Tumgik
#Santo Di Bella
gaysessuale · 2 years
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in classe due svedesisti e un norvegesista seguiti da una prof altrettanto svedesista; la domanda ma il parziale di traduzione domani sarà in danese vero? è quasi superflua. scandinavistica ha davvero detto: nessuna pietà per voi, stronz*
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siamodiamantirari · 18 days
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Sono stata fin troppo calma negli anni a nascondere tutto questo schifo, senza mai pubblicare o dire nulla a riguardo. Pensavo che prima o poi finisse, e invece mi sbagliavo. Siete dei viscidi.
Visto che mi sono rotta il cazzo di leggere queste schifezze, da oggi in poi non nasconderò più nulla e non starò più zitta. E prima che mi facciate la morale, vi consiglio di farvi un esame di coscienza, perché qui su Tumblr nessuno è "santo".
Concludo dicendo che importunare le ragazze così, non arriverete mai da nessuna parte, se non una bella denuncia.
Buona Giornata.
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kon-igi · 6 months
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LA FESTA DEL PAPÀ È DIVISIVA
Ma oramai non credo che esistano argomenti di condivisione comune sui quali poter fare affermazioni nette e aspettarsi che tutti siano d'accordo.
Il cielo è blu? Ma va'... il cielo è celeste! No, guarda che è nero ed è un fenomeno di rifrazione dei raggi solari sull'atmosfera. Ti sbagli, è giallo! Sì, però togliti quel sacchetto dell'Esselunga dalla testa. Basta! Il cielo è marrone con radici che penzolano. Zitto tu che sei morto!
La scelta del giorno della festa del papà, poi, coincide con quel santo del calendario che credo abbia avuto il peggiore martirio fra tutti, cornuto, mazziato e ringrazia pure. Cioè, come papà sfigato il primo posto se lo prende di sicuro Darth Vader ma perlomeno aveva una spada laser e il suo arco di redenzione è stato più appassionante.
Insomma, la festa del papà è divisiva per due ragioni, una sociale e l'altra personale.
Da una parte, è una ghiotta occasione perché alcuni frignino che non esistono più i papà di una volta, tutti pipa e cinghiate, e che anzi, se andiamo avanti così non esisterano più nemmeno gli uomini, dall'altra è che al netto di tutto, i padri molte volte più che festeggiati spesso vanno perdonati.
Adesso come adesso, i papà sul mercato sono figli o nipoti del patriarcato, nel senso che difficilmente non avranno assorbito per osmosi familiare e sociale l'idea di quello che deve essere il ruolo di un genitore maschio all'interno della famiglia.
In sintesi il pater familias.
[maledetto genitivo ellenico ma sono cose mie]
Quando io e la mia compagna dobbiamo fare cose importanti che implichini decisioni tecniche, burocratiche, meccaniche, matematiche o notarili, il mio gesto preferito è questo
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perché tutte le volte il venditore di auto parla rivolgendosi a me che distinguo le macchine solo per il colore, l'avvocato quando io risolverei tutto con il trial by combat e la commercialista dove io opterei per il baratto.
Io sarei il pater familias, quindi automaticamente il detentore delle decisioni familiari e è invece è la mia compagna quella che prende le migliori, senza spargimenti di sangue o una pila di conchiglie che l'enel non accetta come forma di pagamento.
Sì, vabbè... non sa accendere la motosega o da che parte si impugna un coltello da lanciare e se proprio dobbiamo dirla tutta non riesce neanche ad accendere il fuoco nel camino (cosa che le rimprovero sempre ricordandole che erano le vestali ad accudire il Fuoco Sacro del focolare domestico). Poi però c'è quell'altra che disegna tubi e motori idraulici usando termini strani tipo 'valvola di massima' o 'dislocamento positivo' e quell'altra ancora che snocciola a memoria le caratteristiche di ogni macchina o moto e parla per due ore di maderizzazione e di vendemmia in neve carbonica.
Questo per dire che i ruoli sono solo ruoli ed è solo questione di abitudine... le abitudini cambiano e ci si abitua al nuovo.
Quindi buona festa a quella persona alla quale dovrebbe essere solo chiesto, dopo la fornitura di migliaia di gameti scodinzolanti, di amare in modo vasto e profondo chi non ha mai chiesto di essere portato su questa spaventosa e bella terra, ricordando che amore non è mai possesso, conferma od orgoglio.
L'amore per i propri figli è essere partecipe della gioia che abbiamo insegnato loro a conquistarsi da soli.
E per concludere, si può essere padre amorevole pure senza aver mai partecipato con un singolo spermatozoo.
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sciatu · 10 months
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CERAMICA SICILIA
Chi jè l’amuri, s’amuri nun è? Picchi l’amuri è vuliri dari pi du santu beni chi tra dui c’è ma c’addiventa quannu poi scumpari?
Quannu l’amuri nostru sinni mori cu iddu si potta u to passatu tu votiti, sduvaculu du cori a vita nun è sulu u lassatu.
a idda ommai, lassala stari u beni i ieri, no fari raggia nun vuliri cuntu, nun ci spiari non fari du passatu na jaggia.
Spiati si ci dasti u giustu si ci dasti u dovutu rispettu: l’amuri non è piaciri o gustu è impegnu, sacrificiu, affettu
Picchì si sulu pigghi ma non dai si ogni cuppa è sulu a soi si a ragiuni sulu tu l’ hai nun è l’amuri chi d’idda tu voi
Voi na criata, chi mai si lagna chi sempri t’avi diri sulu si muta e mansa tu voi na cagna chi mai spia, mai voli un picchì
Voi sulu na fimmina i pezza fatta i rasta e tutta pittata chi mai ridi mai parra o schezza fossi bedda, cu anima stutata
Nuddu ni zigna ad amari nuddu sapi vuliri beni ma na cosa tu t’ha nzignari nun ama cu dugna peni
nun ama cu si fa patruni cu giusta tuttu nzuttannu cu voli sempre ragiuni cu voli fari sulu dannu
L’amuri è semi da giustizzia in nomi soi nun si po' mazzari non si dugna lacrimi e malizia quannu poi ni veni a mancari
Lassa a sciarra o a to ragiuni non ti luddari i mani du so sangu l’amuri mossi? finiu na stagiuni u mali chi senti ti fa liuni.
Cos’è l’amore se amore non è? Perché l’amore è volere dare, per quel santo bene che tra due c’è, ma cosa diventa quando scompare? Quando l’amore nostro se ne muore, con lui si porta il nostro passato, tu voltati, svuotalo dal tuo cuore, la vita non è quello che hai lasciato. A lei ormai lasciala stare, non far diventare il bene di ieri rabbia, non volere spiegazioni, non chiedere, non far diventare il tuo passato una gabbia. Chiediti se le hai dato il giusto, se le hai dato il dovuto rispetto, l’amore non è piacere o gusto, è impegno, sacrificio, affetto. Perché se prendi solo senza dare, se ogni colpa è solo sua, se la ragione ce l’hai solo tu, non è l’amore che vuoi da lei Vuoi una serva che non si lamenta mai, che ti deve dire solo di si, muta e mansueta vuoi una cagna, che non chiede mai, che non vuole mai un perché. Vuoi solo una donna di pezza, fatta di coccio e tutta dipinta, che non ride mai, mai parla o scherza, forse bella, ma con l’anima spenta. Nessuno ci insegna ad amare, nessuno sa voler bene, ma una cosa devi imparare, non ama che dona sole pene. non ama chi si fa padrone, chi aggiusta tutto insultando, chi vole sempre ragione, chi vuol fare solo danno. L’amore è il seme della giustizia, in suo nome non si può ammazzare, non si da lacrime e cattiveria, quando poi ci viene a mancare. Lascia la guerra o la tua ragione, non ti sporcare le mani di sangue: l’amore è morto? È finita una stagione, il male che senti, ti renderà un leone.
What is love if it isn't love? Because love is wanting to give, for that holy good that exists between two, but what does it become when it disappears? When our love dies, it takes our past with it, turn around, empty it from your heart, life is not what you left. Leave her alone now, don't let yesterday's love become anger, don't want explanations, don't ask, don't let your past become a cage. Ask yourself if you gave her the right love, if you gave her due respect, love is not pleasure or taste, it is commitment, sacrifice, affection. Because if you only take without giving, if everything is to blame only her, if only you have the reason, it's not the love you want from her. You want a servant who never complains, who only has to say yes, silent and meek, you want a bitch, who never asks, who never wants a why. You just want a rag woman, made of earthenware and all painted, who never laughs, never speaks or jokes, perhaps beautiful, but with a dull soul. Nobody teaches us to love, nobody knows how to love, but you have to learn one thing, it's not love if you gives only pain. you doesn't love if you make yourselves masters, if you fix everything by insulting, if you always want to be right, if you only want to cause damage. Love is the seed of justice, in its name one cannot kill oneself, one cannot give tears and malice when it then fails in us. Leave the war or your reason, don't get your hands dirty with her blood: is love dead? A season is over, the evil you feel will make you a lion.
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t-annhauser · 11 months
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In teoria io sarei anche mezzo di Scalea ma me ne dimentico sempre perché guardandomi allo specchio ho un aspetto tipicamente veneto-lombardo, che è poi l'altra mia metà; la tua vera casa, dicono, è il tuo dialetto e io parlo il mantovano-veneto, una volta con spiccato accento emiliano, sembravo Don Camillo, tanto che zia di Scalea mi prendeva in giro perché fischiavo le s e dicevo "siarpa" e "simmia". Ora dopo vent'anni di vita in Brianza presento uno spiccato accento comasco con inflessioni femminee alla Stefano d'Onghia ("oh santo cielo!"), il mercante di Cash or Trash, che è attualmente il nostro programma preferito. Sarà perché ho bevuto il latte di soia, sarà che ho riscoperto il mio lato femminile, la voce mi esce così, in altre epoche mi sarei anche preoccupato, scavallati i cinquanta me ne fotto. Comunque quando c'era il covid io mi trovavo a Cosenza e scherzavamo tra di noi, che se andavano fuori io non aprivo bocca, parlavano gli altri, erano i tempi della caccia ai settentrionali scesi al sud per diffondere la peste (gli studenti del sud che ritornavano a casa portando il virus!), tutto molto bello, con il covid ci abbiamo fatto proprio una bella figura come genere umano, proprio una figura di merda.
Ciao.
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deliriumtropos · 1 month
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r18❗️ parte seconda di una fan fiction in revisione; 🇮🇹
capitolo incompleto!
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— Allora che si fa, eh? O Planetario, ma che si fa?
Pistonai fuori dall'autobus alla fermata del Center col sole sulla biffa e i fari schermati dalle travegghie scure, da vero duro della ti vù tipo. Poi con un bel dito centrale verso l'autista e il suo tentativo d'acciuffarmi in tempo per la collottola, e controllarmi così le gaioffe come in caccia della solita bella maria che mai gli avrei dato, manovrai quasi volando sulla strada nella speranza che questo non volesse insistere oltre. E forse questo martino mi lesse nel cardine, O fratelli, perché il poldo autista - un tipo bigio stagionato col corpo tutto molle e tarchiato e con una certa sguana nella sudata - agitò le granfie verso il sottoscritto, proprio noncurante dei passeggeri imburianati dall'attesa, e provò a scendere coi fari tipo su tutte le furie contro di me. Ma questo era appunto un poldo bigio e grasso da fare invidia a Orwell coi suoi porci nel porcile, e anche assai lento.
Allora gufai, accompagnando perbene il misero teatrino e la ciangotta affannata e stanca dell'autista con un po' di musica labiale: brrrrzzzzrrrr.
Il poldo del porcile prese la rincorsa più friggibuco del secolo. — Ora ti acchiappo, ora ti acchiappo! —, sborgnò. Ma, più che acchiappare il vostro Umilissimo narratore, acchiappò il marciapiotte inciampando come un sacco di letame sguanoso e io fui pronto, tipo, a un tanti egregi saluti alla tua vecchia fattoria lerciosa, e nemmeno a dirlo lo seminai allampo.
— Ma io Ti conosco, ma tu sei quello sui giornali! — abbaiò il poldo, ancora più imburianato di prima e col grosso biffone sgarrettato e rosso. — Non credere che non ti conosco! ti conosco, hai capito che ti conosco? —
Gli gufai sopra con una gufata più grassa di lui. — Senti, amico, io non ho tempo, — dissi facendo flash flash coi zughi di fuori e il labbro tipo a scimmione per imitare quanto più fedelmente possibile la biffa sguanosa che continuavo a locchiare come a volerlo provocare o ca cate simili. — C'è una questione di vita o di morte al varco, afferri il concetto? Ma che ne puoi capire tu? Amico, senti, perché non prendi un respiro? —
Il poldo martino Santo Martire degli autisti digrignò i zugh festati perbene e ecco che esce il sangue per lo scapriccio del marciapiotte senza farci flash flash come il sottoscritto faceva. E fu uno spettacolo cinebrivido, compagni miei, una vera bellezza. Poi il mio stomaco cominciò come a voler protestare, e allampo e senza apparente ragione rovellai di voltarmi e di lasciarlo lì. Strano, pensai in un primo momento. Ma, come dicono, non tutto deve sempre averci del significato, e così attribuii il mio distacco dalle sue macerie al pensiero di cosa ci avrei trovato di friggibuco per il Van, e cominciai a non darci chissà quale peso. Manovrai via dalla fermata e dal Martire festato dal marciapiotte, imboccai la strada per il Taylor Place e continuai per la Missione.
Fu proprio una volta che il sottoscritto si trovò di fronte alle insegne della disco-butik che mi fermai con le patte, e sempre lì che il mio planetario suggerì alla svelta di far retro marcia e baracca e burattini, mica molto convinto d'aver fatto cosa buona e giusta nel lasciar casetta, o casa dolce casa. Ma ormai ero lì, e nonostante il pizzicore e la sguana e l'ira coi coltelli dentro, per com'ero fatto le cose lasciate a metà non mi si facevano.
Dissi al planetario, tra sottoscritto e sottoscritto:
— E allora si entra o si entra? O no? Sei un malcico fatto e finito, e coi venti e sette anni sul groppo pure. E allora che sguana di cosa t'aspetti, se indugi e non ti ci smuovi? Ci entri alla disco-butik oppure no? — E gli ci aggiunsi che gli sarebbe pure convenuto di darsi una mossa e di agire sul punto. Ma, nel mentre, le mie patte avevano preso come sù il peso del puro piombo, come se la figura del bebbeotto indeciso fosse già poca cosa, e non mi veniva idea d'un rimedio o una trucca qualsiasi dalla soluzione immediata che potesse, con ogni mezzo, sbrogliare la faccenda. Nemmeno un lampo che suonasse di genio alla Ein e Stein! Non mi garbava di sentirmi le granfie mezze date alla voglia di darsi a gran festoni sui primi martini a tiro di biffa in pieno giorno, O fratelli: con Zio e Tutti gli Angeli a locchiarmi e ammonirmi, e magari a suon di cerini e auto-pol.
Più che Melodia – questo il nome del commerciante di musica in padellami dei miei tempi d'oro e argento –, già friggibuco come nome a quell'epoca, e poi Van (e questa era cosa buona e giusta, amici rari), l'ennesimo cambio di gestione alla cassa e alla vecchia maria suonava come un rutto meschino e intollerabile. Vogue era adesso il suo nome, e era proprio un nome da bigia, di quelle che ci passano intere ore a rifarcire il truglio raffazzolettato con la trucca del trucco, e coi specchi tutti rotti per la vergogna tipo, se capite cosa intendo. Al solo pensiero mi ci scardinavo tutto al centimetro quadro, e tutta quella sguana. Nessuna precedente insegna pareva superare in mielestrazio questa qua nuova, a cominciare da quel tanto di logo friggibuco del Van che adesso si chiamava Vogue, perché era una gran schifo d'insegna e di situazione, potete starne certi, né il sottoscritto amante dei compromessi e del porgi-la-guancia-amico. Allora i miei fari tornarono frappè, e per una volta pensai che in fin dei conti ogni sosto sarebbe stato cento sguane meglio d'un locale ormai ridicolo come questo sostaccio, anche un sosto sgualcito come la rozzeria centrale, per esempio. Ed era tutto dire.
Mentre ancora scricciavo al planetario di trovare una maniera per farmi coraggio, stupendomi instupidito di quanto certe volte certi sogni dicano il vero (e potevo anche confermarlo, fratellini), e che non trarne poi tutta quella tragicomica da gedia avrebbe migliorato in parte il bel pome che tutto sommato era sereno e spumante, le mie granfie pigliavano a rovellarsi tra di loro e ci facevo pochi passi che quasi subito mi rovellavo di nuovo di non oltrepassare la soglia con le patte a un metro dalle porte della friggi-butik, sguana and company. O locchiavo a destra e a manca per tutta Taylor Place, e anche per diritto nel caso, coi fari cinebrivido e severi.
Ci passò molto altro tempo, tipo lo scorrere in stile un-due-tre-stalla o giù di lì. Poi le mie gambe e le mie patte reagirono, si fecero finalmente di forza in avanti e il vostro Umilissimo narratore si decise a procedere verso il rivenditoriale che pensavo di conoscere come le mie gaioffe sacre, o fratelli, e ecco che superai l'insegna buzzurra e mielestrazio del Van che ora si chiamava Vogue del porco mondo, e ci entrai con i zughi da finto ghigno perbene: tutto sorridente, insomma, come un malcico tranquillo tranquillo, sbarbato e lavato. E almeno sulle ultime due c'era del vero, mi ero lavato cioè.
Le mode, anche se poco cinebrivido, cambiano. Ma Vogue era proprio un nome sguanoso, e mai mi sarei pentito di definirlo in questo modo, e era pure peggio del primo nome di Melodia, e Van-non-più-Van-ma-Vogue a questo punto leggenda da tramandare ai figli dei figli dei figli e amen, da tramandare, dico, coi fari da piagnisteo e condoglianze vivissime, cari.
Delitto! In cinque o sei anni d'assenza del VUN, tutti mi ci avevano tipo ballato alle spalle alla maniera dei ratti che ballino alla scomparsa del Gatto, e la rabbia mi prese un piccolopoco. Locchiai male il primo capitato a tiro, scapricciando di prenderlo davvero a tiro con l'aire d'un festone sulla sua biffa coi zughi da coniglio, altro che indugiare per il pugno dei rozzi e dei cerini coi parazzucchi! Ma gli evitai il buon giro tipo quarto d'ora di porco diciannove ultraviolento del sottoscritto, non so come né perché, e nel portarmi lontano dal martino coi zughi da coniglio senza la sua carota m'infilai a dar di perlustrazione per gli scaffali dandogli un'ultima locchiata di fari minacciosi per evitarmi, almeno, la figura del Bamba che si pigli la coda tra le gambe come i cagnacci. Certo, Bamba ormai non era più così Bamba, ma nel mio planetario speravo ancora che il nuovo bamba col parazzucca da rozzo fosse una qualche genere di trucca tipo fantascientifica o un clone.
Le mode cambiano, anche i soma a quanto pare, ma la musica no. Ci si deve accontentare nella vita, perché Zio ha da fare e non può sempre starsene lì a soffocarti la granfia con la sua salda d'acciaio e vino e ostie per dirti di ritentare che la prossima volta sarai un malcico fortunello. E almeno la bella musica (quella vera, se capite), non era cambiata, ma nemmeno di poco, e locchiato alla buona un dieci o poco più di scomparti di dischi affloscia-plotto con le solife biffe del malcichi friggibuco di turno, suggerendo al plantetario di darci fuoco in onore dello Zio, per quanto assente come sempre, abbracciai le sezioni della Classica coi fari appannati dalla gioia e col cuore pronto a far di nuovo bumbumbum.
Rovistai subito alla ricerca del grande e insuperabile Ludovico Van. Perché la musica non cambia, se sapete dove andare e cosa cercare con la dovizia di un tedesco spia della galassia galattica e compagnia bella, fratelli; e poi, una volta guarito, potevo permettermelo un certo esercizio di sacrosanto potere.
Mentre il mio planetario tornava alla contemplazione massima della biffa del Grande Ludovico Van stampata sulla copertina del bel padellame che avrei acquistato senza rovellarci sú due volte, e il mio plotto si drizzava ritrovando l'amicizia molto lecita con Lui, la mia attenzione si distaccò allampo dal vinile prescelto e la locchiai. Una bella mammola da urlo. E anche lei vide me, tutta sorrisi e battiti di ciglia o da cerbiatta mammolosa.
Era la mia occasione, dissi tra me e me. Non potevo mica sapere di tutti quegli effetti collaterattivi o quel tipo di sguana lì, del tipo sguane dei disturbi di traumi o postumi, O fratelli, anche perché ormai l'avevo locchiata, ci eravamo l’occhiati l’un l’altra, e avevo già deciso pure sul da farsi e non c'era freno che potesse fermarmi — proprio no — e, come sempre, nemmeno il Bog innominato. Nemmeno me medesimo.
Londra, O fratelli, quel certo fascino d'antico – non di bigio, sia chiaro – l'aveva sempre avuto, e come sosto c'era da dire che avesse, pure, un non so che di Misterioso. Ma quando i fari del vostro Umilissimo narratore locchiarono ancora una volta e con dovizia la mammola a poca distanza da lui, con sù quei capelli di miele come a carati e lisci lisci come ultimamente era circa di mio gusto, dovetti allampo averci da ricredere in fatto di fascino londinese. Poi le locchiai perbene la trucca leggera sopra i fari delicati, e sul truglio lo stesso, e quando mi ci posai ad analizzare come s'era tappata, amici, mi sentii festato per il senso buono, convinto difatti di averci a che fare con una francesina. Altro che Londra e soliti soma e solite soma! La mammola in questione, infatti, era quel genere di mammola diversa dalle altre ormai fatte quasi a stampino, —o omologazione se preferite, con quelle maglie vomitosamente colorate e gommose,— ed era tutta tappata all'ultimo grido del vestire come ai bei tempi gotici a partire dalla Francia, ma che in quei giorni aveva preso piede anche in poche periferie di Londra – tra cui il Palace, il Churchill e il New Creston e basta. Il suo tappo consisteva in quelle palandrine lunghe, rigorosamente nere di cui sù, nella parte tuberosa, motivetti a lacci, neri uguali, e la presenza d'altri motivi a rete che lasciavano intravedere la pelle diafana delle braccia (erano tutte mammole color latte, comunque, quelle poche tappate in questo modo; ma non si locchiavano purtroppo quasi mai al Korova, quelle volte in cui ci tornavo).
La locchiai di nuovo, lei inclinò il collo, poi mi decisi e le mie patte si mossero nella sua direzione e la voglia di far numero crebbe. Smisi così di rovellarmi il cardine una volta per tutte ed ebbi un guizzo volpino.
Dissi: — La mia fama mi precede o mi son sporcato il ceffo, sorellina?— con la ciangotta quatta quatta e accomodante. Ci feci di flash flash coi zughi, o meglio fissai i fari svicci verso di lei, e i suoi erano fari del tipo grigio grigio da gattona, e ci sorrisi da malcico baccagliatore. Allora seppi d'averla incuriosita in buona parte, piuttosto che inquietata, e allungai il truglio con fare un piccolopoco beffardo quando intravidi il bagliore di un sorriso. Eppure, fu un'ombra soltanto dell’antico brio. — Ma no, ma no, sicuramente hai letto il mio pensiero, come in quegli sceneggiati fantascientifici che ci vanno giù pesante con le più strane tramuccole e vorresti riavere il Van, vero? —
La mammola d'urlo socchiuse il truglio come per rispondere, ma fui ancora io a precederla, e aggiunsi:
— Ma no, certo che no, Sorellina. Né temi le brutture della nostra epoca, ora che entrambi ci troviamo in un luogo pubblico, tipo, e di certo non ambisco a destare altri scandali alla pubblica opinione di figli cinti di fiori alla porta. Dopo tutti questi anni ne faccio anche a meno, fidati di un drugo perbene. Lo sono diventato, lo prometto.—
— Ma non mi pare d'averti mai visto, né di averti dato il consenso di chiamarmi in questo modo, lo sai? Forse ti confondi con qualcun'altra, temo sia così— disse la mammola dal tappo gotico, ma con un sorriso lungo il truglio che suggerì bene al sottoscritto d'aver fatto mirino in qualche modo dalla forosa. — Però lo ammetto, mi pari simpatico.— A quel punto era diventata tipo un piccolo poco rossa, di un rosso gradevole a locchiarsi.
Si lasciò a una gufatina divertita. — Ma il tuo modo di parlare…— si portò le granfie snelle a trattenere la melodia labiale del truglio sottile e calò la biffetta, e fu quel genere di trucca sana e favorevole che, per una volta, il vostro Umilissimo narratore trovò spontanea e gradevole.
Più la mammola sorrideva e rideva con quella ciangotta cristallina e innocente, più quell'innocenza mi portava il cardine a rovellare imagini non proprio caste nel sottoscritto. poi, tipo subito, lo stesso planetario -non si sa come o perché- si rimangiò la parola data, e dagli intestini arrivò una nota non poco chiassosa di dissenso per ogni pensiero che ci facevo.
Per un poco rovellai allora che potesse trattarsi, come in passato, di quei pensieri che gli erano stati inculcati dalla Cura Ludovico. Poi me la gufavo col cardine imponendogli dimettersi a tacere.
La mammola mi guardò un po' confusa.
— Hai un nome, oltre agli occhi azzurri? Sto parlando con te, sicuro che va tutto bene? Io, comunque, mi chiamo Jennì— disse dopo un po'. E aveva tutte le ragioni dalla sua, o fratelli, perché sicuramente dovevo esserle apparso un po' fané, e non volevo proprio immaginare che razza di biffa da stronzo friggibuco dovessi averle tirato fuori.
— Alex DeLarge, Alexander per le anagrafi, amica— dissi allampo, riportandomi al qui-e-fottuto-ora. — Ma basta Alex, per i soma e i vicini, Sorellina. Sì, nient'altro che Aleuxo Bello. Con modestia—. Poi mi fissai profondamente nel grigio dei suoi fari, come se granfie invisibili ci uscissero dai fari (questavolta miei) per agganciare quelli di lei, e la mammola rosseggiò più di prima. — Jennì come nome è proprio carino, in ogni caso, o dolce pulzella. E sei pure francese, magari? Come la Giovanna che accende cancerose.—
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Continua ~~~~>
Spero vi piaccia. per quanto riguarda il primo capitolo, ovvero Latte di Suocera, appartiene a un testo cominciato se non erro nel lontano 2021/2022, quindi aveva bisogno di sul serio ancora pochi accorgimenti; questo qua, la seconda parte insomma, è già più recente e mi sembra come di averci perso la mano con il linguaggio moschetto/Nadsat.
il mio sogno è quello però di portare avanti la fan fiction e di riprendere la mano con lo stile adottato da Burgess! Fatemi sapere la vostra!
gif a caso.
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ombranelvento · 2 months
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A noi non frega un cazzo che non sei una tipa facile continuo a dire che siccome mi sto facendo i cazzi miei mi pare giusto che ti fai i cazzi tuoi pure tu che caspiterina
MA SE QUESTO È IL MIO BENEDETTISSIMO BLOG, CI VOGLIO SCRIVERE QUELLO CHE VOGLIO, FATTI NA BELLA MAZZA DI CAZZI TUOI SANTO DIO!!!!
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esuemmanuel · 1 year
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Todos los santos ya se murieron…
y quedan muy pocos hombres para querer revivirlos.
All the saints have already died...
and there are too few men left to want to revive them.
Una muy corta colaboración entre E.V.E (primera línea) & Esu Emmanuel (segunda linea).
A very short collaboration between E.V.E (first line) & Esu Emmanuel (second line)
Gracias por las bellas y muy fructíferas conversaciones.
Thank you for the beautiful and very fruitful discussions.
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filorunsultra · 7 months
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Syrah quel che Syrah
Cortona è nota per un codice musicale del Duecento conosciuto come Laudario di Cortona Ms. 91 e conservato all'Accademia Etrusca. È un laudario, cioè un libro che contiene delle laude, canzoni a tema sacro con testo in volgare e di uso non liturgico. Il repertorio laudistico del Duecento ci è arrivato principalmente grazie a due codici: il Magliabechiano Banco Rari 18 di Firenze, che ha delle bellissime miniature ma è pieno di errori di notazione, e il Laudario di Cortona. Mi trovo con Raffaele in un'auto a noleggio sulla Modena-Brennero quando chiamo la bibliotecaria dell'Accademia Etrusca per vedere il codice: mi dice che non è visionabile, cioè, non oggi, forse se arrivassimo prima dell'una, d'altronde ogni giorno qualcuno chiede di vederlo, poi c'è il figlio da prendere a scuola, magari scrivendo per e-mail, o presentandoci come piccolo gruppo... comunque sarebbe meglio rimandare. Dopo quindici minuti di conversazione circolare riaggancio il telefono. Stiamo andando in Toscana per un convegno sul Syrah coordinato da Raffaele, a cui mi ha chiesto di accompagnarlo non so bene perché. La scusa del Laudario era stata buona fino all'uscita dell’autostrada di Affi, poi anche quella era crollata e di lì in poi mi sarebbero aspettati soltanto tre giorni di chilometri di corsa, vino biodinamico e cene a base di chianina (oltre a essere vegetariano, Chiani è il cognome di mia mamma e solo l'idea di mangiare una così bella mucca, che per di più porta il nome di mia madre, mi provoca orribili dolori enterici).
Cortona si trova su una collina affacciata sulla Val di Chiana, più o meno ad equa distanza tra Siena, Arezzo e Perugia. È un classico borgo medievale da "Borgo più bello d'Italia" (ogni borgo italiano è "il più bello d'Italia"). Una rocca sulla cima, qualche chiesa, dei cipressi, un grazioso cimitero e tutte quelle cose inequivocabilmente italiane: l'alimentari, l'enoteca, il bar (da leggersi i' barre, con raddoppiamento sintattico). Turismo, a marzo, poco, e comunque tutto anglofono e interessato solo a due cose: Cortona DOP (principalmente Syrah e Merlot, e in minor parte Sangiovese) e tagliata di chianina. La campagna sotto alla città e la strada regionale che porta in Umbria sono misurate dalle insegne delle centinaia di cantine e dai cartelli con gli orari delle degustazioni. Da Trento a Cortona si impiegano circa quattro ore e così, svincolati anche da quell'unica incombenza presso la Biblioteca Etrusca, a circa metà strada usciamo a Castiglione dei Pepoli, sull'Appennino Bolognese, in cerca di un piatto di fettuccine.
Il lago Brasimone è un bacino artificiale costruito nel 1911. Dal lago attinge acqua una delle uniche due centrali nucleari attive in Italia. Leggendo dal sito ufficiale dell'ENEA: "Il Centro del Brasimone è uno dei maggiori centri di ricerca a livello nazionale e internazionale dedicato allo studio e allo sviluppo delle tecnologie nei settori della fissione di quarta generazione e fusione nucleare a confinamento magnetico. Rilevanti sono le competenze disponibili sulla tecnologia dei metalli liquidi, sui materiali innovativi per applicazioni in ambienti severi, sulla prototipazione di sistemi e componenti per applicazioni ai sistemi energetici anche nucleari." Attraversando in auto la diga, verso la trattoria, Raffaele mi racconta che il referendum sul nucleare del 1987 bloccò la produzione di energia nucleare ma non la ricerca. La centrale nucleare del Brasimone (anche se non è una vera centrale) ricorda vagamente Chernobyl: il camino bianco e rosso, la cupola di cemento del reattore e i boschi tutto attorno, non ci sono invece i classici camini di raffreddamento, dandole un'aria più domestica. Accanto al lago c'è una trattoria sgarrupata per gli operai della centrale. Come in tutte le bettole per operai e camionisti, si mangia divinamente ma non leggero, segno premonitore dell'imminente cena.
L'albergo a Cortona è un quattro stelle e per aperitivo ci offrono cantucci e Vin Santo. Le quattro sciure che ci lavorano sono fin troppo disponibili e ci ammorbano parlandoci dei biscotti. Una volta arrivati in albergo io e il Raffa facciamo una corsa di acclimatamento attorno al paese che mi apre una voragine in pancia, rendendomi sempre più insofferente per quella cena. Restiamo per un po' nella hall dell'albergo ad aspettare Giorgia, una delle relatrici del convegno. Ho l'impressione di essere lì da delle mezzore quando finalmente Giorgia scende dalla camera.
La cena è alla Marelli, una cascina in mattoni rossi di proprietà della famiglia Marelli della famosa Magneti Marelli, e per metà affidata a Stefano Amerighi Vignaiolo in Cortona (da leggersi tutto insieme, di fila, senza virgola), amico e cliente di Raffaele e organizzatore del convegno. Mi aspetto una cena formale in cui mantenere un contegno istituzionale ma si tratta di tutt'altro. La tavola non è apparecchiata e anzi la stanza è alta e semivuota. Ci sono un grande caminetto al centro, un divano, due poltrone, una grande credenza piena di bottiglie vuote di Syrah francese e nient'altro. Siamo in dodici a cena ma arriviamo presto e ci sono ancora solo tre vignaioli francesi già piuttosto avanti col vino e coi trigliceridi, un broker di borsa collezionista di bottiglie d'annata e Francesco, un dipendente di Stefano. Come me, neanche Giorgia conosce nessuno e mi sento meno solo, inoltre lei è un'ingegnere: di vino ne sa più di me ma è comunque fuori contesto. Così ci mettiamo in fondo alla tavola, separati dagli altri commensali da Raffaele, che emana sapienza anche per noi. Il broker stappa una magnum di Champagne e così inizia una serata destinata a durare ore e inframmezzata da un'innumerabile sequela di portate e bottiglie di vino (in realtà, per scopi puramente antropologici, le ho contate: undici, di cui una magnum). L’ospite arriva solo al terzo bicchiere di Champagne: Stefano è sulla cinquantina, capelli e barba brizzolati e occhiali da vista Celine con montatura nera. Neri anche il maglione, i pantaloni e le scarpe. Sulla credenza ci sono dischi di Paolo Conte e qualche cd generico di musica classica, di quelli che si trovavano una volta in edicola e che contenevano qualche grande classico come Tchaikovsky e Beethoven, più qualche russo un po' più ricercato ma meno sofisticato, che ne so, Mussorgsky. Stefano è un melomane, ha scoperto l’opera da adolescente col Così Fan Tutte e poi da Mozart è arrivato a Verdi. Da giovane frequentava il Regio di Parma, che dice fosse il suo teatro preferito (mah), apprezzava anche l’orchestra del Maggio mentre non trovava nulla di eccezionale nella Scala (ancora: mah). Era talmente appassionato d’opera che chiese a sua moglie di sposarlo durante una Boheme, che però raccontandolo attribuisce erroneamente a Verdi. Io mi irrigidisco ma evito di farlo notare, i lapsus capitano a tutti e io non voglio fare quello che alza il ditino per correggere il padrone di casa, così annuisco e continuo ad ascoltarlo. Insieme a lui arrivano anche altri tre vignaioli biodinamici siciliani. Il più anziano, un distinto signore sulla settantina (che avrei scoperto essere l'unico altro vegetariano nella stanza) e i suoi due collaboratori, non molto raffinati in realtà. Alla terza bottiglia di bianco sono iniziati i rossi e, insieme ad essi, un simpatico giochetto in cui gli ospiti dovevano indovinare il vino. Raffale sembrava particolarmente bravo a questo gioco e per un po' ho avuto l'impressione che i due siciliani non facessero che ripetere quello che diceva lui. Anche il broker sapeva il fatto suo e la cosa aveva iniziato a prendere una piega deliziosa. In queste cene, mi ha spiegato Raffaele, ognuno porta qualche bottiglia e il cibo diventa più che altro un modo per continuare a bere. Dividendo una bottiglia in tanti, nessuno riesce a bere più di un paio di dita di ogni bottiglia, per cui il tasso alcolemico, una volta raggiunta una certa soglia, non si alza ulteriormente ma resta più che altro stazionario per tutta la durata della cena, facendo più che altro i suoi peggiori effetti il giorno dopo.
Quando chiedo a Raffaele se in quell'ambiente ci siano problemi di alcolismo, lui mi risponde che "da un punto di vista patologico, probabilmente no, o almeno non diffusamente, ma in una forma latente sì. Tra cene, presentazioni e fiere, i vignaioli bevono tutti i giorni. Inoltre, durante le cene come questa, si è diffusa sempre di più l'abitudine di aprire la bottiglia tanto per aprirla, spesso finendola in fretta per passare a quella dopo, o buttandone via metà, nella sputacchiera, passata di mano in mano con la scusa di gettare i fondi, e per far spazio alla bottiglia appena aperta. Così non ci si prende il tempo per lasciar evolvere il vino e per vedere come cambia nel corso della sera. È un atteggiamento bulimico e anche poco rispettoso nei confronti di una bottiglia che un povero vignaiolo ha impiegato un anno per produrre. Ogni volta che qualcuno prova a parlare di alcolismo in questo ambiente il gelo tronca ogni possibile discorso, e d'altronde nessuno è interessato a farlo, perché vorrebbe dire mettere in discussione l'intera economia del settore: quando dieci anni fa crollò definitivamente l'idea del vino come alimento centrale per la dieta mediterranea e si capì finalmente che berlo fa male, la comunicazione dell'industria vitivinicola si spostò sul suo valore culturale. Cosa di per sé anche vera, se non che la cultura del vino non sta nella bottiglia ma nel territorio; mentre l'esperienza enologica si ferma sempre alla degustazione e non si spinge mai alla vera scoperta del territorio e della sua storia, soprattutto in Italia." Insomma, quello che dovrebbe essere il pretesto diventa lo scopo.
Durante la cena apriamo una bottiglia di Cornas del 2006, l'ultima annata del vignaiolo che l’ha prodotta, un tale Robert Michel, prima che andasse in pensione. Raffaele mostrandomi la bottiglia mi fa notare che la parola più grande sull'etichetta non è il nome del vignaiolo, che invece è scritto piccolo in un angolo, né dell'uva, Syrah, anche questa scritta in piccolo, ma il nome del vitigno, cioè il posto in cui è stato fatto. Ed è scritto al centro, a caratteri cubitali: Cornas. In Francia il brand non è il nome di fantasia dato al vino dal vignaiolo, ma il nome del posto. Questo fa sì che le denominazioni siano molto più piccole e controllate che in Italia, e che attorno a queste denominazioni si costruisca un'identità più profonda. Lungo il Rodano francese, ad esempio, si trova questo paese, Cornas, dove si coltiva solo Syrah. Il cliente finale sa in partenza che non sta comprando tanto una cantina, ma un territorio, e una storia. Dopo il Cornas, aprono una bottiglia di Pinot Nero del 1959 (puoi avere il palato di una pecora come il sottoscritto, ma l'idea di bere un intruglio fermo in una cantina da 65 anni esalterebbe chiunque). Beviamo qualche altra bottiglia di Syrah di Stefano e in fine un Marsala perpetuo prodotto secondo il metodo tradizionale di produzione del Marsala, prima che gli inglesi lo trasformassero in una specie di liquore aggiungendoci alcol e zucchero per farlo arrivare sano in patria, e che viene prodotto con un sistema che ricorda quello del lievito madre.
Sopravvissuti alla cena, verso le 2 rientriamo in albergo per cercare di dormire prima del giorno successivo. Come accade le rare volte che bevo, il sabato mi alzo prima della sveglia. Devo rendermi presentabile per il convegno, a cui Raffaele mi ha incaricato di registrare gli accrediti per giustificare la mia presenza in albergo. Il convegno si tiene in una bella sala del Museo Etrusco di Cortona in cui sono conservate cose random: sarcofagi egizi, spade rinascimentali, accrocchi di porcellana settecenteschi di rara inutilità, collezioni numismatiche, mappamondi e altre cose. Una volta assolto il mio unico dovere, ritorno in albergo e mi cambio, metto le scarpe da corsa e imbocco la provinciale che porta al Lago Trasimeno.
Micky mi ha programmato un weekend di carico con un lungo lento il sabato e una gara la domenica (vero motivo della trasferta) che farò con Raffaele a Reggio Emilia. Si chiama Mimosa Cross ma non si tratta di un vero cross, è più che altro una 10 chilometri su asfalto, seguita da una salita sterrata sui colli di 500 metri di dislivello e da un'ultima discesa in picchiata stile Passatore. 23 chilometri scarsi e 500 metri di dislivello. Tornando da Cortona, il pomeriggio del sabato, passiamo per Firenze ad accompagnare un’oratrice del convegno, e per uno sperduto paesino sui colli bolognesi per accompagnare Giorgia, che sospettiamo ancora in hangover dalla sera prima. Infine: Reggio nell'Emilia. A cena io e Raffaele riusciamo comunque a bere una birra.
La mattina dopo diluvia, a Reggio fa freddo e tira vento. Albinea, da cui parte la gara, è invasa di persone e dimostra l'indomito podismo di queste lande. Dopo aver tergiversato per qualche quarto d'ora in macchina, per cercare di digerire una brioches troppo dolce, decidiamo finalmente di scaldarci. Poi partiamo: primo chilometro 3'41'', secondo chilometro 3'40''. Passo al quinto chilometro 40 secondi più lento del mio personale sulla distanza, ma non sto malaccio. Poi la strada gira e inizia a salire. La pendenza è impercettibile alla vista ma il passo crolla di 30'' al chilometro. Sono isolato e quelli davanti a me prendono qualche metro, sono attorno alla quindicesima posizione. Inizio a cercare scuse: sono alla fine di una settimana di carico, ho il lungo del giorno prima sulle gambe e il Cornas del 2006 sullo stomaco, poi inizia la salita. Quando inizia lo sterrato cambio gesto e inizio a rosicchiare metri a quelli davanti: via uno, via un altro, come saltano gli altarini, bastardi. In salita un tale dietro di me inizia a urlare grida di dolore, la prima volta fa ridere ma poi inizia a diventare fastidioso, così lo stacco per non sentirlo più. Il maledetto in discesa mi riprende e rinizio a raccontarmi scuse. Valuto seriamente di fermarmi al ristoro per aspettare Raffaele e penso ad altre cose ridicole a cui generalmente mi aggrappo quando mi trovo in una zona di effort in cui non sono abituato a stare. Ragiono sul fatto che è la prima volta che faccio una gara sull'ora e mezza: le campestri sono simili come tipo di sforzo ma sono molto più corte. Nel frattempo i chilometri passano e finalmente inizio a vedere il paese. Sull'ultimo strappo riprendo un tipo e lo stacco sul rettilineo finale. Traguardo, fine, casa.
Quando racconto al Micky che un paio di persone mi hanno superato in discesa mi dice che dobbiamo diminuire il volume e aumentare la forza: mi dimostro poco interessato alla cosa. Cerco di spiegargli che la priorità non sempre è migliorare e che non a tutti i problemi bisogna cercare delle soluzioni, e che preferisco divertirmi e godermi il processo senza chiedere di più alla corsa. Roby allora mi ha chiesto a cosa serva un allenatore: a migliorare, certo, ma non significa che questa sia la priorità. Non sono disposto a togliere tempo alla cosa che mi piace fare di più, e cioè correre, per fare degli esercizi orribili solo per non farmi superare da due stronzi in discesa o per correre in un'ora in meno la 100 miglia "X". Cerco di fare del mio meglio ma senza bruciare il percorso. Ho sentito spesso amici fare frasi del tipo "quest'anno voglio dare tutto quello che riesco a dare". No, non me ne potrebbe fregare di meno; preferisco arrivare tra 20 anni ancora con la voglia di correre e con qualcosa da scoprire. Non vincerò mai una 100 miglia e non sarò mai un campione, e questo è uno dei più grandi regali che il destino potesse farmi. Non devo impegnarmi a vincere niente perché semplicemente non posso farlo, così posso godermi il processo senza riempirmi la testa di aspettative e di puttanate, senza fare un wannabe e senza dover attendere le aspettative di nessuno. Posso semplicemente dare quello che ho voglia di dare nel momento in cui voglio darlo. Al 13 marzo 2024, nel TRC, sono quello che ha corso più chilometri di tutti, e forse sono l'unico che non ha ancora deciso che gara fare quest'anno. Perché non ha importanza, l'unica cosa che conta è uscire a correre, per il resto, Syrah quel che Syrah.
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ama-la-mente · 1 year
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Non puoi togliere Trapani da un trapanese.
Misteri compresi. Per alcuni processione ormai retrograda per altri intoccabile. Perfetto esempio di commistione tra sacro e profano, tra devozione personale e tradizione di comunità.
Il portone che si apre e tutto inizia, chi già in centro e chi ancora a casa preparandosi per scendere (in centro non si va, si scende) con la tv rigorosamente su Telesud volume 80.
Per quelle 24 ore tutti ci fermiamo, tutto è organizzato in funzione della processione.
“Ma a che ora scendiamo? Io scendo a piedi”, “attenta alla cera”, “ma che giro fanno?”.
I drappi bordeaux che scendono dai balconi, mia nonna che utilizza i merletti migliori per la chiesetta di famiglia che oggi va aperta e con i fiori freschi.
Le marce funebri che ti rimbombano nel petto, le stesse che ti accompagnano dalla nascita e ti cullano quasi fossero ninne nanne. E qualcuno che mangia “caccavetta e simenza”.
- “Ma a che gruppo siamo?
- 10, fornai
- grazie”
I sorrisi accennati da chi è in processione che valgono come saluto, la cera per terra e sotto le scarpe, le donne a piedi scalzi con il capo coperto dal lutto.
Il tramonto che si avvicina, ritrovarsi a cena in quaranta e “ricordatevi che oggi non si mangia carne”.
“A cira squagghia e a processione un camina”
Arriva la notte e i misteri si fermano a piazza Vittorio, la gente si ferma nei bar dove siamo tutti amici, qualcuno dorme un’oretta per ripartire alle 3 dove si sente un leggero rumore di gente e poi solo i tamburi. Camminiamo tutti insieme verso un’unica direzione, con la testa un po’ bassa, “hai una sciarpa?/ mi porti una felpa/ bevi questo che ti riscaldi”, tappa da Oddo per la pizzetta.
Arrivando a Via Corallai il fuoco dei ceri proietta le ombre delle statue sui palazzi, la gente è affacciata dai balconi in silenzio alle 5 del mattino, segno della croce.
I portatori di notte sono i volontari, sotto le aste troviamo uomini e donne che portano pesi ben superiori a quello fisico della vara.
Alba sulle mura, veloce colazione alle Barracche e ricompaiono le bande, si tolgono le sciarpe e ci si riappropria del contegno dovuto. La mattina passa, i gruppi cominciano lentamente ad entrare, qualche amico ti apre casa sul corso per offrirti la "seconda" colazione e i misteri si riguardano dal balcone. Di nuovo, con minuzia e stupore per la loro bellezza.
“Mamma guarda questa decorazione floreale che bella, riconosco la mano... è sicuramente Peppe”.
Alla fine, sempre dopo le 14, la Madonna entra, con il suo manto nero che sembra coprire e reggere le sofferenze di un intero popolo, anche se solo per 24 ore.
Ora è il momento, inizia già la malinconia e il conto alla rovescia, l’annacata continua come una madre che non vuol lasciare andar via il proprio figlio.
Le lacrime, le mani che stringono, il cuore pieno.
Rumore di ciaccola, applausi...
- testo e foto web
Venerdì Santo, a Trapani il giorno dei Sacri gruppi dei Mister, la processione lunga un giorno
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omarfor-orchestra · 11 months
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Oddio vero!!! su Nudes erano tutti inguardabili ahaha e concordo sul salto di qualita' della fiction italiana, secondo me e' una bella soddisfazione. Vuoi per piu soldi in produzione grazie alle piattaforme nuove e che anni fa non c'erano, o per questa nuova generazione di talenti ma la fiction e' migliorata TANTISSIMO rispetto a 10-15 anni fa. Mi ricordo i telefilm italiani che guardavo io quando avevo 13-14 anni, sia crime che medical drama o 'romcom' appunto, facevano davvero davvero piangere... sia a livello di recitazione (tipo Branciamore le cui scene drammatiche venivano fuori da una puntata di The Lady di Lori del Santo) sia a livello di tematiche/svolgimento. Alcuni prodotti italiani degli ultimi anni sono addirittura superiori alle serie americane/inglesi a mio avviso e il merito e' secondo anche degli attori che ci recitano. Se serie come Mare Fuori, Suburra, Gomorra o Doc per dire, venissero dall'America con cast americano/inglese farebbero i miliardi
Sì ci sono ancora alcune cose discutibili (vedi Lea che nonostante un cast non malissimo fa veramente pietà, ma anche la prima stagione di un profe se proprio vogliamo) però vedo un miglioramento anche piuttosto repentino nella qualità. Hanno finalmente capito che non tutto deve essere soap e forse è anche merito del mescolamento e dell'esperienza che tanti fanno all'estero, vedi ad esempio Simona Tabasco che con il percorso che ha fatto si ritrova per forza di cose nelle condizioni di pretendere di più. C'è anche da dire che la fiction ora non è più considerata l'ultima ruota del carro ma un gran bel trampolino di lancio (e secondo me qui Mare Fuori deve prendersene il merito) spronando a fare il massimo con le risorse a disposizione e non il minimo indispensabile alla Occhi del Cuore come si faceva fino a poco fa. È bello che almeno adesso se prendono gente con un seguito lo fanno anche perché sono bravi, non solo perché sono bellocci.
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Leopardi a Bologna
«Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far credere al mondo di esser già famoso» (Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Bologna, 21 novembre 1825)
Duecentoventicinque anni fa nasceva a Recanati uno dei più grandi poeti della letteratura italiana: Giacomo Leopardi. A lui dobbiamo liriche intense e penetranti quali “L’infinito”, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e “Il sabato del villaggio” e riflessioni filosofiche estremamente attuali come quelle che troviamo nelle “Operette morali” e nello “Zibaldone di pensieri”.
Il poeta marchigiano fu a Bologna per quattro volte: dal 18 luglio al 27 luglio 1825, dal 29 settembre 1825 al 3 novembre 1826, dal 26 aprile al 20 giugno 1827 e infine dal 3 al 9 maggio 1830. In omaggio alla sua permanenza più prolungata (oltre un anno tra il 1825 e il 1826), il comune di Bologna pose una lapide in via Santo Stefano 33 (dove Leopardi alloggiò a lungo) per ricordare «che in questa città dall’ammirazione universale, da care amicizie e da teneri affetti, ebbe conforto il poeta del dolore».
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Da Bologna, Leopardi scrisse alla famiglia e ad alcuni amici, annotando impressioni e riflessioni sulla città interessanti tanto dal punto di vista biografico quanto dal punto di vista storico, sulle quali sono stati scritti numerosi saggi e persino un volume interamente dedicato al rapporto dell’autore de “L’infinito” con la città delle Due Torri, curato dall’editore Massimiliano Boni. Il titolo del libro, “Questa benedetta Bologna” è tratto da una lettera che Leopardi scrisse il 5 giugno 1826 all’amico, oltre che medico di famiglia, Francesco Puccinotti.
I soggiorni bolognesi di Leopardi furono per lui piuttosto piacevoli. A Bologna era presente l’amico Pietro Giordani, ex segretario dell’Accademia di Belle Arti e già ospite a Recanati della famiglia Leopardi, con cui intratteneva scambi epistolari dal 1817. Grazie a lui Giacomo fece alcune conoscenze importanti e fu accolto con favore nei salotti letterari cittadini. A Bologna, Leopardi frequentava spesso il Caffè del Corso, tuttora esistente in via Santo Stefano, dove amava consumare quasi ogni giorno una colazione di cioccolata e biscotti.
Nelle sue lettere descriverà Bologna come una città «quietissima, allegrissima, ospitale», «piena di letterati nazionali, e tutti di buon cuore, e prevenuti per me molto favorevolmente». Ed al fratello Carlo dirà: «Mi sono fermato nove giorni e sono stato accolto con carezze ed onori ch’io era tanto lontano d’aspettarmi, quanto sono dal meritare.» Positivo è anche il giudizio complessivo: «Bologna è buona, credilo a me che con infinita meraviglia, ho dovuto convenire che la bontà di cuore vi si trova effettivamente, anzi vi è comunissima.» Il 31 luglio 1825 Leopardi scriveva al fratello Carlo: «in Bologna nel materiale e nel morale tutto è bello e niente è magnifico.»
Nel 1825 un decreto del cardinale e arcivescovo Carlo Oppizzoni ripristinò l’usanza delle Processioni generali, che coinvolgono ogni dieci anni, a turno, le parrocchie cittadine, secondo un regolare calendario. La prima Festa degli Addobbi, dopo il ripristino, si svolse nell’estate del 1826 nelle parrocchie di Santa Maria Maggiore in via Galliera e di San Giuliano in via Santo Stefano. Su quest’ultima festa vi è il ricordo di Giacomo Leopardi, che la descrive come «una cosa bella e degna di essere veduta, specialmente la sera, quando tutta una lunga contrada, illuminata a giorno, con lumiere di cristallo e specchi, apparata superbamente, ornata di quadri, piena di centinaia di sedie tutte occupate da persone vestite signorilmente, par trasformata in una vera sala di conversazione.»
Nel 1826 Francesco Orioli, professore di Fisica all’Università di Bologna, e Filippo Miserocchi, ingegnere comunale, curarono l’installazione di un impianto parafulmine sulla torre degli Asinelli: i condotti metallici sulla torre ispireranno alcune considerazioni di Leopardi sulle invenzioni del suo tempo, appuntate nello Zibaldone durante il suo soggiorno.
Nello stesso anno il pittore Luigi Lolli di Lugo vinse un concorso per un dipinto a fresco, da eseguire presso l’ingresso della Pinacoteca dal lato dell’Accademia di Belle Arti. L’amico e stampatore Pietro Brighenti, dopo molte insistenze, riuscì a convincere Leopardi a farsi fare da Lolli un ritratto, da allegare alla sua raccolta di poesie: sarà l’unico documento originale della fisionomia del poeta in vita e servirà da base per molti suoi ritratti postumi.
Il 27 marzo del 1826, lunedì di Pasqua, Giacomo Leopardi venne invitato da Vincenzo Valorani a leggere pubblicamente nella sede dell’Accademia dei Felsinei l’“Epistola al conte Carlo Pepoli”, dedicata al vice-presidente dell’Accademia e suo caro amico. Lo stesso Pepoli ricorderà l’argomento nel suo poemetto “L’Eremo” del 1828.
Nello “Zibaldone”, Leopardi si espresse anche riguardo i dialetti del Nord Italia, e in particolare sul bolognese: «Il detto altrove dell’incontrastabilmente maggior numero di suoni nelle lingue settentrionali che nelle nostre, causa, in parte della lor mala ortografia, per la scarsezza dell’alfabeto latino da loro adottato; è applicabile ai dialetti dell’Italia superiore, perciò difficilissimo ancora a bene scriversi. [Giuseppe] Mezzofanti diceva che al bolognese bisognerebbe un alfabeto di 40 o 50 o più segni.»
Il rapporto di Leopardi con Bologna comincò in realtà ancor prima delle ripetute visite del poeta. Nell’agosto del 1824 la tipografia Nobili di Bologna stampò le “Canzoni” di Leopardi. Si tratta della prima edizione collettiva dei suoi versi, realizzata anche grazie all’amico Pietro Brighenti che, oltre a trovare lo stampatore, riuscì ad evitare la censura pontificia. Questa edizione bolognese comprende dieci canzoni, composte tra il 1818 e il 1823: “All'Italia”, “Sopra il monumento di Dante”, “Ad Angelo Mai”, “Nelle nozze della sorella Paolina”, “A un vincitore nel pallone”, “Bruto Minore”, “Alla primavera o delle favole antiche”, “Ultimo canto di Saffo”, “Inno ai patriarchi o de’ principii del genere umano”, “Alla sua donna”.
Il capoluogo emiliano non risparmiò però al poeta recanatese le delusioni d’amore, che sfoceranno in alcune splendide (anche se sconsolate) riflessioni in linea con la sua concezione pessimistica della vita. L’incontro del maggio 1826 con Teresa Carniani, moglie di Francesco Malvezzi de’ Medici, donna coltissima e animatrice di uno dei più importanti salotti letterari della città, regalò a Leopardi inedite emozioni.
«Nei primi giorni che la conobbi, vissi in una specie di delirio e di febbre», confida al fratello Carlo. E ancora: «questa conoscenza forma e formerà un’epoca ben marcata della mia vita, perché mi ha disingannato del disinganno, mi ha convinto che ci sono veramente al mondo dei piaceri che io credeva impossibili, e che io sono ancor capace d’illusioni stabili, malgrado la cognizione e l’assuefazione contraria così radicata, ed ha risuscitato il mio cuore, dopo un sonno, anzi una morte completa, durata per tanti anni». Poco meno di due anni dopo le convinzioni del poeta saranno nettamente in contrasto con quelle maturate inizialmente: «Come mai ti può capire in mente che io continui d’andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me, ci sono tornato, o sono per tornarci mai».
Fonti: Nerio Zanardi, Giacomo Leopardi e la dolce vita bolognese negli anni Venti del secolo XIX, in “Strenna storica bolognese”, 51, 2001; Giacomo Leopardi, “Questa benedetta Bologna”: Impressioni e annotazioni su Bologna tratte dall’epistolario con alcuni appunti tratti dallo Zibaldone, Massimiliano Boni, Bologna, 2002.
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scalpcollector · 8 months
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Vista la Alectopause, mi sto rileggendo tutti e tre i libri - ignorando tutti gli altri libri e giochi che devo finire - e sto sottolineando roba importante e mettendo post-it e note et cetera.
Questo è il momento di delirare, se non volete leggere un gran delirio non leggete!
Fa male ragazzi fa malissimo
Leggere Harrowhark che dice cose bruttissime. “Ti voglio vedere morire” cristo santo. Sapendo quello che succede dopo.
Che poi se ci pensi è perché Harrow è proprio così, perché se fosse stata gentile con Gideon credo che sarebbero state amiche, più o meno. Perché Gideon è buona, davvero. È tanto buona ma tutti alla nona sono dei maledetti e la trattano come un cane. Se fossi nei panni di Gideon mi sarei sgozzata davanti ad Harrow probabilmente, ma quello è perché io sono una terrorista. Ha, ha.
C’ha proprio ragione Harrow a dire che “morire tra le braccia di Gideon sembrava la cosa giusta”
Si, troia, è la cosa giusta, sei una maledetta. Anzi, Gideon già è tanto che alla scena della piscina l’ha trattata così bene. Pure Harrow voleva farsi ammazzare da Gid perché LEI LO SA CHE È UNA MALEDETTA.
Redenzione, Harrow.
È una cosa incredibile leggere Harrow che dice ste cose all’inizio del primo libro e poi vederla che
-conserva occhiali e spada di Gid
-si lobotomizza per salvare l’anima di Gid
-fa la disperata e comincia ad urlare che “LEI È MORTA PERCHÉ GLIEL’HO LASCIATO FARE VOI NON CAPITE”
E voi non dovete dire “ohoho Gideon useless lesbian lei crede che HARROW LA ODI!! Haha.” MA GRAZIE AL CAZZO CHE LO CREDE HARROW L’HA SEMPRE TRATTATA MALISSIMO, LE HA DETTO CHE LEI È LA SUA UNICA AMICA -che è una cosa bella, attenzione, ma non mi sembra che l’abbia dimostrato molto- PERÒ LE HA ANCHE DETTO CHE SI VUOLE FARE LA PUTTANA NEL SEPOLCRO.
Gideon, dal suo punto di vista, non ha nessuno oltre al bastoncino malefico. Ha avuto Cam e Pal come alleati (amici non saprei) e poi Ianthe in NTN, ma Ianthe è Ianthe.
Gideon è l’amore mio e io la amo e [inserire discorso delirante lunghissimo]
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t-annhauser · 8 months
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Il direttore "artistico". Arte, da ars, abilità, capacità. Arte circense, arte amatoria, ars oratoria, l'arte di insultare. Anche noi, nel nostro piccolo, siamo tutti artisti: il modo in cui artisticamente sollevo i piatti sullo scolapiatti dopo anni di esperienza e di pratica: practice makes perfect. Eppure da quel "artistico" il mio palato raffinato si aspetterebbe qualcosa di più: bella musica, per esempio. Ma forse l'abilità a cui fa riferimento quell'arte così sapientemente diretta dal conduttore Amadeus è l'arte di vendere i barattoli sugli scaffali della grande distribuzione. Tutto è arte, anche la cacca: l'orinatoio di Duchamp era un "sottofondo simbolico", non andava preso alla lettera. Amadeus: il Mozart del preserale. Kermesse, dal neerlandese kerkmisse, "messa di chiesa" e cioè "festa del patrono", Sanremo come la festa del santo patrono, tutto si tiene, il cerchio si chiude.
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libero-de-mente · 7 months
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Burofobia
Credo di soffrirne.
Lo percepisco appena mi consegnano dei moduli da compilare.
Ora sono seduto, ho due moduli pieni di pagine da compilare, il panico si è impossessato di me.
Metto in dubbio tutto.
Anche se ad alcune domande bisogna rispondere facendo una semplice x nella casella appropriata.
Se ho tre caselle faccio tre X, una un po' più visibile e le altre due appena tratteggiate. In modo da poter dire "Eh ma guardi che ho barrato anche l'altra risposta sa?!". Indeciso del cacchio!
Alla domanda "dati del compilante" mi sorgono dei dubbi atavici: chi sono io? Perché esisto? E se non fossi ciò che credo di essere?
Al quesito "motivo della richiesta" ho scritto: bella domanda, me lo chiedo anche io. Ma per motivo s'intende quello musicale, motivazionale o come stato d'animo?
Alla sezione "autocertificazione" non so con quale, delle mie numerose personalità, devo compilare una dichiarazione che, ai sensi dell'art. 46 D.P.R.28 dicembre 2000 n. 445, potrebbe portarmi a una punizione come da codice penale e delle leggi speciali in materia. Sudo dalla fronte.
Trovo in ogni domanda più risposte, sembra che la Sfinge in persona abbia compilato questi maledetti moduli di richiesta.
Prendiamo per esempio "Composizione del nucleo familiare", cosa dovrei scrivere? Devo compilare la sezione ragionando col cervello o usando il cuore? E se volessi scrivere un altro nome al posto di uno dei componenti?
Metti che mi sia invaghito nelle ultime ore. Quale nome inserire?
Dicono che al cuor non si comanda, ma dicono anche che la ragione conta. Che poi, leggendo bene, non ho il suo Codice Fiscale. Come reagirà se le mandassi un messaggio chiedendoglielo? "Ciao è da un po' che ti seguo, vorrei chiederti... il tuo C.F.". Andrà a finire che mi bloccherà, dandomi del maniaco.
Arrivo alla sezione del luogo di residenza. Vorrei scrivere Avalon e non un comune della provincia bergamasca. Accidenti. Il codice di avviamento postale di Avalon chi lo conosce?
Scorrendo le pagine leggo "dichiara" ed "esprime il consenso", ma se io volessi solamente annuire un po' col capo? Senza neanche tanta convinzione? "Accetta", uh che parolone e che violenza.
La firma chiara e leggibile. O una o l'altra santo cielo. Ho una firma fatta arzigogolata e piena di curve armoniche. Mi ci sono voluti mesi di pratica per crearla. Ma se la vogliono leggibile la scrivo in stampatello, eh?!
Per sicurezza ho fatto delle scansioni ai moduli da compilare, e ne compilerò altri cambiando le risposte e le x nei riquadri, un po' come quando giocavo la schedina: una la compilavo con la ragione, una con la speranza e una ad mentulam canis.
Una volta feci tredici, giuro.
Quando consegnerò i modelli debitamente compilati li metterò in buste diverse con dei numeri.
"Buongiorno devo consegnare i moduli che ho compilato, sceglia la busta numero uno, la due o la tre?".
Vorrei vivere senza burocrazia, con modelli su cui scrivere risposte semplici a domande ancora più semplici.
Perché non fanno moduli per neurodivergenti?
"Modello da compilare:
Fa come ti pare, sarà bellissimo comunque.
Grazie."
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clacclo · 2 years
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Mannarino
Il Bar Della Rabbia
Quanno un giudice punta er dito contro un povero fesso
Nella mano strigne artre tre dita che indicano se stesso
A me arza' un dito pe' esse' diverso
Me fa più fatica che spostà tutto l'universo
So na montagna... se Maometto nun viene...
Mejo, sto bene da solo, er proverbio era sbajato
So l'odore de tappo der vino che hanno rimannato ndietro
So i calli sulle ginocchia di chi ha pregato tanto e nun ha mai avuto
E ce vo fegato... ahia
So come er vento, vado ndo me va...
Vado ndo me va, ma sto sempre qua...
E brindo a chi è come me ar Bar Della Rabbia
E più bevo e più sete me vie'
Sti bicchieri so pieni de sabbia
So er giro a voto dell'anello cascato ar dito della sposa
Che poi l'ha raccorto e me l'ha tirato e io je ho detto:
Mejo, sto bene da solo, senza mogli e senza buoi
e se me libero pure dei paesi tuoi, sto a cavallo...
E se me gira faccio fori pure er cavallo
Tanto vado a vino, mica a cavallo
So er buco nero der dente cascato ar soriso della fortuna
E la cosa più sfortunata e pericolosa che m'è capitata nella vita è la vita
Che una vorta che nasci, giri, conosci, intrallazzi
Ma dalla vita vivo nun ne esci
Uno solo ce l'ha fatta, ma era raccomannato
Io invece nun c'ho nessuno che me spigne
Mejo, 'n se sa mai... visti i tempi...
Ma se rinasco me vojo reincarna' in me stesso
Co la promessa de famme fa più sesso
E prego lo spirito santo der vino d'annata
De mettemme a venne i fiori pe la strada
Che vojo regala' 'na rosa a tutte le donne che nun me l'hanno data
Come a dì: "Tiè! Che 'n 'a so fa' na serenata!"
E brindo a chi è come me ar Bar Della Rabbia
O dell'Arabia
E più bevo e più sete me vie'
Sti bicchieri so pieni de sabbia
Ma mò che viene sera e c'è il tramonto
Io nun me guardo 'ndietro, guardo er vento
Quattro ragazzini hanno fatto 'n astronave con 'n po' de spazzatura
Vicino ai secchioni, sotto le mura
Dove dietro nun se vede e c'è 'n'aria scura scura
Ma guarda te co' quanta cura
Se fanno la fantasia de 'sta avventura
Me mozzico le labbra, me cullo
Che me tremano le gambe de paura
Poi me fermo e penso:
Però... che bella 'sta bella fregatura...
E brindo a chi è come me ar Bar Della Rabbia
E più bevo e più sete me vie'
Sti bicchieri so pieni de sabbia
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