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Sono un bottone blu.
Nessuno di voi umani ricorda il momento della propria nascita, l’istante in cui una donna “vi dà alla luce”, come siete soliti dire. Eppure per noi “cose” è tutto diverso. Io, ad esempio, sono un bottone blu.
Ricordo di essere stato una miscela di plastica sciolta, bollente, prima di essere pressato sotto quella che sarebbe diventata un giorno la mia forma di oggi.
Ricordo di aver passato i miei primissimi mesi, quando ancora ero scombussolato dal fragore di questo nuovo mondo, in una scatola di latta. Sul rivestimento erano disegnati dolcetti e scritte corsive, che come dice la parola correvano tutt’attorno la superficie arrotondata, perciò pensavo sempre che nessuno si sarebbe ricordato che proprio lì dentro stavo io, assieme agli altri bottoni, aggrovigliati senza alcuna logica in una meravigliosa trama del disordine. E l’idea di restare in incognita per tutta la vita, detto tra noi, non mi dispiaceva.
Ricordo di aver passato anni interi a fissare quella fascia di luce che con il passare delle ore si spostava e penetrava da quel bordo di metallo che era diventato la mia casa. Provavo ad immaginare la terra fuori, dipinta di quei guizzi di luce che facevano innamorare persino i miei occhi, rinchiusi in un mondo millimetrico.
Ma il momento che ricordo meglio, sarà per sempre quella mattina di primavera, quando, tra i profumi dei boccioli e i tremori della rugiada al vento, tra le voci di un vinile graffiato e quelle delle rondini, una mano fece sobbalzare il nostro piccolo rifugio. Ciò che ci teneva al buio diede spazio a miliardi di colori, di bagliori… credevo che il cuore non potesse reggere questo tumulto vorticoso di sensi.
La pelle delle sue dita era molto chiara, e l’intensità dello smalto con cui erano state laccate le sue unghie curate accentuava la loro purezza cromata. Ricordo che scorse i polpastrelli caldi su ognuno di noi, come ci accarezzasse. Ora, che sono io a raccontare con le lacrime agli occhi, risulterà ovvio che scelse me, ma io mai me lo sarei aspettato. Non sono mai stato in attesa nella mia vita, prima di quel momento, ho soltanto riposato e spinto la mente su altalene di immagini inventate.
Lei, però, scelse me. Mi prese fra le sue mani, e per la prima volta vidi i suoi occhi, quegli occhi che con il tempo sarebbero diventati anche i miei, di giorno in giorno, di viaggio in viaggio, di sguardo in sguardo. Mi posò sul bracciolo di una poltrona color porpora, prese un filo di cotone bianco e con delicatezza chiese all’ago di farle spazio per lasciar passare la fibra sottile attraverso il mio corpo, per unirci in un legame di solo contatto. Nel tempo di un brivido facevo già parte di qualcosa di più grande.
La donna dalla quale ero stato scelto, aveva deciso che la mia nuova dimora sarebbe stato il suo petto, legato ad una blusa candida. Da quel momento sarei per sempre restato, protetto dall’abbraccio di un’asola spaziosa.
Incominciai a conoscere di chi era il corpo che mi aveva accolto; ogni mattina, le sue mani ancora calde di sogni e di caffè, mi avvolgevano per ripormi nuovamente al mio posto. Il momento che preferisco, prima che si esca di casa per andare a lavoro, è l’ultimo sguardo sfuggevole che si dà allo specchio, per mettere a posto qualche capello fuori posto o per accarezzare le lunghe ciglia nere come a pettinarle. D’altronde, durante la giornata, lo specchio è l’unico mezzo che ho per guardare i suoi occhi, il suo viso, solitamente vedo soltanto quello che è lei a vedere. Stiamo dalla stessa parte.
Con il tempo ho imparato a capire anche i movimenti della sua anima. Le ansie, le paure, gli amori, le felicità, le riflessioni… ognuno di essi possiede un ritmo proprio, e il suo petto si muove, sotto il mio corpo, secondo la frequenza dei propri battiti.
In questi anni ho sempre adorato l’inverno insieme a lei. Passavamo le giornate avvolti in cappotti roventi del suo profumato calore, seppure non potessi mostrare quasi a nessuno il mio bel colore acceso.
Niente, però, mi ha mai fatto tremare quanto i suoi innamoramenti fugaci. Ricordo la prima volta che successe, nel bel mezzo di un parco, quello proprio nel centro della città. Era autunno, e ogni foglia aveva già iniziato da un po’ la sua metamorfosi cromatica, in un vortice di baleni tenui. La mia donna aveva deciso di voler alzare un po’ di più lo sguardo, e così si era incamminata tra le vie di ciottoli bagnati, osservando la biancheria stesa alle finestre del centro, dalle magliette di bambini a bande rosse e bianche, alle vestaglie in pizzo nero di spose annoiate. Comprò un caffè, velocemente, con un debole sorriso soltanto accennato, dissolto tra quei pensieri che la sopraffacevano. Arrivata al parco scelse una panchina, quella priva del terzo asse in legno, sfilò il cappotto e ne estrasse un libricino dalla copertina bianca, con soltanto alcune parole scritte sopra. Mentre lei leggeva, io seguivo i fluttui che le lettere, una accanto all’altra, creavano. Era poesia, posso assicurarlo, non tanto perchè io sapessi estrarne un qualche significato, quanto perchè le frasi, sovrapposte, costruivano una scala; erano le sue preferite.
Non ho mai amato la musica perchè, solitamente, ogni volta che Lei ascoltava una melodia, il ritmo del suo petto, che io sentivo così forte, scombussolava l’andamento dei battiti provenienti dal giradischi. Eppure, quel giorno, ogni vibrazione che arrivava a me, sembrava essere in sintonia. In lontananza, l’eco delle corde di una chitarra dal corpo umido, rifletteva su ogni tronco d’albero, su ogni velo d’acqua, per poi giungere a noi, quasi amplificato.
E’ stato proprio in quell’atmosfera mistica, intrisa di stimoli sensoriali, che quella prima figura d’amore avanzò verso la mia donna. Con il suo energico incedere, si scoprì alla luce un giovane uomo flessibile, dalle lunghe dita affusolate che sembravano appoggiarsi all’aria ad ogni passo. La sua barba mora e quasi folta si scostò dalle sue labbra per fare spazio ad alcune parole, con le quali avrebbe poi convinto Lei a regalargli un po’ di quella preziosa poesia bianca.
Da quel giorno lo vedemmo spesso, Lei parlava alle sue orecchie e io mi dondolavo su quella serenità. Ricordo la tenerezza delle prime volte. Ricordo le sere passate davanti al camino, tra calici di vino rosso e incenso, il calore che mi bruciava il corpo ogni volta che si avvicinava al fuoco per aggiungere della legna. I suoi occhi ed io avevamo lo stesso riflesso lucido al fronte delle fiamme, io a causa della mia vernice lucida, e loro a causa delle emozioni che si nascondevano appena sotto le palpebre. Ricordo anche quando rimaneva nuda di fronte a lui, coperta soltanto da me e dalla blusa bianca, quasi trasparente. Quando lui la stringeva a sè, sentivo attorno a me una confusione inverosimile, incomprensibile. Si mescolavano, ed io, appoggiato tra i suoi capezzoli turgidi che sporgevano dal tessuto, riposavo palpitante, felice delle sue sensazioni forti.
Così finisco di raccontare quel poco di vita che la mia Donna è stata capace di regalarmi fin’ora. Nonostante io sia soltanto un oggetto silenzioso, immobile. E’ giusto, credo, che vi ricordiate della mia quieta presenza, che vi ricordiate di darmi uno sguardo, ogni tanto, quando attraverso i viali appoggiato alla mia blusa, sul corpo della mia Donna. E soprattutto che ripensiate a questa mia breve esistenza, raccontata in poche righe, che ho visto da questo petto caldo.
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