Introduzione alla vita e agli insegnamenti di Sri Ramana
di David Godman
Circa dieci anni fa, al Ramanasramam, un uomo australiano mi chiese di incontrare un gruppo di devoti provenienti dall’Australia per parlargli di Ramana Maharshi. Acconsentii ma quando andai mi accorsi che era una vera e propria intervista formale e che i devoti australiani avrebbero fatto solo da spettatori.
Il nostro dialogo coprì un’ampia gamma d’argomenti. Dato che l’intervistatore, John David, non sembrava conoscere bene Bhagavan né i suoi insegnamenti, gran parte dell’intervista servì a rettificare i malintesi che aveva su di lui. Più tardi, quando lessi la trascrizione, mi resi conto che, dovendo tornare alle basi per rivedere tali fraintendimenti, l’intervista si era trasformata involontariamente in una presentazione della vita e degli insegnamenti di Bhagavan ideale per chi lo conosce poco o per niente. Per anni l’ho lasciata sul mio vecchio sito come lettura raccomandata a chi si avvicina per la prima volta a Bhagavan.
Quando l’intervista finì, John David mi disse che non accettava le mie spiegazioni degli insegnamenti di Bhagavan sulla mente. Voleva che li dibatessi pubblicamente con uno studioso occidentale del Vedanta di sua conoscenza, io mi rifiutai. Ampliai invece di alcune pagine la trascrizione della nostra conversazione nel tentativo di elaborare una presentazione più dettagliata possibile dei veri insegnamenti di Bhagavan sulla mente.
Questa è dunque la versione ampliata del dialogo originale. A dieci anni da allora, la credo essere ancora un’introduzione ideale per chi desidera una sintesi della vita e degli insegnamenti di Ramana Maharshi.
John David: Puoi iniziare raccontandoci qualcosa sulla gioventù di Ramana Maharshi? Del suo risveglio da ragazzo a Madurai?
David Godman: Si chiamava Venkataraman, era nato in una famiglia bramina nel sud dell’India, a Tiruchuzhi, una piccola città nel Tamil Nadu. Veniva da una famiglia osservante, di classe media. Suo padre, Sundaram Iyer, era un avvocato difensore senza abilitazione.
(Sundaram Iyer, il padre di Ramana Maharshi)
Assisteva le persone in questioni legali, pur non avendo un titolo riconosciuto per praticare come avvocato. Ciononostante, svolgeva bene la professione, era molto rispettato nella sua comunità. Venkataraman ebbe un’infanzia normale, che non lasciò intravedere segnali della grandezza futura. Era bravo negli sport, pigro a scuola, faceva le sue bricconate come tutti i suoi coetanei e mostrava poco interesse per le materie religiose. Aveva però delle peculiarità. Quando dormiva andava in uno stato d’incoscienza talmente profondo che i suoi amici lo potevano anche percuotere senza che si svegliasse. Aveva anche un’incredibile fortuna. Nei giochi di gruppo, vinceva sempre chi era nella sua squadra. Questo gli fece guadagnare il soprannome ‘Tangakai‘, che vuol dire ‘mani d’oro’. Un titolo che merita solo chi esibisce una fortuna inimmaginabile. Inoltre Venkataraman aveva un talento naturale per le complessità del Tamil letterario. Appena adolescente, ne sapeva già abbastanza da poter correggere il suo professore di Tamil a scuola, se faceva qualche errore.
(Madurai negli anni 1890)
Dopo la morte di suo pardre, quando lui aveva dodici anni, la famiglia si trasferì a Madurai, una città nel Sud del Tamil Nadu. Nel 1896, a 16 anni, ebbe un notevole risveglio spirituale. Era seduto in casa di suo zio quando capì che stava per morire. Era spaventato, ma non andò nel panico, si stese a terra e cominciò ad analizzare cosa stava accadendo. Iniziò ad indagare cosa fosse la morte: cosa sarebbe morto e cosa sarebbe sopravvissuto alla morte. Ebbe luogo spontaneamente un processo d’auto-indagine che culminò, entro pochi minuti, nel suo completo risveglio.
(La strada di Madurai dove Ramana Maharshi visse. La foto risale agli anni ’30)
In uno dei suoi commenti documentati su questo processo scrisse: ‘Indagando dentro “chi è l’osservatore?” vidi l’osservatore scomparire lasciando solo Colui che è per sempre. Nessun pensiero sorse per dire: “ho visto”, come poteva sorgere un pensiero per dire: “non ho visto”.’
In quei pochi istanti la sua identità individuale scomparve e fu rimpiazzata dalla piena consapevolezza del Sé. Quell’esperienza, quella comprensione, rimase con lui per il resto della sua vita. Non ebbe più bisogno di svolgere nessuna pratica o meditazione, perché la sua esperienza di morte lo lasciò nello stato di liberazione completa e finale. Questo è molto raro nel mondo spirituale: che qualcuno senza trascorsi interessi spirituali, in pochi minuti, senza sforzo o pratica precedenti, raggiunga lo stato che altri aspiranti impiegano vite ad ottenere. Dico ‘senza sforzo’ perché questa ricostruzione della morte e l’indagine che ne risultò, sembra più qualcosa che gli capitò che qualcosa che fece. Quando descrisse l’evento al suo biografo telegu, non citò mai il pronome ‘io’. Disse: ‘Il corpo era sul suolo. Gli arti si distesero aperti’ e così via. La sua descrizione lascia davvero il lettore col sentore che l’evento fu del tutto impersonale. Qualche potere prese il controllo del piccolo Venkataraman, lo fece adagiare al suolo e gli fece capire infine che la morte è per il corpo e per il senso d’individualità mentre non può toccare la realtà sottostante su cui entrambi appaiono.
Quando il giovane Venkataraman si rialzò, era un saggio pienamente illuminato ma non aveva nessun riferimento culturale o spirituale per valutare correttamente ciò che gli era accaduto. Aveva letto le biografie degli antichi Santi Tamil e assistito a molti rituali nel tempio, ma nulla di tutto questo era in grado di fargli capire il nuovo stato in cui si ritrovò.
John David: Quale fu la sua prima reazione? Che pensò gli fosse capitato?
David Godman: Anni più tardi, nel ricordare questa esperienza disse che, all’epoca, pensò d’aver preso qualche strana malattia. Una malattia talmente bella che sperò di non guarire mai. Per un po’, poco dopo l’esperienza, pensò anche d’essere stato forse posseduto. Nel riferire gli eventi a Narasimhaswami, il suo primo biografo inglese, usò ripetutamente la parola Tamil avesam, che significa posseduto da uno spirito, per descrivere la sua reazione iniziale all’accaduto.
(B.V. Narasimhaswami)
John David: Ne parlò con qualcuno? Provò a scoprire cosa gli era successo?
David Godman: Venkataraman non raccontò a nessuno della sua famiglia cosa gli era successo. Cercò di andare avanti come se nulla fosse accaduto. Continuò a frequentare la scuola e a mantenere un velo di normalità di fronte alla famiglia ma col passare delle settimane gli fu sempre più difficile mantenere questa facciata, perché era sempre più introiettato dentro di sé. Un giorno, verso la fine dell’agosto 1896, entrò in uno stato di profondo assorbimento nel Sé, proprio mentre trascriveva un testo per punizione, perché non aveva svolto bene i compiti.
Suo fratello disse sprezzante: “A che serve tutto questo a uno così?” - per dire: ‘a che serve una vita normale a uno che si comporta sempre come uno yogi?’
(La scuola di Venkataraman nel 1890, l’American Mission High School, Madurai)
La verità di quel commento colpì Venkataraman e lo spinse a decidere d’andar via per sempre. Il giorno dopo partì, senza dire dov’era diretto o cosa gli era accaduto. Lasciò solo una nota in cui diceva d’essersi imbarcato in un’‘impresa virtuosa’ e che non era il caso di spendere soldi per andarlo a cercare. La sua destinazione era Arunachala, un grande centro di pellegrinaggio ad alcune centinaia di chilometri a nord. Nella sua nota alla famiglia scrisse: ‘In cerca di mio padre e in obbedienza al suo comando, sono partito’. Suo padre era Arunachala, lasciò casa e famiglia per rispondere alla chiamata interiore giuntagli dalla montagna di Arunachala.
Il viaggio per Tiruvannamalai fu avventuroso, ci mise tre giorni per una tratta che, con maggiori informazioni, poteva completare in meno di un giorno. Arrivò il primo settembre 1896 e passò lì il resto della sua vita.
(La nota in Tamil che Bhagavan scrisse prima di lasciare la sua casa nel 1896)
(Una traduzione olografa della nota di Bhagavan, che segue l’originale)
John David: Per chi non conosce Arunachala, potresti dipingerci il posto, spiegarci il suo significato? Forse anche dire com’era ai tempi in cui Ramana Maharshi arrivò.
David Godman: La città di Tiruvannamalai e la sua montagna, Arunachala, sono da sempre un centro di pellegrinaggio importante. Il cuore della città non è cambiato molto nel tempo malgrado la presenza di risciò a motore, antenne tv e l’espansione delle periferie. La cultura di base e lo stile di vita degli abitanti di Tiruvannamalai è probabilmente identica da secoli. Marco Polo passò nel Tamil Nadu nel 1200 circa, sul tragitto per tornare a casa dalla Cina. La sua descrizione delle abitudini popolari e del modus vivendi di qui risulta decisamente familiare a chi ci abita anche adesso.
Tiruvannamalai ha uno dei principali Templi contenenti il lingam di Shiva dell’India meridionale. Ce ne sono cinque, ognuno corrisponde ad un elemento: terra, acqua, fuoco, aria e spazio. Tiruvannamalai è il lingam del fuoco. Le prime testimonianze di questa località risalgono al 500 d.C., tempo in cui era già famosa. Già a quell’epoca i santi pellegrinavano nel Tamil Nadu, lodando Arunachala come dimora di Shiva e raccomandando di visitarla. Prima di allora, non sono disponibili prove documentali perché gli abitanti non scrivevano, né costruivano edifici permanenti. Nel contesto storico, direi che Ramana Maharshi è solo il più recente e sicuramente il più famoso rappresentante di una lunga lista di santi straordinari che sono stati attratti dal potere di questo luogo per almeno, direi, 2.000 anni.
John David: Quando fu costruito il grande tempio?
(Il Tempio Arunachaleswarar a Tiruvannamalai. Foto probabilmente risalente agli anni ’30)
David Godman: Si ampliò gradualmente, in quadrati, dall’interno all’esterno. Una volta c’era un solo santuario, grande quanto una piccola stanza. Si possono datare questi sviluppi poiché qui i muri dei templi sono come degli uffici di registro pubblico. Qualsiasi Re vincesse una guerra contro i regni vicini, otteneva l’incisione dell’accaduto sul muro del tempio. Oppure se donava 500 acri a qualcuno che era nelle sue grazie, anche questo fatto veniva cesellato sul muro del tempio. È dove ci si reca per controllare chi vinse le battaglie e a chi il Re concesse cosa.
Le prime iscrizioni, chiamate epigrafi, nel santuario interno, sono datate al nono secolo, quindi verosimilmente fu iniziato allora. Progressivamente, fino al 1600 circa, il tempio si sviluppò sempre di più. Raggiunse le sue dimensioni attuali nel diciasettesimo secolo. Per coloro che non l’hanno mai visto, vale la pena di ricordare che è davvero immenso. Credo che ognuno dei quattro lati sia lungo quasi 200 metri e la torre principale è alta più di 60 metri.
(I gorupa e i cortili del tempio, visti dalla cima del Raja Gorupa)
John David: Ed è al tempio che Bhagavan si recò al suo arrivo?
David Godman: Quando Bhagavan era molto giovane sapeva intuitivamente che Arunachala rappresentava Dio, in qualche modo. In uno dei suoi versi scrisse: ‘Dalla mia infanzia spensierata, l’immensità di Arunacala aveva brillato nella mia coscienza’. Non sapeva, allora, che fosse un posto dove si poteva andare; aveva solo quell’associazione mentale alla parola Arunachala. Sentiva: ‘è il posto più sacro, lo stato più santo, è Dio stesso’. Era incantato da Arunachala e da ciò che rappresentava, senza neanche sapere che in realtà era un sito di pellegrinaggio che si poteva raggiungere. Lo scoprì solo quando era ormai adolescente, nel momento in cui uno dei suoi parenti, che veniva da lì, gli disse: ‘sono stato ad Arunachala’. Bhagavan raccontò che fu come una doccia fredda realizzare che era solo un posto sulla cartina geografica. Più tardi, dopo la sua illuminazione, capì che era stato il potere di Arunachala ad accelerare l’evento e ad attirarlo fisicamente qui. Il verso che ho appena citato racconta i primi stadi della sua relazione con la montagna:
‘Guarda, lì [Arunachala] ferma come fosse insenziente. Misterioso è il modo in cui opera, oltre ogni comprensione umana. Dalla mia infanzia spensierata, l’immensità di Arunacala aveva brillato nella mia coscienza. Neanche quando appresi da qualcuno che era solo Tiruvannamalai, mi resi conto del suo significato. Quando fermò la mia mente e mi attirò a sé, mi avvicinai e vidi che era assoluta immobilità.’
L’ultimo verso contiene un bel gioco di parole. Achala in Sanscrito è sia ‘montagna’ che ‘assoluta immobilità’. La poesia descrive, da una parte, il pellegrinaggio a Tiruvannamalai a livello fisico, ma descrive inoltre ciò che accadde alla sua mente che ritornò al cuore e divenne totalmente ferma e silente. Al suo arrivo, e questo non lo troverai scritto in nessuna biografia ufficiale, disse che rimase di fronte al tempio. Era chiuso in quel momento ma tutte le porte, fino al più interno sacrario, si aprirono spontaneamente per lui. Andò dritto dentro, giunse al lingam e lo abbracciò. Non voleva che questa versione dei fatti venisse raccontata per due motivi. Prima di tutto, non gli piaceva ostentare il fatto che miracoli accadevano attorno a lui. Quando eventi del genere accadevano, cercava sempre di minimizzare. Secondo, sapeva che i preti del tempio sarebbero rimasti sconvolti nel sapere che aveva toccato il lingam. Anche se era un bramino, i preti del tempio avrebbero considerato l’atto come una contaminazione e avrebbero dovuto provvedere a fare una speciale ed elaborata puja per riconsacrare il lingam. Non volendo turbarli, non disse nulla.
(L’entrata principale al Tempio Arunachaleswarar)
John David: Sì, siamo appena tornati dal tempio e c’era un lucchetto enorme alla porta.
David Godman: Sì. Solitamente nessun visitatore può avvicinarsi al lingam. Prendersene cura è una professione ereditaria qui. A nessuno, che sia al di fuori di tale discendenza, viene concesso d’oltrepassare la barra posta a tre metri dal lingam. C’è un altro aspetto interessante in questa storia. Dal momento della sua illuminazione a Madurai, c’era stata una sensazione di forte bruciore nel corpo di Bhagavan e andò via solo quando abbracciò il lingam. Toccare il lingam dissipò o trasferì a terra quell’energia. Il lingam nel tempio non è solo una rappresentazione di Arunachala. È considerato Arunachala stessa. L’abbraccio al lingam fu l’atto finale dell’unione fisica tra Bhagavan e il suo Guru, Arunachala. Non ho letto di nessun’altra visita di Bhagavan al sacrario interno. Dovrebbe essere l’unica volta in cui ci entrò. Una sola visita fu sufficiente a questo scopo. Bhagavan amò sempre la forma fisica della montagna Arunachala e passava più tempo possibile sui suoi versanti, ma la questione col lingam del tempio si completò entro pochi minuti dal suo arrivo, nel 1896.
John David: Penso che da quel momento in poi restò quasi sempre entro i confini del tempio, giusto?
David Godman: Dopo questo arrivo drammatico restò per alcuni mesi in vari punti del tempio. Il giorno in cui arrivò gettò via il denaro che aveva con sé nella riserva del tempio; si rasò la testa, segno tipico della rinuncia fisica; gettò i suoi abiti e si mise seduto, in silenzio, spesso in stati di profondo samadhi, in cui era del tutto inconsapevole del corpo e dell’ambiente. Era suo destino sopravvivere e diventare un grande maestro, così alcuni lo forzarono a mangiare e badarono alle sue necessità. Senza quel particolare destino da compiere, forse avrebbe lasciato il corpo o sarebbe morto trascurandolo. Nei primi tre o quattro anni rimase quasi sempre inconscio di ciò che era intorno a lui. Mangiava raramente e una volta il suo corpo cominciò ad imputridirsi. Alcune aree sulle sue gambe si lacerarono in piaghe purulente, ma lui non lo notò neanche.
John David: Questo accadde quando era in quella specie di sotterraneo?
David Godman: Sì, ci siete stati? È chiamato Patala Lingam. Restò lì per sei settimane circa. Alla fine fu fisicamente prelevato, portato fuori e pulito. Disse che, nei suoi primi anni qui, gli capitava di aprire gli occhi senza sapere per quanto era stato noncurante del mondo. Si alzava e cercava di fare qualche passo. Se le gambe gli reggevano abbastanza, ne deduceva che era stato ignaro del suo corpo per un periodo relativamente corto – forse uno o due giorni. Se le gambe gli cedevano quando tentava di alzarsi e camminare, realizzava che era stato in un samadhi profondo per molti giorni, forse settimane. A volte apriva gli occhi e scopriva di non essere nello stesso punto in cui si era seduto quando aveva chiuso gli occhi. Non ricordava di aver spostato il corpo da un posto all’altro, in uno dei mantapam del tempio.
(L’angolo del mantapam dalle 1000 colonne in cui era il Patala Lingam prima del restaurato)
(Il mantapam dalle 1000 colonne dopo il restauro)
John David: Qualcuno riconobbe che era un grande santo o almeno una persona speciale?
David Godman: In pochi. Seshadri Swami, anch’egli un santo del luogo, lo notò quando era nel Patala Lingam. Cercò di curarlo e proteggerlo ma senza molto successo. Bhagavan menzionò un altro paio di persone che capirono intuitivamente che era in uno stato molto elevato ma, a quei tempi, erano davvero in pochi.
John David: Erano persone del tempio?
David Godman: Seshadri Swami viveva un po’ ovunque. Forse altre due o tre persone riconobbero, persino ai primi tempi, che era una persona speciale. Alcuni lo riverivano solo perché aveva uno stile di vita così ascentico, ma altri capirono che era in uno stato molto elevato. Il nonno di un uomo che più avanti divenne l’avvocato dell’ashram fu tra coloro che, Bhagavan disse, aveva piena cognizione di chi lui fosse realmente.
(Seshadri Swami)
John David: A quei tempi si poteva anche facilmente prendere il suo comportamento come un segno di pazzia, vero? Ad esempio stamattina c’era un uomo col perizoma, simile a quello che indossava Bhagavan, nell’ashram, aveva un accento francese. Poteva essere sia un grande santo che un folle. Non è molto facile stabilirlo sul momento.
David Godman: Qui gli danno il beneficio del dubbio, soprattutto se sono in meditazione tutto il giorno, immobili e se non mangiano. È difficile fingere una cosa simile. Non rimani nella posizione del loto, senza muoverti per giorni, solo per rimediare un pasto gratuito. Ma allo stesso tempo ciò non prova che sei illuminato. C’era un uomo ai tempi di Bhagavan che stava con gli occhi chiusi nella posizione del loto per diciotto ore al giorno. Si chiamava Govind Bhat e viveva a Palakottu, una comunità di sadhu adiacente al Ramanashram. Provò ad attrarre devoti anche quando Bhagavan era vivo, ma non ci riuscì molto. Alla fine è la realizzazione ad attrarre i veri devoti, non le farse fisiche.
(Entrata del santuario Patala Lingam e lingam interno)
John David: Come arrivò poi a trasferirsi sulla montagna?
David Godman: Siete stati al Gurumurtham? È un tempio a un chilomentro e mezzo dalla città. Un uomo che si curava di Bhagavan lo invitò ad andare a stare in un frutteto di mango vicino a questo tempio. Così si trasferì lì per un anno e mezzo. È il posto più lontano dalla montagna in cui andò mai, durante i suoi cinquantaquattro anni passati qui. Anche lì era quasi sempre ignaro del corpo e del mondo. Le unghie gli crebbero di diversi centimetri. Non si lavò, né pettinò i capelli per un paio d’anni. Molto dopo commentò che se non si pettinano i capelli diventano arruffati e crescono molto velocemente. Entro la fine della sua permanenza al Gurumurtham, aveva capelli lunghi e scarmigliati e unghie lunghe. Disse che sentiva le persone fuori bisbigliare: ‘quest’uomo è lì da centinaia d’anni’. La portata del suo ascetismo lo faceva sembrare vecchio già a diciotto anni.
(Gurumurtham, fotografato presumibilmente negli anni ’30. Nessuna foto è rimasta invece del frutteto di mango dell’epoca.)
John David: Dal modo in cui narri la storia, sembra che sia sempre stato chiaro che era un santo.
David Godman: Chiaro a chi? È facile dirlo col senno di poi, ma all’epoca c’erano molti che non lo consideravano affatto. La popolazione di Tiruvannamalai nel 1900 era di circa 20.000 abitanti. Se venti persone lo andavano a visitare regolarmente e gli altri non si degnavano neanche, vuol dire che il 99,9% della popolazione o non sapeva nulla di lui o non era abbastanza interessata da fargli visita. Suo zio, che venne qui verso la fine degli anni 1890 per provare a riportarlo a casa, fece domande in città: ‘Cosa fa? Perché si comporta così?’ e le risposte che ricevette non furono positive. Fu portato a credere che era uno sfaticato e che doveva essere riportato a casa. Anche negli anni successivi molti a Tiruvannamalai non avevano una grande opinione di lui. Ricordiamoci che chi ha lasciato testimonianze a quell’epoca era suo devoto quindi le opinioni divulgate su di lui non sono molto obiettive.
(Una foto più recende del Gurumurtam. Il terreno è ora un vivaio, un luogo lussureggiante e variopinto.)
John David: Quindi quando aveva vent’anni o giù di lì, c’erano già devoti che volevano stare con lui?
David Godman: Arrivò qui quando aveva sedici anni e per i due o tre anni successivi ebbe, a volte, un attendente a tempo pieno e pochi che occasionalmente andavano a trovarlo. Fu solo agli inizi dello scorso secolo che le persone cominciarono ad andare da lui regolarmente. All’inizio del 1900 aveva un piccolo gruppo di seguaci. In pochi gli portavano da mangiare abitualmente e pochi altri divennero visitatori frequenti. Un gran numero di curiosi andavano solo a dare un’occhiata. A parte questi turisti, aveva forse quattro o cinque devoti fedeli.
John David: Erano persone del luogo?
David Godman: Sì, erano per lo più locali. Poi c’era Akhilandamma, una donna che viveva a più di sessanta chilometri da qui, che ogni tanto viaggiava dal suo villaggio portandogli del cibo. Un altro devoto, Sivaprakasam Pillai, viveva in un’altra città ma veniva regolarmente per ricevere il darshan. Quasi tutti gli altri vivevano a Tiruvannamalai.
Akhilandamma
Sivaprakasam Pillai
John David: E poi si trasferì dal frutteto di mango alla montagna?
David Godman: Verso il 1901 andò alla grotta di Virupaksha e ci restò per quindici anni ma non era un luogo adatto a viverci tutto l’anno. In estate era troppo caldo. Restava lì per circa otto mesi l’anno e poi si recava in caverne e templi limitrofi, come il Tempio di Guhai Namasivaya, la caverna di Sadguru Swami e la grotta dell’albero di mango. Sono tutti raggiungibili con cinque minuti di cammino da Virupaksha. C’è una grande riserva d’acqua lì, il Mulaipal Tirtham, un pochino più giù della grotta di Virupaksha. Era la scorta d’acqua dei sadhu. Tutti sulla collina dipendevano da quella riserva, quindi tutte le grotte e i rifugi sono situati lì attorno.
(L’entrata del Tempio Guhai Namasivaya)
John David: Ora è diventata una specie di fattoria lassù, tante mucche e quant’altro.
David Godman: Le cose cambiano.
John David: Ma c’è un ruscello che passa proprio a fianco alla caverna. Ogni volta che sono stato lì...
David Godman: Non c’è tutto l’anno e quando Bhagavan si trasferì in quella caverna non c’era proprio. Poi un’estate ci fu un grande temporale, provocò una frana che trascinò giù molte rocce vicine alla grotta. Una volta rimossi i detriti, fu scoperta una nuova sorgente che usciva dalle rocce. I devoti lo considerarono un dono di Arunachala e Bhagavan sembrò essere d’accordo.
John David: Sembra una buona fonte d’acqua.
David Godman: Va a seconda della stagione. Abbiamo appena avuto una settimana e mezza di pioggia abbondante. Se non piove si dissecca entro una settimana, non è una fonte molto affidabile.
John David: È la stessa che passa a Skandashram?
(Edificio di fronte alla grotta dell’albero di mango. Foto degli anni ’30.)
David Godman: No, Virupaksha ha una sorgente indipendente. Skandashram ha la miglior fonte su quel lato della montagna. Anche quella sorgente non esisteva all’epoca in cui Bhagavan si trasferì sul colle. Un giorno fece una passeggiata lì – un centinaio di metri più su rispetto a Virupaksha – notò un pezzo di terra umido e raccomandò che fosse scavato per vedere se c’era una fonte d’acqua. C’era eccome, quella che ora scorre a Skandashram è la più alta sorgente d’acqua permanente della montagna. È a quasi 200 metri d’altezza dalla città.
John David: Quindi Skandashram non esisteva ancora a quei tempi?
David Godman: No. È chiamato così in ricordo di chi cominciò a costruirlo, Kandaswami, nei primi anni del ‘900. Kandaswami fece un lavoro immenso sul sito. Quando iniziò era solo una discesa rocciosa a 45 gradi. Scavò verso l’interno della montagna e usò il terreno scavato e le rocce per creare un terrazzo piano sul lato della montagna. Piantò molti alberi di cocco e di mango che sono ancora lì. È un posto accogliente adesso, un’oasi ombreggiata sul lato della collina.
(L’entrata alla grotta Virupaksha. Il sadhu in primo piano non è Bhagavan.)
John David: Perciò quando Bhagavan ci si trasferì era già ben messo, c’era qualche costruzione e una terrazza?
David Godman: La terrazza sì e anche i piccoli alberi che erano stati piantati ma c’era solo una capanna, non abbastanza grande per tutti. I devoti del tempo fecero una raccolta fondi per costruire la struttura che esiste ora.
John David: Sai quante persone erano lì con Bhagavan? Mezza dozzina?
David Godman: Nella grotta di Virupaksha, una media di quattro o cinque persone. Quando Bhagavan si trasferì a Skandashram, la media si era alzata a circa dieci, dodici persone. Mi riferisco a chi viveva con Bhagavan a tempo pieno e dormiva lì. Molti altri lo visitavano e andavano via.
(Il primo edificio a Skandashram. Bhagavan è sulla sinistra in basso, con un bastone in mano.)
John David: Quindi anche nella caverna in effetti c’erano persone con lui?
David Godman: Sì, mangiavano assieme e pernottavano lì. Molti di loro dovevano andar via il giorno per svolgere attività altrove. Non se ne stavano lì seduti tutto il tempo. Erano tutti uomini, tra l’altro. Fino al momento in cui non arrivò la mamma di Bhagavan, nel 1914, era permesso solo agli uomini di dormire a Virupaksha. Anche se non era una regola formale, coloro che vivevano con Bhagavan tendevano a reputarsi dei sadhu casti. La grotta era dunque considerata come un ashram per soli uomini. Quando arrivò la madre di Bhagavan, i sadhu non volevano che si trasferisse lì con loro. Tuttavia quando Bhagavan dichiarò: ‘Se la costringete ad andarsene, andrò via con lei’, ci ripensarono e le permisero di restare.
John David: Allora non viveva nella grotta in ritiro o in silenzio solitario. L’immagine di Bhagavan è sempre associata a quella di una persona in piena solitudine e silenzio totale.
David Godman: Le sue abitudini cambiarono in diverse fasi della sua vita. Dal suo arrivo qui, nel periodo finale della sua adolescenza, per alcuni anni non interagì quasi mai con nessuno. La maggior parte del tempo era seduto con gli occhi chiusi, sia nel grande tempio sia nei templi e nei santuari vicini. Era consapevole di quello che accadeva, perché anni dopo era in grado di riferire fatti accaduti a quei tempi, ma non parlava quasi mai. Il periodo di semi-silenzio durò circa dieci anni, fino al 1906. Non aveva fatto voto di silenzio, aveva temporaneamente perso l’abilità di articolare suoni. Quando provava a parlare dalla gola gli uscivano solo suoni gutturali. A volte doveva fare tre o quattro tentativi prima di riuscire a dire qualche parola. Dato che era così arduo parlare, preferiva il silenzio. Nel 1906-7 circa, quando recuperò la capacità di parlare normalmente, iniziò ad interagire con le persone intorno a lui. In questo periodo passò anche molto tempo da solo a vagare per Arunachala. Amava stare sulla montagna. Era la sua unica passione, il suo unico attaccamento.
(Skandashram, fotografata verso la fine degli anni 1980)
John David: Andava solo? Vagava sul colle da solo?
David Godman: A volte portava qualcuno per brevi passeggiate, ma per lo più andava solo.
John David: Si sa chi fu il suo primo discepolo? O forse non dovremmo dire chi fu il primo discepolo?
(Foto di gruppo nelle vicinanze della grotta Virupaksha, 1915)
(Bhagavan, in alto a destra, Palaniswami, seconda fila a destra. La mamma di Bhagavan seconda fila a sinistra. Sivaprakasam Pillai al centro, fila in basso. Vicino alla caverna Virupaksha, nel 1915.)
David Godman: Le persone che si presero cura di lui nei suoi primi anni qui, possono essere considerate i suoi primi devoti. Il più noto è Palaniswami, che badò a Bhagavan sin dal suo arrivo, finché non morì nel 1915. Furono inseparabili per quasi vent’anni.
John David: Visse anche nella caverna con Bhagavan?
David Godman: Sì, era il suo attendente a tempo pieno nella grotta di Virupaksha. Viveva con lui anche a Gurumurtham.
John David: E poi gradualmente altri che erano attratti da lui divennero sempre più residenti regolari. Non c’era iniziazione formale, vero?
David Godman: Non so proprio chi decidesse: ‘Ok, tu puoi dormire qui stanotte’. Non c’era un’organizzazione, non c’era un registro d’accoglienza. Tutti erano benvenuti a stare con Bhagavan – tutto il giorno, se volevano. Se erano ancora lì la notte, potevano restare a dormire. Se c’era cibo, sarebbe stato condiviso con tutti i presenti. Bhagavan non ebbe mai tanto a che fare con chi c’era o non c’era, con chi aveva libertà di restare o meno. Se volevano restare, restavano e se volevano andar via, andavano via.
John David: Continuò sempre così? Non si fece mai coinvolgere attivamente nell’amministrazione dell’ashram?
(Bhagavan seduto di fronte all’entrata di Skandashram con un cane)
David Godman: Ai tempi di Virupaksha, non c’era neanche lavoro da svolgere. Era una comunità di sadhu mendicanti che semplicemente stavano con Bhagavan quando volevano. Andavano in città, elemosinavano per le strade, raccoglievano cibo e lo riportavano a Virupaksha. Bhagavan lo mescolava insieme, lo distribuiva e quello era il cibo per la giornata. Se non riuscivano a raccogliere abbastanza cibo, si tenevano la fame. Nessuno cucinava quindi non c’era lavoro da fare, tranne la pulizia di quando in quando. Solo dopo l’arrivo della madre, nel 1914, si iniziò a cucinare. Pian piano, poi, si arrivò al punto che se volevi vivere a tempo pieno nell’ashram dovevi lavorare. Ancor oggi chi mangia e risiede nell’ashram deve svolgere delle mansioni. Non è un posto per chi vuole meditare tutto il giorno. Se preferisci fare quello, devi vivere altrove.
John David: Questo accadde quando si trasferirono a Skandashram?
David Godman: Si organizzarono un po’ meglio quando Bhagavan si trasferì a Skandashram ma era ancora una comunità di sadhu mendicanti e lo fu fino agli inizi degli anni ’20. Bhagavan stesso andava a mendicare durante i suoi primi anni qui. Anche se non direi che la incoraggiasse, la riteneva un’ottima tradizione. Elemosinare cibo e vivere di offerte, dormire sotto un albero e svegliarsi il giorno seguente senza niente. Approvava completamente questo stile di vita, sebbene lui non poté continuare a seguirlo una volta che si stabilì e che un ashram si formò attorno a lui.
John David: Addosso aveva solo il perizoma?
David Godman: All’inizio, nei primi mesi, era nudo. Un paio di mesi dopo il suo arrivo ci fu un grande festival al tempio. Alcuni devoti lo sollevarono e lo coprirono con un perizoma, perché avevano paura potesse essere arrestato, se restava senza vestiti addosso di fronte a tutti. Per la maggior parte della sua vita mise solo un perizoma, a volte con l’aggiunta di un dhoti che lui legava sotto le ascelle invece che intorno alla vita. A volte fa freddo qui, nelle mattine invernali, ma lui non sembrò mai volere, né necessitare di altri capi d’abbigliamento.
John David: Quando cominciò ad ingrandirsi l’ashram?
David Godman: Trasferirsi ai piedi della montagna fu il grande passo nella vita di Bhagavan. Quando la madre morì, nel 1922, fu sepolta dove ora è situato l’ashram. Fu scelto quel sito perché all’epoca era un cimitero induista. Bhagavan continuò a vivere a Skandashram però sei mesi dopo scese dalla montagna senza risalire più a Skandashram. Non spiegò mai le ragioni per cui rimase ai piedi del colle. Disse solo che non ebbe l’impulso di tornare a Skandashram. Ecco come ebbe inizio l’odierno Ramanashram.
John David: Così l’ashram è costruito su un cimitero induista?
David Godman: Sì. Allora il cimitero era distante dalla città. Adesso la città si è estesa fino ad includere il Ramanashram e l’attuale cimitero induista è più lontano, a un chilometro e mezzo dalla città.
John David: L’ashram come entrò in possesso di questo terreno?
David Godman: Il luogo dove fu sepolta la madre di Bhagavan era proprietà di un math, un’istituzione religiosa, in città. L’uomo che presiedeva l’organizzazione aveva grande stima di Bhagavan e cedette il terreno all’emergente Ramanashram. Ai tempi della morte della mamma di Bhagavan i devoti chiesero il permesso al capo del math per seppellirla su quel terreno e non fu un problema averlo, dato che era anche lui un devoto di Bhagavan.
John David: E il primo edificio fu il reliquiario sulla tomba della madre?
David Godman: Beh, reliquiario è una parola grossa. C’è una foto davvero splendida del 1922, poco dopo che Bhagavan si sistemò lì. L’unica costruzione era una capanna di foglie di cocco. Sembrava poter cadere al primo colpo di vento. Le persone che lo andarono a trovare quell’anno riferirono che non c’era spazio neanche per due persone nella stanza dove viveva Bhagavan. Quello fu il primo edificio dell’ashram: una baracca col tetto di foglie di cocco che, quasi certamente, perdeva acqua quando pioveva.
(Bhagavan in piedi di fronte alla prima costruzione del Ramanasramam, 1922)
John David: Adesso è bellissimo - acqua, alberi, pavoni. Doveva essere molto rudimentale ottant’anni fa.
(Il primo edificio sopra al Samadhi della Madre, 1922)
David Godman: Ho parlato con l’uomo che ripulì il terreno. Mi disse che c’erano grandi massi, molti cactus e arbusti spinosi. Non era proprio una foresta. Non c’è il clima adatto qui per una foresta lussureggiante e non c’è molta terra. Il sostrato roccioso è spesso vicino alla superficie e ci sono molte sporgenze rocciose. Quest’uomo, Ramaswami Pillai, mi ha raccontato d’aver passato i primi sei mesi a sradicare arbusti con un piede di porco, a tagliare cactus e a livellare il terreno.
Ramaswami Pillai
John David: Quando iniziarono a costruire Bhagavan fu coinvolto nei lavori?
David Godman: Forse non nei lavori del primo capanno ma, una volta trasferitosi lì, fu molto partecipativo. Il primo vero edificio sopra il Samadhi della Madre fu pianificato e costruito da lui. Hai visto come fanno i mattoni qui?
John David: Forse.
David Godman: È come fare torte di fango. Si inizia con uno stampo a forma di mattone. Il composto di fango si pressa negli stampi per creare migliaia di mattoni che vengono poi essiccati al sole. Dopo che si sono ben asciugati, si impilano su una struttura della grandezza di una casa che ha grandi buchi alla base per metterci sotto della legna. La parte esterna della catasta di mattoni viene coperta con fango umido e poi sotto viene acceso il fuoco. Quando il fuoco prende bene anche la parte sottostante viene sigillata. I mattoni vengono così cotti in un ambiente caldo e privo d’ossigeno, allo stesso modo in cui si fa il carbone. Dopo due, tre giorni il fuoco si estingue e, se niente va storto, i mattoni risultano cotti a puntino. Se invece il fuoco si spegne troppo presto o se piove troppo durante la cottura, i mattoni non si cuociono bene. In tal caso l’intera produzione è sprecata perché i mattoni sono deboli e friabili – come biscotti anziché mattoni. Negli anni ’20 qualcuno provò a fare mattoni vicino all’ashram, ma la cottura non fu ottimale e i mattoni mezzi cotti furono abbandonati lì. Bhagavan, che abborriva lo spreco di ogni genere, decise di usare quei mattoni, inadatti al commercio, per costruire la cappella sopra la tomba della madre. Una notte fece mettere tutti coloro che erano nell’ashram in fila, tra la fornace e l’ashram. Si passarono i mattoni di mano in mano, fino ad averne a sufficienza nell’ashram per fare una costruzione. Il giorno dopo, quando lui e i suoi devoti costruirono il muro intorno al samadhi, lui stesso partecipò alla muratura. Bhagavan lavorò principalmente alla parte interna del muro, perché gli altri credevano che, dovendo divenire un tempio, dovesse essere costruito da bramini. Questo fu l’unico edificio costruito proprio con le sue mani ma quando, anni dopo, furono eretti i grandi edifici in granito, che costituiscono la maggior parte dell’ashram oggi, lui ne fu l’architetto, l’ingegnere e il supervisore dei lavori. Era lì ogni giorno, dava disposizioni e controllava i progressi.
(Bhagavan all’interno del Samadhi della Madre, negli anni ‘30)
John David: Hai detto ‘aborriva ogni spreco’. Ci racconti qualcosa di più su questo suo aspetto?
David Godman: Lui pensava che qualsiasi cosa arrivava all’ashram era un dono di Dio e che pertanto doveva essere utilizzata giustamente. Si chinava a raccogliere semi di mostarda con le unghie se cadevano sul pavimento della cucina e insisteva che fossero messi da parte ed usati; tagliava i margini bianchi delle prove di stampa dei libri dell’ashram, poi li incollava insieme e ne faceva dei piccoli block notes; provava a cucinare gli scarti delle verdure, come le punte delle melanzane, che solitamente si buttano. Ammetteva lui stesso d’essere un po’ maniacale. Una volta disse: ‘Menomale che non sono sposato. Nessuna donna avrebbe mai sopportato le mie abitudini.’
John David: Tornando ai lavori di costruzione, quanto era coinvolto nelle decisioni di giorno in giorno? Per esempio, decideva dove andavano porte e finestre?
David Godman: Sì. Spiegava ciò che voleva sia a voce, sia disegnando degli schizzi su pezzi di carta o sul retro di buste da lettera usate.
John David: Stai descrivendo un Bhagavan totalmente diverso da quello seduto in samadhi tutto il giorno. La maggior parte della gente pensa che passò tutta la vita seduto in silenzio nella hall, a far nulla.
David Godman: Non gli piaceva stare seduto nella hall tutto il giorno. Spesso diceva che era la sua prigione. Quando arrivavano dei visitatori, mentre era impegnato in qualche lavoro, lo cercavano e gli riferivano che era desiderato nella hall. Lì è dove solitamente incontrava i nuovi arrivati. Lui sospirava e diceva: ‘Sono arrivate persone, devo tornare in prigione.’
John David: ‘Devo tornare sul divano.’
(Bhagavan mentre ispeziona i lavori della sala mensa, nella metà negli anni ’30.)
David Godman: Sì. ‘Devo andare a mettermi sul divano a dire alle persone come raggiungere l’illuminazione.’ Bhagavan amava tutti i lavori pratici, soprattutto cucinare. Fu il capo cuoco dell’ashram per almeno quindici anni. Si alzava alle due o alle tre del mattino, tagliava le verdure e controllava la preparazione. Durante la costruzione degli edifici dell’ashram, negli anni ’20 e ’30, assunse anche il ruolo di capo ingegnere e di architetto.
John David: Quello che stai raccontando è importante sotto molti aspetti. Le persone si sono fatte un’idea diversa su Bhagavan. La maggioranza si è creata l’immagine di un uomo che stava sempre sul divano, beato e nullafacente. Stai descrivendo un uomo completamente diverso.
David Godman: Il suo stato interiore non cambiò mai da quando aveva sedici anni in poi, ma le sue attività esterne sì. All’inizio della sua vita qui ad Arunachala era silenzioso e non faceva quasi nulla. Trent’anni dopo aveva una routine impegnativa e movimentata ma l’intima conoscenza di chi era non vacillò mai durante questa seconda fase più attiva.
John David: Mi piace quello che stai dicendo, perché in un certo senso stai smentendo molti miti spirituali.
(Chadwick seduto sulla sua veranda)
David Godman: Bhagavan non si sentì mai a suo agio nel ruolo del ‘Guru’ sul divano, con tutti seduti sul pavimento attorno a lui. Amava lavorare e vivere tra la gente, interagire in modo normale, naturale ma, col passare degli anni, gli fu sempre meno possibile continuare questo stile di vita. Una delle difficoltà era che le persone si sentivano completamente intimidite da lui. La maggior parte di loro non riusciva a comportarsi normalmente. Molti visitatori volevano metterlo su un piedistallo e trattarlo come un dio, lui non sembrava apprezzare questo genere di trattamento. Ci sono belle storie di persone, arrivate da poco e con un atteggiamento naturale, che ebbero una reazione molto naturale da Bhagavan. Il maggior Chadwick scrisse che Bhagavan andava nella sua stanza dopo pranzo, sbirciava tra le sue cose come un bambino curioso, si sedeva sul letto e chiacchierava con lui. Però quando Chadwick mise una sedia per Bhagavan, nella speranza di un’altra sua visita, non ce ne furono più. Chadwick era passato dal considerarlo un ‘amico’ che fa un salto quando può, al considerarlo un Guru da trattare con rispetto, con una sedia speciale. Non appena introdotta questa formalità, le visite terminarono.
John David: Si riteneva un ‘amico’, non ‘il Maestro’.
David Godman: Bhagavan non aveva una prospettiva sua ma reagiva a come gli altri lo consideravano e trattavano. Poteva essere un amico, un padre, un fratello, un dio, a seconda del modo in cui il devoto lo avvicinava. Una donna era convinta che Bhagavan fosse suo figlio. Aveva un piccolo bambolotto che somigliava a Bhagavan, lo cullava come un bambino quando era in sua presenza. La sua fede in questa relazione era così forte che, nel tenere stretta a sé la sua Bhagavan-bambola, cominciò a lattare.
Bhagavan sembrava approvare ogni tipo di relazione Guru-discepolo che tenesse l’attenzione dei devoti sul Sé o sulla forma del Guru, ma allo stesso tempo amava chi lo riusciva a trattare come una persona normale. Bhagavan a volte diceva che non importa come si considera il Guru, l’importante è pensarlo sempre. Come esempio estremo citava due personaggi dell’antichità che raggiunsero l’illuminazione odiando così tanto Dio che non riuscivano a smettere di pensarLo.
C’è una frase in Tamil che vuol dire: ‘Madre-Padre-Guru-Dio’. Molti provavano questo per lui. Bhagavan non si sentì mai un Guru con un rapporto di Guru-discepolo con nessuno. La sua posizione era che non aveva nessun discepolo perché, dalla prospettiva del Sé, non c’era nessuno di diverso e di separato da lui. Essendo il Sé, sapendo che solo il Sé esiste, per lui non esistevano persone non illuminate che avevano bisogno di diventarlo. Diceva che vedeva solo realizzati intorno a lui. Detto questo, Bhagavan indubbiamente servì da Guru per migliaia di persone che ebbero fiducia in lui e che misero in pratica i suoi insegnamenti.
John David: In che periodo Bhagavan fu impegnato nella progettazione dei lavori di costruzione?
David Godman: L’ashram iniziò a trasformare le capanne di foglie di cocco in edifici in pietra nel 1930. La fase di costruzione più massiccia fu dal 1930 al 1942. Il Tempio della Madre fu costruito dopo ma non fu Bhagavan a progettarlo e supervisionarlo. Il lavoro fu affidato ad esperti costruttori di templi. Bhagavan ispezionava regolarmente i lavori ma non era coinvolto nelle decisioni di design o ingegneria.
John David: Durante quei dodici anni se qualcuno veniva in visita non trovava Bhagavan seduto sul divano. Lo trovava a lavorare, a ispezionare i lavori?
(Bhagavan a passeggio su Arunachala con Madhava Swami)
David Godman: Dipendeva dal momento in cui arrivavano. Bhagavan aveva una routine. Era sempre nella hall per i canti della mattina e della sera - che duravano circa quaranta, cinquanta minuti. Era nella hall anche la sera, a parlare coi lavoratori dell’ashram che non poteva vedere durante il giorno per via dei loro vari compiti in diverse zone dell’ashram. Ci andava ogni volta che arrivavano visitatori che volevano parlargli. Faceva passeggiate regolari sulla collina o a Palakottu, un’area vicina all’ashram. Camminava generalmente dopo pranzo. Incastrava gli altri lavori tra queste attività abituali. Se niente o nessuno domandava la sua attenzione nella hall, andava a vedere come procedeva il lavoro dei cuochi o passava a trovare le mucche nella stalla dell’ashram. Se c’erano lavori in corso, si recava spesso a controllarne i progressi. Faceva il suo giro tra i cantieri quasi sempre dopo pranzo, mentre gli altri riposavano.
Coordinava diversi lavoratori, non solo quelli impegnati nelle costruzioni. I devoti, nella hall, rilegavano e riparavano libri sotto la sua guida, i cuochi lavoravano secondo le sue istruzioni e così via. L’unico campo di cui non amava occuparsi era l’ufficio dell’ashram. Lasciava al fratello le redini dell’amministrazione, solo di tanto in tanto interveniva, quando credeva che si dovesse fare qualcosa che era stata trascurata. Nei primi anni, fino al 1926, faceva anche la circumambulazione di Arunachala piuttosto regolarmente.
John David: Qualcuno andava con lui?
David Godman: Sì, sempre più persone, con gli anni cominciarono a seguirlo in massa e quando passava attraverso la città c’erano ancor più persone ad aspettarlo, provavano a dargli cibo, a invitarlo a casa. Non accettava mai. Dal 1900 non entrò più in una casa privata in città. Smise anche di fare il giro della collina nel 1926, perché cominciarono a litigare tra loro su chi doveva restare nell’ashram. Nessuno voleva restarci, ma qualcuno doveva pur fare la guardia alla proprietà. Alla fine Bhagavan disse: ‘Se non ci vado non ci saranno più litigi’. Non lo fece mai più.
(Bhagavan dà da mangiare alle scimmie nel Ramanasramam)
John David: Dicevi che era una persona molto naturale, che amava le persone semplici. Presumo amasse anche gli animali.
David Godman: Tutti gli animali o quasi. Ho letto che non andava pazzo per i gatti, ma non so se è vero, se ci sono prove. Da quanto ho potuto capire, amava tutti gli animali nell’ashram. Mostrava particolare affetto per i cani, le scimmie e gli scoiattoli.
John David: Gli animali vivevano anche nell’ashram, vero?
David Godman: Bhagavan diceva che le persone dell’ashram occupavano abusivamente la terra di proprietà degli animali e che gli animali selvatici avevano precedenti diritti di locazione. Non approvava mai fossero allontanati per fare spazio alla gente o per accontentare chi non voleva averli attorno. Prendeva le difese degli animali ogni volta che tentavano di cacciarli via o di dargli fastidio in qualche modo. Aveva scoiattoli sul sofà. Si erano trasferiti all’interno e avevano fatto nidi sul tetto di paglia sopra la sua testa, gli passavano addosso, aveva i loro cuccioli nel cuscino. Ogni tanto si sedeva involontariamente su uno di loro, soffocandolo. Erano ovunque.
(Bhagavan gioca con uno scoiattolo)
John David: Sembra che fosse una persona semplice che riteneva naturale e normale vivere con gli animali attorno.
David Godman: Sì, lo era per lui, ma non così tanto per molti che gli stavano attorno. Bhagavan doveva sempre lottare in difesa degli animali per assicurarsi che fossero trattati bene o che non fossero disturbati senza motivo. La nuova grande hall, la costruzione in marmo di fronte al Tempio della Madre, fu costruita per Bhagavan negli anni ‘40. La vecchia sala, in cui viveva dalla fine degli anni ’20, era ormai troppo piccola per le folle che volevano vederlo. La nuova hall era di marmo, grande, sfarzosa, somigliava al mantapam di un tempio, ma intimidiva alcune persone e tutti gli animali.
(Mentre cammina con un cane a Palakottu)
Quando mostrarono a Bhagavan dove doveva mettersi, lui chiese: ‘Che ne sarà degli scoiattoli, dove vivranno?’ Non c’erano nicchie che potevano occupare, né paglia o erba da rubacchiare per i loro nidi. Bhagavan si lamentò che la sala avrebbe intimidito le persone povere che volevano andare a trovarlo. Vedeva sempre le cose dalla parte dei meno fortunati, che fossero animali o persone.
John David: Quel divano di marmo sembra fatto per la persona sbagliata.
(Bhagavan seduto sul sofà nella nuova hall)
David Godman: Infatti, non era per niente nel suo stile. C’era uno scultore che stava scolpendo la sua statua proprio durante i ritocchi finali alla nuova hall. Quando dissero a Bhagavan che quel divano in granito intagliato era per lui, rispose: ‘Fate sedere lo swami di pietra sul sofà di pietra’. Alla fine accettò di trasferirsi nella nuova hall solo perché non c’era un altro posto abbastanza grande per accogliere tutti i numerosi visitatori, ma non fu per molto.
John David: Fu circa un anno prima che lasciasse il corpo?
David Godman: Il tempio sul samadhi di sua Madre fu inaugurato nel marzo 1949, Bhagavan si trasferì nella nuova hall poco dopo. Quell’anno si scoprì un tumore, un sarcoma, sul suo braccio. Lo debilitò fisicamente al punto tale che non riusciva a camminare fino al suo bagno. A quel punto il bagno fu convertito in una stanza. Lì trascorse gli ultimi mesi della sua vita.
John David: È la stanza che chiamano ‘samadhi room’?
David Godman: Sì. Un’energica donna Tamil, Janaki Mata, visitò l’ashram negli anni ’40. Quando chiese dov’era il bagno delle signore, gli fu detto che non c’era. Lei organizzò perché fosse costruito ed è quella la stanza dove Bhagavan trascorse i suoi ultimi giorni. Era il bagno più vicino alla nuova hall, in cui si era trasferito nel 1949. Diventò il suo bagno per via del tumore, per non dargli il disagio di camminare troppo. Rifiutava che lo aiutassero quando andava al bagno, anche quando era estremamente debole. Hai visto il video in cui l’hanno ripreso nel suo ultimo anno di vita?
Janaki Mata
John David: Probabilmente.
David Godman: È penoso da guardare. Ha enormi rigonfiamenti sulle ginocchia, che sembrano tremare parecchio. È chiaro da quel filmato che era molto debilitato, ma non permise mai a nessuno di aiutarlo a camminare. C’è un gradino di pietra difficoltoso all’entrata della nuova hall. I devoti dovevano star lì, completamente impotenti, di fronte a Bhagavan che cercava d’oltrepassare quell’ostacolo. Nessuno poteva offrire assistenza. Alla fine, quando il gradino si rivelò un ostacolo troppo grande, si trasferì al bagno e rimase lì fino alla sua morte, nell’aprile del 1950.
John David: È vero che anche durante la malattia restò sempre disponibile?
David Godman: Era molto risoluto sul fatto che chiunque voleva vederlo, doveva ricevere il suo darshan almeno una volta al giorno. Quando la gente capì che non sarebbe vissuto a lungo, l’affollamento aumentò. Nelle ultime settimane facevano il ‘darshan in cammino’. Si mettevano in fila per passare davanti alla sua stanza e fargli pranam uno ad uno.
John David: Fino al suo ultimo giorno?
David Godman: Sì, diede l’ultimo darshan pubblico il pomeriggio del giorno in cui morì.
John David: Sì, ho incontrato una persona che camminò di fronte a lui il giorno prima che morisse.
(La fila del darshan di fronte alla stanza di Sri Ramana nei suoi ultimi giorni di vita)
David Godman: Insisteva che il pubblico avesse più accesso possibile. Fino agli anni ’40 le porte della sua stanza rimanevano aperte ventiquattr’ore al giorno. Se volevi vederlo alle 3 del mattino nessuno ti avrebbe fermato. Se avevi problemi potevi andare a parlargli anche nel pieno della notte.
John David: Quindi anche se era impegnato molto nel lavoro – la preparazione in cucina, la supervisione delle costruzioni, ecc. – era comunque sempre disponibile?
David Godman: In quella fase della sua vita non c’erano tantissime persone attorno a lui. Ti riferisci agli anni in cui fu attivamente coinvolto nel lavoro di cucina e nelle costruzioni. In quel periodo, se arrivava un gruppo di persone che volevano vederlo, lui li raggiungeva nella hall per incontrarli. Chi viveva nell’ashram aveva una mansione da svolgere. Lavorava nella stalla o nella cucina, nei giardini o nell’ufficio. I residenti dell’ashram quindi non potevano stare con Bhagavan nelle ore diurne. La sera però i lavoratori dell’ashram si riunivano attorno a Bhagavan e l’avevano tutto per loro per alcune ore. I visitatori che incontrava nella hall durante il giorno invece tornavano a casa la sera, erano visitatori di passaggio e devoti che vivevano lì vicino.
John David: Erano tutti liberi di porgli domande?
David Godman: In teoria sì ma molti erano troppo in soggezione per parlargli. A volte parlava senza venir sollecitato, senza domande. Amava raccontare storie di santi illustri e spesso raccontava cosa gli era accaduto in diverse fasi della sua vita. Era un grande narratore e, quando raccontava una storia coinvolgente, interpretava i ruoli dei vari protagonisti. Si immedesimava così tanto nel racconto che a volte piangeva ad un particolare commovente della storia.
John David: Allora l’idea che era in silenzio non è proprio vera?
David Godman: Rimaneva in silenzio per gran parte della giornata. Diceva alle persone che preferiva il silenzio ma parlava, anche per ore se gli andava. Non intendo dire che chiunque veniva riceveva prontamente una risposta alle sue domande. A volte anche se ponevi una domanda apparentemente seria, Bhagavan la ignorava. Guardava fisso alla finestra senza mostrare neanche un segno d’aver sentito cosa avevi detto. Altri facevano una domanda e avevano una risposta immediata. Era un po’ una lotteria ma, alla fine, ognuno riceveva ciò di cui aveva bisogno o che meritava. Bhagavan rispondeva a quello che stava accadendo nella mente di chi gli era di fronte, non alle loro domande e, dato che era l’unico che poteva vedere cosa accadeva in quella sfera, le sue risposte a volte potevano apparire arbitrarie a chi non lo conosceva. Molti chiedevano una cosa e non ricevevano una risposta orale ma scoprivano che, solo a stare lì in sua presenza, lui gli aveva donato la pace o la risposta di cui avevano bisogno. Questo era il tipo di risposta che Bhagavan preferiva: un flusso silente di grazia guaritrice che donava pace e non una mera risposta verbale soddisfacente.
John David: Quando cominciò a dare insegnamenti e quali erano? Mi è stato detto che, quando era in una grotta sul monte, venne approcciato da un uomo che gli chiese quali fossero i suoi insegnamenti. Sembra che poi li scrisse in un piccolo opuscolo. Com’è andata esattamente?
David Godman: Era il 1901. Non aveva neanche un quaderno. Si chiamava Sivaprakasam Pillai, l’uomo che andò a fargli le domande. La sua prima domanda fondamentale fu: ‘Chi sono io? Come posso scoprire ciò che davvero sono?’. Il dialogo si sviluppò su questo ma senza risposte verbali. Bhagavan scrisse le risposte col dito sulla sabbia, perché era il periodo in cui trovava difficoltoso parlare. Il mezzo di scrittura primitivo produsse risposte corte e concise. Sivaprakasam Pillai non copiò le risposte. Dopo ogni domanda posta, Bhagavan cancellava la sua precedente risposta e scriveva la nuova col dito. Quando tornò a casa, Sivaprakasam Pillai si appuntò quanto ricordava di questa conversazione muta. Circa vent’anni dopo pubblicò il dialogo in appendice ad una breve biografia che aveva scritto e pubblicato su Bhagavan. Credo che ci fossero tredici domande e risposte in questa prima versione. I devoti di Bhagavan apprezzarono molto questa presentazione. Il Ramanasham lo pubblicò come opuscolo a sé e ad ogni edizione furono aggiunte sempre più risposte. La versione più lunga ne ha circa trenta. Poi Bhagavan stesso, negli anni ’20, riscrisse questo scambio di domande e risposte in un saggio in prosa, elaborando alcune risposte e cancellandone altre. Questo è ciò che viene ora pubblicato col titolo ‘Chi sono Io?’ nelle ‘Opere complete’ di Bhagavan e, separatamente, come opuscolo. Era il riepilogo, curato da Bhagavan stesso, delle risposte che aveva scritto col dito vent’anni prima.
Sivaprakasam Pillai
John David: Sembra piuttosto breve.
David Godman: Sì, prende forse otto pagine nella maggior parte dei libri.
John David: La chiave è la domanda: ‘chi sono?’, giusto?
David Godman: Il titolo è ‘Chi sono io?’ ma copre molti argomenti: la natura della felicità, cos’è il mondo, come sembra venire in esistenza, come si dissolve. C’è anche una sezione che spiega in modo dettagliato come fare l’auto-indagine.
John David: Potresti descriverla? Personalmente leggo sull’auto-indagine da molti anni ma non è mai abbastanza chiaro in che consiste. È qualcosa che si pratica al mattino? Si fa una volta o regolarmente? È simile ad una tecnica di respirazione o è un tipo di meditazione?
David Godman: Papaji diceva sempre: ‘falla una volta bene’. Questo è il modo ideale, ma conosco solo una persona che ha avuto la giusta risposta già alla prima volta.
(Papaji, nel Botanical Garden, 1993)
John David: Papaji stesso?
David Godman: No, Papaji non praticò mai l’auto-indagine, nonostante la consigliava con vigore quando prese ad insegnare. Mi riferivo a Lakshmana Swami. Anche lui non aveva svolto mai l’auto-indagine prima. Era un devoto da pochi mesi e si dedicava alla ripetizione del nome di Bhagavan, come pratica spirituale. Nell’ottobre del 1949 si mise seduto in presenza di Bhagavan e chiuse gli occhi. La domanda ‘chi sono io?’ apparve spontaneamente in lui e come risultato la sua mente tornò nella fonte, nel Cuore, per non riapparire più. Nel suo caso fu un’esperienza permanente, la vera realizzazione del Sé. In entrambi i casi non c’era stata una precedente pratica di auto-indagine ma in entrambi i casi la domanda ‘chi sono?’ sorse spontaneamente. Senza una volontà. È mia opinione che la presenza fisica fu importante tanto quanto l’indagine. Molti altri si sono posti lo stesso quesito senza fine e senza ottenere il risultato che lui ebbe la prima volta che la domanda apparve in lui. È anche da sottolineare il fatto che lui ebbe l’esperienza di auto-realizzazione pochi mesi prima della morte di Bhagavan. Anche se il corpo di Bhagavan stava deteriorando e indebolendosi fisicamente, il suo potere spirituale, la sua presenza fisica, era forte come sempre.
Lakshmana Swami
John David: Stai dicendo che l’auto-indagine non è una pratica, non è qualcosa da fare con impegno, ora dopo ora, giorno dopo giorno?
David Godman: È una pratica per la maggior parte di noi e Bhagavan incoraggiava a svolgerla il più possibile. Diceva che dev’essere praticata assiduamente, fino al momento della realizzazione. Non era il suo unico insegnamento, non diceva a tutti coloro che andavano da lui di praticarla. Di solito, quando gli si avvicinavano per chiedergli consiglio spirituale, lui chiedeva che pratica facevano. Quando rispondevano, la sua reazione più comune era: ‘molto bene, continua’. Non aveva un forte zelo missionario per l’auto-indagine ma sicuramente diceva che prima o poi la si deve praticare, perché è l’unico modo efficace per eliminare l’‘io’ individuale. Sapeva che la maggioranza delle persone che andavano da lui preferivano la ripetizione del nome di Dio o la devozione a qualche sua forma. Così gli diceva di continuare la pratica a loro più affine. Però se andavi da lui e gli chiedevi: ‘Non ho una pratica ma voglio raggiungere l’illuminazione. Qual è il modo più diretto e veloce per raggiungerla?’, allora rispondeva invariabilmente: ‘l’auto-indagine’.
John David: È documentato il fatto che disse che era il modo più diretto e veloce?
David Godman: Sì. Lo disse in molte occasioni, ma non era nel suo stile forzare le persone. Voleva che i devoti giungessero all’indagine quando erano pronti.
John David: Anche se accettava ogni pratica svolta dagli aspiranti, fu sempre chiaro nel dire che il mezzo più diretto e veloce è l’auto-indagine?
David Godman: Sì, diceva anche che dovevi praticarla fino al momento della realizzazione. Per Bhagavan non era una tecnica da praticare un’ora al giorno a gambe incrociate sul pavimento. È qualcosa da fare in ogni momento della veglia, parallelamente a qualsiasi attività si faccia col corpo. Diceva che gli esordienti potevano iniziare da seduti, a occhi chiusi, ma da ogni altro si aspettava che fosse praticata durante le normali attività quotidiane.
John David: E riguardo alla tecnica di per sé, diresti che consiste nell’essere consapevole, di momento in momento, di cosa accade nella mente?
David Godman: No, non ha niente a che fare con l’essere consapevoli dei contenuti della mente. È un metodo molto specifico che mira a scoprire dove emerge il senso dell’‘io’ individuale. L’auto-indagine è un’investigazione attiva, non un testimoniare passivo. Per esempio, stai pensando a quello che hai mangiato a colazione o stai guardando un albero in giardino. Nell’auto-indagine non sei semplicemente consapevole di questi pensieri, ma sposti l’attenzione al pensatore che li pensa, a colui che percepisce le percezioni. C’è un ‘io’ che pensa, un ‘io’ che percepisce e questo ‘io’ è anch’esso un pensiero. Il consiglio di Bhagavan è di concentrarsi su questo senso di ‘io’ interiore per scoprire cos’è. Nell’auto-indagine cerchi di capire dove nasce il senso dell’‘io’, di tornare in quel posto e restarci. Non è solo guardare, è un tipo d’esame attivo in cui si prova a capire come nasce il senso d’essere una persona individuale. Puoi investigare la natura di questo ‘io’ domandandoti ‘chi sono?’ o ‘da dove viene questo ‘io’?’. Oppure puoi cercare di mantenere una costante attenzione sul senso interiore ‘io’. Entrambi gli approcci sono auto-indagine. Non si deve trovare o suggerire una risposta, ad esempio: ‘io sono coscienza’, perché la risposta è concettuale e non esperienziale. L’unica risposta corretta è un’esperienza diretta del Sé.
John David: Come l’hai espressa è chiarissima ma è quasi impossibile da fare. Sembra facile ma so per esperienza che, al contrario, è molto difficile.
David Godman: Serve pratica e dedizione. Si deve perseverare senza arrendersi. La pratica lentamente cambia le abitudini mentali. Se si pratica regolarmente e continuamente, si toglie la concentrazione dalle correnti superficiali dei pensieri e la si sposta nel luogo dove il pensiero stesso comincia a manifestarsi. In questo luogo si comincia a provare la pace e la calma del Sé, il che incoraggia a continuare.
Bhagavan usava un’analogia molto appropriata per questo processo. Immagina che hai un toro in una stalla. Se lasci la porta aperta, lui vaga all’esterno in cerca di cibo. Lo trova, ma spesso si mette anche nei guai, pascolando per campi coltivati. I proprietari dei campi lo inseguono, lo colpiscono col bastone o gli tirano le pietre, lui però torna lì fuori molte volte e soffre ripetutamente perché non ha la nozione dei confini dei campi. È programmato per cercare cibo e mangiarlo ovunque si trova qualcosa di edibile.
Il toro è la mente e la stalla è il Cuore da dove esce e dove ritorna, il pascolo nei campi rappresenta il doloroso vizio della mente di cercare piacere negli oggetti esterni. Bhagavan diceva che la maggioranza delle tecniche di controllo mentale frenano il bue con la forza per non farlo muovere, ma non fanno nulla per il basilare desiderio del bue di vagare e mettersi nei guai. Puoi legare la mente temporaneamente con il japa o col controllo del respiro ma, quando queste costrizioni si allentano, la mente riprende il suo vagare, si rimette nei guai e soffre di nuovo. Se leghi il bue, a lui non piacerà. Alla fine avrai un bue arrabbiato e litigioso che probabilmente alla prima occasione si vendicherà con te.
Bhagavan paragonava l’indagine al tenere una manciata d’erba fresca sotto al naso del bue. Quando il bue si avvicina all’erba tu indietreggi piano verso la porta della stalla e lui ti segue. Lo conduci alla stalla, lui ti viene dietro volontariamente perché gli piace l’erba che hai preso per lui. Una volta nella stalla, gli fai mangiare a volontà quell’erba che è sempre lì per lui. Lasci la porta sempre aperta, il bue è libero di uscire e girare quanto vuole. Non c’è controllo, né punizione. Il bue uscirà ripetutamente perché è sua natura andare in cerca di cibo. Ogni volta che esce sarà punito per essere passato in zone proibite. Ogni volta che ti accorgi che il bue è uscito, lo fai tornare alla stalla tentandolo con la stessa tecnica. Non provare a colpirlo per sottometterlo o sarai attaccato di conseguenza e non tentare di risolvere il problema con la forza, tenendolo rinchiuso. Prima o poi anche il più ottuso dei buoi capirà che, dato che c’è una riserva di cibo delizioso nella stalla, non ha senso uscire e vagare, cosa che finisce sempre col procurargli sofferenze e punizioni. Anche se la porta rimarrà sempre aperta, il toro alla fine resterà dentro e godrà del cibo che è lì tutto per lui. Questa è l’auto-indagine. Ogni volta che trovi la mente fuori a vagare tra gli oggetti esterni e i sensi, riportala alla sua stalla, al Cuore, la fonte da cui esce e in cui ritorna. Lì può gioire della pace e della calma del Sé. Quando cerca il piacere e la felicità fuori si mette solo nei guai e quando se ne sta a casa, nel Cuore, gode della pace e del silenzio. Alla fine, anche se la porta è aperta, la mente sceglierà di stare a casa senza uscire. Bhagavan diceva che il metodo del controllo è la via degli Yogi. Gli yogi cercano di controllare la mente, forzandola a star ferma. L’auto-indagine dà alla mente la libertà di vagare, se e quando vuole, e riesce nell’intento persuadendo gentilmente la mente con le prove che sarà sempre più felice restando a casa che uscendo.
John David: Il momento stesso in cui si realizza che c’è abbondanza d’erba a casa e quindi nessun motivo di uscire, lo chiameresti il risveglio?
David Godman: No, lo chiamerei solo comprensione.
John David: È solo comprensione? Di sicuro una volta che capisci che ci sono cumuli d’erba a casa, non vuoi pi�� uscire?
David Godman: La nozione di stare bene a casa appartiene all’‘io’ e l’‘io’ deve andar via per far sì che accada la realizzazione. Spingiamo un pochino l’analogia. Non è parte della metafora originale di Bhagavan ma dirò cose che includono altri aspetti dei suoi insegnamenti. Per la realizzazione, per un risveglio reale e permanente, il bue deve morire. Mentre è vivo e mentre la porta è ancora aperta c’è sempre la possibilità che vaghi. Se muore non potrà mai essere tentato ad uscire di nuovo. Nella realizzazione la mente viene distrutta. Non è solo una condizione in cui la mente gode la beatitudine del Sé. Quando la mente volontariamente torna al Cuore e ci resta, senza alcun desiderio di uscire, il Sé la distrugge e ciò che rimane è solo il Sé. Questa è una parte essenziale degli insegnamenti di Bhagavan: il Sé può finire la mente solo quando essa non ha più alcuna tendenza ad uscire. Finché le tendenze ad uscire sono ancora presenti, anche se in forma latente, la mente sarà ancora troppo forte per essere dissolta completamente nel Sé. Questo è il motivo per cui il metodo di Bhagavan funziona mentre i metodi di controllo forzato no. Puoi tenere sotto controllo la mente anche per decenni ma non sarà consumata dal Sé, perché i desideri, le tendenze, ossia i vasana sono ancora lì. Anche se non si manifestano, sono ancora lì.
Alla fine è solo la grazia o il potere del Sé che elimina i residui finali della mente priva di desiderio. La mente non può auto-eliminarsi ma si può offrire in sacrificio al Sé. Attraverso l’indagine, con l’impengo, si può riportare la mente al Sé e farla rimanere in uno stato libero dai desideri. Ad ogni modo, la mente non può fare niente di più. Nel momento finale è il potere del Sé interiore che attira a sé gli ultimi resti della mente, eliminandola completamente.
John David: Dici che nella realizzazione la mente è morta. Ma gli illuminati sembrano pensare, ricordare, proprio come le persone ordinarie. Devono avere una mente per farlo. Forse non sono attaccati ad essa ma dev’essere ancora lì altrimenti non potrebbero funzionare nel mondo. Senza mente sarebbero come zombi.
David Godman: Questa è un’idea sbagliata che molti hanno, perché non riescono a concepire come si possa funzionare, prendere decisioni, parlare e fare il resto, senza mente. Se fai queste cose con la mente, o almeno così credi, quando un saggio si comporta normalmente, ne deduci automaticamente che anche lui sta coordinando le sue attività attraverso un’entità che chiami ‘mente’. Pensi di essere una persona che abita in un corpo, così guardando il saggio concludi inevitabilmente che è una persona che funziona tramite un corpo. Il saggio non si percepisce affatto in questo modo. Lui sa che soltanto il Sé esiste, che un corpo appare in quel Sé e svolge delle azioni. Sa che tutte le azioni e le parole che si verificano nel corpo vengono dal Sé soltanto. Non fa l’errore di attribuirli ad un’entità intermedia immaginaria chiamata ‘mente’. Nello stato senza mente nessuno organizza informazioni mentali, nessuno decide cosa fare dopo. Il Sé semplicemente sollecita il corpo a fare o dire ciò che c’è bisogno di fare o dire in quel momento.
Quando la mente è andata, lasciando solo il Sé, colui che decide le azioni future non c’è più, colui che svolge le azioni non c’è più, il pensatore dei pensieri non c’è più, né c’è più chi percepisce le percezioni. Solo il sé rimane e quel sé si prende cura di tutto ciò che il corpo ha bisogno di dire e fare. Chi è in quello stato fa sempre la cosa più appropriata, dice sempre la cosa più appropriata, perché tutte le parole e tutte le azioni vengono direttamente dal sé.
Bhagavan una volta si paragonò ad una radio. Esce una voce, dice cose intelligenti che sembrano il prodotto di un pensiero razionale e considerato ma se apri la radio non trovi nessuno dentro che pensa e decide. Quando ascolti un saggio della portata di Bhagavan, non stai ascoltando le parole che vengono dalla sua mente, ma quelle che provengono direttamente dal Sé.
Nelle sue opere scritte, Bhagavan usa il termine manonasa per descrivere lo stato della liberazione. Significa inequivocabilmente ‘mente distrutta’. La mente, secondo Bhagavan, è solo un’idea sbagliata, una convinzione errata. Viene in essere quando il pensiero ‘io’, il senso d’individualità, rivendica la proprietà dei pensieri e delle percezioni che il cervello processa. Quando questo accade ti ritrovi con una mente che dice: ‘sono felice’, ‘ho un problema’ o ‘vedo un albero laggiù’. Attraverso l’auto-indagine, quando la mente viene dissolta nella propria fonte, c’è la comprensione che la mente non è mai esistita, che era solo un’idea sbagliata in cui puoi credere solo finché non indaghi bene la sua vera natura e origine.
Bhagavan a volte comparava la mente ad un imbucato a un matrimonio, può combinare guai e cavarsela solo se gli invitati della sposa pensano sia tra gli invitati dello sposo e viceversa. La mente non appartiene né al Sé, né al corpo. È un intruso che combina pasticci finché non ci prendiamo il disturbo di scoprire da dove viene. Quando attuiamo questa indagine, la mente, come l’imbucato al matrimonio, se ne va, scompare.
C’è una bella descrizione di come parlava Bhagavan. È nella terza parte di ‘The Power of the Presence’. È stata scritta da G.V. Subbaramayya, un devoto che aveva un rapporto molto confidenziale con Bhagavan. Illustra benissimo la mia tesi che le parole del saggio vengono dal Sé e non dalla mente:
G. V. Subbaramayya
“Il modo di parlare di Sri Bhagavan era unico. Il suo stato consueto era il silenzio. Parlava così poco che i visitatori di passaggio, che lo vedevano solo per poco, si chiedevano se parlava mai. Porgli domande o sollecitare una sua risposta era un’arte a sé e richiedeva un insolito potere d’auto-controllo. Un dubbio sincero, una domanda onesta a lui sottoposta non veniva mai ignorata ma, a volte, il suo silenzio risultava essere la risposta migliore ad alcune domande. L’interlocutore doveva essere in grado d’aspettare pazientemente. Per avere la massima probabilità di ricevere una risposta, si doveva porre una domanda concisa e semplice. Poi si doveva restare in silenzio e attenti. Sri Bhagavan si prendeva il suo tempo e poi cominciava a parlare lentamente e con titubanza. Nel corso del suo intervento il discorso prendeva forza. Era come una pioggia lieve che gradualmente si trasforma in un temporale. A volte continuava per ore, tenendo tutti incantati. Mentre parlava era meglio restare completamente in silenzio, non si doveva interromperlo con commenti e risposte. Qualsiasi interruzione avrebbe spezzato il filo del discorso e lui sarebbe tornato al silenzio. Non discuteva, né litigava mai con nessuno. Ciò di cui parlava non era un punto di vista o un’opinione ma un flusso diretto di luce che, dall’interno, si manifestava in parole per dissolvere le tenebre dell’ignoranza. L’intero scopo della sua risposta era di farti volgere dentro, per farti vedere la luce della verità dentro di te.”
John David: Tornando all’analogia del bue che dev’essere attirato per rientrare nella stalla, sembra che il bue, che rappresenta la mente, debba morire. Quando la mente muore il risveglio può considerarsi completo? C’è differenza tra risveglio e illuminazione? Ovviamente sono solo parole ma ci sono due diversi stati?
David Godman: Il Sé è sempre lo stesso. Il Sé conscio di Sé è sempre lo stesso. I diversi livelli di esperienza appartengono alla mente, non al Sé. La mente può temporaneamente sospendersi ed essere rimpiazzata da ciò che sembra una diretta esperienza del Sé. Ciononostante, questo non è lo stato sahaja, lo stato naturale e permanente da cui la mente non riemerge più. Questi stati temporanei sono esperienze sottili della mente. La beatitudine e la pace del Sé sono esperiti, mediati da un ‘io’ che non è stato pienamente eliminato. Per esempio, percepisco d’essere in questa stanza. Medio l’esperienza con i miei sensi, la mia conoscenza, la mia memoria. Quando l’io’ torna nel Cuore e rimane fermo lì senza uscire, in quello stato, fa esperienza delle emanazioni del Sé; il silenzio, la pace, la beatitudine. Questa è comunque un’esperienza e come tale non è illuminazione. Non è la piena consapevolezza del Sé. La piena consapevolezza c’è solo in assenza di un ‘io’ mediatore. L’esperienza del Sé che avviene, quando l’’io’ è ancora vivo, può essere considerata un’‘anteprima d’attrattive future’, è come il trailer di un film che esce la prossima settimana, non è lo stato irreversibile, finale. Va e viene e, quando va via, la mente ritorna con tutto il suo solito vigore seccante.
John David: Come si progredisce dalle esperienze temporanee a quella permanente? Restare in silenzio è sufficiente o è necessaria la grazia?
David Godman: Vorrei ritornare a Lakshmana Swami per risponderti. Prima l’ho menzionato come esempio di un aspirante che realizzò il Sé in presenza di Bhagavan con la pratica dell’auto-indagine. Quindi parliamo di un esperto, che sa di cosa parla. Lakshmana Swami è molto chiaro su questo punto. Lui dice che i devoti possono, col loro impegno, raggiungere uno stato di ‘assenza di pensieri senza sforzo’. Questo è il massimo che puoi fare da solo. In questo stato non ci sono più pensieri, desideri, né memorie che emergono. Non sono stati soppressi; semplicemente non sorgono più a catturare la tua attenzione. Lakshmana Swami dice che se col tuo sforzo intenso raggiungi quello stato e poi stai in presenza di un realizzato, il potere del Sé farà tornare l’‘io’ residuo alla sua fonte e lì morirà senza riemergere più. Questa è la realizzazione piena e completa. Il ruolo del Guru, che è identico al Sé interiore, è di tirare la mente priva di desideri nel Cuore, per distruggerla completamente. Come dicevo prima, non può accadere se i desideri e le tendenze mentali sono ancora latenti. Devono terminare prima che questa esecuzione finale possa avvenire. Il discepolo deve svuotare il suo attico mentale da sé, togliendo tutte le cose indesiderate, deve inoltre avere l’intento di non metterci nient’altro dentro. Il Guru non può fare questo lavoro per lui; lo deve fare lui. Se lo fa bene, il potere del Sé interiore, il Guru interiore, completa il lavoro.
John David: Abbiamo entrambi avuto modo di vivere con Papaji e lo abbiamo spesso sentito dire alle persone: ‘ce l’hai!’. Secondo te si riferiva al primo stato temporaneo o al secondo stato irreversibile?
David Godman: Direi quasi sempre al primo. La sua peculiare abilità, il suo talento, la sua capacità era di toglierti completamente la sedia mentale su cui eri seduto. In qualche modo riusciva istantaneamente a slegarti dalla tua sovrastruttura, dall’infrastruttura mentale, e cadevi - plop! – proprio dentro al Sé. La prima reazione era: ‘Grandioso! È meraviglioso! Sono illuminato!’
Lui aveva lo straordinario talento, il potere di ricordarti la realtà del Sé. Gli veniva del tutto spontaneo perché la maggior parte delle volte non era neanche conscio di farlo. In qualche modo le persone, in sua presenza, perdevano la sensazione di funzionare attraverso l’’io’ individuale. Quando accadeva, venivi completamente immerso nella conoscenza e nella sensazione d’essere il Sé. Purtroppo non permaneva per le ragioni summenzionate. Se non hai svuotato il tuo attico mentale totalmente, tali esperienze sono temporanee. Prima o poi la mente si riafferma e l’esperienza del Sé si affievolisce. Può durare dieci gioni, dieci settimene, dieci mesi o anche anni, ma va via lasciando solo un ricordo.
John David: Ciò vuol dire che il secondo stato finale è molto, molto, molto raro?
David Godman: Nella Bhagavad Gita, Krishna dice: ‘Su mille uomini uno mi cerca seriamente e su mille che mi cercano, uno mi conosce davvero come sono’. Sarebbe uno su un milione, ma credo che sia una stima molto generosa. Personalmente penso ce ne siamo molti meno.
John David: Questo ci porta al soggetto dei tuoi ultimi libri [la serie The power of the Presence]. In questi libri hai scelto persone che furono vicine a Bhagavan. Forse hai scelto coloro che hanno raggiunto quello stato finale.
David Godman: No, non è stato questo il criterio. Sin dall’inizio il mio scopo è stato di portare al pubblico i racconti dei devoti di Bhagavan che non sono stati ancora pubblicati in inglese. Non posso dare giudizi sulla maturità o sui raggiungimenti spirituali altrui. Il mio primo pensiero è stato: ‘è disponibile in inglese? Se non lo è, è abbastanza interessante da pubblicarlo?’
John David: Dunque nel libro non suggerisci in nessun modo che abbiamo raggiunto uno stato o l’altro?
David Godman: Lascio parlare loro. Il secondo capitolo della prima parte di The Power of the Presence, per esempio, è su Sivaprakasam Pillai, che passò cinquant’anni con Bhagavan. L’ho già citato; è colui che annotò le risposte che Bhagavan scrisse sulla sabbia nel 1901. Molte volte lamentava: ‘ho sprecato la mia vita’, ‘sono peggio di un cane’, ‘sono stato qui così tanti anni senza fare progressi’.
Sivaprakasam Pillai
John David: Ma forse invece l’aveva raggiunto negli anni, anche se pensava di no.
David Godman: Ai tempi di Bhagavan si cantavano quotidianamente delle poesie devozionali in Tamil. C’era una selezione fissa di materiale che si ripeteva in un ciclo di quindici giorni. Una poesia di Sivaprakasam Pillai era parte di questo ciclo. Ogni quindici giorni i devoti seduti di fronte a Bhagavan cantavano: ‘sono peggio di un cane’ e via dicendo. Qualcuno una volta chiese a Bhagavan: ‘Lui è qui da quindici anni e ancora sta così. Che speranza c’è per noi?’ Bhagavan rispose: ‘È il suo modo di lodarmi’. Quando Sivaprakasam Pillai morì, Bhagavan commentò: ‘Sivaprakasam è diventato la luce di Shiva’. Prakasam vuol dire ‘luce’, fece un gioco di parole col suo nome.
John David: Questo lascia pensare che aveva raggiunto il secondo stato finale.
David Godman: Bhagavan diede ‘certificazioni d’illuminazione’ pubbliche solo a sua madre e alla mucca Lakshmi. Indirettamente diede indizi che altri l’avevano raggiunta ma non fece mai nomi. Tranne le due succitate, dopo la loro morte.
Bhagavan, Lakshmi e un cucciolo
John David: Ti faccio la stessa domanda in un altro modo. Nella coscienza collettiva dell’ashram, e di coloro che ne fanno parte, ci sono illuminati su cui tutti concordano? Cioè, ci sono persone che tutti credono fossero realizzate, anche se Bhagavan non riconobbe pubblicamente il loro stato?
David Godman: Che tutti concordino su qualcosa non è facile da queste parti ma probabilmente il più largamente riverito è stato Muruganar. È un candidato evidente perché sin dagli anni ’20 scrisse poesie in Tamil in cui descriveva la sua realizzazione. Scrisse più di 20.000 versi e quasi in tutti dichiara la sua illuminazione. Molte sue poesie furono pubblicate mentre Bhagavan era in vita e Bhagavan non suggerì mai in alcun modo che non fossero attestazioni vere. Bhagavan stesso leggeva a tutti alcuni estratti da questi libri e ciò convinse molti che le affermazioni dovevano essere vere.
Muruganar
John David: Altri candidati che Bhagavan stesso sembrò ammettere?
David Godman: Una, per vie traverse, sì ed è interessantissima. Sia alla madre che alla mucca Lakshmi fecero un rito di sepoltura tradizionale che, secondo le antiche scritture Tamil, è riservato agli esseri realizzati. Durante la vita di Bhagavan solo un altro devoto fu sepolto in quel modo: un mussulmano, Mastan, che morì nel 1931. Pochissimi lo conoscono ma, quando morì, Bhagavan mandò subito Kunju Swami al suo villaggio, che è a circa 70 km da qui, con l’istruzione di costruire per Mastan lo stesso tipo di santuario che fece fare per sua madre. Lo prendo come una forte, anche se indiretta, convalidazione del suo stato.
Mastan nel 1916
John David: Oggigiorno ci sono molte persone che girano il mondo dando satsang. Alcuni di loro si considerano nel lignaggio di Bhagavan. Vorresti dire qualcosa a riguardo?
David Godman: Prima di tutto, Bhagavan non autorizzò mai nessuno ad insegnare, chiunque dichiara d’avere il permesso di Bhagavan ad insegnare non dice la verità. Potrebbero dichiarare d’essere nel lignaggio di Ramana Maharshi, nel senso che Bhagavan è il loro Guru o il Guru del loro Guru. Non credo che questo però dia per forza l’autorizzazione ad insegnare. L’autorità per insegnare può venire da chi ha realizzato il Sé, come può venire dal Sé interiore. Fu il potere del Sé a dare a Bhagavan l’autorità di parlare ed insegnare. Nessun maestro umano gli diede quell’autorità.
Papaji diceva spesso: ‘Se sei destinato a diventare un Guru, il Sé interiore ti darà il potere di svolgere quel compito. Tale autorità non viene da nessun’altro e da nessun’altra parte.’
Papaji una volta mi disse che fu Arunachala a dare a Bhagavan il potere e l’autorità d’essere un Sadguru. Credo che siamo tutti d’accordo su questo. Bhagavan non venne autorizzato da nessun Guru umano, perché non ne aveva uno. In effetti, credo che Bhagavan non volesse neanche diventare un maestro. Nei primi anni sulla montagna cercò di evitare i devoti in tre occasioni ma non riuscì mai ad allontanarsi abbastanza, era troppo limitato dal suo amore per Arunachala. Ti puoi nascondere solo fino a un certo punto su Arunachala. Se scappi sull’Hilamaya ci riesci ma se ti nascondi dietro a una roccia o l’altra, a Tiruvannamalai, prima o poi ti trovano. Dopo il terzo tentativo fallito, Bhagavan capì che era suo destino avere persone attorno ed insegnare.
John David: Possiamo tornare alla storia della vita di Bhagavan? Sono rimasto molto colpito dai racconti sui suoi ultimi giorni di vita. Aveva un piccolo tumore sul braccio, poteva essere curato facilmente dalla medicina occidentale, ma lui non era interessato.
David Godman: Lui ebbe le migliori cure occidentali. Subì quattro interventi, svolti da chirurghi molto competenti, però era un tumore maligno e tornò più volte. L’unica soluzione definitiva sarebbe stata l’amputazione. Lui lì tracciò il confine e la rifiutò. Non sarebbe neanche corretto dedurne che ci tenesse a ricevere tutti questi trattamenti. Ogni volta che si chiedeva il suo parere, rispondeva: ‘lasciate che la natura faccia il suo corso’. I dottori vennero coinvolti su richiesta degli amministratori dell’ashram e dei devoti che non volevano vederlo soffrire. Bhagavan accettò tutti i trattamenti, non tanto perché ne aveva bisogno, ma perché erano stati offerti come atti di devozione. Andarono medici allopatici, omeopatici, ayurvedici, naturopati esperti ed erboristi, lui accettò ogni trattamento. Non gli interessava tanto se funzionavano o no, perché in lui non c’era nessuno che diceva ‘voglio accada questo’ o ‘non voglio quello’. Permise a tutti, uno ad uno, di giocare col suo corpo. Lasciò che i chirurghi lo aprissero; lasciò che gli erboristi gli applicassero cataplasmi.
John David: In un certo senso è come visse tutta la sua vita. Praticamente lasciò che la vita accadesse.
David Godman: Sì. Forse sapeva meglio dei dottori cosa avrebbe funzionato su di lui ma non interferì. Li lasciò fare quel che volevano. C’è un racconto dei suoi ultimi giorni che mi piace molto. Un erborista del villaggio arrivò, fece una mistura di foglie e l’applicò sul suo braccio. Gli illustri allopati ne furono sconvolti. Pensavano di perdere solo tempo prezioso mentre quell’impacco di foglie rimaneva sul braccio di Bhagavan. Alla fine si misero contro l’erborista e constrinsero il responsabile dell’ashram a togliere la mistura, così che loro potessero tornare a lavorare con i loro scalpelli. Anche se Bhagavan aveva accettato di metterlo, accettò anche di toglierlo. Ho già accennato a quanto Bhagavan non amasse lo spreco. Toltosi l’impacco da solo, la mise sul collo di un uomo che aveva un tumore lì e gli disse: ‘Vediamo se fa bene a te’. Quell’uomo migliorò mentre Bhagavan morì.
John David: Tutta la sua vita è stata un esempio vivente della resa totale, del lasciare che ‘la vita faccia il suo corso’. Mi sembra che questo suo messaggio non sempre passi, perchè è sempre ‘l’auto-indagine’ che si associa al suo nome.
David Godman: Credo che la parola chiave per comprendere il comportamento di Bhagavan è il termine sanscrito sankalpa, ossia ‘volontà’ o ‘intenzione’. Vuol dire l’intenzione di seguire una data serie d’azioni o una data decisione su cosa fare. Questo è un sankalpa. Bhagavan diceva che è la differenza tra un essere illuminato e uno non illuminato. Diceva che i non realizzati sono pieni di sankalpa, sono pieni di decisioni su cosa fare: come pianificare le loro vite; come cambiare le loro circostanze per beneficiarne il più possibile, nel prossimo o nel lontano futuro. Bhagavan sosteneva che il vero jnani non ha nessun desiderio di raggiungere niente a questo mondo. In lui nulla sorge per dire: ‘devo far questo, devo essere così’. Il titolo che ho scelto per il libro The Power of the Presence, ‘Il Potere della Presenza’, viene proprio da una risposta su questo argomento. Ti leggo cosa ho scritto:Narayana Iyer una volta ebbe uno scambio tra i più illuminanti con Bhagavan su questo punto, un dialogo che dona una rara intuizione nel modo in cui funziona il potere di uno jnani:
Narayana Iyer
‘Un giorno seduto a fianco di Bhagavan ero così triste che gli posi questa domanda: “Il sankalpa dello jnani non è in grado di allontanare i destini dei devoti?” ‘Bhagavan sorrise e disse: “Lo jnani ha forse dei sankalpa? Il jivanmukta [essere liberato] non ha nessun sankalpa. È proprio impossibile.”
‘Io continuai: “Allora qual è il destino di tutti noi che ti preghiamo per ricevere la tua grazia ed essere salvati? Non saremo beneficiati o salvati stando di fronte a te, o venendo da te?...”
‘Bhagavan si girò dolcemente verso di me e disse: “...il cattivo karma di una persona sarà considerabilmente ridotto in presenza di uno jnani. Uno jnani non ha sankalpa ma la sua sannidhi [presenza] è la forza più potente. Non ha bisogno di avere sankalpa, la sua presenza, la più potente forza, può far magie: salvare anime, dare pace mentale, anche dare la liberazione alle anime mature. Le tue preghiere non vengono ascoltate da lui ma assorbite dalla sua presenza. La sua presenza ti salva, ti libera dal karma e realizza i desideri, a seconda dei casi, ma involontariamente. Lo jnani salva i devoti non con i sankalpa, che in lui sono inesistenti, ma solo con la sua presenza autorevole, sannidhi.”
John David: Credi sia quello che il Dalai Lama e i buddisti chiamano ‘compassione’?
David Godman: Non conosco abbastanza il Buddismo per commentare. ‘Niente sankalpa’ vuol dire che in un essere illuminato non ci sono sentimenti o pensieri tipo: ‘devo favorire questa persona’, ‘questa persona ha bisogno d’essere aiutata’, ‘quella situazione deve cambiare’. Tutto va bene così com’è. Nel dimorare in quello stato, un’energia, una presenza viene in essere e si prende cura di tutti i problemi che arrivano. È come la scrivania di un ufficio esterno. Tutte le richieste vengono elaborate molto efficacemente nell’ufficio esterno. La porta dell’ufficio interno è chiusa e lì dietro lo jnani è seduto alla sua scrivania, tutto il giorno a fare nulla. Tuttavia, dimorando nel suo stato naturale, quell’energia viene in essere e in qualche modo si occupa di tutte le richieste che arrivano. Lo jnani deve rimanere nell’ufficio interno ed essere semplicemente se stesso perché, se non fosse lì, l’ufficio esterno non potrebbe funzionare.
John David: Questo rinforza la vecchia e onorata tradizione secondo cui devi cercare e stare con un illuminato.
David Godman: Sono d’accordo ma sono rari da trovare. È mia opinione che ce ne siano pochissimi.
John David: Beh, la tua opinione ha sicuramente valore dato che vivi qui da vent’anni.
David Godman: Venticinque.
John David: In questi venticinque anni hai incontrato molti che hanno conosciuto Bhagavan. Hai un modo analitico e insolito di vedere le cose; hai svolto la tua pratica qui e hai servito molti maestri di questo lignaggio. Dovrebbe bastare per darti una sorta d’autorità a parlare di queste cose.
David Godman: Ho le mie opinioni ma non sono un’autorità. Non mi ci trasformare. Troverai tante persone che sono qui da venticinque anni, se non più, e nessuno di loro è d’accordo con me. Sei libero di andare da loro, ascoltarli e credere a ciò che dicono.
John David: C’è qualcos’altro che vorresti dire per riassumere ciò di cui abbiamo parlato?
David Godman: Trovate un maestro che abbia distrutto la sua mente e state quanto più potete in sua presenza. Questo è il mio consiglio a chiunque è serio nella ricerca dell’illuminazione.
John David: È interessante, abbiamo incontrato un maestro a Rishikesh che ci ha praticamente detto la stessa cosa: ‘dovete trovare un Guru’.
David Godman: C’è un limite a ciò che puoi raggiungere da solo. Sedere in presenza di un vero Guru ti farà sempre meglio che meditare da solo. Non dico che la meditazione non sia utile. La meditazione intensa purifica la mente e può portarti da un Guru competente, ma stare con un Guru è come andare a ruota libera giù in discesa su una bici, invece di pedalare in salita. Papaji aveva un’idea interessante. Diceva che se mediti abbastanza intensamente accumuli punya, che sono come dei punti spirituali, così ti guadagni il diritto di stare in presenza di un essere realizzato. Una volta che si è in presenza di un realizzato, però, diceva che è più produttivo stare seduti in silenzio senza fare alcuno sforzo. Quando siedi in presenza di un essere tale, è il potere del Sé che proviene da lui a farti progredire ulteriormente, non quello che fai tu. Credo che Bhagavan sarebbe d’accordo con questo. Una volta disse ad uno dei suoi devoti: ‘Stai solo in silenzio, il resto lo farà Bhagavan’.
John David: Grazie.
Fonte: davidgodman.org
1 note
·
View note