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Oggi vi porto a Scario, in Italia , alle coordinate: 40°03′00″N 15°29′09″E Ci si arriva con l’autostrada A3 da Napoli direzione Salerno e si prosegue sull’A2 sino all’uscita di Buonabitacolo – Padula per poi prendere la SS517var sino al termine e seguendo poi le indicazioni per Scario (meno di 4 km).
Scario, piccolo borgo del Cilento, di definizioni ne ho sentite varie durante la mia settimana di vacanza, ma credo che la più significativa sia proprio quella del titolo di questo post: è un paesino in riva al mare che conta circa 1200 residenti con a ridosso le colline e il Monte Bulgheria (1225 metri), che svetta maestoso come a protezione, detto anche la leonessa addormentata.
Percorrendo gli ultimi chilometri in discesa dai monti che circondano il Golfo di Policastro, arrivando con l’auto, si avrà la sensazione di andare incontro al mare. Arrivati a Scario, il colpo d’occhio è davvero unico: il paese si protende sul mare e ci si ritrova in un tempo sospeso dove la fretta e gli orari sono banditi. Vedremo però che un caso in cui gli orari vanno rispettati esiste, ma per un ottimo motivo! Perché fare una vacanza a Scario? Per il mare, ovviamente! Ora, se siete amanti delle belle spiagge di sabbia, con l’acqua che lentamente diventa più profonda e due lettini sotto l’ombrellone… fermatevi qui, non andate oltre! Non sono spiagge per voi 🙂 Qui il mare e le calette sono di una bellezza prorompente, incontaminate, selvagge, dai colori intensi e mediterranei ma scomode – e tanto – perché raggiungibili unicamente con barche private o con un servizio di trasporto affidato a società approvate dall’Ente Parco che cerca così di promuove un turismo responsabile per tutelare un patrimonio unico.
Per alloggiare non posso che consigliare uno dei tanti B&B che sono disseminati sulle colline intorno al paese perché a Scario gli alberghi sono solo due e non in paese e poi perché vi perdereste il piacere di svegliarvi lontano dalla “confusione” e immersi nel verde. Sono infatti tutte strutture piccole, nella macchia o in qualche uliveto, silenziosi e molto confortevoli; un’auto è però necessaria per potersi spostare su e giù e nei dintorni.
Quando sono in vacanza è un po come se ogni giorno fosse sabato e poi l’ultimo mi sembra domenica. Anche a voi fa lo stesso effetto? Il mio primo sabato con ancora un vago sentore di lunedì, decido di iniziarlo proprio dal mare per capire quanto ci sia di vero dietro la fama di “costa più bella del Cilento” e “mare incontaminato”. Come dicevo all’inizio, per andare alle spiagge lungo la costa serve una barca – propria, a noleggio o come servizio navetta per le calette – o delle buone braccia per noleggiare una canoa. Io mi sono risparmiato le braccia e ho preferito un passaggio sul “barcone” in modo da poter portare qualche piccola comodità come l’ombrellone, uno spuntino per il pranzo, la reflex per queste foto e ovviamente acqua in abbondanza: non crediate infatti di trovare sulle spiagge il chioschetto con bibite e gelati…! Il biglietto si fa al porto la mattina stessa e le barche della società Marina di Scario partono ogni ora dalle 09.00 alle 13.00 e poi ci sono i rientri a partire dalle 14.30 sino alle 18.00 quando più o meno su tutte le spiagge il sole tramonta. Il viaggio dura dai 30 minuti a poco meno di un’ora a secondo di quale spiaggia si vuole raggiungere. Quale vedere? Tutte, una diversa ogni giorno…! Se ci sono dei bimbi credo che le migliori siano quella dei Gabbiani e ancor meglio la Sciabica che offrono un fondale che degrada più dolcemente e l’ombra al pomeriggio arriva un poco prima. E aggiungo che ho sperimentato anche diversi orari: dalle 09.00 del primo giorno alle 13.00 dell’ultimo quando ormai ero entrato in modalità vacanza! Ecco il caso a cui accennavo inizialmente per il quale esiste un orario 🙂
Cosa dire allora del mare di questo posto? Giudicate voi… e ricordate che siamo in un’area marina protetta, niente pesca e portate via i vostri rifiuti perché nessuno passa a prenderli.
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Ogni giorno mi sono goduto il tragitto dal paese alla spiaggia e poi al ritorno con il sole al tramonto che con il regolare andare della barca lungo la costa concede una mezz’ora di assoluto relax.
Un regalo inaspettato mi è arrivato quando una mattina mi sono ritrovato ad essere l’unico passeggero in partenza. Quale occasione migliore per fare due chiacchiere con chi gestisce questo servizio e saperne qualcosa di più sul Parco Nazionale del Cilento, Valle di Diano e Alburni, sulle spiagge e chiedere un paio di consigli?
Ho fatto così la conoscenza di Pippo che insieme al padre Guerino gestiscono la loro società di trasporto passeggeri “Marina di Scario” per le spiagge e le gite fino a Porto Infreschi con le due barche Orca Bianca e Vagabonda. Pippo si è gentilmente prestato a farmi da guida e devo dire che di consigli ne sono venuti fuori un paio niente male. Pippo che è un biologo marino, ama la sua terra e soprattutto il suo mare, mi ha spiegato che il Parco tutela questo tratto di costa meravigliosa e incontaminata e lo ha reso Area marina protetta. La Capitaneria di Porto controlla e sorveglia la costa affinché non vi siano abusi e sia effettivamente un’area sicura per tutti e che le barche per questo servizio siano moderne e con impatto ambientale ridotto. Lui ha fatto della sua passione un lavoro, come suo padre e suo nonno.
Qui l’andare al mare comincia dal viaggio, durante il tragitto apprezzi la costa rocciosa e piena di grotte, tutte abitate fin dalla Preistoria, e ti stupisci ad immaginare come poteva apparire questo luogo migliaia di anni fa. Quando ti portano in spiaggia si ha la sensazione di essere immersi nella natura e di esserne ospiti.
Ma come ci vedono gli scarioti a noi turisti? Mi dice che il turismo negli ultimi anni è cambiato e anche i turisti sono più sensibili a quello che è l’aspetto naturalistico della zona. L’Ente Parco ha difatti aperto e sistemato alcuni sentieri da tracking che da Scario vanno alla Grotta della Molara e alla Grotta dell’Acqua e verso il belvedere di Ciolandrea. Questo mi offre uno spunto interessante per i prossimi giorni… E se volessimo mettere il naso fuori Scario? Volendosi allontanare un pochino ci sono: i borghi di San Giovanni a Piro, Bosco (Museo di Ortega), Acquavena, le grotte del fiume Bussento a Morigerati e le sorgenti dei capelli di Venere a Casaletto Spartano. Insomma come al solito, molto da vedere e poco tempo! Ultimo immancabile consiglio riguarda le tradizioni culinarie: non devo assolutamente andar via senza aver assaggiato la cianfotta e le alici ‘mbuttunate, più difficili da trovare. Ma ora finalmente un bel tuffo al largo della spiaggia della Carcarella con la sua inconfondibile pozza bianca incastonata in un mare smeraldo!
E se oggi volessi andare al mare a piedi seguendo uno dei percorso di tracking? Cambiamo per un giorno e guadagniamoci la spiaggia a forza di gambe e zaino in spalla! Ho voluto provare uno dei sentieri che da Scario, a mezza costa, portano ad una delle sue calette conosciuta come la Grotta dell’Acqua.
Il sentiero inizia in prossimità del Villaggio “La Francesca” – ben indicato dalla segnaletica in paese – dove è necessario lasciare l’auto e proseguire per venti minuti (come da segnaletica CAI) a piedi. Lo dico subito: vuoi per il caldo – nonostante parte sia in penombra – vuoi perché mi sono fermato a fare delle foto, io ho impiegato più di trenta minuti. E’ ben tenuto, pulito e con diverse panchine all’ombra con indicazioni su flora e fauna. Il dislivello non è assolutamente impegnativo salvo che nella parte finale dove con delle scale scavate nel terreno si scende verso la spiaggia passando accanto alla grotta omonima.
Non credo dentro sia ancora attiva l’antica fonte che si racconta ci fosse anni fa, ma di certo si gode di un piacevole fresco fermandosi fuori. Comunque, ultimo sforzo e finalmente sulla spiaggia, completamente immersa nella macchia mediterranea, selvaggia e con ciottoli mediamente scomodi ai lati per cui vi consiglio di arrivare per tempo e prendere posto al centro a ridosso della parete rocciosa che offre un minimo di riparo dal sole fino a poco prima di ora di pranzo. Però che acqua…
E se invece volessi prendere una pausa dal mare e stare al fresco…? Semplice, vado a Casaletto Spartano e mi fermo alle cascate dei Capelli di Venere che sono come un’oasi anche nella più torrida delle giornate estive.
In base a quanto di Robinson Crusoe c’è in noi, si può fare un spuntino sulla ghiaia in prossimità della cascata o lungo l’argine del torrente, usufruire di tavoli e panche sistemati dall’ente che gestisce il parco sotto gli alberi o una braciata in una casetta attrezzata a pagamento (portate il carbone perché non è compreso). Per accedere all’oasi si paga un biglietto di tre euro per adulto che da diritto alla visita libera e al fresco 😉 Questa volta non portate l’acqua con voi perché c’è una fonte gelata con acqua leggerissima da cui bere a volontà; vi basterà un bicchiere o una bottiglia vuota. Si si, tranquilli, è potabile e vengono anche dai paesi vicini a prendere l’acqua…
Fate attenzione perché potrebbe essere aperto il piccolo museo con quello che resta del vecchio mulino per la macina ad acqua e magari se siete doppiamente fortunati, trovare il signor Antonio Amato, amabile narratore di tempi passati e ultimo gestore dell’impianto quando ancora funzionava e macinava il grano e vigeva il baratto per cui in cambio di una misura di grano si otteneva la macinatura. Eppure eravamo già all’inizio degli anni ’70!
Si ma quando si mangia? In spiaggia mi sono fatto bastare un panino o della frutta ma la sera mi è piaciuto provare qualche locale caratteristico cercando di assaggiare la cianfotta e le alici ‘mbuttunate consigliate da Pippo 😉 E così tra una serata a casa di amici e un paio di nuovi locali che si sono rivelati appena decenti, mi sento di consigliarvi quello che per me è risultato il migliore e per il quale vale assolutamente la pena fare i quasi 8 km da Scario per arrivarci: U Trappitu ad Acquavena. Sembra una grande baita e offre pizza a legna e piatti di terra preparati con prodotti di stagione. Ho assaggiato un antipasto di salumi veramente buono con una loro specialità che è la ricotta passata qualche minuto nel forno a legna e poi dei maltagliati integrali fatti in casa con zucchine, fiori di zucca e polvere di ulive nere.
Mi avrebbero tentato anche degli spaghetti quadrati con crema di melanzane, pomodori secchi e ricotta stagionata ma le porzioni non consentono assolutamente un doppio primo! Alla cianfotta però non ho detto no: in umido è assolutamente da assaggiare.
Spero di avervi dato qualche spunto utile se vorrete trascorrere qualche giorno a Scario e ricordate di rispettare il mare e le sue coste e tutta la natura che in questi posti ancora è quasi intatta. Buon viaggio!
Scario, dove i monti incontrano il mare Oggi vi porto a Scario, in Italia , alle coordinate: 40°03′00″N 15°29′09″E Ci si arriva con l'autostrada A3 da Napoli direzione Salerno e si prosegue sull'A2 sino all'uscita di Buonabitacolo - Padula per poi prendere la SS517var sino al termine e seguendo poi le indicazioni per Scario (meno di 4 km).
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/07/03/ricordare-rivivere-bozzetti-storie-dalla-culla/
Ricordare per rivivere: bozzetti di storie dalla culla
di Rocco Boccadamo
Doverosa premessa.
Come sono solito fare ogni volta che scrivo, ho brevemente pensato, in semplice autonomia da comune osservatore di strada e narrastorie, al titolo da attribuire alle presenti note.
Sennonché, immediatamente dopo, mi sono accorto che la prima parte del cappello s’identifica niente poco di meno che con un’espressione del grande maestro della psicanalisi Sigmund Freud, recitante, esattamente, “il ricordare è un rivivere”. Non me ne voglia, l’esimio personaggio, per l’involontaria e inconsapevole invasione di campo.
° ° °
Sin dalla tenera età, vado avvertendo d’essere sfiorato da una sorta di speciale buona ventura, cioè a dire di sentirmi, in senso vasto, un tutt’uno con il mio paese di nascita, i suoi luoghi, la sua storia, fatta di piccole e svariate vicende, e, soprattutto, i volti e le figure della sua gente, che, a onore del vero, ho sempre considerato alla stregua di mia seconda famiglia, allargata, a fianco del nucleo di mera appartenenza per ragioni di sangue, con correlato ovvio primario legame affettivo.
Così che, negli anni – ormai sfioranti un arco di quattro lustri – della mia “seconda esistenza” sotto l’aspetto dell’impegno lavorativo e degli interessi d’elezione, mi è stato, a più riprese, dato d’evocare situazioni e spaccati di ricordi, riconducibili alla minuscola località natia e, in maggior dettaglio, una lunga sequenza di vicende e di determinati compaesani, con le loro caratteristiche, abitudini, doti, virtù e vezzi.
In questo odierno caso, lo spunto ispiratore mi è casualmente arrivato dalla necessità di eseguire una riparazione al timone della mia barchetta a vela, incombenza che mi ha condotto a una bottega artigiana posta alla periferia del paese, in direzione di Capo Lupo.
E però, avanti di raggiungere tale destinazione e lasciar espletare il lavoretto dianzi accennato, ho dovuto attraversare una zona del paese, a cominciare dal Largo Campurra, ora denominato Piazza della Vittoria, e, quindi, proseguendo più avanti verso la meta.
In detto percorso, idealmente uscio per uscio, quasi fossero ritagli di una pellicola di celluloide, si sono affastellate numerose, da sembrare interminabili, scene, che, sebbene in maggioranza ormai datate, mi si sono snodate davanti come se ancora intrise di vitalità e attualità.
A cominciare dalla menzionata “Campurra” di per sé, nel senso di slargo, il maggiore dell’intero paese, una volta delimitata, a nord, dalla cappella di S. Giuseppe, recante al centro un pozzo animato e arricchito sul fondo da risorse d’acqua sorgiva, declinante a scivolo verso sud est, sì da consentire il naturale deflusso indotto e guidato delle acque piovane in confluenza di un’adiacente voragine, conosciuta, in dialetto, con il sintetico appellativo di “ora”.
E mi sono sfilate alla vista le serie di greggi ovine che, sortendo di buon mattino dai rustici rifugi al coperto e dirette al pascolo, proprio sul prato della “Campurra”, avevano agio di prendere confidenza con i primi assaggi di erbe.
Transitavano, tali armenti, senza lasciare tracce o postumi di odori, giacché, forse, a quei tempi, le stesse campagne e, quindi, le distese di pascoli, non conoscendo né tantomeno subendo processi d’inquinamento, emanavano effluvi genuini e gradevoli.
Rocco, Saverio, Tommaso, i nomi di alcuni dei pastori di pecore di quelle stagioni lontane.
Ancora, il largo “Campurra”, in mancanza, nel paese, di un campo sportivo, era utilizzato dai ragazzi e giovani per partite di calcio alla buona, con, per rendere l’idea, due coppie di pietre a segnare le porte.
Vi giocavano parimenti, reminiscenza straordinaria, magari fronteggiandosi con squadre di marittimesi, gruppi dei soldati polacchi che, intorno alla fine del secondo conflitto mondiale, furono di stanza, per un breve periodo, a Marittima.
E, affacciato imponente sulla Campurra (c’è ancora adesso, ma vuoto), quasi a voler vigilare bonariamente sulle sottostanti azioni di vita e di attività quotidiane, il palazzo cosiddetto dell’arciprete vecchio, già abitato, precisamente, dal medesimo prelato e da una nobildonna sua nipote.
Attigua, l’abitazione della “Richetta ‘e l’ortu ‘u puzzu” (Enrichetta, proprietaria dell’orto con il pozzo/voragine), maritata con Vitale, quattro figlie femmine.
Appena più giù, il vicolo dove aveva casa, fra gli altri, una vecchia parente di mio zio Guglielmo Bianchi, anziana che, nell’anno 1945, rammento con precisione, fu prescelta, come segno di rispetto, per condurre al battesimo in chiesa, tenendoli fra le braccia, due neonati gemelli del mio ricordato zio, piccoli, i quali, purtroppo, in breve volgere di tempo, se ne ritornarono in cielo.
Oltre, la casa di Rosaria ‘u tatameu, in cui, in una sera stellata, la figlia Concettina, rimasta gravida antecedentemente al matrimonio, diede alla luce il suo primogenito, con gli inevitabili lamenti da parto e mamma Rosaria, saggiamente, a consolarla, esortandola nel contempo a darsi pace, giacché, le faceva osservare, ciò che stava vivendo l’aveva in fondo voluto tutto da sé.
Quindi, la residenza di una famiglia portante il mio cognome, cugini di primo grado di mio nonno Cosimo, e la casa di un altro nucleo, dal soprannome “Pisca”, nel cui ambito, una delle figlie, P., era stata temporaneamente la “zita” del mio zio materno T.
Adiacente, il piccolo spazio con il monumento ai caduti e, dirimpetto, i palazzotti di donna Uccia Russi e della famiglia Spagnolo, il secondo contraddistinto da un caratteristico aggraziato arco, menante in un portico e in un cortile padronale.
A succedersi, i locali terranei, ormai da lungo tempo chiusi, noti come “u trappitu ‘a nutara” (frantoio oleario e palmento per la trasformazione dell’uva) e, fra i restanti diversi fabbricati, i due stabili a piano terra e primo piano occupati dalle famiglie dei cugini Frassanito.
A dividere detti immobili, due vicoletti, il primo dei quali corrispondente alla ex dimora del mio prozio materno Michele, pure lui Frassanito e parente dei predetti, adesso di proprietà e svolgente funzione di ritiro, per riposo, relax e bagni marini all’Acquaviva e Porticelli, della nota artista televisiva e teatrale, oltre che scrittrice, Serena Dandini.
I Frassanito cugini, in origine, espletavano il mestiere di muratore, al pari di altri parenti col medesimo cognome (Giacomo, Luigi, Cosimo, Calogero, Donato).
In un dato momento, ritennero però opportuno di mutare la loro attività, accostandosi, sino a divenire esperti e specializzati, al lavoro di costruzione, soprattutto, ma anche di riparazione, di barche in legno (gozzi piccoli, medi e grandi e lancette) prevalentemente adibite alla pesca, ma utilizzate pure, man mano che prendevano piede il turismo e le attività hobbistiche, per fini di svago e di diporto.
I medesimi Frassanito, specie il nucleo famigliare di Vitale, agli inizi, poi di Salvatore, suo figlio, e di Vitale, Nino e Antonio, a loro volta discendenti di Salvatore, diedero gradualmente luogo a un interessante sviluppo della nuova attività, arrivando, almeno a livello artigianale e di correlata apprezzata qualità dei manufatti, a collocarsi fra i primi del Salento, spaziando, quanto a campo di azione, da Porto Cesareo, a Gallipoli, Leuca, Tricase, Castro (la totalità dei battelli o schifi dei pescatori locali era opera loro), Otranto, S. Cataldo.
Giovani marittimesi negli anni ’70
Purtroppo, con l’avanzare degli anni e il cambiamento di usi e di scelte, ad oggi, è ancora attivo unicamente il più giovane dei varcaluri, Antonio, e, addirittura, avendo il medesimo unicamente figlie femmine, v’è da ritenere che quando egli deciderà di appendere l’ascia al muro, avrà inevitabilmente termine una bella tradizione, anzi una saga, di un mestiere di qualità, dignitoso, che ha accompagnato svariate generazioni di addetti alle attività marittime e pescherecce o, semplicemente, di appassionati di barche, lenze e ami.
Come riferimento agli amici Frassanito in questione, è rimasto un fondo, detto “Schettu” (boschetto), piantumato a querce secolari, già appartenente a un benestante del paese, don Eugenio Russi, un sito dove, anticamente, aveva sede anche un frantoio sotterraneo, poi crollato e finito in abbandono e distruzione.
Riguardo al boschetto di che trattasi, conservo il dolce e nostalgico ricordo delle lunghe parentesi di svago e gioco che, ogni domenica mattina, trascorrevo lì con gli amici, dopo aver partecipato, non a caso bensì appositamente per restare libero, alla prima Messa presso il santuario della Madonna di Costantinopoli.
Ritornando per un attimo ai compaesani Frassanito, prima muratori e poi costruttori di barche, tengo a rimarcare due particolari, in apparenza secondari, ma, a loro modo, indicativi.
Della seconda famiglia di cugini (a capo, Mosè), facevano parte due figli maschi, Vitale e Tommaso, e due femmine, Ttetta (Concetta) e Damiana.
Anche Tommaso, in proprio, costruiva gozzi e lancette in legno e, adesso che lui non esiste più, il segreto del mestiere è custodito da suo figlio Vitale, ufficialmente docente di matematica e fisica, ma capace di realizzate barche, come, saltuariamente, in effetti, fa.
Delle sorelle Frassanito, invece, mi è rimasta impressa l’attività svolta dalla più grande, Ttetta, fino a quando non andò in sposa nella vicina località di Andrano (non so se ella sia ancora viva). Si occupava, infatti, di un lavoro normalmente insolito per una donna, ovvero faceva la calzolaia.
A esercitare tale mestiere, nel paesello c’erano già i mesci Tore, Leriu e Roccu, tuttavia pure Ttetta operava nel settore. A voler essere precisi, non realizzava calzature di pelle e cuoio, bensì, soprattutto, accessori fatti di materiali meno pregiati, cioè gomma, stoffe e tele, per lo più in forma di sandali, ma a volte anche chiusi.
Nella casa dei miei genitori, sei figli e un unico stipendio da impiegato comunale, non si navigava nell’oro, sicché, sovente, noi ragazzini indossavamo scarpe realizzate dalla Ttetta.
Leggermente oltre l’abitazione e la bottega dei barcaioli Frassanito più affermati, viveva un contadino del paese, tale Giuseppe, piccolo di statura e mingherlino, alla buona, cui era stato attribuito il nomignolo di Titeppe.
Ovviamente povero, il predetto, del resto come la grande maggioranza dei concittadini, e tuttavia, la domenica, probabilmente credendo di imitare qualcuno degli sparuti signori del paese (catena e orologio nel taschino del panciotto), aveva preso l’abitudine di presentarsi in piazza munito di una catena, da una parte fissata alla cintura e dall’altra infilata in una tasca dei pantaloni.
Al che, gli amici, per celiare, si compiacevano con lui chiedendogli di mostrar loro l’orologio che si poteva supporre fosse legato a quella catena, ma, alla curiosità dei compaesani, il buon uomo, onesto e sincero, non poteva far altro che rispondere: “No, guardate che tengo appeso semplicemente un coltello”. Ed erano, ovviamente, risate allegre, senza ombra di malizia, sfottò o derisione.
Lì accanto, in un vicoletto dove dimorava la famiglia di F.A., quattro figli fra cui due belle ragazze, all’interno di un giardinetto si apriva una modesta grotta sotterranea presentante, su tratti della volta, tracce di stalattiti e noi ragazzi, incuriositi, non esitavamo a cercare di calarci dentro tale cavità, invero servendoci di attrezzatture precarie se non pericolose.
Il centro abitato, a quel punto, va esaurendosi, ma destano curiosità e rappresentano tappe di egualmente vividi e intensi ricordi, i vari fondi agricoli che si susseguono, taluni dalle denominazioni strane o stravaganti, altri collegati ai particolari personaggi degli antichi proprietari, così da aver lasciato un segno nella memoria del narrastorie.
“Sciancateddri”, “Lamelogne”, “Cantine”, “Vigna ‘e l’api”, “Pizzeddri”, “Aria”, “Munti”, l’infilata di appellativi di questi fazzoletti di terra rossa, sui quali, da ragazzino, mi è capitato di familiarizzare, vuoi per la loro appartenenza a miei parenti, vuoi frequentandoli in compagnia di amici coetanei, figli dei proprietari.
Da notare, specialmente, che il terreno “Vigna ‘e l’api”, già di Vitale e Palma ‘u tunzi, adesso fa capo ed è condotto direttamente da un nipote, omonimo, un altro Vitale, il quale vi ha impiantato un moderno alveare dei preziosi insetti, un apiario utilizzato anche per finalità didattiche, a beneficio di scolaresche e, in genere, di persone interessate che vi convengono dal Salento e non solo.
Ritornando sui passi iniziali dell’escursione agricola, in zona “Aria”, è situato uno spazioso locale, già agricolo e in una seconda fase destinato ad attività artigianali.
In decenni distanti, vi s’infilavano e, all’esterno, si essiccavano sotto il sole, le foglie di tabacco e io stesso, scolaro e studente delle medie, mi sono più volte trovato lì seduto sul pavimento, per aiutare in tale fatica i miei zii Guglielmo e Nina.
Dopo, vi ebbe sede un’attività di confezionamento di capi e accessori tessili, per conto terzi.
Da alcuni anni, infine, è il sito di lavoro di Simone Fersino, un bravo giovane, artigiano o meglio dire artista dalle mani duttili e dotato di estro e inventiva, che si è specializzato, attraverso una lunga e seria preparazione, nella lavorazione del ferro battuto e in abbinate produzioni di pregio, attività che gli reca ordini non soltanto da committenti salentini, di Lecce in particolar modo, ma anche di altre località italiane.
Simone è, insomma, molto apprezzato per la sua opera; personalmente, in aggiunta a ciò, lo ammiro anche per aver rilevato una piccola vicina tenuta agricola, la “Vija”, con una costruzione padronale originariamente dipinta di un gradevole rosso e col tempo divenuta cadente, e aver fatto rinascere il tutto, con sacrifici e investimenti mirati, davvero a nuova vita.
E’ bello, per me, infine, annotare che Simone ha per nonna paterna la cara Maria, da bambina, ragazza e giovane, oltreché prima cugina, anche stretta amica di mia madre: a lei, che, tutte le volte che ci incontriamo, mi fa grande festa, voglio dedicare un saluto e un fervido augurio inusuale da queste righe, al pensiero, fra l’altro, che nel dicembre dell’ormai prossimo 2018, compirà il suo centesimo compleanno.
Ecco, è proprio nella bottega di Simone che, come anticipato all’inizio delle presenti note, mi sono recato per la riparazione al timone della mia barchetta a vela. E, uscendomene a lavoro compiuto, non ho potuto fare a meno di volgere lo sguardo, come accade ogni volta che passo da quelle parti, su un lato del piazzale: precisamente, sullo scafo, tinteggiato di blu, di un’altra barca a vela, lì posto e conservato gelosamente da Simone, in memoria del fratello Andrea che, amante come pochi del mare e delle barche, appena ventenne, se ne andò per un’accidentale disgrazia mentre cercare di tutelare quel natante dagli effetti di una violenta burrasca.
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— Mario Calandra (@MariusKalander) October 13, 2019
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