#appartamento al mare
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Appartamento in quadrifamiliare con ingresso indipendente, corte e garage a CLASSE (RA), 105 mq €220.000
Rif. R241 – CLASSE (RA) La Step Immobiliare Ravenna propone in vendita un recente appartamento pronto per essere abitato in quadrifamiliare con ingresso indipendente su corte e garage. Situata al piano primo raggiungibile con una scala interna, si compone di una sala, disimpegno, grande cucina abitabile, due bagni e due camere da letto di cui una matrimoniale e l’altra doppia. Il secondo bagno…
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Allora my period was about to come so I was overwhelmed already but stamattina alle 5:15 mi sono immaginata un eventuale spinoff su Filippo che piacerebbe solo a me e ho pianto sola nel letto
#sono particolarmente sensibile al nulla in questi giorni ignoratemi pure#ma lui esce dal beccaria con nad che lo aspetta a casa con una bimba in pancia!!!!! la chiamano Paola#lei studia per diplomarsi lui riesce a farlo prima e si trova un lavoro#quando nasce la bimba sono così feliciotti e lui vorrebbe affittare un appartamento per andarsene dalla casa dei suoi ma vuole farlo solo#con i suoi mezzi#lavora tipo come operaio e fa una fatica allucinante a trovare quel lavoro esce prestissimo e torna tardissimo ma è il papà e il compagno#migliore del mondo tutto 'faccio ioooo' 'riposatiiiii' 'la cambio iooooo' pure se è stanco morto#e manda le foto a carmine e carmine se le appende in cella ma prima le fa vedere a tutto l'ipm (edoardo piange un po')#Filippo è anche super insicuro!!!!!!!!!!!! si guarda le mani e le vede piene di sangue e ha paura di sporcare paola ma nad lo tranquillizza#sempre se lo coccola un sacco#e poi alla fine lei si diploma al conservatorio e fa dei corsi di musica ai bimbi e riescono a mettere via un po' di soldi#e finalmente hanno una casetta tutta loro e si sposano e sono abbastanza stabili che filippo riesce ad iscriversi in università#e diventa educatore#finisce bene questa storia niente angst tuttə vivə#vanno a pescara a sorpresa si piazzano sotto la sede della polizia e aspettano che esca paola#(lei scoppia in lacrime)#scusate basta la smetto perché sto per piangere di nuovo#mare fuotag
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Ma che bella idea.. (del cazzo)!
Quindi ricapitolando per andare in nave in Giappone da Busan.
DUE ORE DI TRENO VELOCE PER RAGGIUNGERE BUSAN DA SEOUL.
RICHIESTA DI ESSERE AL TERMINAL DIVERSE ORE PRIMA DELL'IMBARCO CHE AVVERRÀ ALLE 7:40PM.
PER POI SALPARE ALLE 22:30PM.
ARRIVANDO A FUKUOKA ATTORNO ALLE 5:30AM MA SENZA POTER SBARCARE CHE L'UFFICIO IMMIGRAZIONE E DOGANE APRE ALLE 7:30AM
Si dirà, almeno l'esperienza della traversata nello Stretto di Corea, su una nave giapponese con standard giapponesi..
Proprio con in mente la qualità giapponese il sottoscritto aveva preso una cabina notte in prima classe (ma è uno sballo! Cit.) da 4 persone in stile giapponese con futon annessi e connessi.
La realtà: la nave è vecchia. Gli interni sono vecchi. I bagni - in comune - sono vecchi. Solo il lenzuolino e la federa del cuscino sono lavati il resto è sporco e macchiato. Il cibo del ristorante di bordo ha pessime recensioni quindi tutti comprano dal mini kombini di bordo o dai distributori automatici. Ci sono una cinquantina di carrelli e messaggi attaccati un po' a cazzo ovunque con il nastro adesivo.
Praticamente un gemellaggio con i servizi di navigazione per le grandi isole in Italia.
La cosa più assurda però resta che dopo aver dormito essenzialmente su un pavimento ci siamo svegliati bene. Sarà stato il medicinale contro il mal di mare? La posizione? O è semplicemente il Giappone ad avere proprietà curative basta arrivarci?
Non lo sapremo mai. Per il resto Giappone mio come ti ho lasciato ti trovo, parafrasando non ricordo quale comico sei "La maggior ragione a sostegno sull'uso delle armi nucleari". Questo naturalmente se ci limitiamo a una visione superficiale stile barzelletta sul turismo di Pennac.
A parte la sorpresa di aver trovato i maggiori templi chiusi a Fukuoka (perché? Boh) e il non esser riusciti a condividere un taxi con le due ragazze italiane, o l'aver dovuto camminare al buio totale sotto una statua del Buddha.. l'esperienza giapponese è stata esattamente come me la ricordassi.
Pulizia, educazione, qualità, ordine, gentilezza. Per dire il centro commerciale della stazione di Fukuoka è come Harrods ma senza la boria e i prezzi da ricconi sauditi.
A Kyoto siamo finiti in un quartiere pieno di hotel così che incontriamo più occidentali che altri.
E devo ammettere che fa strano perché allontanarsi dalla nostra dimensione emiliana, italiana, europea sta aiutando.
Cerco di non aprire le notifiche e gli aggiornamenti delle notizie dal mondo.
Certo farlo da un appartamento grande la somma di tutti quelli avuti in Giappone (che botta di cù) fin'ora aiuta.
Bonus domanda a la "Il giovane Holden" ma come farà lo spruzzino del bidet automatico a sapere sempre esattamente dove si trova il bùs?
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Un insoddisfacente mondo.
Vivo nel mio mondo perché questo in cui siamo non mi soddisfa.
Preferisco essere definita emarginata socialmente, al posto di essere omologata con gli altri, in un mondo dove ormai l'apparenza e l'aspetto di una persona, contano di più del suo animo, del suo io interiore.
Sento che non faccio nemmeno parte di questa generazione.
Odio le fotografie, seppur la maggior parte di esse raccolgano i ricordi più belli di una persona, ma non riesco a restare "ben in posa" per la foto. Mi sento a disagio.
Non ho mai amato uscire la sera, ho sempre preferito quei momenti tranquilli sul divano "Netflix & Chill" come dicono gli americani, O magari leggendo un buon libro.
Non mai piaciuto questo "ostentare ciò che si ha" che è un po' la base dei social media.
L'idea di diventare famosa tramite social, non mi è mai passata per l'anticamera del cervello e, sinceramente, anche, come avevo io, un profilo dove pur non mettendoci la faccia, ma ne facevo comunque parte, mi sentivo dipendente a tal punto di passare il tempo a fare home/profilo tantissime volte in pochissimi minuti.
Questo mondo allontana, ma non unisce, fa sentire più soli che mai, perché fa sentire diversi, anche inconsciamente.
Smisi definitivamente di avere social all'età di sedici anni, durante la mia permanenza in vacanza a casa di mia cugina.
Restai da lei per quasi due mesi, e all'epoca lei si era appena trasferita in un nuovo appartamento e ci hanno messo qualche giorno i signori della compagnia a metterle la linea telefonica.
Ricordo che inizialmente per me era impensabile non avere social e soprattutto non vedere quello che pubblicavano le mie influencer preferite, così i primi giorni furono bruttissimi emotivamente (guardate che schifo la dipendenza).
Intanto i giorni passavano e avevo preso il giro di uscire (perché lei è sempre riuscita a farmi uscire dalla mia tana) 🐻 spesso la sera, e durante il giorno lei lavorava e io restavo con mia zia e dormivo.
Ormai avevo preso questo "giro" di usare i miei gb solo per WhatsApp e mandare qualche messaggio di risposta, a quei 4 gatti che mi scrivevano, tra cui mia mamma. E iniziava a piacermi un sacco questa cosa.
Avevo un sacco di tempo libero, potevo dormire e fare poi, colazione con calma, senza avere la "frenesia" di vedere quello che faceva la gente, la sera prima.
Potevo passare il tempo a guardare il mare fuori dalla finestra con le cuffiette alle orecchie. E "scattare foto con gli occhi" che è poi, il ricordo più bello.
Leggere in attesa della cena, con in sottofondo le onde del mare, senza avere lo stress delle notifiche da dover leggere o i messaggi da dover rispondere immediatamente.
A seguito del mio rientro a casa, qualche giorno dopo, cancellai i profili social, ad eccezione di Pinterest, che è una applicazione che mi ha sempre accompagnata, fin dal giorno, o poco più della fondazione.
In assenza dei social ci ho guadagnato molto in fatto di tempo libero, ma soprattutto anche di ansie e preoccupazioni mentali.
Certo purtroppo, il giudizio di altre persone su di me è ancora attivo e spesso mi ferisce, ma almeno non ho la tentazione di andare a controllare tale profilo x e vedere se ha pubblicato qualcosa su di me, eventualmente, anche se io non conosco tale persona.
Seppur purtroppo, resto ansiosa di carattere, i pensieri intrusivi spesso e volentieri, mi fanno visita e mi fanno stare male, mandandomi letteralmente in paranoia per ogni minima cosa vista o ricordata o che era stata pubblicata, o che magari avevo l'intuizione che fosse stata pubblicata su di me.
Nonostante questo ripeto, resto debole, ma sicuramente ora sono più forte di prima. O almeno, lo sono in parte.
Tutto questo mi serve per dire che, non sto criticando le persone che hanno i social e che li usano abitualmente, ma dico semplicemente che è una abitudine mia, che a me non è più piaciuta e che a me personalmente ha fatto bene mentalmente.
Ad eccezione però, di Tumblr. Tumblr è un social che non ce l'ho mai fatta ad abbandonarlo totalmente. Questo social mi permette di esprimermi attraverso la scrittura, che è il mezzo che preferisco in assoluto, e nel quale, sicuramente, riesco meglio.
E nel quale si sta bene "nascosti nell'ombra."
Qui non serve l'esporsi, serve il tuo vero io, serve chi sei dentro tu, e nient'altro. Solo tu, la scrittura e il tuo nuovo diario virtuale.
@un-mei-no-akai-ito // @un-mei-no-akai-ito (Dom 21.07.24 h02:43)
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Benita ha tre anni. Si cambia il pannolino da sola, è capace di aprire il pan bauletto e di richiuderlo col fil di ferro. Quando qualcosa le cade dice "Sorry", quando per sbaglio ti colpisce mentre gioca si avvicina e chiede scusa in italiano, poi ti dà un bacino. Corre per casa e ti porta ogni oggetto possibile perché vuole che tu le dia le attenzioni che probabilmente non riceve su base quotidiana. Quando la mamma le dice "Behave" torna dritta come un soldatino. La aiuta a mettere le cose in ordine nei cassetti. Ha un orsetto di peluche che si chiama Fadiah.
Parla poco italiano perché la mamma le parla soprattutto in inglese in casa.
Le sue sorelle maggiori invece l'italiano lo parlano, perché vanno a scuola; Gift (chiamata così dalla mamma proprio perché significa "regalo") ha 5 anni ed un peluche di nome Hadem che considera il suo bebè; mi chiede di giocare con lei a far finta di andare in gita o al mare perché non l'ha mai visto. Quando mi chiede di tenere il suo bebè in braccio mi spiega come si fa perché "You are the nanny". Cindy invece ha 12 anni e in casa si occupa della maggior parte delle cose, mi parla in italiano ma fa ancora fatica con le coniugazioni.
La mamma, rimasta vedova due anni fa, cerca di guadagnare quello che può. Cresce le sue figlie in un appartamento fatiscente in una zona non proprio bellissima, ma nella prima capitale d'Italia, cosa di cui si è informata e di cui va fiera. Riceve una telefonata dal fratello che le chiede soldi per il proprio matrimonio, da inviare in Nigeria, rispondendo che "Marriage is God's will, but a man's responsibility". Nel frattempo Benita mi ordina "Now you brush your teeth" perché la mamma le ha insegnato che dopo pranzo si fa così. Io però non ho pranzato, le rispondo che non ho lo spazzolino e lei mi guarda male: la risolviamo con me che la seguo in bagno e faccio finta, anche se non è soddisfatta. Usciamo dal bagno e Gift mi chiede di fare finta di andare in gita e preparare il succo di frutta: usa vecchie confezioni della cera per capelli della mamma, che tiene su uno scaffale con gli altri "giochi" (un cavo del telefono che finge siano le chiavi dell'auto, una spina che finge sia il cellulare, una pallina di gomma che sarà la frutta che portiamo in gita, un cuscino che sarà la borsa dei panini). Salgo sul divano, ossia la nostra auto, le dico di allacciare la cintura e Benita piange, perché ancora è arrabbiata io non mi sia lavata i denti con lei. Per farla tranquillizzare accetto di fare un altro gioco con lei, alle sue condizioni. Il gioco è quello in cui mi fa sedere sulla sedia e fa finta che io stia facendo la cacca, perché ha appena imparato a usare il vasino e lo trova in gioco divertente. Funziona così: lei mi prende per un braccio, mi indica una sedia, io mi siedo, lei dice "Now pupù" e io devo stare ferma qualche secondo, finché lei non decide che ho finito, poi urla "Flush" e mentre imito il rumore dello sciacquone lei guarda in basso e saluta la pupú dicendo "Bye bye". Lo fa un paio di volte, poi sono libera e posso tornare a giocare con Gift, che nel frattempo ha deciso che la nostra finta gita sarà al mare. A quel punto Benita, gelosa del attenzioni mi richiama perché decide che mi scappa di nuovo. Quindi si riparte. Gift allora mi chiede "Now we bring bebé al mare" a cui rispondo "Sorry, I'm pooping". La madre scoppia a ridere, poi sgrida le bimbe "You are stressing her!".
Quando è l'ora di andare, Gift chiede alla mamma "Can nanny stay?". Dopo poche ore con loro credono io sia la tata. Mi viene da piangere. La mamma risponde che no, nanny ha da fare e deve andare via. "Uhmmmm" mugugna Gift, unendo le mani in segno di preghiera verso la mamma. Benita mi segue a piedi nudi per le scale e deve scendere Cindy per riportala in casa.
La saluto facendo Bye Bye.
(Nanny can't stay, sorry)
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Dopo un anno al civico 418
Non so dire che stagione sia, mi sembra che si siano riunite tutte qui in un pic-nic sul mio collo, portando ciascuna il carico della propria inconfondibile nostalgia. Sono all’incrocio dei venti, il soffio vitale di moltissime e imprevedibili possibilità, carne ancora di carta, ma comunque la storia della carne. Il tempo non muore, il tempo semplicemente si estingue: è diverso. Penso allo sgomento col quale sono stata costretta ad accettare il fatto che, se non lo mangi, il cibo si guasta anche se è nel frigo. Quella sensazione di tradimento, di impermanenza, mi fa orrore. Eppure non credo sia metafora della mia morte, credo che sia lo spaesamento della dipendenza - è la morte degli altri. Questo mese faccio scatoloni, mi impoversico di qualche migliaia di euro, e mi impoverisco di questo ultimo status quo, uno dei primi che mi sia piaciuto dopo la baita di montagna sul mare di Valerio. Parallelamente scolpisco come una artigiana piuttosto incerta l’ultimo colpo grosso della mia carriera nel mondo della ricerca, promessa d’incrocio, incrocio che conduce da molte parti lontanissime tra loro. Berlino potrebbe non piacermi. È probabile che Berlino mi ammazzi, ma sono già sopravvissuta a qualche inferno e una trentina di inverni, e contro ogni previsione sono qui adulta con un sacco di vite alle spalle e pochissimi privilegi - tantissimi privilegi - ma meno privilegi di quelli che mi erano stati promessi. Li ho rifiutati. Se Berlino mi ammazza vorrà dire che sono scaduta, ma qualcosa mi ha comunque già mangiata: sono solo gli avanzi di me, sono quello che potrei ancora diventare. Peggio: se Berlino mi ammazza è perché l’ho lasciata guastarsi nel frigo, non l’ho assaggiata, nessun pic-nic all’aperto.
Questa vita, la mia vita, il mio unico vero amico di sempre: mi mancheranno e non so che sto facendo, li sto lasciando scivolare così, come è giusto anche se non lo voglio. In frigo nevica, fuori dal frigo ci si scioglie nel sudore. Sulla porta di casa nostra ci sarà ancora per un po’ la ghirlanda di Halloween, sopra al microonde la gallina di cioccolato di Pasqua.
Se Berlino non mi ammazza lo faranno il lavoro, la tesi, il trasloco verso un appartamento che pago ed in cui è probabile che non vivrò. Sulla mia faccia piove poco, tra le mie dita della terra da cui inevitabilmente qualcosa in primavera germoglierà.
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Se io dovessi disegnare una bandiera di questa casa come se fosse uno stato, e forse un po' lo è, ci metterei come simbolo un paio di ciabattine infradito.
Perché sono davvero il simbolo della vita in questo appartamento, non tanto mia perché io non le uso, i miei genitori mi hanno abituato a non usarle neache al mare, tanto meno in città. Ma per le mie coinquiline le ciabattine infradito sono una delle cose che piace a loro di più e che usano quando possono.
D'estate usano per uscire solo quelle, dovunque vadano, anche all'università, e a me piace vedergliele indossate, perché manifestano tutta la loro freschezza.
D'inverno le usano invece in casa quando il pavimento diventa troppo freddo per camminare a piedi scalzi.
Ma anche quando se le tolgono e non le tengono ai piedi, sono il simbolo di questa casa, perché quando le lasciano un po' dovunque, quindi è normale in questo appartamento trovare ciabattine infradito in tutte le stanze, in cucina, nel soggiorno, nei posti più impensati.
E poi rappresentano i loro colori preferiti, la loro voglia di estate, e anche il rapporto molto disinvolto con sé stesse, non so spiegare perché, ma mi sembra davvero che si così.
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al lavoro ho ritrovato sul mio drive una cartella con gli screenshot fatti dal mio telefono nel duemilaventi/ventuno. C'erano lì riportate diverse immagini di miei post scritti in un momento in cui ero profondamente alla deriva, come corpo morto in mezzo al mare lasciato solo a se stesso in balìa delle onde, del vento e degli agenti atmosferici. mi sembra passata una vita intera. un'esistenza intera, cominciata, finita e poi re iniziata da capo. un essere umano maestro di equilibri instabili. instabili come il cielo di Milano di questa mattina che promette sole ma continua a ribadire pioggia insieme ad un'atmosfera velata da questo colore bianco sporco che ti cambia il colore degli occhi. eppure, in mezzo a questo appartamento fissando un soffitto che stavolta c'è ripenso al fatto che quella stessa persona che vomitava tutte le sere, che aveva la testa spaccata a metà, che soffriva, soffriva tanto sono sempre io.
apro l'archivio di Tumblr e leggo gli scritti di uno dei periodi più buii della mia intera esistenza a seguire cure pesantissime che non portano a nulla se non allo sfinimento fisico e morale.
adesso mi sento una persona, ho Imparato ad amare, a lasciar correre e sentirmi nel presente. certo la mia vita continua e continuerà a dipendere da farmaci che non mi facciano impazzire ma forse devo solo fare pace con tutto questo e accettare il compromesso di essere una persona difettosa.
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Ma tu dove hai casa adesso esattamente?
Ogni volta che qualcuno mi fa questa domanda non so mai cosa dire. È quell'avverbio – "esattamente" – che mi ammutolisce, e non solo perché io una casa esattamente non ce l'ho, ma anche perché non sono sicura che la casa rientri nel novero delle realtà esatte.
Se per casa si intende il posto in cui arrivano le multe dell'auto, in cui faccio le lavatrici e in cui il gatto mi riconosce, allora casa mia è Cabras, è Torino, è Roma. Se invece per casa si intende quell'approdo da dove anche chi parte per mille destinazioni ha la tendenza segreta a ritornare, allora l'esattezza va del tutto a farsi benedire e subentra la molteplicità, la sovrapposizione, l'abbraccio tentacolare di mille familiarità.
Perché casa mia è una donna con un rossetto da ragazza che sforna una torta al cioccolato prima di uscire con me, ancora profumata di lievito e vaniglia. È una signora di settant'anni che scova in un armadio un caftano mai messo e se lo infila, perché crede che di feste nella vita gliene spettino ancora. È un gruppo di whatsapp dal titolo surreale che mi regala leggerezza proprio quando il mondo fa di tutto per portarmi a fondo.
Casa mia è un treno che si ferma a Oristano e la donna che scende col cappello rosso lo fa per me. È un amico timido che mi manda sms preziosi, perché un “ti voglio bene” così vero si può confessare solo se non lo sente nemmeno chi lo dice. È una coppia di amici in moto che viaggia verso il mare di notte per fare un bagno con te, nudi come trent'anni fa, lasciando a casa figlie, nipoti e cane.
Casa mia è un fratello capace di prendere in mano il posto che si è divorato la sua adolescenza e trasformarlo nel giardino in cui far fiorire le piante grasse, la sua maturità e i sogni dei suoi figli. È una bambina bionda che mi si addormenta addosso perché non conosce altri modi di dirmi che per lei io sono un luogo sicuro. È la chiave di un appartamento dove un gatto grigio può decidere che, in assenza dei padroni, nel letto gli vado bene pure io.
Casa mia è un amico che ride e canta gli U2 a squarciagola al mio fianco mentre corriamo brilli per le strade della Marmilla. È una donna che sa insegnare alla sua bimba che crescere significa anche accettare di essere misurate da chi ti ama. E' una scritta temeraria col gessetto lasciata di nascosto su una lavagna da una mano che aveva fretta, ma il tempo per quello l'ha trovato.
Soprattutto è l'uomo amato che si sveglia in un'alba di Salisburgo e sa che la sua casa ovunque resto io.
Non c'è niente di esatto in tutto questo ed è meglio così.
Infatti non è utile che mi chiediate dove ho casa.
Io so dire solo in chi.
Michela Murgia
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“Ma tu dove hai casa adesso esattamente?”
Ogni volta che qualcuno mi fa questa domanda non so mai cosa dire. È quell'avverbio – "esattamente" – che mi ammutolisce, e non solo perché io una casa esattamente non ce l'ho, ma anche perché non sono sicura che la casa rientri nel novero delle realtà esatte.
Se per casa si intende il posto in cui arrivano le multe dell'auto, in cui faccio le lavatrici e in cui il gatto mi riconosce, allora casa mia è Cabras, è Torino, è Roma. Se invece per casa si intende quell'approdo da dove anche chi parte per mille destinazioni ha la tendenza segreta a ritornare, allora l'esattezza va del tutto a farsi benedire e subentra la molteplicità, la sovrapposizione, l'abbraccio tentacolare di mille familiarità.
Perché casa mia è una donna con un rossetto da ragazza che sforna una torta al cioccolato prima di uscire con me, ancora profumata di lievito e vaniglia. È una signora di settant'anni che scova in un armadio un caftano mai messo e se lo infila, perché crede che di feste nella vita gliene spettino ancora. È un gruppo di whatsapp dal titolo surreale che mi regala leggerezza proprio quando il mondo fa di tutto per portarmi a fondo.
Casa mia è un treno che si ferma a Oristano e la donna che scende col cappello rosso lo fa per me. È un amico timido che mi manda sms preziosi, perché un “ti voglio bene” così vero si può confessare solo se non lo sente nemmeno chi lo dice. È una coppia di amici in moto che viaggia verso il mare di notte per fare un bagno con te, nudi come trent'anni fa, lasciando a casa figlie, nipoti e cane.
Casa mia è un fratello capace di prendere in mano il posto che si è divorato la sua adolescenza e trasformarlo nel giardino in cui far fiorire le piante grasse, la sua maturità e i sogni dei suoi figli. È una bambina bionda che mi si addormenta addosso perché non conosce altri modi di dirmi che per lei io sono un luogo sicuro. È la chiave di un appartamento dove un gatto grigio può decidere che, in assenza dei padroni, nel letto gli vado bene pure io.
Casa mia è un amico che ride e canta gli U2 a squarciagola al mio fianco mentre corriamo brilli per le strade della Marmilla. È una donna che sa insegnare alla sua bimba che crescere significa anche accettare di essere misurate da chi ti ama. E' una scritta temeraria col gessetto lasciata di nascosto su una lavagna da una mano che aveva fretta, ma il tempo per quello l'ha trovato.
Soprattutto è l'uomo amato che si sveglia in un'alba di Salisburgo e sa che la sua casa ovunque resto io.
Non c'è niente di esatto in tutto questo ed è meglio così.
Infatti non è utile che mi chiediate dove ho casa.
Io so dire solo in chi.
Michela Murgia
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Mansarda a Lido Adriano (RA), 60 mq. € 103.000 trattabili
Riferimento n. R239 – LIDO ADRIANO (RA) – In zona tranquilla ed a 300 mt. dal mare, si vende una graziosa mansarda interamente ristrutturata, già pronta per essere abitata e composta da ingresso, una comoda e moderna zona living con cucina abitabile, due camere, entrambe spaziose, ripostiglio e bagno adeguatamente dimensionato. Gli ambienti sono ben distribuiti e luminosi, mentre le finiture con…
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non voglio più un casa o un appartamento in città, voglio stare in campagna, voglio una casa piccola perché faccio schifo e sono pigra nel fare le pulizia, però mi piacerebbe un bel giardino in cui fare l'orto per piantarci tanta verdura, poi nel giardino pianterei degli alberi da frutto, e attenderei con pazienza che crescano e facciano i frutti, e vorrei anche un cagnolino e qualche gatto, che siano liberi di girare tranquilli per il giardino e stare in casa ogni tanto quando ne hanno voglia, vorrei avere un lavoro che non mi ammazzi, non voglio guadagnare troppo nemmeno tanto, sarei contenta se guadagnassi il giusto per vivere una vita umile e tranquilla, non voglio le robe superfighe, alla moda, l'ultimo modello di questo e di quello, voglio stare tranquilla, e farmi magari se possibile ogni anno due settimane al mare nel mio posto del cuore, che anche se l'acqua è torbida color fiume a me piace così
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“Ma tu dove hai casa adesso esattamente?”
Ogni volta che qualcuno mi fa questa domanda non so mai cosa dire. È quell'avverbio – "esattamente" – che mi ammutolisce, e non solo perché io una casa esattamente non ce l'ho, ma anche perché non sono sicura che la casa rientri nel novero delle realtà esatte.
Se per casa si intende il posto in cui arrivano le multe dell'auto, in cui faccio le lavatrici e in cui il gatto mi riconosce, allora casa mia è Cabras, è Torino, è Roma. Se invece per casa si intende quell'approdo da dove anche chi parte per mille destinazioni ha la tendenza segreta a ritornare, allora l'esattezza va del tutto a farsi benedire e subentra la molteplicità, la sovrapposizione, l'abbraccio tentacolare di mille familiarità.
Perché casa mia è una donna con un rossetto da ragazza che sforna una torta al cioccolato prima di uscire con me, ancora profumata di lievito e vaniglia. È una signora di settant'anni che scova in un armadio un caftano mai messo e se lo infila, perché crede che di feste nella vita gliene spettino ancora. È un gruppo di whatsapp dal titolo surreale che mi regala leggerezza proprio quando il mondo fa di tutto per portarmi a fondo.
Casa mia è un treno che si ferma a Oristano e la donna che scende col cappello rosso lo fa per me. È un amico timido che mi manda sms preziosi, perché un “ti voglio bene” così vero si può confessare solo se non lo sente nemmeno chi lo dice. È una coppia di amici in moto che viaggia verso il mare di notte per fare un bagno con te, nudi come trent'anni fa, lasciando a casa figlie, nipoti e cane.
Casa mia è un fratello capace di prendere in mano il posto che si è divorato la sua adolescenza e trasformarlo nel giardino in cui far fiorire le piante grasse, la sua maturità e i sogni dei suoi figli. È una bambina bionda che mi si addormenta addosso perché non conosce altri modi di dirmi che per lei io sono un luogo sicuro. È la chiave di un appartamento dove un gatto grigio può decidere che, in assenza dei padroni, nel letto gli vado bene pure io.
Casa mia è un amico che ride e canta gli U2 a squarciagola al mio fianco mentre corriamo brilli per le strade della Marmilla. È una donna che sa insegnare alla sua bimba che crescere significa anche accettare di essere misurate da chi ti ama. E' una scritta temeraria col gessetto lasciata di nascosto su una lavagna da una mano che aveva fretta, ma il tempo per quello l'ha trovato.
Soprattutto è l'uomo amato che si sveglia in un'alba di Salisburgo e sa che la sua casa ovunque resto io.
Non c'è niente di esatto in tutto questo ed è meglio così.
Infatti non è utile che mi chiediate dove ho casa.
Io so dire solo in chi.
Michela Murgia, post dell' 11 agosto 2016
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L’odore di gelsomino le faceva prudere le narici eppure, per quanto quel pizzicore potesse risultare fastidioso, Elena non aspettava altro per tutto l’anno. All’inverno uggioso o alla sprizzante primavera preferiva l’odore di quei piccoli fiori bianchi che sbocciano in Giugno, portando con essi il calore dell’estate e il sapore aspro delle limonate in riva al mare. Erano i mesi in cui poteva chiudere i libri di scuola e aprire i suoi adorati romanzi, carichi di amori e avventure a occhi aperti. Quella mattina come tutti gli anni da quando ne aveva memoria - esattamente dodici e nove giorni - era giunto il momento di trasferirsi nella casa al mare della famiglia paterna. Due ore di macchina separavano il loro appartamento di città da quello spiraglio di felicità che Elena bramava con ansia, e che cominciava soltanto nel momento in cui quell’odore dolciastro proveniente dal giardino dei nonni dichiarava ufficialmente iniziata l’estate.
Il cancello color rame era seguito da un piccolo sentiero di piastrelle che, con i loro toni colorati, conducevano a una modesta villetta su due piani. Il tetto era leggermente malandato, reduce da tutte le volte in cui suo padre aveva promesso di aggiustarlo una volta arrivate le prime piogge; e poi le seconde, le terze, le quarte, perché tutto era ancora fermo lì almeno da un paio d’anni. A Elena non dispiaceva, in fin dei conti dopo un’estate umida che le lasciava i capelli appiccicati in faccia per il sudore non attendeva altro che i primi temporali d’agosto prima di ripartire.
L’arrivo era sempre un momento nostalgico tanto quanto la partenza. Tutto era esattamente come l’avevano lasciato l’estate precedente, solo il grande albero di salice sembrava ridursi in proporzione a quanto Elena acquistava centimetri d’altezza durante i mesi invernali.
«Aiutami a far scendere Bea dalla macchina prima di andare» le aveva detto sua madre. Consapevole anche lei che, nel momento esatto in cui i piedi di Elena avrebbero toccato terra, nulla l’avrebbe fermata dal correre direttamente in spiaggia e sparire così per le due ore successive. Questa volta però un aiuto con i bagagli le era d’obbligo dopo che in famiglia si era aggiunta Beatrice, una piccoletta dal sorriso a due denti e un ciuffo di capelli biondi. Abituarsi a questa nuova realtà dopo tanti anni da figlia unica non era stato semplice, aveva dovuto modificare abitudini, sonno e pensieri. Eppure non vedeva l’ora di portare la sua sorellina al mare per la prima volta e lasciarle scoprire il calore della sabbia sotto ai piedi nudi, le onde che s’infrangono sulla riva e le risate di bambini e ragazzi che giocano insieme.
«Dopo possiamo portare anche Bea a mare?» aveva provato a chiedere, con il cuore che le martellava in petto in attesa di una risposta. In quel posto non aveva dei veri e propri amici come molte altre ragazze della sua età, passava le giornate ad osservare l’orizzonte o a leggere un libro seduta sulla riva. Poter portare lì Beatrice le dava un vero motivo per godersi un’estate di giochi in spiaggia e castelli di sabbia. Un po’ come aveva ridato vita alla loro famiglia, proprio quando le cose sembravano sul punto di frantumarsi in mille pezzi.
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20/27
🐚.Appuntamento ideale? Descrivilo.
Penso che prima di tutto l'appuntamento ideale si crei per ogni persona in maniera diversa a seconda di tante e diverse condizioni, emozioni, tempi e così via.
Ad ora un appuntamento ideale per me sarebbe un pic-nic con cibo preparato con le mie mani da portare in spiaggia verso il tramonto, per osservarlo, fare il bagno, poi cenare con calma sulla sabbia ancora calda o intorno ad un falò, cuocere i marshmallow su dei bastoni e osservare farsi notte, le stelle, canzoni e suonare la chitarra, poi tornare a casa in macchina profumando di mare.
Il mio appartamento ideale è un museo d'arte, osservare i dipinti e/o le foto oppure sculture, ogni particolare da osservare in silenzio, tenendosi per mano, appoggiando il capo sulla spalla dell'altra persona, notare ciascuno un particolare diverso, capirsi senza bisogno di parlare.
Il mio appuntamento ideale è una libreria, di quelle dove si mescola l'odore del legno con quello delle pagine dei libri, magari la possibilità di prendere un caffè sfogliando le pagine di qualche classico letterario mentre fuori piove, discorrere delle trame e degli autori, magari acquistare uno o due volumi ed affrontare la pioggia proteggendo i libri sotto i cappotti, ma senza ombrello correre e ballarvi al di sotto.
Il mio appuntamento ideale è un negozio di vinili, piccolo e vintage, con la musica in sottofondo mentre giri per scaffali e banchi pieni di storia della musica, sorridendo e canticchiando di tanto in tanto qualche canzone, confrontarsi sui propri gusti.
Potrei continuare, ma la verità è che sarebbe diverso a seconda di tante condizioni e comunque sarebbe speciale.
🐚. Una canzone che ami?
Una canzone che amo particolarmente? Ce ne sono tante e diverse per anno, genere e motivo: amo "La fine" di Tiziano Ferro perché è la canzone che mi ha salvata dal periodo più buio della mia vita; amo "Bohemian Rhapsody" perché è l'apoteosi delle canzoni dei Queen; amo "Love of my life" sempre dei Queen perché è una canzone d'amore pura e totalizzante; amo "Piccola stella senza cielo" di Ligabue perché mi rivedo in quella canzone in maniera particolare.
Grazie delle domande.
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Nel periodo che ero al mare, le settimane scorse, ho comprato nelle bancarelle alcuni piccoli regalini che darò alle mie compagne di appartamento quando rientreremo, nei prossimi giorni.
Non è che siano regali importanti, ma andare senza niente mi dispiaceva. Sono cose piccole, ma so che a loro piacciono. Per Annarita ho preso una matita molto carina perché le piacciono e ne ha un sacco, per Veronica un coso (come si chiama?) per fare le bolle di sapone, che ok, non dovrebbe essere per una 21enne ma lei impazzisce per queste cose, per Violetta una cavigliera con delle perline color fucsia, che le starà bene di sicuro.
Sono cose piccole e un po' delle scemenze, spero davvero che possano piacere a ciascuna di loro, ma le conosco e so che non hanno grandi pretese.
Devo dire che c'è stato un giorno che in una bancarella ho visto una maglietta che sarebbe piaciuta a Violetta, ma non l'ho comprata, e ora non mi do pace quando ci penso, stamattina ero tormentato all'idea che avrei dovuto comprarla. Però ormai non ci posso fare niente, non posso tornare indietro. E poi qualcosa per lei l'ho comunque, per fortuna.
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