#Tutto Bene Belgrade
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... Italy in Belgrade.. ..
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Millimetri a Belgrave Square
mario piazza / 10 febbraio 2019
L’invito dell’Istituto di cultura italiano per una conferenza sulla grafica editoriale capitava in un momento pieno di fatiche e apprensioni. A questo si aggiungeva il freddo di gennaio. Certo il cortese invito non poteva essere disatteso, ma sempre più nel mio animo nasceva l’impossibile desiderio di soddisfarlo come se si potesse andare da una stanza all’altra della propria casa. Un possente fremito di domesticità. Il sollievo di conoscere ogni piccolo dettaglio, il conforto di appoggiare lo sguardo su cose da sempre conosciute.
Un desiderio inattuabile. A meno di farne un progetto. Darsi una durata breve, la minima possibile. Di giungere alla meta e muoversi solo a piedi in un perimetro urbano definito e da addomesticare. In poco tempo impadronirsi dello spazio. È un po’ il compito del fare grafica. Entrare in altri mondi, altre storie e cercare di vestirle, di farle sentire comode e all’altezza per mostrarsi uniche. E qui conta anche la pazienza dell’ascolto e una certa dose di maniacale disciplina ordinatrice. Scrivere bene e scrivere con bellezza.
Il particolare conta. È la forma mentis del grafico, si accanisce e affascina per minuzie che nessuno vede, ma che per lui fanno la differenza. È un esercizio di sguardi, che si devono tradurre in segni. Molti anni fa, preso da questa febbre, avevo entusiasmato degli assistenti a un rilievo millimetrico degli ambienti del mio studio. Un appartamento luminoso, in una casa vezzosa degli anni trenta, ma molto trascurata nella manutenzione. Agli ambienti delabré, si era aggiunta la tessitura dei materiali depositati. Una sorta di Merzbau, con modesti fini estetici, a meno che non piacciano magazzini cartacei generati da indemoniati bricoleur. Così per qualche settimana, nei tempi morti del lavoro, fu fotografato lo studio per campionature di pochi centimetri. Non l’insieme, ma il particolare del particolare. Le tazze sporche di caffè, gli interruttori con fogge antiquate (tondi con la scritta «LUCE» per non sbagliare), la ruggine sulle manopole dei termosifoni in ghisa, la polvere fra i tasti del mac. Foto su foto a montare un mosaico che documentava e fermava le stratificazioni dei progetti. Un po’ come ne L’uomo nell’Olocene di Max Frisch. Un prendere appunti e rendersi conto di molto altro. Una diagnosi geologica del nostro lavoro.
Ecco mi prefiggevo di trasformare Belgrade Square nel set di un altro mio esperimento. Come andare in una città e chiudersi in una casa e non uscirne mai. Visitarla, senza visitarla. M i l l i m e t r i c a m e n t e. E così ho fatto.
Qui la casa era una piazza, con un giardino al centro. Una piazza nella piazza. Vegetale, ma con tanto di recinzione. da percorrere dal centro verso l'esterno. Così ho iniziato a percorrere, con calma, il perimetro recintato del giardino. È un giardino, dicono, privato. È il giardino delle proprietà che si affacciano sulla piazza. Chissà se è un'idea dell'architetto neoclassico George Basevi o del secondo marchese di Westminster, Richard Grosvenor, proprietario delle aree o dell'imprenditore edile Thomas Cubitt. Il primo ha un busto in bronzo, del secondo una scultura del padre sir Robert Grosvenor, primo marchese di Westminster, seduto con i fidati cani, il terzo una targa sull'edificio da lui costruito e abitato.
La cancellata è regolare, non troppo alta, tinta di scuro. La corona di alberi ed arbusti non lascia trapelare com'è il giardino al suo interno. E così poi scopro che c'è pure un campo da tennis. Questo giardino mi inquieta, se non fosse per la sua impeccabile manutenzione neoclassica. Si resta un po' perplessi, come da piccoli: “guardare, non toccare”. È lì, ma distante. E il fatto di non avere angoli retti, ma stondati, inganna e solo a posteriori comprendo che è più vicino al quadrato, che al rettangolo. È distante e disorienta.
Attorno a corona del giardino ci sono dei parcheggi a “pettine”. Se fossero tutti occupati, dall'alto con un drone vedremmo il verde con una cornice di oggetti metallici. Pietre preziose? No, molti sono furgoni, le auto quasi tutte stanno vicine agli edifici. Furgoni dei lavoratori edili, che incontro e seguo. Parlano lingue straniere. Mi viene alla mente un vecchio film del 1982, Moonlighting di Jerzy Skolimowski. Terribile e fantastico, con Jeremy Iron e tre muratori polacchi. Sarà ancora così, per tenere così linde le lussuose dimore rifinite in stucco bianco, che si affacciano sulla piazza. La cartolina del realismo capitalista. Quel bianco e quel verde che ingenerano questa stasi, questa quiete e tranquillità nel cuore di Londra. La leggera e pulviscolare pioggia amplifica il senso di torpore. Anche le auto, pare non facciano rumore. Questi edifici, pieni di modanature, colonne, timpani, capitelli e bandiere, ai miei occhi sembrano non essere abitati, se non fosse per qualche bagliore offerto dai grandi finestroni. Camminando incontro più muratori e manovali, che ambasciatori, diplomatici, funzionari, addetti stampa, impiegati. Ci saranno ingressi nascosti, più riservati e appartati. Però oltre ai furgoni, c'è qualche Ferrari e Jaguar. Quindi devono essere abitati. I numeri civici sono perfetti, sono composti in Baskerville, quello che in Italia, nei libri, usa Adelphi. Fu una scelta precisa, distintiva, quasi un manifesto rispetto all'Einaudi, che lasciavano e che usava il Garamond. Ad ogni modo queste cifre sono di grande eleganza, hanno quel tocco di incipriatura, che va nozze col candore e il disegno delle facciate. Il dato eccentrico in questa piazza sono le bandiere, non i pennoni con i pomoli dorati, solo le bandiere. Le stoffe variegate che ondeggiano o ammutoliscono. Svaniscono come i volti delle persone in un veloce ripasso della mia esplorazione su Street View, che cancella (dogmatismo dell'algoritmo) pure i volti delle statue.
Dopo aver circumnavigato un paio di volte la piazza, iniziai un'ispezione limitrofa anche incoraggiata dal desiderio di mangiare qualcosa. Nell'atmosfera sospesa del luogo, dove non c'era nulla che potesse assomigliare a un bar mi domandavo dove andassero a mangiare le squadre di manovali dei cantieri. La cosa più semplice fu seguirne uno. Mi portò all'Old English Coffee House, un minuscolo esercizio, in una vietta, Montrose Pl., sul retro dell'Istituto. Minuscolo e frequentatissimo. Lontano dagli standard commerciali, emanava un clima di autenticità. Si confermò come l'oasi nel deserto. Cibi semplici, senza tante storie. E un interrotto flusso, che garantiva comunque una pace. Efficienza british, ma anche una certa bonarietà da vecchia osteria. Oltre ai muratori, era una tappa per il take away dei tassisti.
Un via vai sostenuto. Insomma la storia nella storia. La mia cucina in Belgrave Square. Mi ricordava la minuscola trattoria in cui andavo ai tempi dell'università. Due locali, gestiti da una coppia omosessuale, uno in cucina, l'altro per servire. Stessa efficienza, stesso clima. E nella semplicità un tocco di passione: il gâteaux maison. Al ritorno a casa ho voluto vedere se c'era in rete l'Old English Coffee House. Trovai qualche conferma: “delizioso piccolo caffè. Buon cibo a prezzi bassi per la zona. Perfetto per autisti, operai o agenti segreti”; “quasi tutto il personale è piuttosto scortese”; “un po' piccolo”; “posti a sedere molto stretti”; “il luogo più sporco qui intorno, incredibile il cibo fa schifo e il servizio è ancora peggio”; “The best cafe in London”. Provai un certo entusiasmo, per il mio fiuto e per la geode di Montrose Pl.
Entrai all'istituto per la conferenza, andai nell'ufficio di Nicola e mi accolse una fantastica veduta di Venezia dipinta da Henry Morley (1869-1937).
Ero a casa.
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