le differenze tra conservatori ed innovatori, arroccati alle porte dei due vescovi come i bravi davanti alla stanza di don Rodrigo. Le diarchie e peggio i triunvirati nella Roma dei cesari e dei papi non hanno avuto né lieti mattini né tramonti sereni. Historia docet!
Altre lettere, altri mugugni: ormai sono in due a soffrirne. L’ausiliare la vince ed è promosso amministratore apostolico sede piena: cioè mons. Pullano è tutto, il Ficarra l’ombra di se stesso… che purtroppo fa ombra al suo superiore. E’ brutto quel che scrivo ma è vero e, così stando le cose pastorali in diocesi, la salus reipubblicae prevale. Mi sovviene e considero. Da tribunale a tribunale Gesù è dinanzi a Caifa. sommo sacerdote; qualcuno alza la voce dicendo: “Ma, in sostanza, che male ha fatto quest’uomo?”. Caifa ha sentenziato, profeta inconscio: “Non avete capito nulla e non capite che è meglio che muoia quest’uomo per il popolo, piuttosto che perisca tutta la nazione?”. L’amore ha già pagato: ma “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli senza prepararne una più grande in cielo”.
Siamo nell’estate 1957. Da anni il Ficarra preferisce trascorrere le ferie nella sua amata Canicattì: tra casa e chiesa e qualche fuga fuori porta; legge, studia, soprattutto si raccoglie in profonda preghiera; riceve e scambia visite di convenienza, umilmente. Il mattino del 2 agosto strano: è la festa di S. Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo di S. Agata dei Goti, messo a riposo dai suoi stessi figli redentoristi compra e legge nel Giornale di Sicilia delle sue volontarie dimissioni da vescovo di Patti e della promozione ad arcivescovo di Leontopoli inpartibus infidelium; con ironia forse involontaria è destinato ad una diocesi dei tempi oscuri che si perde nella nebbia dell’essere o del non essere. Cosa è avvenuto? La curia ha affidato all’arcivescovo di Catania Bentivoglio il delicato compito di comunicare e consegnare la lettera dimissoriale. Caso dei casi la lettera arriva e giace sulla polverosa scrivania. Il Bentivoglio è assente, in pellegrinaggio. “Il caso è lo pseudonimo di Dio quando nasconde la mano”.
Abitualmente celebra nella chiesa di Maria SS. degli Agonizzanti, la rettoria delle sue figlie spirituali, le orsoline, consuma la sua colazione di caffellatte e ciambelle. Di solito io l’accompagno a casa. Una mattina di un giorno che non ricordo lo trovo a passeggiare concitatamente, contro il consueto. Caccia la mano in tasca e mi porge a pugno chiuso una carta: è un telegramma. Leggo e agghiaccio: “II giorno x – anche qui la memoria mi tradisce – il card. Ruffini mi darà il possesso della diocesi. Firmato Pullano”. Mesto glielo riconsegno e col soffio della voce mi sussurra: “Così si fa?”. E nulla più né ora né in futuro. Da indagini da me condotte risulterebbe che il telegramma non venne dalla curia di Patti; sta di fatto che nel giorno dell’insediamento del Pullano il Ficarra non ricevette nessun altro invito. L’ombra di Banco facea ombra, certo qualcosa sarebbe suonato fuori diapason. Ma lo schiaffo colpì le due guance con l’atroce compiacimento delle opposte parti. Qualcuno, sprovveduto o con malizia, osò un giorno domandargli: “Eccellenza, non torna più a Patti?”. “Anche da Canicattì si può andare in paradiso”. “Il mio nome è scritto in cielo” diceva la piccola sua santa Teresa del Bambino Gesù. E veniamo finalmente a Leonardo Sciascia e al suo pamphlet Dalle parti degli infedeli. Anche a lui il mio grazie perché, proprio in grazia di questo giallo, il caso Ficarra e la sua figura hanno ricevuto l’aureola della vittima, il suggello del martirio bianco, proprio a merito e grazia di uno scrittore che coi preti ce l’aveva: vedi Todo modo, Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia. Certo la Sicilia deve anch’essa molto al suo figlio di Racalmuto, ma forse non sempre meritoriamente se con i suoi libri ha esportato la ingloriosa fama di mafia, intrallazzi, stragi e consorterie di malaffare, al punto che la gloria di Federico II, di Ruggero, di Rosalia e del Meli quasi si è maculata con Giuliano o Ciaculli e i tanti morti ammazzati.
Ma torniamo al tema. Claris verbis io non condivido la sua impostazione e la conclusione perentoria: e pertanto mi pongo tra gli infedeli al suo assunto. Ficarra non è solo la vittima ma anche il “dotto e santo”; lo Sciascia nessun rilievo laicisticamente dà del Ficarra che prima di essere l’episcopus è l’’homo Dei e l’homo hominis che vuole costruire la città di Dio tra gli uomini sparsi in un secolarismo chiuso all’eterno e ancora prigioniero della triplice tentazione di Gesù nel deserto. Homo homini lupus. E oso domandargli, ripeto: i documenti usati sono tutti quelli intercorsi ovvero il vento o il venticello qualcuno se l’è involato?
E se tutti fossero riportati integralmente e non a spizzichi, non potremmo più a nostro agio riscontrare la correttezza della interpretazione conclusiva? Ma dal “citato” emerge chiara una tesi non dimostrata né dimostrabile se non nella luce della fede e della provvidenza che d’altronde oggi trascende la possibilità della piena risposta alla domanda di Filato: “Cos’è, o dov’è la Verità? I vellutati pizzicorini e le chiare stoccate toccano un po’ quasi tutti gli interlocutori di chiesa e ciò mi persuade dello spirito laicistico di vedere una certa chiesa santa e peccatrice nella quale proprio il Ficarra vive, opera e soffre nello stile del Maestro che ha un cruento Venerdì Santo ma poi l’apoteosi del “Terzo giorno”. II card. Piazza non mi parrebbe lo Javert dei Miserabili che a qualsiasi costo vuole accoppare il riabilitato Jean Valjean né lo metterei nelle fauci del conte Ugolino come il collega arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Il modo talora può offendere, ma la prassi curiale e il dizionario d’uso possono indurre a coinvolgere la sostanza nell’accidente della diplomazia: ma c’era scottante una situazione gravissima da risolvere.
Questo a un dipresso ebbi a dire allo stesso Sciascia quando è venuto a Canicattì, nel salone del Municipio, a presentare il suo libro. L’avv. Diego Guadagnino, caro amico ed egregio professionista forense, fu l’efficace ed argomentato relatore. Sposava la tesi sciasciana e se ne faceva arguto difensore, forse anche tocco da un certo affettuoso campanilismo. Quando, alla fine del dibattito, tra molti espressi la mia modesta opinione, lo Sciascia, asciutto asciutto, mi liquidò così: “Per me Ficarra è questo, se vuole se lo prende”. Anche questo nello stile del tutto già detto.
Chiudo in bellezza. In occasione del cinquantesimo di sacerdozio del Ficarra compilai una deliziosa Antologia di attestati unanimi motivati e commoventi provenienti da vescovi, autorità, personalità di grosso calibro riportati in un elegante volume commemorativo.
Consentimi di farti omaggio conclusivo con un talloncino del card. Ruffini che recita testualmente: “La Sua modestia e riservatezza hanno impedito ad alcuni in passato di apprezzarla come merita; i pregi di Vostra Eccellenza appaiono oggi più smaglianti che mai. Ella, studiosa com’è, sa che la storia è piena di esaltazioni immeritate e di grandi valori trascurati”. Davvero anche da Canicattì si va in paradiso… ma gli altari attendono il “dotto e il santo”. Che sia!
Vincenzo Restivo
Saggio introduttivo di Diego Guadagnino La santità reietta
Volentieri ho accettato l’invito del professor Gaetano Augello a scrivere questa nota introduttiva alla biografia di monsignor Angelo Ficarra, che, per le qualità e lo spessore della sua personalità, il passare degli anni rende sempre più vicino alla sensibilità e alle problematiche dei suoi posteri. Se il volumetto sciasciano, sulla nota vicenda della sua rimozione da vescovo della diocesi di Patti, lo ha fatto conoscere al grande pubblico, la biografia scritta adesso da Augello, pregevole per la ricchezza di documenti consultati e di notizie raccolte, rivela gli aspetti intimi dell’uomo, il prestigioso retaggio culturale, le scelte che ne hanno segnato la vita, dandoci così un’opera destinata a diventare punto di riferimento imprescindibile per quanti in futuro si vorranno cimentare con la figura e l’opera di Angelo Ficarra.
Già nel dicembre del 1980, ebbi ad interessarmi di monsignor Ficarra, allorquando fui incaricato di introdurre e moderare il dibattito con Leonardo Sciscia, venuto a Canicattì per presentare la sua opera Dalle parti degli infedeli (titolo che inaugurò la collana selleriana “La Memoria”), uscita nell’anno precedente. Ricordo che in quella circostanza avviai il discorso rilevando come nelle locandine che pubblicizzavano l’evento, per un refuso tipografico che cambiava Dalle con Dalla, era stato erroneamente scritto Dalla parte degli infedeli; citando Savinio, autore amato e apprezzato da Sciascia, dissi che quel refuso definiva più correttamente e forse più profondamente la vicenda del vescovo Ficarra, che, relegato in mezzo agli infedeli, proprio da questi ora gli veniva rivendicata quella giustizia che gli era stata negata dai suoi. Commentando tale notazione, più tardi, Sciascia osservò che spesso ” gli innocenti errori di stampa denudano le verità costruite dagli uomini”.
Annoverai la figura di monsignor Ficarra tra i personaggi creati dallo scrittore, dal professor Laurana a Candido Munafò, tutti accomunati da quel particolare e scomodo “candore” che Bontempelli aveva visto in Pirandello affermando che “l’anima candida è divinamente incauta”. Per tale divino attributo, presente nell’uomo in maniera macroscopica, e per la sua emblematica vicissitudine col potere (che fosse ecclesiastico è di secondaria importanza), Angelo Ficarra rientrava di diritto nel pantheon dei personaggi sciasciani.
Tra gli altri, erano presenti al dibattito, tenutosi nella sala consiliare del Comune, l’avv. Calogero Corsello, l’onorevole Giuseppe Signorino (a cui Sciascia rivolse un caloroso “Ma noi ci conosciamo”, accolto con perplessità dall’onorevole che non ricordava in quale occasione si fossero incontrati), l’arciprete don Vincenzo Restivo, il prof. Angelo La Vecchia, il prof. Gaetano Ferreri. A ogni intervento, Sciascia puntualmente mi chiedeva sottovoce “Cu è chistu?”, tanto che finii per prevenire la domanda assecondando la sua legittima curiosità ogni volta che qualcuno si alzasse per parlare.
L’ultimo e il più memorabile intervento fu quello dell’arciprete, il quale, premettendo la sua stima per lo scrittore la cui grandezza era ormai “riconosciuta dentro e fuori le mura”, passò ad accusarlo di avere utilizzato mons. Ficarra per scrivere un libro che nello spirito risultava volterriano ed anticlericale. Rispose Sciascia che lui da laico non si poneva problemi di tal genere. Al che monsignor Restivo propose una domanda nuova: “Visto che lei nelle sue opere dimostra di avercela tanto con la Chiesa, non sarà che per caso da bambino abbia subito qualche trauma nel rapporto con i suoi rappresentanti?” Sciascia, lievemente sorridendo a quel tipo di domanda, precisò: ” Monsignore, io non ho subito nessun trauma nell’infanzia. Le mie posizioni scaturiscono dal ruolo che la Chiesa ha avuto nella storia nel corso dei secoli.” “Per esempio?” “Ma non pretenderà che io le faccia qui tutta la storia della Chiesa.” L’arciprete riprese dilungandosi in altre valutazioni critiche sull’aver pubblicato delle lettere che avrebbero dovuto far parte del patrimonio esclusivo della Chiesa. Lo scrittore lo interruppe, ora ponendo lui una domanda precisa. “Secondo lei, monsignore, questo libro si doveva scrivere o non si doveva scrivere?” L’arciprete ci pensò sopra qualche istante e quindi rispose: “Secondo me, no.” “Appunto per questo l’ho scritto” concluse l’autore, alzandosi e ponendo fine al dibattito, mentre dalla sala si levava l’applauso finale.
Non c’è dubbio che il giudizio di mons. Restivo, sulla opportunità del libro, riflettesse, nella sua estrema sintesi, il disagio di una Chiesa venutasi a trovare nella necessità di dover fronteggiare un dibattito, provocato da parte laica, su un suo ministro, che, morto vent’anni prima, avrebbe preferito dimenticare in coerenza con l’emarginazione a cui l’aveva condannato da vivo. Quel disagio, probabilmente, nasceva dalla consapevolezza che mons. Ficarra fosse stato vittima di un’ingiustizia, ma che, nel contempo, non si sapesse ancora come affrontare e riconoscere pubblicamente tale fatto: tipico dilemma che il potere come entità storica istituzionalizzata crea nelle coscienze dei suoi subordinati, quando fatti che ripugnano al comune senso di umana dignità si siano resi necessari alle sue ragioni. E tale consapevolezza negli ambienti ecclesiastici doveva essere presente e viva già all’indomani della scomparsa del presule, se nella sua casa d’affitto in via Magenta a Canicattì, allora abitata dal fratello Calogero, si presentarono a reclamarne l’archivio privato, e con interesse particolare la corrispondenza, in un primo momento esponenti del clero locale, in un secondo momento il segretario della curia vescovile di Agrigento e ancora successivamente, considerato l’inamovibile diniego dei familiari, un prelato venuto da Roma, che reiterò la richiesta minacciando scomunica. Minaccia che non sortì l’effetto voluto e l’archivio dopo qualche tempo, per volontà dei nipoti Angelo e Luigi Ficarra, approdò, escluse le lettere ed inclusa la biblioteca, all’Istituto Gramsci Siciliano: in partibus infidelium, appunto.
Il quadro del caso Ficarra nell’ambito della cultura cattolica, oggi, a ventotto anni dall’uscita del libretto sciasciano, appare mutato, ma non univoco. Negli anni si sono succedute diverse prese di posizione con letture differenti dei fatti, evidenziando come a tutt’oggi non sia possibile parlare di una sua definitiva chiusura. Valgano in tal senso due pubblicazioni, che Augello ha diligentemente compulsate per la stesura della suo saggio biografico e che in questa sede vengono evocate e citate a titolo esemplificativo. Parlo dei due volumi Mons. Angelo Ficarra Vescovo di Patti (1936-1957) a cura di Alfonso Sidoti, Patti 1999, e Mons. Giuseppe Pullano Vescovo di Patti (1957-1977) a cura di Basilio Scalisi, Patti 2005, che contiene un capitolo a firma di Pio Sirna, docente dell’Istituto Teologico Diocesano “Mons. Angelo Ficarra” di Patti, sul “problema Ficarra”.
Il Sirna, pur riconoscendo “le modalità repellenti” con cui l’intervento della Santa Sede è stato attuato, ne avalla in toto le ragioni sintetizzandole nelle inadeguate condizioni fisiche di Ficarra e nella conseguente “mancanza di slancio missionario”, in un momento in cui Roma auspicava e si aspettava dai vescovi una pastorale in forma di crociata anticomunista, improntata allo spirito della guerra fredda iniziata con la fine del secondo conflitto mondiale.
“Il contendere, dunque,” scrive Sirna ��ci pare che abbia per oggetto non tanto un semplice scontro tra due personalità forti, Ficarra e Piazza, durato ben sette anni, quanto piuttosto e soprattutto il bisogno romano di tenere una diocesi, anche se marginale nello scacchiere italiano, al centro dell’aspra lotta di difesa della civiltà cristiana”. Ma tale tesi non convince e soprattutto non regge al vaglio dei fatti. E che sia così viene fuori dall’analisi condotta, sempre in casa cattolica, da mons. Alfonso Sidoti, il quale, nel suindicato testo, con specifico riferimento al presunto pericolo dello spettro comunista che si sarebbe aggirato in quel di Patti e alla impellente necessità di combatterlo, scrive: “A Patti e nell’intera diocesi, le elezioni del 1946 (quelle per la Costituente) e soprattutto le politiche generali del 1948 avevano decisamente sbarrato il passo al Fronte Comunista. Era quello, in quei tempi, l’impegno principale della Chiesa, sul piano politico. Il 18 aprile 1948, nella diocesi di Patti, “la Democrazia C. ha avuto 46.000 voti; tutti gli altri partiti insieme 50.000 dei quali il blocco popolare (i socialcomunisti) solo 13.500, come leggiamo nella Relazione sull’attività dell’A.C.I. per l’anno 1948, inviata alla Sede centrale dal Presidente Diocesano dell’A.C.I.. Da tale impegno mons. Ficarra non si era affatto estraniato.”
Altrettanto puntuale e motivata appare l’analisi delle reali contingenze in cui la D.C. si trovò ad affrontare la campagna elettorale delle amministrative del 1946 dalla quale uscì sconfitta. “E’ noto a tutti” riferisce Sidoti “che, a Patti, la Democrazia Cristiana stentò a nascere. Non c’erano personaggi di spicco, che avessero militato nelle file del Partito Popolare di don Sturzo. L’Azione Cattolica qui si era formata solo dopo il 1932 e non aveva avuto il tempo di offrire alla politica persone preparate per i nuovi compiti.”
Un particolare curioso che risalta dal confronto dei testi di Sirna e Sidoti e che merita di essere qui additato all’attenzione del lettore è che entrambi si soffermano su due biglietti autografi del vescovo per ricavarne valutazioni di segno opposto. Osservando i due autografi, Sirna ritiene di intravedervi “uno scrivere faticoso, tendente a caricarsi di singolarità, tremolante”, che “sembra mostrare i segni di una progressiva difficoltà ad autodeterminarsi” e quindi, una prova delle precarie condizioni fisiche che resero necessaria la discussa promozione. Al contrario, mons. Sidoti, di uno dei due autografi afferma “Questo biglietto nella sua sconcertante semplicità, ci svela il vero animo del vescovo e basta da solo a smentire le accuse accumulate contro di lui”; mentre trova l’altro autografo “scritto con la grafia inimitabile e inconfondibile di mons. Ficarra. E’ la bozza di una lettera, immune da ripensamenti o correzioni.”
Tralasciando ogni altra valutazione di merito, le discordanti letture del caso Ficarra, provenienti dalla stessa matrice cattolica, denotano che la rimozione o defenestrazione, come la chiama Augello, non ha avuto una base oggettiva e concreta a suo fondamento e men che meno il pericolo comunista nell’ambito della diocesi pattese. Fu piuttosto un evento maturato in quel torbido clima di fanatismo integralista indotto dalla politica di Pio XII e propugnato dai comitati civici di Gedda. In particolare si trattò di un atto di isteria repressiva che in quel contesto specifico faceva di Angelo Ficarra una vittima quasi predestinata. E tale sacrificale qualità discendeva dalla sua biografia, dalla sua identità culturale, dalle scelte che avevano caratterizzato il suo apostolato, e in ultimo, ma non in misura meno determinante, dalla sua indole infinitamente lontana da ogni forma di intolleranza e di fanatismo, due modalità di fare apostolato che in quel momento il Vaticano, invece, anteponeva a ogni altra. La sua indiscussa santità, il suo tanto lodato spirito di carità, in teoria gli attributi primari e più preziosi di una pastorale cristiana, in quel contesto non servivano e non lo salvarono dall’emarginazione punitiva, anzi in parte ne furono la causa. Alla santità furono preferiti il fanatismo e l’intolleranza. E vinse l’intolleranza accecata dal fanatismo.
Il rapporto tra l’inquisito Angelo Ficarra e l’inquisitore Adeodato Giovanni Piazza, a questo punto, si erge in tutta la sua umana imponenza e senza la copertura istituzionale che artificialmente attutisce la muta sofferenza di un uomo giusto ingiustamente condannato e l’accanimento persecutorio di un altro uomo che mette al servizio dell’Istituzione la parte peggiore di se stesso, e siamo propensi a credere con le migliori intenzioni, che in tali frangenti si fanno discendere dai fini. I due uomini, che s’incontravano e si scontravano all’interno di quella vicenda, provenivano da percorsi diversi: una diversità che certamente pesò su quel rapporto e pesò a tutto discapito del soccombente. Angelo Ficarra era entrato in Seminario ubbidendo a una vocazione autentica e totale. Memorabili le parole che scrive nel suo diario: “In Seminario, o mio Dio, la mia mente è più unita a Voi, il mio cuore gusta maggiormente le caste gioie del Vostro amore, il mio corpo ubbidisce completamente all’anima.” Quest’ultima frase gli risuona dentro come un programma di vita che svolgerà con dedizione assoluta e con impeccabile rigore. Il corpo è il territorio del rapporto possessivo con il mondo, in esso convengono gli appetiti, le ambizioni e le vanità che distolgono dall’anima e Angelo ha optato per quest’ultima. Ma vivere nell’anima non vuoi dire chiudere le porte alla terra, ma cristianamente abitarla nel disinteresse per sé e nella dedizione per gli altri e soprattutto per i più bisognosi, giacché solo l’uomo liberato dalla miseria materiale può intravedere, capire e gustare i tesori di una religiosità vissuta. Aiutare gli altri a riscattarsi dalla povertà, dalla superstizione, dall’analfabetismo è il modo più concreto ed efficace di avvicinarli a Dio.
E il giovane prete, confortato da tali intuizioni, profonde le sue risorse intellettuali sulle colonne de Il Lavoratore, il periodico fondato da don Nicolo Licata, arciprete di Ribera, dove Angelo Ficarra viene assegnato non appena ordinato. Su quel foglio viene pubblicando, tra l’altro, le Meditazioni vagabonde, che costituiranno il nucleo originario di quell’eccezionale saggio sulla religiosità popolare che, col titolo Le devozioni materiali, uscirà postumo perché censurato dai suoi superiori. Istituisce una scuola serale per i contadini. Indirizza le sue simpatie verso il modernismo. E in virtù del suo indefesso impegno sociale riscuote un pubblico attestato di stima da parte del deputato repubblicano Napoleone Colajanni. La dedizione verso il prossimo, tuttavia, non gli impedisce di attendere agli studi umanistici, dedicandosi alla compilazione della sua mirabile monografia su san Girolamo. Se si volesse dare un nome allo spazio psicologico o alle direttrici entro cui si svolge la vita di Angelo Ficarra non ci sarebbe definizione migliore del bel titolo di un libro di Jean Leclercq, L’amour des lettres e le dèstre de Dieu. In tali contesti viene a contatto con uomini come Ernesto Buonaiuti, uno dei maggiori teorici del modernismo, punito per le sue convinzioni sia dalla Chiesa con la scomunica che dal fascismo con l’allontanamento dalla cattedra universitaria. Intrattiene rapporti di amicizia e di collaborazione culturale col suo concittadino Calogero Angelo Sacheli, filosofo, docente universitario, laico e socialista. Nominato arciprete a Canicattì, vi fonda l’Azione Cattolica, i cui locali una notte del luglio 1923 vengono incendiati dai fascisti. E’ il periodo in cui imperversa lo squadrismo che porterà alla soppressione della democrazia. I fascisti di Canicattì, nel gennaio 1925, fecero una sfilata in corso Umberto, inneggiando alla instaurazione formale della dittatura; in quell’occasione, scrive Luigi Ficarra in una e-mail inviatami nel giugno 2007, “il fratello di Angelo Ficarra, Vincenzo, aderente al Partito Socialista, che era seduto al Circolo degli Operai, coerentemente non si alzò e non si tolse il berretto. La sera tardi, tornando verso casa, venne, al buio, aggredito lungo la strada da una squadra di fascisti, che lo colpirono ferocemente a manganellate sulle spalle. Riuscì a trascinarsi a casa, ma ne uscì a febbraio con i piedi davanti, chiuso in una bara. Il 15 febbraio 1925 Angelo Ficarra, che sapeva dell’aggressione fascista al fratello, ma non aveva la prova, così scriveva su la <i, riferendosi all’incendio del Circolo: quale meta hanno raggiunto i nostri nemici…con l’insultarci, il danneggiarci ed incendiare il nostro circolo? Chi poteva mai sognarlo che Canicattì…doveva avere oggi un gruppo di giovani forti e votati a qualunque cimento… ?”
Tale retaggio culturale, sociale e familiare poneva lontano mons. Ficarra dall’ideologia del fascismo, e l’ormai famoso “incidente diplomatico” di Librizzi non può essere letto come un fatto episodico senza alcun nesso causale con la sua storia personale e con la sua concezione dell’impegno religioso nella società civile. Lo stesso dicasi della la sua adesione, nell’estate del 1950, all’Appello per la Pace di Stoccolma, promosso dal movimento dei “Partigiani per la Pace”. Pur essendo in pieno clima di anticomunismo viscerale, di caccia alle streghe e di scomunica papale infetta ai comunisti, egli non esitò ad apporre la sua autorevole firma su quel documento, accanto a quella di tanti rappresentanti del movimento operaio internazionale. Non si può fare a meno di rilevare come la politica vaticana negli anni fosse cambiata, irrigidendosi, chiudendosi al dialogo con le forze laiche progressiste e facendosi, così, sempre più lontana ed estranea ai modelli a cui si era ispirata la formazione e l’opera del Ficarra. Il tragitto involutivo del Vaticano, ovviamente, non poteva che risolverei in una strisciante delegittimazione della sua figura.
Nel momento in cui il suo caso arriva alla Congregazione Concistoriale in persona del suo prefetto cardinale Adeodato Giovanni Piazza, mons. Ficarra (e qui ci sia consentita a titolo esplicativo la metafora giudiziaria) si trova nella situazione del soggetto, ritenuto socialmente pericoloso, che gli organi di polizia propongono per la misura di prevenzione: non si è reso colpevole di nessun preciso fatto di reato, ma i suoi trascorsi e le sue frequentazioni lo rendono passibile della misura dell’obbligo o del divieto di soggiorno. E in quel particolare momento di integralismo asfittico il curriculum del presule canicattinese non deponeva a suo favore per sfuggire al “divieto di soggiorno nel Comune di Patti”.
Tanto meno l’incaricato rappresentante della Congregazione Concistoriale era la persona idonea a valutare, a giudicare con il distacco e l’obbiettività necessari le calunnie imbastite nei suoi confronti. Mons. Piazza, a cui nessuno finora, a quanto ci risulta, nel trattare la vicenda che ci occupa ha cercato di dare una circostanziata identità biografica, era un uomo non solo con un carattere a cui il Sidoti attribuisce durezza e limitatezza, ma con un passato che lo poneva agli antipodi dei percorsi compiuti dal Ficarra. Scrivendo del suo patriarcato veneziano nel periodo bellico, Umberto Dinelli, uno degli storici più accreditati della Resistenza in Veneto, afferma: ” Ma la condotta più sorda e reazionaria fu quella di Adeodato Piazza a Venezia. Nel ’44 per I discorsi del giorno, una raccolta edita dal Ministero della cultura fascista e che già aveva ospitato scritti di Hitler e di Mussolini, esce un discorso del più impopolare tra i cardinali che ebbe Venezia, Piazza, pronunciato nella basilica di san Marco il 16 agosto ’44. Vi si legge: “Dinnanzi al primo micidiale attacco portato dal nemico nel cuore di Venezia dopo stragi e rovine compiute alla periferia, non possiamo oggi non elevare alta ed energica la nostra deplorazione per siffatti metodi…” E più avanti: “Noi ci sforziamo di comprendere le inevitabili leggi della guerra moderna…” La posizione del Piazza rispecchiava certi postulati teologici in materia di rapporti con l’autorità costituita garante di un ordine e di una stabilità sociale, dalla Chiesa ritenuti indispensabili. Pertanto anche un regime di occupazione, in quanto governo, doveva essere rispettato. Nel cardinale di Venezia legalitarismo e conservatorismo cattolico raggiungevano manifestazioni estreme assumendo un preciso significato: quello di favorire e fiancheggiare la politica nazifascista. Assumendo come rappresentanti dell’autorità i fascisti e i tedeschi, i nemici diventavano gli stati in lotta contro Hitler e i suoi caudatari”. Giustamente è stato rilevato che “nel momento in cui i provvedimenti razziali incrinavano indubbiamente le relazioni tra la Chiesa e il fascismo”, il cardinale Piazza “non solo accetta quei provvedimenti ma esalta l’amicizia con la Germania nazista”.
Questo squarcio della biografia politica del Piazza, ancorché limitato nel tempo, è tuttavia sufficiente a rimarcare l’enorme distanza di agire e di sentire che divideva i due protagonisti, lasciando nel contempo intuire quanta equilibrata disponibilità potesse egli accordare all’esame delle ragioni di mons. Ficarra. Né, alla luce di tanto, può stupire che fosse arrivato al punto di rifiutarsi di riceverlo personalmente, allorché il vescovo di Patti ebbe a chiedere udienza espressamente.
Inutile dire che in quel preciso periodo storico, più che le idee e le virtù del vescovo di Patti, riuscivano più utili e funzionali al potere del Vaticano i connotati politici e culturali di un cardinale Piazza. Ma sono anche quegli stessi connotati che oggi lo rendono estraneo a noi, estraneo e lontano simulacro del tempo, chiuso nella sua opaca e sterile solitudine.
Il libro di Gaetano Augello, tra i tanti meriti, ha quello di porre l’accento sulla “giustizia negata” al vescovo di Patti che viene promosso arcivescovo di Leontopoli di Augustamnica, un’ironia, questa, che ne riecheggia un’altra: quella di Togliatti che soleva dire di Elio Vittorini “Vittorini si nne gghiuto e suli ci ha lassatu”, facendoci percepire l’ordinaria somiglianzà tra due “casi” che contemporaneamente si verificavano nella famiglia cattolica e in quella comunista.
Il candore scomodo di mons. Ficarra fece di lui un limpido testimone della spietatezza del potere e, in virtù di tale destino, un contemporaneo dei suoi posteri, come tutti coloro che essendo giusti hanno subito l’ingiustizia e che in quanto tali non appartengono a nessuna chiesa ma all’umanità tutta, finché sopravviverà il senso della dignità e della pietà.
Diego Guadagnino
Gaetano Augello si è laureato in Lettere Classiche nell’Università degli Studi di palermo discutendo, col Professore Piero Landolini, una tesi sulle “Condizioni demografiche ed economiche del Comune di Canicattì” Ha insegnato latino e greco nel Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento, italiano e latino nel Liceo Classico “Ugo Foscolo” di Canicattì, italiano e storia nell’Istituto magistrale “Saetta e Livatino” di Ravanusa e nell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “Galileo Galilei” di Canicattì. Dall’anno scolastico 1983-1984 ha diretto successivamente la Scuola Media “Pietro Asaro” di Racalmuto, la Scuola Media “Senatore Salvatore Gangitano” di Canicattì e l’Istituto di Istruzione Superiore “Gino Zappa” di Campobello di Licata. Dal 2002-2003 è dirigente scolastico dell’ITCG “Galileo Galilei” di Canicattì. Ha curato l’introduzione “Cenni storici sulla Scuola Gangitano di Canicattì” e “Cronologia dei Capi di Istituto” per la “Carta dei servizi scolastici e Piano dell’offerta formativa” della Scuola Media “Gangitano” anno scolastico 1999-2000.
Ha pubblicato: L’Accademia del Parnaso e la poesia di Peppi Paci, Campobello di Licata, Tipolitografia Casuccio, 2001; La Canicattì di Mons. Vincenzo Restivo, Canicattì, Grafiche Avanzato, 2005; Agostino La Lomia, un Gattopardo nella terra del Parnaso, Canicattì, Edizioni Cerrito, 2006; I primi cinquant’anni del Galilei di Canicattì, Canicattì, Edizioni I.T.C.G. “Galilei”, 2006; Franco Balistreri: momenti ed immagini di un percorso interiore, in F. Balistreri, Appunti, Canicattì, Edizioni Cerrito, 2007.
Il volume è in vendita presso: Libreria Pirandello – Viale Regina Margherita – Canicattì Edicola Caramazza – Villa Comunale – Canicattì Libreria Mosca – Via Nicolò Gatto Ceraolo,110 – Patti Libreria Deleo – Via XXV Aprile, 210 – Agrigento Libreria Danile – Via Gioeni -Agrigento Edicola Veneziano – Piazza V. Emanuele – Agrigento Libreria Kalos – Via XX Settembre, 56/B – Palermo Libreria Modusvivendi – Via Quintino Sella, 79 – Palermo
Foto della presentazione del libro – 21 febbraio 2008 – Palazzo Stella
Sorgente: “Angelo Ficarra – La giustizia negata” – di Gaetano Augello
“Angelo Ficarra – La giustizia negata” – di Gaetano Augello Presentazione di Mons. Vincenzo Restivo Mio chiarissimo Preside, grazie per l'invito e per lo spazio, e consentimi di ridurre al minimo le nostre formali distanze professionali e darci le dimensioni del cuore, della stima e della gratitudine.
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San Pio V, il difensore della Cristianità
San Pio V, il difensore della Cristianità
Si rimane colpiti al leggere l’elenco delle cose fatte nei sei anni di pontificato di san Pio V (1504-1572), uno dei maggiori personaggi della Riforma cattolica, che difese la retta fede dalle eresie e legò il suo nome alla battaglia di Lepanto.
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SABATO 30 APRILE 2022 - ♦️ SAN PIO V° Papa ♦️ Papa Pio V, al secolo Antonio (in religione Michele) Ghislieri (Bosco Marengo, 17 gennaio 1504 – Roma, 1º maggio 1572), è stato il 225º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica, sovrano dello Stato Pontificio, oltre agli altri titoli propri del romano pontefice, dal 7 gennaio 1566 alla sua morte. Teologo e inquisitore domenicano, operò per la riforma della Chiesa secondo i dettami del Concilio di Trento. Con san Carlo Borromeo e sant'Ignazio di Loyola è considerato tra i principali artefici e promotori della Controriforma. Durante il suo pontificato furono pubblicati il nuovo Messale romano, il Breviario e il Catechismo, furono intraprese le revisioni della Vulgata e del Corpus Iuris Canonici. Intransigente tanto nel governo dello Stato Pontificio quanto nella politica estera, fondò la sua azione sulla difesa del Cattolicesimo dall'eresia e sull'ampliamento dei diritti giurisdizionali della Chiesa; nel tentativo di favorire l'ascesa al trono inglese della cattolica Maria Stuart, scomunicò Elisabetta I d'Inghilterra. La sua figura è legata alla costituzione della Lega Santa e alla vittoriosa Battaglia di Lepanto (1571). Fu beatificato nel 1672 da papa Clemente X e canonizzato il 22 maggio 1712 da papa Clemente XI. Da Il Santo del Giorno. Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia #Tradizioni_Barcellona_Pozzo_di_Gotto_Sicilia #Sicilia_Terra_di_Tradizioni Rubrica #Santo_del_Giorno (presso Roma, Italia) https://www.instagram.com/p/Cc_MpUXsN4H/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Sabato 1 Luglio 2017 : Commento Catechismo della Chiesa cattolica
La parola “cattolica” significa “universale” nel senso di “secondo la totalità” o “secondo l'integralità”. La Chiesa è cattolica in un duplice senso. È cattolica perché in essa è presente Cristo. “Là dove è Cristo Gesù, ivi è la Chiesa cattolica” [Sant'Ignazio di Antiochia, Epistula ad Smyrnaeos, 8, 2]. In essa sussiste la pienezza del Corpo di Cristo unito al suo Capo, [Cf Ef 1,22-23 ] .... La Chiesa, in questo senso fondamentale, era cattolica il giorno di Pentecoste [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Ad gentes, 4] e lo sarà sempre fino al giorno della Parusia. Essa è cattolica perché è inviata in missione da Cristo alla totalità del genere umano: [Cf Mt 28,19] Tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo Popolo di Dio. Perciò questo Popolo, restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l'intenzione della volontà di Dio, il quale in principio ha creato la natura umana una, e vuole radunare insieme infine i suoi figli, che si erano dispersi. [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 13]. ... Ogni Chiesa particolare è “cattolica”... Queste Chiese particolari sono “formate a immagine della Chiesa universale”; in esse e a partire da esse “esiste la sola e unica Chiesa cattolica” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 23]. Le Chiese particolari sono pienamente cattoliche per la comunione con una di loro: la Chiesa di Roma, “che presiede alla carità” [Sant'Ignazio di Antiochia, Epistula ad Romanos, 1, 1]. “È sempre stato necessario che ogni Chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, si volgesse alla Chiesa romana in forza del suo sacro primato” [Sant'Ireneo di Lione]. ... La ricca varietà di discipline ecclesiastiche, di riti liturgici, di patrimoni teologici e spirituali propri alle “Chiese locali tra loro concordi, dimostra con maggior evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 23].
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San Roberto Bellarmino
Dottore della Chiesa, fu uno degli uomini più eruditi del suo tempo, strenuo difensore dell’ortodossia cattolica dopo le divisioni causate dalla Riforma protestante. Malgrado le leggende nere su di lui, era mosso dalla carità tanto nell’aiuto ai poveri - ai quali donò tutto - quanto nelle dispute dottrinali. Tra i suoi alunni ebbe il giovane san Luigi Gonzaga.
Autore di opere ascetiche, pastorali e teologiche che gli sono valse il titolo di Dottore della Chiesa, san Roberto Bellarmino (1542-1621) fu uno degli uomini più eruditi del suo tempo, strenuo difensore dell’ortodossia cattolica dopo le divisioni causate dalla Riforma protestante. Mosso dalla carità tanto nell’aiuto ai poveri - ai quali donò tutto - quanto nelle dispute dottrinali, gli fu affidata la cattedra di controversie (cioè di apologetica) al Collegio Romano. Qui ebbe tra i suoi alunni il giovane Luigi Gonzaga (1568-1591), che assistette sul letto di morte e dal quale trasse ispirazione per scrivere L’arte del ben morire.
Le sue lezioni confluirono in un’opera, Le controversie, la cui risonanza in Europa fu tale che i protestanti istituirono cattedre apposite nel tentativo di rispondere alle solide argomentazioni del gesuita. Fu coinvolto nell’istruzione del processo a Giordano Bruno, che cercò di salvare convincendolo ad abiurare le tesi eretiche. Ebbe un ruolo anche nel primo chiarimento di Galileo Galilei col Sant’Uffizio, dove lo scienziato si recò spontaneamente alla fine del 1615 e qualche mese dopo dovette ammettere che l’eliocentrismo di Copernico (il cui trattato è dedicato a papa Paolo III, che lo incoraggiò a pubblicarlo) aveva ancora lo status di un’ipotesi non dimostrata secondo il metodo scientifico.
Scrisse la Dottrina cristiana breve (strutturata in 94 domande e risposte) e la Dichiarazione più copiosa della dottrina cristiana. Queste due opere, meglio note come «Piccolo e Grande Catechismo», ebbero una grandissima diffusione e furono in uso fino al XIX secolo, formando intere generazioni di fedeli. Bellarmino le aveva scritte per ordine di Clemente VIII, che lo aveva richiamato a Roma come suo teologo di fiducia. Profondamente umile, lo stesso Papa disse di lui: «La Chiesa di Dio non ha un soggetto di pari valore nell’ambito della scienza».
Per saperne di più:
Catechesi di Benedetto XVI su san Roberto Bellarmino (udienza generale del 23 febbraio 2011)
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L'algoritmo di Gesù
Il Cattolicesimo è un sistema matematico, come suggerisce la natura?
di Andrea Cionci (28-08-2020)
In molti pensano che il Cattolicesimo romano sia la religione dei buoni sentimenti, di un amore zuccheroso, spontaneo e accondiscendente. Sbagliato. E’ la religione del Logos, della Logica. Ora, che questa logica sia di matrice divina o sia una costruzione puramente umana è, naturalmente, questione di fede, ovvero della libera adesione che nasce da un’apertura emotiva.
Tuttavia, indagata con sguardo laico, la dottrina cattolica appare talmente ben congegnata al proprio interno, con un criterio così “scientifico” da lasciare stupefatti. Almeno fino al Concilio Vaticano II, i pronunciamenti della Chiesa sulle più varie questioni della contemporaneità rivelano una mirabile coerenza logica con gli assunti iniziali, biblici ed evangelici. Ancor oggi, il Catechismo, nell’edizione del 1992 (curata non a caso da una mente adamantina come quella di Joseph Ratzinger) offre un impianto straordinariamente consequenziale e coerente dove i concetti primigeni vengono ampliati e sviluppati senza incappare in contraddizioni. Una specie di “matematica”.
Ora, dato che l’uomo ha potuto ampiamente descrivere e indagare (misurando) l’universo fisico attraverso la matematica, sorge un interrogativo: se Cristo fosse stato veramente il figlio del Dio creatore dell’universo, perché lasciare un messaggio agli uomini del tutto estraneo a una logica matematica ripercorribile dall’intelligenza umana?
Da qui la proposta: e se il Cattolicesimo, quindi, non fosse altro che un “algoritmo a dimensione frattale”?
In due parole
Niente paura, esemplifichiamo veramente al massimo: per algoritmo si intende un procedimento che risolve una classe di problemi attraverso poche istruzioni elementari, chiare e inequivocabili.
Per frattale, invece, si intende un oggetto che si ripete nella sua forma, allo stesso modo, su scale diverse senza rendersi dissimile dall'originale, in base a un algoritmo. Un esempio matematico semplicissimo? La serie frattale: 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34…. Ogni numero intero è dato dalla somma dei due precedenti e questa regola (detta Serie di Fibonacci) è l’algoritmo.
La natura offre diversi esempi di tale struttura matematica. Quello più a portata di mano è … il broccolo: osservate le sue cimette, sono tutti piccoli broccoli che si riproducono sempre nello stesso modo, in misura sempre minore. Anche l’abete riproduce su ogni ramo, rametto e ramoscello sempre lo stesso schema, in dimensione frattale, tanto che ne basta solo una fronda per simulare un intero albero di Natale. E ancora, l’Aloe spiralata, la conchiglia del Nautilus, vari cristalli etc.
Parola e Tradizione: algoritmo e frattali
Mutatis mutandis, nella religione cattolica potremmo individuare come algoritmo i 10 comandamenti dell’Antico Testamento e gli insegnamenti di Gesù Cristo: la Parola. Istruzioni, semplici, inequivocabili, impostate su due assi cartesiani: uno verticale – riconoscimento di Dio e adesione alla Sua volontà – l’altro orizzontale, con norme per la convivenza civile e per risolvere i problemi dell’esistenza umana. Da queste regole si ramificano tutta una serie di corollari logici negli insegnamenti prodotti dalla Chiesa attraverso la sua bimillenaria Tradizione: quelli che definiremmo le dimensioni frattali. La Parola sarebbe dunque l’algoritmo, e la Tradizione la dimensione frattale.
Qualsiasi teologo (della vecchia scuola) può infatti confermare che ogni dogma, principio, aggiornamento fino alle più recenti posizioni su temi di attualità discendono direttamente dai comandamenti e dalla Parola di Cristo, comprendendoli, sviluppandoli e adattandoli a ogni singolo nuovo caso e contingenza, senza tradirli, conservando la loro forma iniziale.
Un esempio? Dal “NON UCCIDERE” mosaico di 4000 anni fa, passando per gli insegnamenti di Gesù, oggi sortisce la contrarietà dei cattolici all’aborto: la vita nasce col concepimento, è un dono di Dio e quindi non si può in NESSUN caso togliere la vita al nascituro innocente. Attenzione, ognuno è libero di pensarla come vuole, ma bisogna ammettere che il sistema è INTERNAMENTE coerente, con una stessa regola applicata nel microscopico e nel macroscopico (e quindi frattale).
L’algoritmo degli storni e il prossimo
Non è qui la sede per potersi dilungare in altri esempi, ci limiteremo a lanciare un input che potrebbe sollecitare un dibattito sull’eventuale “matematica nascosta” del Cattolicesimo. Gesù Cristo comandò: ama il Signore Dio tuo e ama il PROSSIMO tuo come te stesso. Non disse “ama l’ALTRO come te stesso”. La parola “prossimo” non è casuale e in tutte le lingue è tradotta come “il vicino”. Un aggettivo sostantivato, dunque, che indica una qualità, una gerarchia, un ordine: evidentemente c’è chi è più prossimo e chi è meno prossimo. Perché questa distinzione?
La natura, ancora una volta, ci propone un affascinante parallelismo. Avete presente gli storni, quegli uccellini che, nel cielo d’autunno, sciamano nel cielo creando forme plastiche, sempre diverse, ma compatte? Come fanno gli storni a non scontrarsi durante il volo e a mantenersi uniti? Hanno spiegato gli scienziati che essi seguono un algoritmo matematico: ogni uccellino regola il proprio volo basandosi sulla posizione di quei 5-6 che gli stanno accanto, i suoi “più prossimi”, appunto. E così, tornando alla “formula” di Cristo: se ognuno volesse il bene delle persone che gli sono più vicine, (alla luce delle regole di Dio) non vi sarebbero scontri fra gli uomini, né conflitti e tutti vivrebbero tranquilli e in pace.
Potrebbe essere una ricetta sociale niente male: la propria realizzazione in armonia con quella dei vicini, come per gli uccelli in volo nello stormo. Non la realizzazione personale a scapito degli altri, come nel liberismo ultracapitalista, né la mortificazione dell’individuo presuntamente a vantaggio degli altri, come nel comunismo. Un giusto mezzo.
Tale algoritmo potrebbe essere ovviamente esteso al rapporto tra famiglie e poi tra nazioni: tanti stormi, via via sempre più grandi, che volano insieme pacificamente cooperando al bene comune, senza guerre, come del resto raccomanda la dottrina sociale della Chiesa.
L’obiezione prevedibile
I catto-progressisti contesteranno citando la parabola del Buon Samaritano, che raccolse per strada un giudeo ferito, pur appartenendo, questi, a una nazione ostile. Una clamorosa contraddizione del “principio di prossimità del prossimo”? Bisogna leggere bene la parabola: il samaritano paga di tasca propria l’ALBERGO al giudeo per il tempo necessario a ristabilirsi, gli cura le ferite e poi lo rispedisce per conto suo. Si guarda bene dall’accoglierlo in famiglia (in effetti non lo conosce) e, alla fine lo manda per la sua strada, in modo che possa tornare nel suo gruppo “meno prossimo”. Quindi la parabola del buon samaritano appare piuttosto come una dimensione frattale, una chiosa, un perfezionamento che completa e arricchisce il “comandamento algoritmico” di amare il prossimo secondo un certo ordine (ordo amoris) e senza tradire la sua essenza.
Le eresie: frattali illogicamente difformi dall’algoritmo
Proviamo a verificare con un procedimento inverso. La logica costruzione della sua dottrina ha fatto sì che il Cattolicesimo romano, per quasi 2000 anni, abbia potuto egregiamente difendersi dalle eresie in quanto “frattali difformi dall’algoritmo”. Un esempio? L’eresia dell’Apocatastasi - già condannata nel sinodo di Costantinopoli nel 543 e tornata oggi di moda sotto il nome di “misericordismo”. Questa vorrebbe la misericordia di Dio talmente grande da salvare tutti, buoni e cattivi.
L’Apocatastasi, però, contraddice uno degli algoritmi di base sulla libertà dell’uomo e le chiarissime parole di Cristo sull’inferno.
La sana dottrina cattolica, infatti, ribadisce che la misericordia di Dio è sì infinita, ma è necessario attingervi tramite il pentimento. Così come l’”infinita luce del sole” non può abbronzare chi decide di rimanere all’ombra. Se Dio mandasse forzatamente tutte le anime in paradiso sarebbe un atto lesivo della libertà che l’uomo ha di rifiutarLo e di restare nell’oscurità. Il frattale dell’apocatastasi-misericordismo non è quindi coerente con l’algoritmo: bocciato.
Un lumino nel buio
E allora, se è tutto così chiaro, dove si colloca il Mistero? Il Cattolicesimo ritiene che Dio abbia fornito all’uomo la possibilità di indagare appena un po’ nel buio che lo circonda, con una piccola luce. Quel poco che riesce a illuminare è però reale, è acquisibile. Quindi si potrebbe dire che il mistero è quella zona di oscurità ancora non illuminata dal sistema di dimensioni frattali che la conoscenza umana sviluppa a partire dall’algoritmo divino.
Un esempio? In questo articolo abbiamo proposto un’ipotesi che lega l’uomo della Sindone ai dogmi di fede e ai più reconditi segreti della fisica quantistica. Se gli scienziati del futuro scopriranno che esiste realmente uno spirito che agisce sulla materia aggregandola o disgregandola a piacimento, sarà una nuova “propaggine frattale” di conoscenza in più nel rapporto tra scienza e fede.
Il Cattolicesimo sopravvivrà?
Sopravvivere è adattarsi, e questa è un’azione profondamente logica: al mutare delle condizioni esterne si operano alcuni cambiamenti senza stravolgere la propria identità. Il Cattolicesimo romano ha saputo resistere di fronte alle conquiste della scienza e della filosofia, dimostrando di possedere risorse per fornire risposte logicamente coerenti con i propri principi. Fra qualche migliaio di anni “vedremo” che fine avrà fatto, se si sarà estinto o se si sarà darwnianamente diffuso in tutto il mondo come il miglior sistema, quello vincente. Nel secondo caso, si potrebbe ragionevolmente convenire sulla sua origine non-umana: difficilmente la nostra intelligenza, da sola, potrebbe partorire un sistema così perfetto senza un “aiutino” ultraterreno.
E’ logicamente impossibile che una nuova religione mondiale, sincretista, possa affermarsi: mescolare gli algoritmi delle varie religioni vorrebbe dire costruire un “prodotto di laboratorio”, simile ad esempio (secondo alcune ricostruzioni) al Coronavirus e quindi destinato ad estinguersi. Un esempio? Quando i futuri sincretisti dovranno interrogarsi sui destini ultimi dell’anima umana, cosa sceglieranno? Le vergini e i fiumi di latte e miele dell’Islam, il mondo a venire ebraico, la reincarnazione induista, o il Purgatorio cattolico? Il sistema logico andrà in blocco e imploderà.
La conditio sine qua non
Una cosa appare evidente: la sopravvivenza del Cattolicesimo è strettamente legata alla Tradizione, cioè a tutto il sistema di dimensioni frattali che ha organizzato il rapporto fra gli algoritmi (la Parola) e la realtà, fino ai tempi recenti. Quindi, si potrebbe logicamente affermare che il Cattolicesimo di oggi o è in perfetta armonia con la Tradizione, o NON SARA’ PIU’. Cambiare gli algoritmi, o creare frattali disarmonici (quindi introdurre concetti eretici) innesca un effetto a catena totalmente distruttivo per l’intero impianto logico. Ecco perché, ad esempio, i conservatori cattolici si ribellano anche di fronte a innovazioni apparentemente minime e trascurabili nella dottrina, poiché costoro già prevedono l’opera disgregatrice, la metastasi che si verificherà nell’impianto generale. Basta sregolare una singola rotellina del grande orologio del Cattolicesimo romano, e tutto, col tempo, andrà a farsi benedire.
Ci sarebbe ancora molto da dire, ma preferiamo fermarci qui citando una frase del famoso matematico Benoît Mandelbrot: “La mia convinzione è che i frattali saranno presto impiegati nella comprensione dei processi neurali, la mente umana sarà la loro nuova frontiera”.
Una mente a immagine di Dio?
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