#Stefano Terra "Alessandra"
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stilouniverse · 2 years ago
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Stefano Terra "Alessandra", Oltre Edizioni
il ritorno in libreria del romanzo vincitore del Premio Campiello nel 1974 Postfazione di Diego Zandel Prezzo € 18.00, pag. 190 Oltre Edizioni Il romanzo narra la storia di un diplomatico che sceglie di lasciare l’Italia per un’isola (Rodi) nelle regioni dell’Attica, e del suo triste amore per la moglie Alessandra. Il presente e il passato si alternano ed anche si mescolano dentro una…
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giancarlonicoli · 6 years ago
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14 lug 2018 19:30
CARLO SAMA VUOTA IL SACCO: "IL SUICIDIO DI MIO COGNATO RAUL GARDINI? UN SACRILEGIO. TEMEVA DI FINIRE COME GABRIELE CAGLIARI, 134 GIORNI NEL CANILE. PENSAVA SOLO A QUELLO, ALL’ARRESTO. DI PIETRO LO TENEVA SULLA GRATICOLA - LA MAXI TANGENTE ENIMONT? SI PAGAVA PERCHÉ NON ROMPESSERO LE BALLE. I PARTITI DALLE MANI PULITE? QUALCUNO SVOLGEVA IL LAVORO SPORCO ANCHE PER CONTO LORO. LA POLITICA COSTA TANTO, SA?’’
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Stefano Lorenzetto per il Corriere.it
La sua nuova vita è costata a Carlo Sama un occhio della testa. Il destro. «In Paraguay ho avuto il distacco della retina mentre aprivo una strada nella tenuta di famiglia, dentro la più vasta foresta pluviale atlantica del pianeta posseduta da un privato. Sarebbe bastato farmela suturare là con il laser. Invece ho aspettato 20 giorni perché volevo ricoverarmi in una clinica europea. Risultato: 14 inutili interventi chirurgici fra Londra, Roma e Miami. Ed eccomi qua, orbo veggente come Gabriele D’Annunzio».
Il protagonista del processo Enimont, inchiodato dal pm Antonio Di Pietro per aver pagato «la madre di tutte le tangenti» e riabilitato di recente dal tribunale di sorveglianza di Bologna, vive fra Montecarlo e il Sudamerica. «Nel bosco mi sono costruito una casa di legno su un albero, a 20 metri da terra, ma confesso che non ci ho ancora dormito. Ho paura dei giaguari: quelli s’arrampicano».
Eppure nella sua Ravenna lo considerano l’amico del giaguaro che tradì il proprio mentore, il cognato Raul Gardini. «Il passato è storia. Fa parte di noi. Pensi al povero Ubaldo Lay: bravo attore, ma alla fine tutti se lo ricordano solo come il tenente Sheridan con l’impermeabile». L’accusa gli pesa, e ancor più adesso, a 25 anni dal colpo di pistola alla testa con cui il 23 luglio 1993 l’arrembante magnate del gruppo Ferruzzi-Montedison si uccise nel Palazzo Belgioioso di Milano.
«Tra la mia famiglia e Gardini, scelsi la mia famiglia». Cioè la moglie Alessandra Ferruzzi, che, come i fratelli Franca e Arturo, non condivideva la successione decisa da Raul, marito della sorella Idina, la primogenita del fondatore Serafino Ferruzzi. Era il 1991. Gardini fu liquidato con 505 miliardi di lire. «Quello che nessuno sa, è che l’anno dopo ritornammo a parlarci».
Chi fece il primo passo?
«Io. Ci vedemmo in Svizzera. Ruppi il ghiaccio con una battuta: Raul, non ci divertiamo più se non stiamo insieme».
Stare insieme per fare che cosa?
«Avevamo il monopolio mondiale del polipropilene. Ma bisognava investire centinaia di miliardi in ricerca. La Shell era pronta. Avremmo riportato a casa i pozzi petroliferi in Adriatico. E la Edison. L’advisor dell’operazione era Romano Prodi, affiancato da Claudio Costamagna, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti. Il principio era banale: rimettere tutto assieme. Dissi a Raul: facciamo un atto di compravendita della Ferruzzi per una lira, poi a bocce ferme sarai tu, da padre di famiglia, a valutarne il vero valore».
Come reagì?
«La proposta gli piacque molto. Ma non se ne fece nulla, perché commise un errore: cercò l’avallo di Mediobanca, cioè di Enrico Cuccia».
E che cosa accadde?
«Le azioni furono svalutate da 1.250 a 5 lire. La Ferruzzi fu oggetto di un trapianto d’organo, con le sue quote di mercato immesse in corpi malati. Sa di che parlo? Eravamo primi al mondo anche nelle proteine e nelle lecitine di soia, nelle penicilline; primi in Europa nello zucchero, negli amidi e derivati, nei semi oleosi, nei mangimi, negli oli di marca; primi in Italia nel calcestruzzo e nelle assicurazioni danni e secondi nell’elettricità».
Che uomo era Raul Gardini?
«Straordinario. Aveva una visione così chiara del mercato che si dimenticava dei tempi. Voleva che le cose fossero fatte per ieri. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Il mondo era il nostro giardino di casa. Fosse ancora vivo, oggi costringerebbe l’Italia a ridiscutere Maastricht, le quote, tutto».
Perché a 60 anni si uccise?
«Non certo per disonore: non aveva fatto nulla. Temeva di finire come Gabriele Cagliari, 134 giorni nel canile. Quando il presidente dell’Eni si suicidò in cella, Raul mi telefonò: “È morto da eroe”. Pensava solo a quello, all’arresto. Di Pietro lo teneva sulla graticola. Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa. Mi hanno raccontato un’orribile storia di guerra sui topi».
Quale storia?
«I soldati catturavano una dozzina di topi e li tenevano a digiuno in gabbia. L’unico che sopravviveva, dopo aver divorato gli altri, veniva liberato perché desse la caccia ai suoi simili nelle trincee».
Gli innocenti non temono il carcere.
«Efrem Campese, capo della sicurezza di Montedison, gli aveva parlato di dieci buste gialle con l’intestazione “F” e di un colonnello della Finanza chiamato da Roma per recapitarle. I destinatari potevano essere Fiat o Ferruzzi. Si figuri se Raul ebbe dubbi. L’avviso di garanzia equivaleva a una condanna».
Lei ebbe 146 imputazioni, mi pare.
«Pi�� o meno. Assolto da tutte, a parte il finanziamento illecito ai partiti e l’inevitabile falso in bilancio».
Fu arrestato il giorno del suicidio.
«Sì. Mi trovavo a Lugano. Telefonai a Palazzo Belgioioso. Rispose Renata Cervotti, la segretaria di Raul. Lo stavano soccorrendo. Non morì subito».
Aleggiano misteri sulla tragedia?
«No, fu tutto lineare. Il comandante che affonda con la sua nave».
Fu dunque un gesto eroico?
«Rispetto la sua decisione e non esprimo giudizi. Sarebbe fargli torto».
È vero che la vedova ha abbracciato la vita religiosa?
«Idina è una donna meravigliosa, come lo era il marito. Oggi non sta bene. La storia dei Ferruzzi non la conosce nessuno. Sono l’unico a poter dire d’aver visto la luna e l’altra faccia della luna. Serafino era un genio, ha segnato il secolo scorso. Il giorno in cui arrivò alla Borsa di Chicago, si fermarono per rispetto le contrattazioni: era entrato Mister Soia, il trader che faceva il mercato».
Ma che bisogno aveva Enimont di versare tangenti ai partiti?
«Nessuno. Si pagava perché non rompessero le balle. Non mi pareva un peccato. Magari una scemata. Ma la politica costa tanto, sa? Non trovo anormale aiutarla. Si doveva fare alla luce del sole».
Foraggiavate tutti?
«Nella migliore tradizione. Avevano stabilito le percentuali. I partiti dalle mani pulite? Qualcuno svolgeva il lavoro sporco anche per conto loro».
Severino Citaristi, tesoriere della Dc, mi raccontò di quando il segretario Arnaldo Forlani lo spedì da lei per ritirare una busta con dentro 2 miliardi e 850 milioni di lire in Cct, circostanza che poi mi fu confermata dallo stesso Forlani.
«In piazza del Gesù ci andai poche volte. E non chiesi mai nulla a Forlani».
Che mi dice della valigia con 1 miliardo di lire consegnata al Pci?
«Bisognerebbe poterlo chiedere a Raul. La portò lui alle Botteghe Oscure».
Centinaia di miliardi in Cct transitarono dallo Ior, la banca della Santa Sede.
Però il vescovo Donato De Bonis, segretario dello Ior, celebrò le sue nozze nella parrocchia vaticana di Sant’Anna.
«Un caro amico. Aprì il fondo San Serafino per attività di beneficenza in onore del padre di mia moglie. Ogni anno ci versavo la mia gratifica natalizia».
Stefano Bartezzaghi, figlio del Bartezzaghi della «Settimana Enigmistica», la definì «vantaggiosamente inappariscente» e le imputò la «tendenza a strafare».
(Ride). «Giudichi lei. Ho interesse ad apparire sul Corriere della Sera?».
Di che cosa si occupa adesso?
«Mi sarebbe piaciuto cimentarmi nello sport, come mi aveva consigliato Bettino Craxi, magari alla presidenza del Coni. Invece sono rimasto fedele all’antico amore: la terra. Mi occupo di Agropeco, 12.000 ettari fra Paraguay e Brasile, vicino alle cascate dell’Iguazú, e di Las Cabezas, 18.000 ettari a Entre Rios, in Argentina. Produco dalla soia all’eucalipto. E allevo 12.000 capi di bestiame razza Hereford. Ho brevettato un mangime contenente il 5 per cento di stevia, un’erba dolcificante che funge da antibiotico naturale. In campagna rido da solo, come i matti».
Investe ancora nel nostro Paese?
«Beh, no, che domande! L’ultimo affare fu la cessione di un’immobile a Roma, diventato il J.K. Place luxury hotel».
Le restano l’Es Ram resort e il ristorante Chezz Gerdi, a Formentera. Tra gli ospiti, Veronica Lario con figli e nipoti, Piero Chiambretti, Paolo Bonolis, Raoul Bova.
«Chiuso il primo, venduto il secondo. Mai ospitato Bonolis. Però ci venivano Kate Moss e una figlia di Mick Jagger».
Silvio Berlusconi era suo amico.
«Lo è ancora, lo sarà sempre. Fu l’unico a telefonarmi il giorno dell’arresto. E pensare che avrebbe dovuto odiarmi: con Telemontecarlo gli fregavo la pubblicità».
Chi altro le è rimasto vicino?
«Luca Cordero di Montezemolo, Carlo Rossella, Luigi Bisignani. E Sergio Cusani. Il mese scorso si è fatto 400 chilometri, Milano-Bossolasco e ritorno, per stare mezz’ora con le stampelle al matrimonio di Francesco, il mio secondogenito».
Come vede l’Italia a trazione pentastellata-leghista?
«Tutto quello che porta al cambiamento, lo vedo bene. Pensi che Gardini già negli anni Ottanta voleva risolvere il problema degli immigrati. Fece predisporre da Marco Fortis, docente della Cattolica proveniente dalla Nomisma di Prodi, un progetto per rendere coltivabile la fascia mediterranea del Maghreb. Dall’Africa non sarebbe più partito nessuno. Se solo avessimo potuto continuare...». (Si commuove). «Il lavoro era il nostro gioco, la nostra vacanza. È stato commesso un sacrilegio».
Secondo lei i partiti si finanziano ancora in modo illecito?
«Mi pare di sì. Ma non ho i riscontri».
Allora da che cosa lo deduce?
«Dall’odore».
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