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spondan · 2 years
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anchesetuttinoino · 18 hours
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Ecocidio, ultima fermata del diritto penale totale
L'ecocidio, ultima fermata del diritto penale totale - Tempi
Il partito di Bonelli e Fratoianni propone una legge per accusare di genocidio chi inquina e mandarlo in galera sulla base prove vaghe e accuse fumose in nome del principio di precauzione. Una follia giustizialista a cui bisogna opporsi
E galera per tutti. Questa potrebbe essere la riscrittura del celebre capolavoro cinematografico …e giustizia per tutti con Al Pacino, se a dirigerlo fossero stati Bonelli e Fratoianni, dinamico duo della politica italiana, due per i quali vanno bene i diritti e le libertà (queste un po’ meno soprattutto quando economiche o legate alla proprietà privata) ma per i quali alla fine l’esito, lo sbocco, l’approdo di tutto deve essere la galera. A parte quando, nella loro veste di talent scout dei candidati potenziali, si imbattono in qualcuno da tirar fuori dalle carceri, da candidare e far eleggere.
Processiamoli tutti, Dio riconoscerà i suoi
Bonelli si era già fatto “apprezzare”, in questa inarrestabile deriva di pan-penalizzazione totale della società e dei comportamenti umani, ventilando l’ipotesi di un reato di negazionismo climatico, ennesimo giro di vite, assolutamente indeterminato e fumoso nei presupposti e nella definizione stessa, contro le opinioni critiche, per quanto motivate e articolate.
Per dirne una, il recente libro La grande bugia verde di Nicola Porro (Liberilibri), in cui si mettono a sistema le opinioni di scienziati critici con la vulgata terrorizzante sul cambiamento climatico, nel generale canone di indeterminatezza della fattispecie incriminatrice escogitata dai rossoverdi sarebbe potuto incorrere in problemi. D’altronde la sinistra, verde e radicale, è sempre un po’ così. Processiamoli tutti, Dio riconoscerà i suoi.
L’ecocidio non è solo un reato ambientale, è un genocidio
Di quella roba per fortuna non se ne è sentito più niente, ma è tornata in auge un’altra antica e pessima battaglia dei rossoverdi: il reato di ecocidio. Contrariamente alle polemiche montanti in questi giorni, i materiali ideatori del disegno di legge non sono direttamente Fratoianni e Bonelli ma il loro deputato Filiberto Zaratti che tale proposta ha presentato il 24 luglio 2023. Solo ora però assurgendo a indiretta fama, nonostante l’apprezzabilissimo sforzo di partorire l’ennesimo profluvio di pene. Dal canto loro, il soccorso rossoverde si è messo subito in moto.
E Bonelli ha fatto sponda al suo onorevole, richiamando l’esigenza di modificare lo Statuto di Roma che disciplina la ragion d’essere della Corte penale internazionale; sì, avete letto bene, perché l’ecocidio, lo si intuisce sin dal nomen scelto, è a tutti gli effetti un genocidio, un crimine contro l’umanità e le generazioni future, non un mero reato ambientale. Così qualificandolo peraltro ne discende anche la abnorme conseguenza di decretarne la imprescrittibilità, cosa che infatti la proposta fa espressamente all’articolo 6: nei fatti, gli inquinatori come i componenti delle Einsatzgruppen che al comando di Otto Ohlendorf fecero scempio di ebrei, e non solo, durante la Seconda guerra mondiale.
Il Parlamento, da sempre, è innovativa e inventiva fucina di dadaismo legislativo, tanto nel merito quanto nei metodi di tecnica legislativa. In alcuni casi, stramberie persino simpatiche o puramente segnaletiche, davanti cui farsi quattro risate. Quando però scendiamo nell’ombroso e delicato campo del diritto penale, e in gioco si trova la libertà dei cittadini, c’è sempre poco di cui divertirsi e invece molto di cui preoccuparsi.
Il cattivo esempio dell’Ue e il principio di precauzione
Proprio a maggio 2024, colpo di coda della deriva iper-ideologizzata del Green Deal, l’Unione Europea ha approvato una Direttiva che ha istituito una notevole serie di nuove fattispecie incriminatrici nell’alveo della materia ambientale. Un approccio repressivo che peraltro pone a carico delle imprese tutta una ulteriore serie di incombenti e soprattutto di responsabilità di ordine penale, sulla scia dei modelli di compliance e di responsabilizzazione amministrativo-penale che pure in Italia, dal d.lgs n. 231/01 in poi, conosciamo bene. Non è difficile immaginare quanto attrattiva questa Direttiva, che dovrà essere recepita e attuata nei prossimi due anni dagli Stati membri, possa essere per investitori e soprattutto aziende.
Quando ci si preoccupa del tappo della bottiglia, direi che si sta impostando la battaglia sul crinale sbagliato: non c’è bisogno di rendersi farseschi per dire che l’Unione soffre di un feticistico complesso di iper-regolazione, soprattutto perché probabilmente sono le norme di matrice penale a dover interessare di più.
Come al solito, e questo non può che essere un tratto comune tanto all’ecocidio modellato da Zaratti/Fratoianni/Bonelli quanto dalla direttiva Ue, a fare la parte del leone è il principio di precauzione con cui negli ultimi anni abbiamo dovuto familiarizzare.
Che paura la “società del rischio zero”
Nato proprio nell’alveo del diritto ambientale, il principio di precauzione, sovente intrecciato a quello di prevenzione ma da cui pure differisce per natura e funzione, è il convitato di pietra delle società altamente tecnologiche in cui si viene a minimizzare il rischio. La precauzione infatti, a differenza della prevenzione, non ambisce a evitare il palesarsi di una data situazione che si sa con certezza essere patologica, dannosa o esiziale: al contrario essa ambisce a sterilizzare in radice la potenzialità del palesarsi di un rischio che potrebbe essere o non essere dannoso. Potentially harmful recita la Direttiva Ue. Una dannosità potenziale che troviamo non per caso anche nella proposta di legge sull’ecocidio.
Applicato all’ambiente, alle pandemie, alla bio-ingegneria, a tutto ciò che per accelerazione tecnologica non riusciamo a governare a suon di norme dettagliate, il principio di precauzione è, come ha scritto Sunstein, «diritto della paura»: si basa sulla paura che un dato evento possa palesarsi, e così facendo criminalizza il rischio. Peccato, sia per i regolatori Ue, sia per Bonelli, Fratoianni e Zaratti, che il progresso umano si sia basato storicamente sulla accettazione razionale del rischio, sulla sua comprensione e sulla emersione di strumenti di mitigazione. Dai mercanti medievali che aprirono rotte nuove collegando tra loro città e Paesi agli scienziati fino agli imprenditori della rivoluzione industriale, il rischio è stato motore non tanto invisibile della evoluzione del genere umano.
Le città mercantili della Lega Anseatica, quelle meravigliose gemme turrite che affacciano sul Baltico, recavano inscritta sul portone di ingresso delle case e delle gilde mercantili la famosa frase navigare necesse est, vivere non est necesse. La società del “rischio zero”, lo abbiamo sperimentato in pandemia, è una società statica, paludosa, museale, ferma, destinata alla estinzione, più che alla mera decrescita.
Definizioni fumose, istigazione all’ecocidio e pene severissime
L’aspetto più inquietante del diritto penale sottomesso alla ideologia è che esso raramente si perita di piegarsi ai principi garantistici propri di un ordinamento liberale: il giacobinismo rossoverde, posseduto dal sacro furore della giustizia climatica, snuda le sue metaforiche ghigliottine senza andare troppo per il sottile.
E così, scartabellando la proposta di legge, ci si imbatte ad esempio nella definizione del reato, all’articolo 2.
“Si considera reato di ecocidio qualsiasi atto illecito o arbitrario commesso con la consapevolezza che esiste una sostanziale probabilità che il medesimo atto causi un danno grave e diffuso o a lungo termine all’ambiente o a un ecosistema”.
Una sostanziale probabilità. E quando, di grazia, la probabilità sarebbe sostanziale? Ma soprattutto, visto che parliamo di reati e quindi conta anche l’elemento soggettivo, come si prova concretamente che un soggetto si era palesato il fatto di voler commettere un atto che avrebbe, per sostanziale probabilità, cagionato un danno? Una sorta di probatio diabolica eco-penale.
Se è ecocidio possono deciderlo anche gli ambientalisti
Anche il richiamato “atto arbitrario” non è male e viene scolpito come «un atto che non tiene conto di un danno che sarebbe chiaramente eccessivo rispetto ai benefìci sociali ed economici previsti». L’ho dovuto rileggere diverse volte, e tremo al pensiero che una roba del genere possa finire nelle mani di una Procura e di un giudice; talmente evanescenti e spettrali le maglie definitorie da lasciar possibile tutto e il contrario di tutto, fino alla caducazione da parte della Corte Costituzionale quando e se sarà investita della questione.
Conformemente alla ipostatizzazione di una “volontà generale” messa in moto contro gli ecocidi, la potenziale legge individua, parola grossa, il “pubblico interessato” definito come «le persone colpite o che potrebbero essere colpite dai reati di cui alla presente legge; si considerano interessati i soggetti che hanno un interesse sufficiente o che dimostrano la lesione di un diritto, nonché le organizzazioni che promuovono la protezione dell’ambiente». Quindi il gingillo si mette in mano tanto a persone realmente colpite da disastri ambientali quanto in quelle degli eco-svalvolati.
E dato che conformemente alla loro tradizione, i rossoverdi detestano la libertà, soprattutto quella di parola, si pensa bene all’articolo 3 di introdurre il reato di istigazione all’ecocidio, punito con la reclusione da tre a sei anni. Senza alcuna definizione, senza dire in cosa si sostanzi davvero una istigazione all’ecocidio. Da dodici a venti anni invece spettano a chi commetta l’ecocidio “classico”. Una forbice abbastanza dilatata, peraltro. Che dire, opporsi alla approvazione e introduzione di questa roba è un imperativo di ordine morale per chiunque abbia a cuore la libertà.
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sportpeople · 6 years
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Ci sono sfide che fai quasi per default. Stadi in cui vai per abitudine, per scambiare quattro chiacchiere con questo e con quello o perché sai che, nella peggiore delle ipotesi, vedrai sempre uno spettacolo di tifo dignitoso. Poi ci sono partite che ti programmi appena usciti i calendari. Pure in un periodo storico complessivamente moscio e asettico, dove troppe volte ci si trova di fronte al solito spettacolo annacquato, in cui affogano i ricordi del glorioso passato che fu.
Foggia-Pescara è senza dubbio una di queste. Sarà che poi sulla sponda Adriatica del nostro Paese il tempo sembra scorrere più lentamente. E alcuni rancori, alcune sensazioni, sono rimasti invariati negli anni. Sono uno che quando viaggia in Italia, ormai, lo fa senza troppe aspettative. E so bene che neanche la sfida tra Satanelli e Delfini di oggi potrà ricalcare quelle del passato. Tuttavia sono anche cosciente di salire un gradino in più e respirare almeno quella tensione che scarseggia quasi sempre dentro e fuori i nostri stadi.
Assieme ad un Andrea, ormai assetato di viaggi e partite come non accadeva neanche a Dracula col sangue delle donzelle nelle notti di luna piena, arriviamo in città che le lancette dell’orologio hanno da poco superato le 12. Ogni tanto cade qualche goccia ma, col passare del tempo, il cielo si aprirà lasciando spazio a un sole che in men che non si dica riscalda a meraviglia il Tavoliere. L’esterno della stazione di Foggia è già parzialmente blindato e, con il passare del tempo, la presenza di forze dell’ordine si farà man mano più fitta.
Non mi inoltro nella cronaca approfondita del pre partita, ma non posso esimermi dal dire che le vie circostanti lo scalo ferroviario, laddove i tifosi del Pescara arriveranno, si impregnano lentamente di tensione. I tafferugli tra tifosi dauni e polizia sono ampiamente raccontati dai giornali di cronaca e dai video presenti sul web, inutile starci ancora a cincischiare sopra.
Una parte dei 500 supporter abruzzesi ha deciso di raggiungere Foggia col treno, facendo prima cambio a Termoli. Una scelta che già di suo sa di antico e ben delinea l’interpretazione di questa sfida da ambo le parti.
Il fatto, poi, che Pescara sia frequentata da numerosi studenti foggiani, che la partita non si disputi da diversi anni e che, pochi giorni prima, qualche tifoso pugliese abbia appeso sotto lo stadio Adriatico uno striscione di sfida, non aiuta certo a gettare acqua sul fuoco.
Arrivo nei pressi dello stadio quando manca una mezz’ora al fischio d’inizio, divincolandomi con spasmodica ansia tra la miriade di persone che anima l’area perimetrale. Ci sarebbe da aprire un capitolo a parte su quanto sia bello vedere panini artigianali, rosticcerie, pizzerie dall’indubbio valore e prodotti tipici divorati dai tifosi in confronto ai finti chioschi che vendono carne di decima qualità ormai installati fuori a quasi tutti i grandi stadi nazionali. Ma non è questo il caso.
Alquanto trafelato supero i preiltraggi e mi accomodo in tribuna stampa col fiatone, felice di essere arrivato in tempo per l’inizio. Dei tifosi ospiti ovviamente non c’è ancora traccia: dacché mi ricordi non c’è stata una volta, tra tutte quelle in cui ho messo piede allo Zaccheria, in cui i tifosi provenienti da fuori siano stati fatti entrare in tempo.
Come di “consueto” da queste parti, anche i tifosi dannunziani vengono sottoposti a una vera e propria schedatura con riprese video e foto di una persona alla volta con biglietto e documento alla mano. “Attenzioni” che, a quanto apprendiamo, si sono ripetute anche all’uscita dall’impianto di Viale Ofanto. Ci sarebbe da scandalizzarsi, se questa pratica non fosse diffusa da tanti anni, soprattutto in determinati stadi. Consentita dal silenzioso e lombrosiano sentire comune del “tifoso criminale”.
In attesa che i pescaresi facciano il loro ingresso, accendendo definitivamente il confronto, ho tempo di godermi la bellissima fumogenata multicolore della Curva Nord, completata dallo striscione “Per te ne facciamo di tutti i colori”. Il fumo sale coprendo i palazzi alle sue spalle. Edifici tra cui – e chi è stato a Foggia lo saprà bene – si è quasi costretti a passare in mezzo se si deve andare in tribuna coperta. Case, palazzi e costruzioni che se potessero parlare (prendo in prestito la citazione di una mia conoscenza) avrebbero da raccontarci anni veraci di calcio e tifo.
La Sud si mette in mostra con una sciarpata discretamente riuscita e con diversi fumogeni accesi qua e là, quasi a fare da prologo alla bella fumogenata di inizio ripresa, anche in questo caso multicolor. Tuttavia, nessuno me ne voglia, difficilmente riuscirà a offrire un tifo compatto e unitario tra tutti i suoi effettivi. Per la maggior parte dei 90′ è il suo nucleo centrale a tifare, mentre ai lati si nota chiaramente come la composizione di tale settore sia prevalentemente formata da pubblico “normale”, con poca attinenza al tifo e più interesse per la partita.
Discorso certamente diverso per la Nord, che dà sempre una bella idea di compattezza e quando tifa nel suo intero è notevole, riuscendo a coinvolgere buona parte dello stadio. Va detto, sempre per onestà, che malgrado il bel tifo complessivo, questa non è stata certamente la loro miglior prestazione a cui abbia assistito.
Ma siccome credo che le cose vadano sempre analizzate e motivate, cerco di spiegarmi meglio: nel complesso dico che il pubblico di Foggia è visceralmente attaccato alla sua squadra (non lo scopro io) e anche gli ultras più duri e puri (passatemi il termine) soffrono e sentono la partita. Credo che questo sia innegabile. E personalmente non solo non lo ritengo un difetto, ma persino un pregio. Sul perché mi sono espresso diverse volte, ma dato che repetita juvant: l’arma vincente dell’ultras italiano è sempre stata quella di essere un misto delle componenti che lo hanno reso celebre e copiato in tutta Europa. Dal tifo incondizionato, alle presenze in trasferta, passando per il confronto con l’avversario e, per l’appunto, l’attaccamento viscerale alle sorti sportive del proprio club. Vedere la gente soffrire, incazzarsi per il risultato o sbraitare a un’azione sbagliata è sano e fa bene.
Questa è la linea sottile, ma apparentemente invalicabile, che ci divide da movimenti ultras comunque meritevoli di attenzione e considerazione come quelli tedeschi e, in maniera esponenziale, di buona parte dell’Est Europa.
Torniamo alla sfida dello Zaccheria, non mi sono certo dimenticato degli ospiti. Come detto i pescaresi fanno il loro ingresso quasi alla mezz’ora, accolti dai fischi dello stadio. Lo zoccolo duro della Nord (che ha viaggiato in treno) si sistema al centro, seguito poi dal resto del contingente che ha viaggiato con pullman e mezzi privati.
I biancazzurri mostrano subito tutta la loro voglia di lasciare il segno e in breve tempo si capisce che la loro sarà una prestazione di valore. Tante manate, tifo tenuto sempre in alto, una bella esultanza al decisivo gol di Mancuso, una vistosa sciarpata nella ripresa e tanta pirotecnica. La rabbia e la motivazione giusta, quello che ormai si vede di rado sui gradoni italiani. Davvero poco altro da chiedere. Ovviamente gli scambi verbali con i dirimpettai sono numerosi e coinvolgono spesso anche il resto dello stadio.
Al termine della partita è grande la loro esultanza per un successo fondamentale ai fini della classifica ma ancor più per il campanile. Il rammarico dei tifosi foggiani si tramuta in applauso di incoraggiamento nei confronti di una squadra che, oggettivamente, forse non avrebbe meritato di perdere e che, sicuramente, resterà in corsa fino alla fine per salvarsi.
Nel dopo gara si registra ancora qualche problema nei pressi del settore ospiti, con gli ultras rossoneri che impegnano nuovamente le forze dell’ordine. Per chiudere una giornata calda su ambo i fronti, con picchi che giocoforza rimandano la mente a qualche anno fa. Foggia-Pescara, anche solo a leggerla su un giornale, resta sfida d’altri tempi. Le attese non sono state tradite.
Simone Meloni
Foggia-Pescara, Serie B: a volte ne vediamo ancora di tutti i colori Ci sono sfide che fai quasi per default. Stadi in cui vai per abitudine, per scambiare quattro chiacchiere con questo e con quello o perché sai che, nella peggiore delle ipotesi, vedrai sempre uno spettacolo di tifo dignitoso.
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