#Sallentini
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fondazioneterradotranto · 4 years ago
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Salentini o Sallentini?
di ArmandoPolito
Credo che, se questa domanda fosse posta a chi è mio conterraneo o a chi non lo è, quasi tutti risponderebbero: – Salentini, no? -.  E io ribatterei: – Perché?-. La risposta, questa volta, sarebbe forse più scontata della prima: – Perché è da Salento e non da Sallento -.
Eppure, se cercate nell’Enciclopedia Treccani on line (http://www.treccani.it/enciclopedia/sallentini/) non troverete la voce Salentini, ma digitando Sallentini apparirà la schermata che riproduco.
Perché questa secondarietà di Salentini rispetto a Sallentini, tanto da renderne impossibile il reperimento diretto? E perché, se anziché nell’enciclopedia cerco nel vocabolario, sempre on line (http://www.treccani.it/vocabolario/salentino/) non trovo nulla per sallentino e invece compare quanto segue per salentino?
La spiegazione dell’apparente contraddizione sta anzitutto nella natura prevalentemente scientifica di un’enciclopedia rispetto ad un comune vocabolario e nello specifico tutto è dichiarato nell’antica che accompagna la definizione di Sallentini.
La sfortuna sembra accanirsi contro di noi perché, contrariamente al solito (potete provare con altri nomi propri), l’enciclopedia non mi propone alcun etimo, mentre il vocabolario mi dà il Salentinus, anche, se più correttamente, sarebbe dovuto essere Salentinu(m), che essendo un etnico, cioè un nome di popolo (comunque un aggettivo derivante da un nome proprio), suppone la derivazione da un toponimo, nel nostro caso Salentum.
Trasferendo il processo alla voce dell’enciclopedia, ci saremmo aspettato di leggere: da Sallentum o Salentum. Dico subito che né Sallentum né Salentum è attestato da qualche fonte1, mentre l’etnico Sallentini o Salentini lo è ampiamente, ma nel modo che segue (riporto gli autori in ordine cronologico e nella tradizione manoscritta più accreditata):
SALLENTINI 
Polibio (II a. C.), Storie (in greco), frammento citato da Plinio (vedi più avanti) in Naturalis Historia, III, 5, 75.
Il Sallentinos che vi compare, però, non è detto che corrisponda ad un originale greco Σαλλεντίνους (leggi Sallentìnus) e non Σαλεντίνους (leggi Salentìnus), tanto più che nella Naturalis Historia Plinio usa costantemente la forma con doppia l.
Varrone (I a. C.), De re rustica, I, 24, 1 e II, 3, 10
Virgilio (I a. C.), Eneide, III, 400
Sallustio (I a. C.), Storie (per tradizione indiretta: citato da Servio (IV-V d. C.)nel suo commento al passo dell’Eneide di Virgilio prima citato)
Ovidio (I a. C.-I d. C.), Metamorfosi, XV, 51
Livio (I a. C.-I d. C.), Ab urbe condita, IX, 42, 4; X, 2, 1; XXIII, 48, 3; XXIV, 20, 16; XXV, 1, 1; XXVII, 15,4; XXVII, 22, 2; XXVII, 36, 13; XXVII, 40, 10
Mela (I), Chorographia, II, 59; II, 68
Plinio (I), Naturalis historia,  II, 107, 240; III, 5, 38; III, 11, 9; III, 11, 104; III, 11, 105; III, 23, 145; XV, 4, 20
Silio Italico (I), Punica, VIII, 573
Frontino (I-II), Stratagemata, II, 3, 21
Floro (II), Epitome delle Storie di Tito Livio, I, 15
Festo (II), De verborum significatu, frammenti  alle  pp. 196 e 441 dell’edizione Lindsay
Solino (III), Memorabilia, 2, 10
Eutropio (IV), Breviarium ab Urbe condita, II, 17
Macrobio (IV-V ), Saturnalia, III, 20, 6
Servio ((IV-V ), Commento all’Eneide di Virgilio, III, 121); Commento alle Georgiche di Virgilio, IV, 119
Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, VI, 639
Giulio Capitolino (V?), Vita di Marco Aurelio Antonino il Filosofo (in Historia Augusta, 1, 8)
Scholia Bernensia in Vergilii Georgica  (VII-IX), III, 1
Stefano Bizantino (V-VI), Ethnica (in greco), alla voce Σαλλεντία (leggi Sallentìa)
  SALENTINI
Varrone (I a. C.), frammento delle Antiquitates rerum humanarum citato dallo Pseudo Probo (probabilmente V d. c.), nel suo commento alle Bucoliche (VI, 31) di Virgilio, ma il Salentini che vi compare contrasta con il Sallentini usato, come abbiamo visto, da Catone nel De re rustica e non appare, dunque, come voce originale attendibile.
Dionigi di Alicarnasso,  ( I a. C.), Antichità romane (in greco), I, 51, 3
Verrio Flacco (I a. C.-I d. C.), citato da Festo (II) nel De verborum significatu
Strabone (I a. C.-I d. C.), Geographica (in greco), VI, 3, 1; VI, 3, 5
Tolomeo (II), Geografia (in greco), III, 11 ; III, 67
Tabula Peutingeriana (la redazione originale risale al IV secolo), VI 5- VII 2)
Jordanes (VI), De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum,  161
Guidone (XII), Geographica , 28 (citando Virgilio, Eneide, III, 400) e 67
  Quanto finora riportato mostra la prevalenza della forma con una sola l negli autori greci, di quella con due nei latini e nella statistica globale. Per quanto riguarda la cronologia il primato spetta ai greci con Polibio, pur con tutti i limiti della tradizione indiretta di cui s’è detto. Se escludiamo Polibio, il conto, dal punto di vista cronologico, è pari, essendo dello stesso periodo Dionigi di Alicarnasso da una parte e Varrone, Virgilio e Sallustio dall’altra.
Conclusioni: Salentini e Sallentini appaiono entrambe forme corrette e in ambito scientifico l’uso dell’una o dell’altra potrebbe essere ispirato, più che dalla maggiore simpatia riservata alla cultura greca o a quella latina, dalle risultanze statistiche che fanno prevalere Sallentini su Salentini. Per questo motivo, se la voce dev’essere scomodata, mettiamo, per dare un nome latino ad una collana di pubblicazioni, potrebbe porsi, per esempio, il dilemma: la chiamiamo Sallentina fragmenta o Salentina fragmenta? Non sarei intellettualmente onesto se continuassi a spacciare tale dilemma  come esempio e non come esperienza vissuta, nel senso che avevo optato per la seconda soluzione, quando non un illustre sconosciuto, ma Marcello Gaballo mi ha orientato verso la prima, obbligandomi, senza volerlo, a scrivere questo post (se nel leggerlo la noia è progressivamente montata, sapete con chi dovete prendervela …).
Tutt’altra piega ha preso, com’è noto, la voce nell’uso comune, in cui domina incontrastato Salentini, non certo, credo, per suggestione della forma greca ma per scempiamento di –ll– interpretato, forse, come una volgare geminazione, fenomeno che contraddistingue molti dialetti meridionali, in primis il salentino; e non mi riferisco solo al raddoppiamento della consonante iniziale: bbinìre (venire), bbitìre (vedere), etc. etc.
Così  Sallentini, la forma filologicamente e storicamente (se riferita al mondo romano) più corretta, divenne un ricordo sempre più sbiadito, essa che aveva avuto un uso costante costante nelle pubblicazioni a stampa dalla sua invenzione fino al secolo XIX; di seguito due esempi: il frontespizio del manoscritto autografo dell’Atlante Sallentino di Giuseppe Pacelli (1803) custodito nella Biblioteca Marco Gatti di Manduria (MS. Rr/5) e quello di una pubblicazione del 1833.
  ___________
1 È creazione del tutto moderna, anzi contemporanea, il Sallentum nel quale ci si può imbattere: dal titolo di un libro o di una rivista,
alla proposta di uno stemma territoriale o a quello di un club,
e, per citare prodotti più volatili,  il Salentum di una serie di deodoranti per l’ambiente e di un profumo per l’uomo dinamico e carismatico,
nonché, e poteva mancare?, il Salenzio di cui ho avuto già occasione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/16/tuttal-piu-me-lo-bevo-ma-non-me-la-bevo/.
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fontriver · 3 years ago
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fondazioneterradotranto · 4 years ago
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Erano Sallentini o Salentini?
di Nazareno Valente
  Poi alla fine qualcuno di noi scoprirà che i suoi avi erano più precisamente Calabri, e che con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — avevano solo comunanza di stirpe. Comunque sia intriga ugualmente il quesito posto dall’amico Armando Polito nel suo recente interessante intervento, “Salentini o Sallentini?”, su quale di questi due termini debba considerarsi corretto.
Premetto che, per me, la forma da preferirsi è Sallentini.
E cercherò di avvalorare questa mia scelta partendo, visto che si tratta di antichità, da lontano.
La prima volta che le fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata. È infatti riportato che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.
Erodoto — che, mi piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra terra. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi anche la penisola che noi chiamiamo salentina.
Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire la nostra terra ed i nostri antenati. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.
Quando i colonizzatori greci alfine arrivarono, causarono una piccola grande rivoluzione nella società iapigia che incominciò a differenziarsi e, nel corso del tempo, finì per formare al proprio interno gruppi etnici con differenti specificità.
Al riguardo la tradizione maggiormente accolta è quella di matrice greca che prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi i quali ultimi occupavano la Messapia, i cui confini erano appunto all’incirca delimitati a nord dall’istmo che collega Brindisi a Taranto.
Tale percezione divenne sempre più esplicita in età ellenistica fino a trovare una sua compiuta definizione nella tradizione divulgata da Nicandro di Colofone2 il quale narra come Licaone, che ebbe per figli Iapige, Dauno e Peucezio, raccolto un grosso esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni. Effettuata la conquista, divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominati in base al nome di chi li comandava, Dauni, Peucezi e Messapi, e la regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi fu chiamata Messapia.
In definitiva la ripartizione canonica della regione Iapigia, vale a dire grosso modo dell’attuale Puglia, in Daunia, Peucezia e Messapia, accolta anche da storici del calibro di Polibio3 e da geografi tipo Strabone4, e che soggiace di fatto alla visione egocentrica con cui i Greci erano soliti vedere tutto ciò che era di là dai propri confini.
Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.
In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a dirci Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, senza averne cognizione, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.
Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.
Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ»). Successivamente6 ci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).
In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.
In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentinoi è attorno a Capo Iapigio («τὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»7) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentinoi sono limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione è abitato dai Calabroì. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei8.
Senza dilungarci, riassumiamo le conclusioni cui si è pervenuti.
Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, Rudiae, Statio Miltopes (forse San Cataldo), Fratuentum, Portus Tarentinus, Otranto.
Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.
  Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini.
Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra, solo quando essa entrò nell’orbita romana e, a differenza delle fonti letterarie greche – che, come visto, privilegiavano termini di propria ideazione – facevano in maniera quasi esclusiva uso della terminologia indigena.
Di fatto il mondo latino accantonò i termini di matrice greca per divulgare solo quelli d’origine autoctona.
Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.
Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti composto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.
Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera diffusa i vocaboli indigeni.
La nostra terra fu quindi conosciuta nel mondo antico con il nome di Calabria9, che era il coronimo di derivazione locale creato dai nostri antenati, ed i popoli che vi abitavano venivano chiamati Calabri10 e Sallentini, anch’esse voci di origine autoctona.
In effetti occorre ricordare che quest’ultimo termine era privilegiato dagli storici e dai letterati latini che l’usavano in prevalenza anche per definire chi in effetti era più propriamente Calabro11. Sicché i Brindisini venivano, a volte, detti Sallentini, sebbene fossero in realtà Calabri.
In definitiva il termine in origine era di matrice indigena. E, nella traslitterazione in lingua greca, era stato reso con una lambda — corrispondente alla “l” latina — (Σαλεντῖνοi, Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini).
Pertanto, constatato che il vocabolo è autoctono, il quesito può essere posto in questi termini: quale di queste due trascrizioni è più corrispondente alla voce originaria?
Già per il fatto stesso che i Romani, a differenza dei Greci più propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni, fossero in genere rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui venivano a contatto, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina. E quindi con una doppia “l”.
Si aggiungono poi due ulteriori considerazioni che avvalorano ancor più questa ipotesi.
Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone12 e Cicerone13. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta.
Ma quel che più conta è che quando il vocabolo s’impose veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.
Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.
Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine Ελλάδα (Elláda) lo pronunciano Eláda.
Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri avi, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne traslitterato in greco Σαλεντῖνοi (Salentinoi), con una sola lettera lambda.
Mi pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario. E che, quindi, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri avi.
  Note
1 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.
2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.
3 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo A.C.), Le Storie, III 88, 3.
4 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.
5 Ibidem, VI 3, 1.
6 Ibidem, VI 3, 5.
7 Ibidem, VI 3, 1.
8 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.
9 L’aspetto un po’ curioso è che molti cronisti brindisini – al pari dei redattori di Wikipedia – ritengono tuttora che Calabria è denominazione d’invenzione romana.
10 Altro aspetto curioso è che molti cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi. Questo è l’etnico degli abitanti della Calabria attuale; gli abitanti della Calabria di epoca romana erano detti Calabri. Il termine Calabresi, infatti, neppure faceva parte del latino classico.
11 Per una più ampia analisi, si veda: VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, pp. 104 e 105. Consultabile al link https://www.academia.edu/35875669/La_penisola_salentina_nelle_fonti_narrative_antiche
12 CATONE (III secolo a.C. – II secolo a.C.), De Agricultura, VI 1.
13 CICERONE (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Pro Sesto Roscio Amerino, 132.
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Messapia: era davvero una terra tra due mari?
di Nazareno Valente
  A quei tempi – V secolo a.C. – il termine βιβλιοθήκη (bibliotheche) non indicava ancora il luogo per la conservazione e la consultazione dei libri, ma semplicemente la cassa (θήκη) per la custodia dei rotoli di papiri (βιβλίων). Però c’erano già i banchi (βιβλιοθῆκαι, bibliotekai) dei venditori di libri (βιβλιοπώλης, bibliopoles) che fungevano da librerie e assicuravano il commercio dei rotoli e dei codici1, ed anche a commercializzare gli inediti degli autori più alla moda2.
C’era quindi già un mercato librario attivo.
  Tuttavia il modo migliore per gli scrittori di diffondere i propri scritti – e procurarsi al tempo stesso di che vivere – non era di vederli “stampati”3 quanto piuttosto quello di declamarli pubblicamente. A livelli prosaici, questo consentiva di farsi un nome e di trovare impiego negli staff dei politici del tempo, alla stregua degli attuali scrittori ombra, o, per dirla all’anglosassone, dei ghostwriter. Con la sostanziale differenza che le relative spese erano a carico del politico che li assoldava, e non del contribuente. A livelli più spirituali, invece, voleva dire guadagnarsi un pezzo di eternità e garantire alla propria opera d’essere riconosciuta anche quando sarebbe stata recitata da altri.
Qualunque fosse il fine ultimo, un po’ tutti vi indulgevano, pure scrittori di spessore, come ad esempio lo storico Erodoto, nella cui opera sono con facilità riconoscibili gli intermezzi da lui usati per interloquire con chi l’ascoltava, allo scopo di integrare o spiegare meglio l’argomento in quel momento trattato. Intermezzi talmente tipici e rinomati che quando si parla di παρενθήκη (parenthéche), vale a dire digressioni, il pensiero corre in maniera automatica a lui.
Ed è appunto in un paio di queste digressioni che la terra salentina ed i suoi abitanti fanno per la prima volta capolino sul grande scenario della storiografia.
Nel primo passo, Erodoto si limita a caratterizzare l’area geografica della penisola salentina, indicando che essa è la parte estrema della Iapigia («Ἰηπυγίης») limitata dall’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)4. Nel secondo fornisce una genesi della popolazione che vi risiede.
Racconta infatti che i cretesi, per vendicare la morte del loro re Minosse, avevano fatto una spedizione in Sicilia senza però ottenere alcun risultato concreto. Al ritorno, sorpresi da una tempesta mentre si trovavano presso la costa Iapigia, erano stati scagliati sulla terraferma dove, essendosi spezzate le navi e vista svanita la possibilità di ritornare in patria, si videro costretti a rimanere. Qui fondarono «Ὑρία» (Hyrie probabilmente l’attuale Oria) e vi si stabilirono, subendo una grande trasformazione. Infatti non solo cambiarono nome – tramutandosi da Cretesi in Iapigi Messapi –  ma anche d’habitat, divenendo continentali da isolani che erano5.
Il passo, denso di messaggi  impliciti, e per certi versi oscuri per i non contemporanei, meriterebbe un’analisi ben più specifica di quella che sarà fatta in questa sede. Per l’occasione ci soffermeremo infatti ai soli spunti d’interesse per il tema trattato. In particolare sulla “nascita” di questo nuovo gruppo etnico (i Messapi) che raccoglie sì l’eredità cretese ma che, al tempo stesso, si differenzia del tutto dalle sue originarie condizioni sociali.
Emerge dalle parole di Erodoto la cosiddetta tradizione ionica, e in specie ateniese, desiderosa di valorizzare il mondo calabro (ricordo che Calabria era la denominazione geografica che gli autoctoni davano all’attuale penisola salentina) in funzione antitarantina, assegnandole origini cretesi. Infatti i Calabri si opponevano alle mire espansionistiche di Taranto, colonia lacedemone e quindi emanazione di Sparta, acerrima rivale di Atene. Lo storico fa proprio questo mito perché ateniese di residenza e, in aggiunta, turino d’adozione6, sia pure con cautela premettendo alle sue argomentazioni un allusivo “si dice” («λέγεται» léghetai).
Se si aggiunge che Thurii, la città di cui Erodoto aveva acquisito la cittadinanza, e nella cui agorà si era con ogni probabilità lasciato andare a quella divagazione, era legata da saldi patti con Brindisi, anch’essa nemica di Taranto, si comprende come mai lo storico non avrebbe potuto che sostenere una simile causa, anche nel  dubbio. Dubbi che a tale proposito non hanno gli studiosi moderni, quasi compatti a relegare il racconto tra le leggende, dando per certa l’origine illirica della popolazione messapica.
Detto che non mi sentirei di precludere che, in un periodo arcaico, il mondo egeo abbia potuto anch’esso contribuire alla genesi dei Messapi, il racconto testimonia comunque un aspetto di particolare rilievo. Agli occhi dei Greci, per lo meno quelli d’estrazione ionica, gli Iapigi Messapi godevano d’una posizione di evidente privilegio: rispetto ai tanti barbari con cui i coloni elleni si relazionavano, essi potevano vantare antiche (e civili) origini in quanto discendenti dei Cretesi di Minosse. Privilegio questo non certo di poco conto, se si considera che solo i celebrati Etruschi – anch’essi accreditati di origini egee orientali (Lidia) – ne potevano ostentare uno simile. In altre parole, al tempo di Erodoto, i Messapi erano una delle poche popolazioni non greche fornite dai Greci stessi d’una qualche patente di nobiltà.
Altro aspetto rimarchevole è che l’etnico Messapi («Messapioi»), assegnato da Erodoto al consistente gruppo cretese che s’era integrato con gli Iapigi7, è di matrice greca. Ne è prova la constatazione che il termine è utilizzato in maniera quasi esclusiva dalle fonti greche e che quelle latine l’adoperano molto raramente8. E trova conforto  pure nel fatto che la denominazione geografica corrispondente, Messapia («Messapίa»), sia dichiarata in maniera esplicita di origine greca da parte di Strabone («Gli Elleni la chiamano Messapίa»9). In aggiunta, come meglio vedremo, i due termini («Messapioi» e «Messapίa») avevano ampia diffusione negli etnici e nei toponimi del mondo greco. Il sovrapporre nomi di propria fattura a quelli preesistenti dei nativi rientrava nelle strategie cui i Greci ricorrevano per sminuire i loro interlocutori e condizionarli al loro metro di giudizio.
Al contrario gli indigeni chiamavano la penisola Calabria e sé stessi Calabri o Salentini, a seconda delle zone in cui risiedevano10 e – pare proprio – che non gradissero neppure un po’ le denominazioni d’origine greca. Non a caso, i Romani, sempre molto attenti a non turbare la suscettibilità delle popolazioni a loro soggette, misero al bando coronimi ed etnici coniati dagli Elleni e ripristinarono quelli originari. Sicché, nelle fonti latine, già poco propense all’uso della terminologia greca, dalla seconda meta del III secolo a.C. scompaiano del tutto le denominazioni Messapia e Messapi, a beneficio delle voci locali (Calabria, Calabri, Sallentini)
La domanda che ci si pone spesso è come mai i Greci scelsero proprio quei termini per caratterizzare l’attuale penisola salentina ed i suoi abitanti. Un quesito, questo, che incuriosiva anche gli autori antichi.
Di certo erano nomi abbastanza noti al mondo greco, essendo già ampiamente diffusi nelle loro regioni d’origine.
Senza farne un elenco completo, menzioniamo quelli più ricorrenti e significativi.
In Beozia esisteva una piccola catena montuosa chiamata Messapio, di cui ci dà nota Pausania ponendola a sinistra dell’Euripo – che è lo stretto tratto di mare Egeo che separa la Beozia dall’isola di Eubea – ai cui piedi c’era la città di Antedone11 distante una decina di chilometri da Calcide posta sull’altra sponda dell’Eubea.
Strabone ce ne dà menzione riferendo che, nel territorio di Antedone, si trova il monte Messapio aggiungendo l’importante notizia che esso «trae nome da Messapo che, passato in Iapigia, dette a questa contrada il nome di Messapia»12.
Pure Stefano Bizantino13 e Fozio14 – che di fatto lo copia – parlando dello stesso monte, lo collocano in apparenza in maniera errata in Eubea, confermando che aveva preso nome da Messapo «quello che si trasferì in Italia».
C’è quindi una certa sostanziale concordanza tra le fonti, sia pure, come vedremo meglio in seguito, con qualche variante di dettaglio. Parrebbe pertanto che sulla questione non ci fossero forti dubbi, tanto è vero che anche l’autorità di Plinio il Vecchio sostiene una simile ipotesi, riportando che «i Greci la chiamarono Messapia dal nome d’un condottiero» («Graeci Messapiam a duce appellavere»)15. In definitiva tutti d’accordo che Messapia traeva nome da un condottiero, in genere ritenuto proveniente dalla Beozia dove risultava già eponimo d’una piccola catena montuosa.
Pur tuttavia questa tesi non soddisfa gli studiosi, e vedremo poi perché.
Acquisisce così in alternativa spazio una proposta moderna la quale  prevede «che i Greci intendessero il nome Messápioi, per etimologia popolare, come ‘quelli tra i due mari’»16 e per Messapía «quella che sta in mezzo (tra due mari)»17. Il fascino della nuova ipotesi è tale che, sebbene ritenuta dagli studiosi non dimostrabile, visto che non si conosce l’etimologia della parola, essa prende sempre più piede nella cronachistica. A tal punto che si dà ormai per scontato che Messapia  significhi «terra tra i due mari», ed in tale veste fa bella mostra nella pubblicistica locale.
Ma la potenza delle suggestioni non modifica l’attendibilità delle affermazioni: più che non dimostrabile, una simile teoria è  improbabile, se non proprio impossibile.
E vediamo perché.
Abbiamo già appurato che il termine Messapi appare per la prima volta nelle fonti letterarie del V secolo a.C.  per mano di Erodoto, ma è verosimile che esso fosse di tradizione più antica, collegabile al periodo precoloniale di fine IX secolo a.C. oppure coloniale del secolo immediatamente successivo. Nel primo caso, furono con ogni probabilità gli Eubei a coniarlo, quando ancora, come racconta Plutarco18, potevano disporre dell’isola di «Kérkyra» (l’attuale Corfù) controllando le rotte per l’occidente; nel secondo all’arrivo dei Lacedemoni con la fondazione di Taranto. In entrambi i casi in un periodo in cui non ci si è ancora emancipati da una visione della terra a forma d’un disco, come lo scudo di Achille descritto da Omero, costruito appunto ad immagine del disco terrestre.
Nell’epica greca arcaica la Terra è concepita priva di profondità e circondata da Oceano, da dove sorgono e dove tramontano il sole e gli altri pianeti. In pratica si dovette attendere  Anassimandro, e quindi il VI secolo a.C., per avere una Terra che, senza il sostegno di Atlante, potesse galleggiare autonoma nello spazio ed essere rappresentata graficamente, in maniera per quel che si sa molto approssimativa. Questo per ricordare che, a differenza nostra, cui basta consultare una cartina per distinguere un mare da un altro o vedere la configurazione d’una costa, a quei tempi non si poteva ricorrere ad aiuti del genere. Tutto ciò comporta una difformità di prospettiva tra un qualsiasi lettore moderno ed un viaggiatore di epoca antica. Punti di vista e percezioni la cui lontananza è difficile da colmare e da comprendere, perché basati su configurazioni geografiche del tutto differenti e, quindi, su un diverso modo d’intendere i luoghi.
I navigatori del IX secolo a.C. non avevano strumenti di navigazione e neppure portolani e peripli che codificavano le rotte e le distanze. Il loro bagaglio conoscitivo aveva una chiara impronta pratica – alimentato dalle esperienze fatte di persona o trasmesse dalla tradizione marinara – che però presupponeva sensibilità e doti innate, oltre a conoscenze astronomiche legate alla posizioni delle stelle. Chi prendeva il mare si trovava così ad affrontare molto spesso situazioni inconsuete ed impreviste, risolvibili solo grazie alla perizia affinata con l’esercizio ripetuto ed alla capacità di sapersi orientare guardando il cielo, unica mappa disponibile, e di sapere prevedere come poteva volgere il vento. Sopperivano alla manualistica assente con doti sviluppate con il tempo e con notizie raccolte sugli itinerari da percorrere, tipo: distanza tra un promontorio e l’altro o tra due approdi;  gioco delle correnti; eventuale pericolosità dei fondali costieri. La navigazione avveniva infatti in genere lungo le coste (cabotaggio) e, solo se non si poteva fare altrimenti, si affrontava il mare aperto.
Certo, quando gli Eubei  si inoltrarono lungo le coste tirreniche ed adriatiche, facendo quindi rotta verso l’occidente, questo non era «ζόφος» (zófos, oscuro) come ai tempi di Ulisse19 ma, ugualmente,  pieno di incognite e di pericoli. Pure i riferimenti erano diversi da quelli attuali e l’Adriatico stesso, oltre ad avere un differente idronimo, era percepito in maniera particolare.
  Intanto l’Adriatico non era vissuto come un mare vero e proprio (thálassa). Al massimo lo si considerava un mare di passaggio tra due terre («πόντος», pόntos) ma, molto più spesso, era ritenuto un golfo («kόlpos»). Inoltre i Greci, stentavano a crederlo un bacino unico e pensavano fosse composto da due distinti golfi che occupavano rispettivamente la parte più remota – il nostro Alto Adriatico – e quella più prossima alle loro coste – il Medio e Basso Adriatico.
In epoca arcaica il tratto settentrionale dell’Adriatico era chiamato dai Greci golfo di Crono20, perché il dio Crono rappresentava in sé uno spazio remoto collocato ad occidente oppure nelle estreme contrade a nord. Quindi Crono, in quanto collegabile ad una distesa marina occidentale e settentrionale rispetto al mare Ionio che solcava le coste greche. In seguito divenne golfo di Rea che, essendo moglie di Crono, richiamava probabilmente lo stesso concetto. Infine assunse la denominazione di «Adrías», Adriatico.
Come fosse chiamato il tratto di mare che bagnava le coste della penisola salentina, ci viene svelato da Eschilo21 che, narrando la storia di Io, la donna amata da Zeus e tramutata da Era in giovenca, lo denomina «Iónios kolpos» (golfo Ionio). Quest’ultimo nome serviva anche ad identificare genericamente tutto l’attuale Adriatico ma in maniera specifica e più spesso indicava solo l’Adriatico centro-meridionale.
In definitiva la parte settentrionale aveva una doppia nomenclatura – golfo Ionio o Adriatico – mentre quella centro-meridionale golfo Ionio. Quindi ai tempi in cui gli Eubei commerciavano nell’Adriatico, oppure quando fu fondata la colonia di Taranto, il mare che bagnava la costa orientale della Iapigia era chiamato Ionio; non Adriatico.
E tale termine fu adoperata sino a tutto il V secolo a.C., vale a dire pure ai tempi in cui scriveva Erodoto che, come visto, fu il primo a fare menzione della Messapia. Infatti, parlando di Apollonia22, lo storico precisa che è una città appunto situata sul golfo Ionio, perché quel tratto di mare non aveva ancora assunto il nome di Adriatico.
Solo nel secolo successivo, e molto lentamente, il nome che aveva contraddistinto solo la parte settentrionale del mare – «Adrías» –  prese ad identificare anche la restante parte di golfo, e “nacque” così l’Adriatico che tutti conosciamo. Non a caso nel Periplo dello Pseudo-Scilace23 – databile al IV secolo a.C. – l’autore,  dopo aver parlato indifferentemente di Ionio e di Adriatico, per timore di confondere il lettore, precisa che, quando parla di Ionio («Iónios») o di Adriatico («Adrías»), sta discorrendo dello stesso mare. Ed il geografo Strabone, ancora secoli dopo continuava ad affermare che il golfo Ionio e l’Adriatico hanno la stessa imboccatura (il canale d’Otranto), solo che il nome Ionio viene attribuito alla prima parte del mare e quello di Adriatico per la parte interna fino al più lontano recesso. Per poi concludere che, al suo tempo, quest’ultimo, a differenza del passato, era ormai il nome dell’intero mare24.
Morale della favola, quando tra il IX ed il V secolo a.C. fu coniato il termine Messapia, la penisola salentina non era considerata dai Greci bagnata da due mari distinti ma da un unico mare. E questo mare quand’era considerato nel suo complesso, compresi  quindi entrambi gli attuali bacini adriatico e ionico e quello al di sotto del Bruzio (la moderna Calabria), veniva chiamato dagli scoliasti mar Ionio d’Italia («Iónios pélagos tes Italías25»), per non confonderlo con il mar Ionio greco. Di conseguenza, Messapia non poteva voler dire “terra che si trova tra due mari” per il semplice motivo che, allora, si riteneva che entrambe le coste della penisola salentina fossero bagnate da un solo mare, appunto lo Ionio.
Occorre rilevare che non era una mera questione formale, derivante dai diversi idronimi utilizzati; all’opposto riguardava un aspetto sostanziale. Alla base c’era un’errata valutazione dell’estensione della penisola salentina e, in particolare, del suo orientamento che la faceva credere disposta in modo tale da non creare due distinti bacini. Da questa rappresentazione falsata derivava la convinzione che fosse contornata da un unico mare.
  Lo lascia intendere Polibio, uno degli storici più attenti e stimati, che ancora nel II secolo a.C.  dichiarava che l’Italia aveva  una configurazione triangolare («τριγωνοειδοῦς») con base le Alpi e per vertice il capo Cocinto26, attuale punta Stilo. Tale schematizzazione faceva quindi prevedere che tutte le terre ad oriente di Cocinto, e quindi anche la Messapia, fossero necessariamente solcate da un solo mare, e questo a prescindere dalle denominazioni geografiche in uso. E successivamente pure Strabone, sebbene conscio che l’Italia non fosse assimilabile ad un triangolo, in quanto – come evidenziava – la parte centro-meridionale  «termina con due punte che s’inoltrano l’uno verso lo stretto di Sicilia e l’altro al capo Iapigio», la percepiva tuttavia «racchiusa dall’Adriatico da una parte; dal mar Tirreno dall’altra»27. Come dire che, mentre prima le coste salentine erano pensate bagnate dal solo Ionio, successivamente furono considerate solcate dal solo Adriatico.
La sostanza rimaneva in ogni caso sempre la stessa. Agli occhi degli antichi il Salento non si trovava tra due mari.
Di conseguenza, la fascinosa soluzione di “terra  tra due mari” non è neppure proponibile, essendo essa del tutto anacronistica, basata, com’è, su convenzioni e convincimenti posteriori a quando il termine fu coniato.
Scartata così un’ipotesi, perché di fatto irrealistica, occorre verificare se è possibile confezionarne una quantomeno plausibile.
È quanto si cercherà di fare nel prossimo incontro.
(1 – continua)
  Note
[1] C’erano due formati di libro: il rotolo ed il codice. Il rotolo era costituito da fogli incollati l’uno all’altro in successione; il codice (utilizzato nelle sue prime apparizioni  per memorizzare leggi e decreti e non opere letterarie) aveva una struttura a pagine sfogliabili da destra a sinistra e, in alcuni casi, dal basso verso l’alto.
2 Anassagora fu il primo autore ad essere commercializzato.
3 Chiaro che Gutemberg era di là da venire e c’era necessità d’uno scriba, un copista tra l’altro dotato di conoscenze specifiche, il βιβλιαγράφος (bibliagráfos), il quale – pare –  era pagato profumatamente.
4 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99.
5 ERODOTO, cit., VII 170.
6 Erodoto partecipò alla fondazione di  Thurii, colonia di ispirazione ateniese, nel precedente sito di Sybaris in Magna Grecia, acquisendone quindi la cittadinanza. In precedenza aveva soggiornato per anni ad Atene.
7 Nella gran parte dei testi ricorre la raffigurazione dei Messapi come suddivisione degli Iapigi: la tradizione maggiormente accolta prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi.
8 Per quello che ho potuto appurare, nelle fonti latine fanno eccezione  i Fasti e LIVIO (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, VIII 24, 4.
9 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.
10 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, anno V, n. 6-7, Nardò 2018,  p. 104.
11 PAUSANIA (II secolo d.C.), Pariegesi della Grecia, IX 22, 5.
12 STRABONE, IX 2, 13
13 STEFANO BIZANTINO (VI secolo d.C. –…), Ethnica, voce “Messápion”.
14 FOZIO (IX secolo d.C.), Bibliotheke, voce “Messápion”.
15 PLINIO IL VECCHIO (I secolo d.C.),  Storia Naturale, III 11, 99.
16 Cfr. C. DE SIMONE, Gli studi recenti sulla lingua messapica, in AA.VV., Italia Omnium Terrarum Parens, Milano 1989, p. 651.
17 G. NENCI, Per una definizione della Ίαπυγία, ASNP, S. Ill, VIII, 1978, p. 47.
18 PLUTARCO (I secolo d,C. – II secolo d.C.), Questioni Greche, 11.
19 OMERO, Odissea, IX 26.
20 APOLLONIO RODIO (III secolo a.C.), Le Argoutiche, IV 327.
21 ESCHILO (VI secolo a.C. – V secolo a.C.), Prometeo incatenato, 837-840.
22 ERODOTO, Cit., IX 92, 3.
23 PSEUDO-SCILACE (forse IV secolo a.c.), par. 27.
24 STRABONE, Cit., VII 5, 8-9.
25 Scolii ad APOLLONIO RODIO, Cit., Frg. 4, 308. Si noti che nel suo complesso lo Ionio diventa pélagos, vale a dire “mare aperto”.
26 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Storie, II 14, 4 – 5.
27 STRABONE, Cit., V 1, 3.
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plinyknowsbest · 4 years ago
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Sallentini, Paediculi, Apuli, Cliternia, and drunk.
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plinyknowsbest · 5 years ago
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Sallentini, Paediculi, Apuli, Cliternia, and flatulence.
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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L'Albania salentina nell'atlante del Pacelli (1803) posseduto a suo tempo da Giuseppe Gigli e il giallo di una nota
di Armando Polito
Ai lati dell’Atlante sallentino Giuseppe Pacelli (1763-1811) e Giuseppe Gigli  (1862-1921) in due immagini tratte, rispettivamente, da: Elio Dimitri, Un erudito manduriano, Barbieri, Manduria, 1993 e G. B. Arnò, Manduria e Manduriani, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1943
  Dopo essermi occupato delle torri costiere quali appaiono in una copia dell’Atlante salentino di Giuseppe Pacelli (http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/03/le-torri-costiere-del-salento-nelle-mappe-giuseppe-pacelli/), oggi l’attenzione è rivolta alle comunità di lingua albanese trattate dallo stesso autore in un’altra sezione del suo atlante.  Questa volta utilizzerò il manoscritto autografo del 1803 custodito a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti (MS. Rr/5)1.
Di seguito riproduco la carta 1r contenente la dedica e la 2r contenente il frontespizio, trascrivendo ed annotando il testo quando l’ho ritenuto necessario. In blu la mia traduzione.
carta 1r
Ad comptum incomparabilemque Equitem D. Dominicum Salzedo Patricium Hydruntinum Iosephi Canonici Pacelli Disticon
Quem tibi nunc mitto, graphicus Salzede, libellus,/est dulcis est fructus nostrae Amicitiae
Distico di Giuseppe Pacelli per l’elegante ed incomparabile cavaliere Don Domenico Salzedo patrizio otrantino
Il libretto illustrato che ora t’invio, o Salzedo, è il dolce frutto della nostra amicizia.
In basso si leggono due note posteriori corrispondenti ad (a) e (b) aggiunte anch’esse nel frontespizio:
a) Quest’atlante fu ideato e copiato dal Canonico Giuseppe Pacelli di Manduria, mio lontano parente, essendo egli zio o cugino a Maddalena Pacelli, madre di mio padre Salvatore3. Quand’io l’ebbi trovai cancellato il cognome Pacelli, come si vede. A scanso di qualunque equivoco ho scritta questa nota. Manduria 13 giugno 1893 Giuseppe Gigli.
b) Il nome dell’autore, cancellato forse in malafede, fu rimesso al suo posto da me 5/12/09 Cesare Antonio ?
Il compilatore della scheda descrittiva considera della stessa mano le due note e le trascrive puntualmente; solo che la trascrizione della seconda si ferma alla data, proprio in corrispondenza di quella che non può essere altro che una firma e della quale mi pare di leggere abbreviati Cesare (nell’originale Ces) e Antonio (nell’originale Ant), mentre il presunto cognome mi ha posto serie difficoltà, tant’è che ho usato il punto interrogativo.
Nelle due immagini che seguono la comparazione tra il Pacelli riscritto nel frontespizio e quello  che compare nella nota a).
Direi che le differenze sono notevoli (vedi soprattutto la a). La differenza appare ancor più evidente se si compara la grafia della lettera d della prima nota con quella della seconda. Difficile ipotizzare un’evoluzione dovuta ai sedici anni trascorsi tra la stesura della prima nota e quella della seconda. E poi: il Pacelli, se fosse stato l’estensore pure della seconda nota, non avrebbe ritenuto opportuno fare un riferimento, per quanto lapidario, alla prima? Rimane, comunque, il problema della lettura della presunta firma dopo la data nella seconda nota e sarò grato a chiunque, essendoci cimentato col problema, sia giunto a qualche risultato.
In conclusione: per me questa seconda nota non fu scritta e sottoscritta dal Gigli e il compilatore della scheda si è lasciato trarre in inganno da alcune somiglianze grafologiche.
Prima di passare alle carte dell’atlante in cui è trattato l’argomento del titolo, mi pare doveroso dire qualcosa a proposito di Giuseppe Gigli (1862-1921) al di là del filo che lo lega al Pacelli parentalmente, come lui stesso dichiarato nella nota a), territorialmente (nato anche lui a Manduria) e per il comune interesse manifestato per la Terra d’Otranto.
Letterato dai molteplici interessi, la sua produzione spaziò dalla poesia alla saggistica, a parte i contributi sparsi in varie riviste. Mi limiterò a fornire l’elenco delle opere più importanti: Visioni e paesi, Puccini & figli, Ancona, s. d.; Confidenze: poveri versi, Parodi, Taranto, 1884; Fiammelle, Vecchi, Trani, 1885; Foglie al vento, Bellinzaghi, Gallarate, 18854; Antiquus fons, Tipografia Editrice Salentina, 1887; Le perle dell’imperatrice, Tipografia dell’unione cooperativa editrice, Roma, s. d.; Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto, Barbera, Firenze, 1893 (ristampa: Filo, Manduria, 1998); Scrittori manduriani, Tipografia salentina del cav. G. Spacciante, Lecce, 1888 (IIa edizione: Spagnolo, Manduria, 1896, ristampata a cura di Walter Tommasino, Filo, Manduria, 2002); Lecce e dintorni e Gallipoli, Otranto e dintorni, due monografie facenti parte della collana Il tallone d’Italia, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo, rispettivamente, 1911 e 19125; Novellieri minori del Cinquecento: Girolamo Parabosco-Sebastiano Erizzo, Giuseppe Laterza & figli, Bari, 1912 (volume curato insieme con Fausto Nicolini); Sigismondo Castromediano, Formiggini, Genova, 1913. carta 1v
Atlante salentino o sia la provincia di Otranto divisa nelle sue diocesi MDCCCIII
In basso quello che definirei, più che stemma, una sorta di sigillo  in cui spicca un’aquila bicipite, mentre nella corona circolare che la delimita si legge IOSEPHUS CANONICUS PACELLI MANDURIENSIS. Lascio aal’altrui competenza specifica la lettura e l’interpretazione del valore simbolico, oltre che dell’aquila (l’autorità imperiale?) degli altri dettagli (il sole in alto e all’interno dello scudo circolare centrale quelle che appaiono come due fabbriche (o due seggi) separate da un fiume (distinzione tra papato e impero?).
Passo ora alle carte riguardanti l’Albania Salentina.         .
carta 17r    
Fra i paesi, che compongono la Diocesi di Taranto, ve ne sono alcuni, ne’m quali gli Abitanti, oltre del linguaggio a tutta la Provincia comune, parlano fra di loro la lingua Albanese, per cui si è dato a questa mappa il Titolo di Albania Sallentina. Sei sono al presente i Paesi di linguaggio Albanese, cioè San Crispiere, Faggiano, Rocca Forzata, San Martino, Monteparano, e San Marzano. La città di Taranto, allorché era Repubblica in tempo della Magna Grecia, fu tanto famosa per la gloria delle sue armi, che non solo colle truppe alleare de’ Lucani, de’ Bruzi, de’ Sanniti, de’ Messapi,de’ Sallentini fece posto ai Romani, de’ quali più volte ne arrestò le conquiste, e venne a patti: ma avea prestato anche prima militari soccorsi ai Stranieri, come agli Epiroti nella conquista della Macedonia, e dell’Isola di Corcira, e ai Lacedemoni contro degli Ateniesi. Roma però, la quale gli ostacoli stessi rendevan più forte, dopo avere o a se associati, o debellati, o interamente distrutti gli eserciti or dell’una, or dell’altra delle vicine Provincie, aspirò ben presto all’impero di tutta l’Italia; e le vicine Repubbliche delle Città Italo-Greche, non ostante che tenevano in piedi poderosissime armate e di terra, e navali, si avvidero di buon’ora, che presto, o tardi sarebbe anche ad esse toccato. di correre l’istessa sorte. Infatti no tardò molto, che l’Esercito Tarantino, e gli Alleati non furono più valevoli ad opporsi da se soli ai Romani, e furono costretti a ricorrere alle forze di que’, ai quali altra volta avevan prestato l’aiuto. Invitarono perciò Pirro, re dell’Epiro, il quale coi suoi Epiroti volò in soccorso di Taranto contro i Romani. Le avventure di tal calata di Pirro  nell’Italia le racconta l’Istoria, a cui rimetto il Lettore. Or mi sembra un delirio l’opinar di taluni, che pretendono attribuire alla gente, che seco menò Pirro in soccorso di Taranto, l’origine de’ Paesi, de’ quali parliamo, e ‘l lor linguaggio Albanese. Essi non vantano un’antichità sì prodigiosa, e sono di origine assai posteriore, surti ne’ tempi bassi. Ad altri Albanesi asunque più a noi vicini, e non a quelli menati da Pirro, è dovuta l’introduzione del lor linguaggio fra noi. Son d’accordo moltissimi, che la lingua Albanese s’introdusse nel Regno dopo la metà del secolo XV, colla venuta che fece nella Puglia il celebre Re d’Albania Giorgio Castrioto, sotto il nome di Scanderbeg, per soccorrere il nostro Re Ferdinando d’Aragona, assediato dentro la Città di Bari, e da cui poi per il soccorso prestato n’ebbe in dono alcune Città, e fra le altre la Città di Trani. E  i naturali della nostra Albania Sallentina a tal’epoca riportano l’introduzione anche fra loro di tal linguaggio. Io non voglio ciò loro contendere; ma non ritrovo memorie, né so, qual rapporto abbia mai avuto lo Scanderbeg, o la dilui gente con i loro Paesi, né tampoco collo Stato di Taranto, allora posseduto da Gio. Antonio del Balzo, sicché per la vicinanza si possa dire, che abbian potuto gli Albanesi di Scanderbeg in questi Paesi annidarsi. Se io mal non mi avviso, credo piuttosto, che l’introduzione della lingua Albanese in questi luoghi debbasi attribuire alla seconda venuta in Regno degli Albanesi, che accadde poco meno d’un Secolo dopo, e propriamente il 1530, quando per sottrarsi dalla tirannia del Turco molte nobili, e ricche Famiglie abbandonando la Patria, dall’Albania nella Puglia
carta 17v
si trasferirono sotto la protezione del Cattolico Re di Spagna.Tra queste Famiglie di Gentiluomini Albanesi vi fu la Famiglia Basta, da cui uscì il celebre Guerriero, conduttore di eserciti, e valoroso Scrittore di dotte Opere, Giorgio Basta, un ramo della quale Famiglia perché fece compra di alcuni di questi Paesi della nostra odierna Albania Sallentina, come di San Martino, di Monteparano, vi si venne a fissare. E l’istesso Giorgio Basta, che comprò Civitella, oggi distrutta, si crede che in questi Paesi avesse sua spoglia mortale lasciato; d’onde nacque poi l’errore, adottato alla cieca da tutti i Biografi, ed ultimamente dai Traduttori dell’ultimo voluminosissimo Dizionario degli Uomini Illustri, che Giorgio Basta nato fosse in Rocca Forzata, mentre nacque iun Ulpiano nel Monferrato, come nella nostra Bibliografia Sallentina faremo chiaro. Al dominio dunque, ch’ebbe la Famiglia Basta su alcuni Paesi di questa Contrada, e alla dimora che vi fece per molti anni piuttosto, che alla gente menata in Regno da Scanderbeg inclinerei a credere (semprecché non si avessero prove in contrario) doversi attribuire l’introduzione in questi Paesi del linguaggio Albanese.
carta 18v 
                 Riporto dalla mappa (a chi volesse esaminarla personalmente in tutti i dettagli basterà un primo clic col tasto sinistro su di essa e un secondo quando il cursore sarà diventato una lente d’ingrandimento) i toponimi dell’isola alloglotta:
BELVEDERE: oggi contrada di Roccaforzata.
SANTO CRISPIERE: oggi San Crispieri, frazione di Faggiano, da cui dista 2 km, con 300 abitanti.
FAGGIANO: oggi idem
MONTEPARANO: oggi idem
ROCCA FORZATA; oggi Roccaforzata,
SANTO MARTINO: nome di un antico casale tra Roccaforzata e Monteparano: ne fu possessore Raffaele delli Falconi di Lecce fino al 1507, anno in cui passò al comandante albanese Lazzaro Mathes.
SANTO MARZANO: oggi San Marzano di san Giuseppe.
Questa era la situazione agli inizi del XIX secolo. Oggi nei centri sopra indicati sopravvive qualche tradizione del paese d’origine, ma la lingua solo a San Marzano di san Giuseppe. Quanto questo residuo dell’Albanuia salentina riuscirà a sopravvivere o subirà inesorabilmente l’azione catalizzatrice della globalizzazionee ricalcando in questo la Grecìa salentina?
_____________
1 integralmente leggibile e scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000216271&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU
2 Per l’estensore della scheda è un 9.
3 Su Salvatore Gigli così scrive Cosimo De Giorgi in La provincia di Lecce; bozzetti di viaggio, Spacciante, Lecce, 1882, p. 129: Nel 77 vi stabilii un osservatorio termopluviometrico affidandone le cure al mio distintto amico signor Salvatore Gigli, che ha collocato gli strumenti nel suo stabilimento a vapore per la macinazione dei cereali e per la frangitura delle olive a pochi passi dalla città. Nell’immagine che segue, tratta da http://rete.comuni-italiani.it/w/images/Manduria_-_Lapide_a_Salvatore_Gigli_-_Chiesa_Santissima_Croce.jpg, la lapide posta nella chiesa della Santissima Croce.
4 Libro rarissimo, del quale riproduco il frontespizio dall’esemplare rinvenuto in ebay (https://www.ebay.it/itm/GIUSEPPE-GIGLI-poesie-manduria-opera-di-estrema-rarita-sconosciuta-ai-biografi/112763732993?hash=item1a413e0401:g:ZZ4AAOSwTM5Y24Uw)
                                                                                                                                                                                      5   
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi. Ovvero come svilire la storia cittadina (prima parte)
di Nazareno Valente
Uno dei temi più usati dalla fantascienza è quello degli universi paralleli dove, a dirla in parole povere, due (e anche più) mondi simili coesistono senza incontrarsi mai, salvo non si riesca ad intraprendere un viaggio nel tempo che consenta il passaggio da una dimensione ad un’altra.
Sempre facendo riferimento alle antichità, puntando questa volta l’attenzione sull’assetto politico-amministrativo di Brindisi del periodo repubblicano, potremmo riscontrare che in tal caso Wikipedia e la storiografia ufficiale sono un perfetto esempio di realtà parallele che nessun buco nero potrà mai collegare.
Racconta l’enciclopedia in linea nella scheda dedicata alla mia città1: «Nel 267 a.C. Brindisi, come l’intero Salento, fu conquistata dai Romani e divenne un importantissimo scalo per la Grecia e l’Oriente, quindi venne elevata al rango di municipio nell’83 a.C. e ai brindisini fu riconosciuta la cittadinanza romana (240 a.C.)».
A parte la poca consequenzialità e l’esplicita mancata indicazione delle fonti da cui sono state ricavate le notizie, veniamo così a sapere che Brindisi, conquistata nel 267 a.C., ottiene la cittadinanza romana nel 240 a.C. e, successivamente, nell’83 a.C. diviene municipium, senza però comunicarci quale rango, per usare lo stesso termine, essa avesse avuto prima di quest’ultima data.
Le parti s’invertono nella scheda che caratterizza il Salento2. Qui apprendiamo che «Brindisi con il suo porto, intorno al 240 a.C., venne dichiarata municipio insieme a Taranto… dopo l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C. fu riconosciuta la cittadinanza romana». Quindi, municipium sin dal 240 a.C. e, solo nell’80 a.C., ottenimento della cittadinanza.
Trattando la storia del Salento3, Wikipedia riporta che «Brindisi, intorno al 240 a.C., venne elevata al rango di municipio e ai brindisini fu riconosciuta la prestigiosa cittadinanza romana», come dire che i due avvenimenti sono qui dati coincidenti.
Nella schede sul cavaliere brindisino Lucio Ramnio4 non c’è, invece, alcuna indicazione sulla struttura istituzionale assunta dalla città: molto semplicemente Brindisi, caratterizzata come «città apula», viene «prima conquistata (266 a.C.) ai Messapi» e, dopo poco, ottiene « la cittadinanza romana (240 a.C.)». E mi fermo qui per non martirizzare troppo il lettore.
Fossero avvenimenti controversi su cui gli storici si accapigliano, le diverse opinioni esposte da Wikipedia sarebbero giustificabili e rappresenterebbero, al tempo stesso, una ricchezza; il fatto che siano invece eventi del tutto scontati, la cui conoscenza è acquisibile consultando un qualsiasi testo specialistico, crea parecchio stupore e fondati dubbi sulle conoscenze di chi redige le varie schede.
Appare infatti strano che chi vuol spiegare fatti avvenuti nel III secolo a.C. non sia nemmeno a conoscenza che a quel tempo gli abitanti d’un municipium romano non potevano che essere cittadini romani oppure che la cittadinanza d’una città era conseguente alla configurazione giuridica che Roma aveva consapevolmente imposto, e non certo frutto di estemporanee decisioni.
Nelle espressioni del tipo la prestigiosa cittadinanza romana oppure elevata al rango di municipio si coglie poi una visione alquanto datata delle antichità romane, che rinvia agli stereotipi imposti nella prima metà del secolo scorso, dove la romanità era l’aspetto centrale attorno al quale ruotavano tutti gli altri elementi del mondo latino. In definitiva una riproposizione di cliché talmente consolidati che inibiscono qualsiasi tipo di riflessione, anche quella più spontanea, del tipo: ma davvero la cittadinanza romana era così prestigiosa o invidiabile come si vuol far credere?
Intanto occorrerebbe premettere che al prestigio poteva essere sensibile la ristretta cerchia dei notabili, e non certo il resto della popolazione più istintivamente portato a valutare la questione in base a parametri meno elevati e più concreti. Parlerei piuttosto di convenienza e, da questo punto di vista, sarebbe semplicistico, oltre che irrealistico, liquidare la questione con una risposta valida per tutto il tempo in cui l’Urbe fu egemone. Dipendeva pertanto dal momento e dalle situazioni contingenti, com’è naturale che fosse, e c’è un passo di Livio che lo chiarisce in maniera inequivocabile.
Siamo nel pieno svolgimento della seconda guerra punica, quando Annibale sta prendendo il sopravvento e le città Italiche sono propense ad abbandonare Roma. Durante l’assedio di Casilinum, i Prenestini, che formano il grosso del presidio, si rendono protagonisti d’un valoroso gesto di fedeltà alla causa romana, arrendendosi ai cartaginesi solo dopo aver combattuto sino allo stremo delle forze. Il senato romano per ricompensarli decreta doppio stipendio («Praenestinis militibus senatus Romanus duplex stipendium… decrevit»5) e offre loro la cittadinanza romana per le virtù dimostrate («civitate cum donarentur ob virtutem»6); i Prenestini accettano il denaro, però, rifiutano compatti l’altra offerta preferendo mantenere la propria cittadinanza («non mutaverunt»7).
Non è questo l’unico esempio in cui un popolo respinge la possibilità di ottenere la cittadinanza romana e, volendolo, ci sarebbe pure un caso in cui l’offerta è considerata persino risibile. Diodoro Siculo ci racconta infatti che un Cretese, al dono fattogli dal console della cittadinanza romana, risponde che per i Cretesi quella cittadinanza è una solenne baggianata cui essi preferiscono di gran lunga qualcosa di più utile («Πολιτεία, φησί, παρὰ Κρησὶν εὐφημούμενός ἐστι λῆρος. τοξεύομεν γὰρ ἡμεῖς ἐπὶ τὸ κέρδος»8). Vero è che i Cretesi erano famosi per la dubbia moralità e per l’attaccamento al soldo, tuttavia abbiamo a questo punto più d’un motivo per dubitare che diventare Romani fosse cosa desiderabile in assoluto.
Per altro la civitas non era slegata dalla formula organizzativa che i Romani sceglievano di adottare per la città sottomessa. Semplificando il più possibile9, vediamo i possibili regimi giuridici che venivano attuati nel periodo in cui, come racconta Eutropio, fu fatta guerra ai Salentini ed i Brindisini furono conquistati («Sallentinis in Apulia bellum indictum est, captique sunt cum civitate simul Brundisini»10).
Il sistema più utilizzato era quello federativo che derivava da specifico accordo (foedus) stipulato con la comunità sconfitta. Nel 267 a.C., data più probabile per la presa del Salento, erano sempre più rari i foedera aequa, dove le parti si ponevano in una posizione di formale parità, mentre più comuni erano i foedera iniqua, con cui Roma imponeva un limite alla sovranità delle città conquistate, che divenivano alleate dell’Urbe ma in condizione subordinata. In pratica gli alleati (socii) rinunciavano a svolgere una propria politica estera (ius belli ac pacis) rimettendosi così del tutto alle decisioni prese in merito dai Romani (servare maiestatem populi Romani). Chi era amico o nemico di Roma lo diventava di conseguenza anche dei socii (pure chiamati foederati) che avevano l’obbligo di assistere Roma in qualsiasi attività militare questa intendesse avviare fornendo un contingente di truppe prefissato, che operava nei reparti ausiliari dell’esercito romano.
Il foedus però consentiva alle comunità di conservare la propria cittadinanza, le proprie leggi ed i propri ordinamenti, oltre ad una estesa autonomia di carattere amministrativo-finanziario, essendo loro concessa l’autorità di battere moneta.
  Dal canto suo, il municipium era in origine una città privata dell’autonomia politica e soggetta ad oneri, come si evince dal termine stesso che riflette la condizione di dover sopportare (capere) obblighi (munera), e rappresentava il sistema organizzativo con cui di solito Roma annetteva un territorio conquistato. Sino alla guerra sociale, i municipia non erano organizzati in maniera uniforme in quanto fruivano di condizioni giuridiche diverse e del tutto conseguenti al modo con cui l’annessione era avvenuta.
I popoli sconfitti, che si riteneva utile incorporare nello Stato romano, erano organizzati in municipia sine suffragio et iure honorem e, pertanto, pur godendo della cittadinanza romana, erano limitati nei principali diritti politici, non avendo titolo a votare e ad aspirare alle cariche politiche. Le comunità, la cui annessione era avvenuta (se così si può dire) in maniera pacifica, erano invece dotate della cittadinanza piena (cives optimo iure) e quindi in possesso dei medesimi diritti di un qualsiasi altro cittadino romano. In ogni caso, i municipes erano tutti dotati di cittadinanza romana.
C’era una certa dinamicità nelle configurazioni dei municipia per cui, con il passare del tempo, quelli sine suffragio potevano divenire optimo iure, così come, a seguito di ribellione, essere degradati in stato di soggezione pari a quella dei provinciali.
Il municipium era generalmente soggetto al tributo e, in ogni caso, doveva fornire proprie truppe all’esercito romano; nel contempo, fruiva di un’ampia autonomia amministrativa.
Oltre che con gli accordi (foedera) e con le annessioni (municipia), i Romani controllavano il territorio conquistato con le coloniae che avevano funzioni in prevalenza militari ma che erano anche un modo per diffondere la romanità.
Le colonie erano di due tipi, quelle romane (coloniae civium romanorum), dove chi vi partecipava come colono conservava la cittadinanza romana, e quelle di diritto latino (coloniae latinae), dove i cittadini romani che vi partecipavano dovevano espressamente richiedere di diventare latini e registrarvi il proprio nome («qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant»11) perdendo così la cittadinanza romana.
Le colonie romane erano dedotte con lo scopo principale di creare dei presidi sulle coste prossime al territorio romano; quelle latine per controllare i punti di maggiore rilevanza strategica in zone da poco conquistate e magari ancora non del tutto pacificate. Le diversità si riflettevano nei rispettivi assetti: i coloni romani, facendo parte d’un presidio cittadino, non potevano allontanarsi dalla colonia, se non per periodi limitati, non erano soggetti alla leva, non potevano emettere moneta ed avevano un’organizzazione istituzionale che si rifaceva a quella dell’Urbe; i coloni latini avevano, al pari dei socii Italici, l’obbligo di fornire un contingente militare quando Roma lo richiedeva, secondo l’elenco dei togati (formula togatorum12), vale a dire degli uomini in età militare, e di non stipulare accordi con altre città, ma, a parte questi limiti, avevano un’ampia autonomia interna che consentiva loro anche l’attività giurisdizionale, oltre all’adozione d’un proprio statuto, di propri organi ed alla possibilità di battere moneta.
Il diritto latino consentiva inoltre di contrarre iustae nuptiae con i cittadini romani (ius connubii13) e di commerciare con essi (ius commercii14); probabilmente di acquisire la cittadinanza romana previo trasferimento a Roma (ius migrandi15); di votare, se ci si trovava in quel momento a Roma, con la tribù che veniva di volta in volta sorteggiata («sitellaque lata est ut sortirentur ubi Latini suffragium ferrent»16). Non consentiva invece, almeno in quel periodo, lo ius honorum, vale a dire la possibilità di concorrere per le magistrature romane.
Nella scelta i Romani salvaguardavano i propri interessi ma tendevano anche a non deprimere le popolazioni conquistate. Per questo seguivano anche un criterio logistico e, di conseguenza, non adottavano il sistema del municipium per città lontane dal territorio romano in quanto, a causa della lontananza, non avrebbero potuto attuare un concreto controllo sulla città annessa e, nel contempo, non avrebbero consentito alla popolazione una effettiva fruizione dei diritti.
Si pensi, ad esempio, ai Brindisini. Fossero stati inseriti in un municipium, avrebbero dovuto affrontare ogni cinque anni un viaggio di circa quattro settimane, solo per il censimento, cui erano tenuti a partecipare i cittadini romani, che veniva svolto a Roma. E lo stesso tempo ci avrebbero messo per esercitare l’eventuale diritto al voto, perché tanto durava allora andare avanti e in dietro da Brindisi a Roma.
La cittadinanza sarà stata pure prestigiosa; il rango municipale il non plus ultra ma, agli effetti pratici, in quel periodo, avrebbe comportato notevole disagio e quasi nessun beneficio.
Con tutti gli indubbi problemi iniziali che la deduzione a colonia latina comportava sia per l’elemento romano, per la rinuncia alla cittadinanza romana, sia per l’elemento indigeno, per la preliminare ristrutturazione della città che comportava una ridefinizione delle proprietà, essa rappresentava in ogni caso la soluzioni con le migliori prospettive future. In tal senso, sintomatico è il caso capitato agli abitanti di Anzio una settantina di anni prima.
In un passo non del tutto chiaro17, Livio ci fa infatti intendere che Anzio, colonia latina, viene punita per la sua condotta ribelle con la perdita del diritto latino e con la confisca del territorio che viene rifondato come colonia romana («Et Antium nova colonia missa») a cui gli Anziati, se lo vogliono, possono comunque iscriversi come coloni («ut Antiatibus permitteretur, si et ipsi adscribi coloni vellent»). Al resto della popolazione anziate viene invece vietato il mare e concessa la cittadinanza («interdictumque mari Antiati populo est et civitas data»).
Di là del fatto che Livio si riferisca ad una colonia d’un periodo anteriore allo scioglimento della lega latina (le cosiddette priscae latinae coloniae), e quindi con un assetto giuridico diverso da quelle che qui trattiamo, quel che emerge è che la concessione della cittadinanza non fosse poi tanto da considerarsi in assoluto un privilegio. E, ciò che più importa, che la condizione giuridica di colonia latina fosse, tra quelle che Roma imponeva ad un popolo vinto, la preferibile.
D’altra parte le scelte dei Romani erano improntate al più ferreo pragmatismo: Brindisi aveva un porto che rappresentava la chiave di volta per ogni possibile rapporto con il mondo orientale e, in senso regionale, poteva costituire il giusto contrappeso a Taranto, città di cui l’Urbe per secoli non si sarebbe mai fidata. Per questo c’era tutto l’interesse a valorizzarla riconoscendole la posizione istituzionale che la rendeva la più autonoma possibile.
Nel 247 a.C. fu formalmente decisa la deduzione a Brindisi d’una colonia di diritto latino e nel 244 a.C., completatasi la centuriazione prevista, la città celebrò la sua nuova nascita.
“Il 5 agosto giunsi a Brindisi” («Brundisium veni Nonis Sextilibus»), scrive Cicerone18 ad Attico; lì l’attendeva la figlia Tulliola, nel giorno stesso del suo compleanno che coincideva con la ricorrenza della fondazione della colonia di Brindisi («ibi mihi Tulliola mea fuit praesto natali suo ipso die qui casu idem natalis erat et Brundisinae coloniae»). Per cui il 5 agosto 244 a.C.19 fu fondata la colonia latina di Brindisi, i cui abitanti erano cittadini brindisini di diritto latino. E non cittadini romani. Le altre città salentine stipularono invece un foedus e, quindi, furono federate con l’Urbe.
Che Brindisi sia stata colonia latina, e che tale struttura sia rimasta in vigore almeno sino alla lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda del 90 a.C., è un fatto innegabile che trova d’accordo tutti gli storici. È pertanto del tutto scontato che Wikipedia commetta un errore nell’anticipare al 240 a.C.20 l’ottenimento della cittadinanza romano e/o la costituzione di Brindisi a municipium, forse condizionata dalle ipotesi formulate in merito dalla gran parte dei cronisti brindisini, i quali, a loro volta, tendono ad oscurare il passato coloniale della città oppure, nel migliore dei casi, ad annacquarlo con la civitas romana.
Sembrerà strano ma questa linea di pensiero — forse inaugurata dal canonico Camassa che, come meglio vedremo la prossima volta, almeno aveva qualche convenienza a spacciarla per vera — trova tuttora istintive adesioni. Ad esempio, A.M. Caputo anticipa addirittura al 276 a.C. — ma forse intende 267 a.C. — il momento in cui i Romani «elevarono Brindisi alla dignità di Municipio, riconoscendole tutti i diritti della cittadinanza romana»21; G. Perri la retrodata al 244 a.C. quando vi fu dedotta «una colonia romana di diritto latino»22, vale a dire proponendo una forma giuridica mista (al tempo stesso romana e latina) mai adottata da Roma che fondava, invece, o colonie romane o colonie latine, perché il diritto di riferimento, e conseguentemente la cittadinanza, non poteva che essere unico. Non a caso i Romani per diventare coloni latini dovevano rinunciare alla loro cittadinanza originaria.
La conclusione amara, e per certi versi ridicola, è che la configurazione che i cronisti brindisini per lo più stentano ad accettare è appunto quella alla base della notorietà della Brindisi antica: la nominale autonomia, di cui beneficiò in virtù d’essere una colonia latina, le consentì di mantenere una propria identità e di non rimanere appiattita nel gruppo anonimo dei municipia.
Wikipedia da parte sua non sa neppure di questo passato illustre, tanto è vero che nella scheda in cui mescola le colonie romane con quelle latine, trattandole come se facessero parte d’un mondo ibernato per secoli23, Brindisi non compare nemmeno.
Il mondo romano era invece sufficientemente dinamico ed anche i significati ed i valori s’andavano modificando con il tempo. La stessa cittadinanza romana, che, come riportato, un Cretese aveva ritenuto una baggianata, divenne con il passar degli anni sempre più apprezzabile, tanto da scatenare una sanguinosa guerra che avrebbe comportato il totale riassetto delle città italiche.
Una riorganizzazione che, come scopriremo nella prossima puntata, coinvolse pure Brindisi.
Secondo me, senza che lo desiderasse troppo.
    Note
1 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Brindisi#Il_periodo_romano (17.12.2017).
2 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (17.12.2017).
3 Link https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_Salento#Il_periodo_romano (17.12.2017).
4 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Ramnio (17.12.2017).
5 livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 20, 2.
6 Livio, Cit., XXIII 20, 2.
7 Livio, Cit., XXIII 20, 2.
8 Diodoro Siculo (I secolo a.C.), Biblioteca Storica, XXXVII 18.
9 Per gli inizi della primavera prossima, spero di poter completare un lavoro di più ampio respiro sulla conquista del Salento e sull’assetto organizzativo della Brindisi romana.
10 Eutropio (IV secolo d.C.), Breviarium ab urbe condita, II 17.
11 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), De domo sua, 77.
12 Nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. figura l’antica locuzione «socii nominisve latini, quibus milites ex formula togatorum inperare solent» (gli alleati ossia il nome latino, ai quali [i Romani] comandano di fornire i soldati sulla base della formula dei togati).
13 La prole godeva quindi dei diritti civili.
14 Si poteva così ricorrere al pretore, o ad un suo delegato, per tutelare i propri atti negoziali.
15 Occorreva però lasciarvi un figlio, per non depauperare la colonia.
16 Livio, Cit., XXV 3, 16.
17 Livio, Cit., VIII 14, 8.
18 Cicerone, Epistole ad Attico, IV 1, 4.
19 Oppure 245 a.C.
20 Resta invece un mistero da dove si sia potuta ricavare la data del 240 a.C. che ricorre puntuale nelle varie schede.
21 A.M. Caputo, Presentazione, in G. Perri, Brindisi “raccontata”, Lulu.com 2015, p. 8.
22 G. Perri, Brindisi nel contesto della storia, Edizioni Lulu.com 2016, p. 24.
23 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Colonia_romana (17.12.2017).
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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Wikipedia ed il toponimo Salento. Ovvero all’ombra dei copia ed incolla
di Nazareno Valente
  A prenderla in maniera scherzosa, verrebbe da dire che disquisire sul Salento comporta la stessa difficoltà di quando si parla del sesso degli angeli.
Quale zona essa effettivamente sia o sia stata, quali città comprenda, quale sia l’origine della sua denominazione geografica, qualsiasi quesito si ponga finisce per scatenare dibattiti senza fine in cui può pure capitare che le opinioni siano in numero maggiore degli interlocutori.
Limitando il campo d’azione, e senza avere la pretesa di risolvere l’irrisolvibile in poche battute, vediamo di riprendere il discorso sui contenuti presenti in Wikipedia esaminando proprio cosa sia lì riportato per il toponimo1 che individua la nostra terra.
L’enciclopedia in linea affronta la questione nella scheda dedicata appunto al Salento2 premettendo in maniera corretta che «il toponimo Salento ha origini incerte».
La disamina considera inizialmente la versione leggendaria che, veniamo a sapere, si basa sul «nome del Re Sale, un mitico re dei Messapi» il cui nipote, Malennio, «avrebbe fondato Sybar (primo nome della località costiera Roca, che significa Città del Sole), nonché Lyppiae (l’attuale Lecce) e Rudiae».
Passa poi alle possibili spiegazioni scientifiche del termine riportando tre diverse ipotesi.
La prima, ricavata da uno studio di Mario Cosmai3, farebbe derivare il coronimo da salum «inteso come “terra circondata dal mare”: i Romani, infatti, indicavano con Sallentini gli abitanti delle paludi acquitrinose che si addensavano intorno al Golfo di Taranto». E, per meglio precisarne il pensiero, si ricopia il brano del saggio in cui si afferma che: «Salento in messapico significa “mare”: ce lo conferma Plinio che dice “Salentinos a salo dicto” (cfr. il greco hals, halòs e il latino salum, mare)».
La seconda si rifà ad un autore greco, Strabone, che, a detta del compilatore della scheda, farebbe provenire il termine «dal nome dei coloni cretesi che qui si stabilirono, chiamati Salenti in quanto originari dalla città di Salenzia».
L’ultima è di un autore latino, Marco Terenzio Varrone, il quale lo desume da «un’alleanza stipulata “in salo”, ovvero in mare, fra i tre gruppi etnici che popolarono il territorio: Cretesi, Illiri e Locresi».
Lasciando da parte la leggenda, perché in quanto tale poco discutibile da un punto di vista storico, esaminiamo le altre teorie presentate.
Innanzitutto va rilevato il piglio forse troppo schematico con cui le informazioni sono state messe insieme, così da dare la sensazione che esse siano state raccolte qua e là alla rinfusa, senza un ben definito criterio di selezione e senza un qualsivoglia approfondimento critico. Soprattutto disorganica appare la trascrizione del pensiero di Cosmai che, così com’è riportato, risulta confuso e, per certi versi, incomprensibile.
In questa ipotesi sono infatti vari i punti che destano perplessità.
Dalle fonti narrative antiche non risulta, ad esempio, che i Romani identificassero i Sallentini con «gli abitanti delle paludi acquitrinose che si addensavano intorno al Golfo di Taranto», per cui l’asserzione non è suffragata da nessuna prova documentale.
Non si capisce poi quale significato l’autore effettivamente assegni al vocabolo sălum, dapprima letto come “terra circondata dal mare” e, in seguito, come “mare”.
La frase, Salentinos a salo dicto, per altro scorretta perché il verbo dovrebbe concordare con Salentinos e non con salo, non è attribuibile a Plinio ma semmai, nella forma corretta (Salentinos a salo dictos), a Verrio4.
Ma ciò che più conta, poiché la voce sălum è comunemente tradotta con alto mare, e che il termine greco, (σάλος, salos), da cui trae origine rinvia al movimento impetuoso tipico del mare aperto, non si comprende quale nesso vi possa essere tra l’affermazione erroneamente attribuita a Plinio e le paludi acquitrinose tarantine, considerato che non vi è legame logico possibile tra l’alto mare (sălum) ed una zona paludosa. Anzi il moto ondoso che il mare aperto implica è del tutto in antitesi con la calma piatta che un acquitrino usualmente presuppone.
In definitiva le argomentazioni di Cosmai, quanto meno nella forma presentata su Wikipedia5, prestano il fianco a più d’una sostanziale critica, perché poco documentate ed, a volte, sconfessate dalle stesse fonti portate a sostegno.
La seconda tesi proposta, basata su una presunta affermazione di Strabone, è una vera e propria invenzione; temo riesumata, dopo anni e anni di giusto oblio, proprio dalla rete. Infatti il geografo pontico non ha mai parlato nella sua opera di questi fantomatici Salenti, originari della ancor più immaginaria città cretese di Salenzia e colonizzatori delle nostre contrade. Strabone si è limitato ad affermare sull’argomento le seguenti testuali parole: dicono che i Salentini siano coloni dei Cretesi («Τοὺς δὲ Σαλεντίνους Κρητῶν ἀποίκους φασίν»6), senza menzionare né i Salenti, né tantomeno Sallenzia.
In effetti, la bufala era già nota nei secoli scorsi tant’è che risulta scoperta, e stigmatizzata anche in malo modo, in uno scritto7 di Girolamo Marciano, un letterato vissuto tra il XVI e XVII secolo. «Un certo scrittore moderno in una sua descrizione del sito della Japigia dice che questi popoli furono detti Salentini da’ Salenti venuti da Salenzia»8, scrive piccato Marciano, per poi concludere «e senza rossore alcuno afferma ciò aver detto Tucidide e Strabone»9.
Ora, dal momento che il manoscritto di Marciano fu stampato solo nel XIX secolo e che in sede di stampa furono fatte aggiunte da Tommaso Albanese, non è dato di sapere chi abbia in effetti bacchettato lo scrittore moderno, se proprio Marciano oppure Albanese. Chiunque sia stato, non s’è preoccupato però di svelarne il nome che rimane, pertanto, a me sconosciuto. Certo è, che se la fake news è stata riesumata e poi riciclata su Wikipedia, qualche traccia dovrebbe pur aver lasciato in internet, anche se i miei tentativi per rintracciarla sono risultati del tutto vani.
Confesso che mi piacerebbe soddisfare questa piccola curiosità, che rivelerebbe pure l’autore dell’aspro rimprovero, per cui mi consento di lanciare un appello ai lettori invitandoli ad adoperare il loro talento di navigatori del web per risalire all’ideatore dei Salenti e della immaginosa notizia che, a distanza di tanto tempo, trova ancora fedeli seguaci.
L’ultima ipotesi — almeno quella — risulta invece confermata dalle fonti.
Nei commenti alle Bucoliche di Virgilio, lo Pseudo-Probo10 riporta infatti un frammento in cui Varrone narra la triplice origine Cretese, Illirica e Locrese dei Salentini e giustifica tale nome con la circostanza che il patto d’amicizia fu stipulato in alto mare («Salentini dicti quod in salo amicitiam fecerint»).
Da sottolineare, però, che così si spiega l’etnico (Salentini) ma non si ricava l’origine del coronimo (Salento), per cui la domanda iniziale rimane in ogni caso inevasa. Potremmo in questa sede cercare di formulare una risposta, tuttavia la questione è alquanto intricata e poco abbordabile in modo schematico. Per questo si ritiene più utile rinviare ad altro articolo, del resto già predisposto ed ormai prossimo alla pubblicazione11, che tratta l’argomento in maniera specifica.
In conclusione, Wikipedia compie in poche righe un bel po’ di sviste, riportando riferimenti in parte fasulli ed in parte errati o imprecisi, senza in aggiunta neppure riuscire a dare risposta al quesito inizialmente posto sull’origine del termine Salento.
Curioso infine il dover constatare che una teoria più è fantasiosa e più trova facile diffusione. Basterebbe infatti lanciare una ricerca con una stringa impostata con il falso passo di Strabone, per scoprire che un consistente numero di siti si è appropriato dell’informazione e, quel che è peggio, la divulga così com’è ritenendola del tutto corretta.
Non ci si sorprenda però troppo: i copia ed incolla passivi possono produrre effetti ancor più straordinari. Come meglio vedremo la prossima volta.
  Note
1 Nel prosieguo si utilizzerà in alternativa al termine toponimo il vocabolo coronimo che, pur di minore uso, è più appropriato ad indicare il nome di un’area geografica.
2 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Toponimo (20.11.2017).
3 M. Cosmai, Antichi toponimi di Puglia e Basilicata, Levante, Bari 1991.
4 Verrio Flacco (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Sul significato delle parole, fr. apud festo (II secolo d.C. – …), Sul significato delle parole libri XX, in Dacier, vol. II, Londra 1826, pp. 807-808.
5 Non avendo trovato il testo di Cosmai né in commercio, né nelle biblioteche regionali, ho potuto contare solo sulla versione fornita da Wikipedia.
6 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 5.
7 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Napoli 1855, Stamperia dell’Iride.
8 G. Marciano, Cit., p. 63.
9 G. Marciano, Cit., p. 63.
10 Varrone, Antiquitates rerum humanarum,III fr.VI Mirsch, Apud ps –probo (I secolo d.C. – …), in Vergilii Bucolica, VI 31.
11 N. Valente, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno 5, n. 6, Nardò 2017.
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fondazioneterradotranto · 7 years ago
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Gallipoli: ma quante sono?
di Armando Polito
L’omonimia è un fenomeno non raro tra gli uomini (pensiamo alla diffusione del cognome Rossi che, credo non  a caso, ispirò l’immaginario personaggio di Bruno Bozzetto, il signor Rossi, appunto, simbolo dell’italiano medio) ed abbastanza frequente nei toponimi, specialmente quando sono accomunati da un etimo non legato ad un nome proprio. Emblematico, è, a tal proposito, il caso di Gallipoli, che à dal greco Καλλίπολις (leggi Callìpolis), composto da καλλίων (leggi callìon), comparativo di καλός/καλή/καλόν (leggi calòs/calè/calòn). Il toponimo, perciò, va tradotto con città abbastanza, troppo bella) essendo καλλίων un comparativo assoluto (cioè senza secondo termine di paragone), purtroppo riduttivo più riduttivo rispetto al superlativo relativo (la città più bella) o all’assoluto (città bellissima) ma che, comunque, rende giustizia rispetto all’infame traduzione corrente (la città bella), di una gravità sconcertante, mi si conceda un po’ di campanilismo, per la Gallipoli salentina.
Oltretutto la nostra è quella più presente nelle fonti classiche, che di seguito riporto.
Dionigi di Alicarnasso (I secolo a. c.): Allo spartano Leucippo che aveva chiesto dove fosse destino che lui e i compagni si insediassero [l’oracolo di Apollo] dette come responso di navigare verso l’italia e di abitare la terra nella quale, una volta sbarcati, fossero restati un giorno e una notte. Approdata la spedizione nei pressi di Gallipoli, un porto dei Tarantini …1 (per chi fosse interessato al seguito: http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/05/come-gli-spartani-presero-in-giro-in-un-colpo-solo-gallipolini-e-tarantini/.
Pomponio Mela (I secolo d. C.): … poi vi sono Bari, Egnazia, Rudie nobile per il cittadino Ennio, e, ormai in Calabria2, Brindisi, Valesio, Lecce, il monte Idro, le campagne salentine, le coste salentine e la città greca di Gallipoli.3
Plinio il vecchio (I secolo d. C.): Le città interne a partire da Taranto sono Oria, soprannominata della Messapia per distinguerla da quella apula, Alezio¸sulla costa invece vi sono Seno4, Gallipoli, che ora è Anxa, distante 75 migllia da Taranto.5
Guidone (XII secolo d. C.): … Vereto, che ora si chiama Leuca, Yentos, che ora si chiama Ugento, Alezio, Lubia, dove oggi è Gallipoli …6
Dopo la Gallipoli salentina  è la volta della siciliana, della quale, purtroppo, nulla resta se non la memorie storica, in attesa che le ricerche archeologiche consentano di individuarne una dislocazione più precisa nell’ambito della Sicilia orientale. L’unica fonte è Erodoto (V secolo a. C.): [Gelone] non molto tempo dopo fu riconosciuto essere il comandante supremo di tutta la cavalleria: infatti mentre Ippocrate assediava gli abitanti di Gallipoli, di Nasso e Zancle, nonché quelli di Leontini e oltre a quelli di Siracusa parecchi dei barbari, Gelone smostrò di essere uomo fortissimo; nessuna, io dico, di queste città, eccetto Siracusa, evitò di essere assoggettata ad Ippocrate.7
Ma potevano i Greci, fondatori della Gallipoli salentina e di quella siciliana non avere una città con lo stesso nome nella madre patria? Καλλίττολις o Κάλλιον era infatti una città dell’Etolia, regione montana sulla costa settentrionale del golfo di Corinto.
Tucidide (V secolo a. C.): Egli dunque coll’esercito pernottò nel recinto sacro a Giove nemeo (ove si dice che dalla gente del paese fu morto il poeta Esiodo, secondo l’oracolo che gli aveva predetto avrebbe sofferto ciò in Nemea), e sul far dell’aurora mosse il campo alla volta di Etolia. Nel primo dì prende Potidania, nel secondo Crocilio, nel terzo Tichio, ove fece alto, e mandò il bottino ad Eupolio della Locride; avendo egli intenzione di conquistar prima gli altri luoghi, e ricondursi a Naupatto, per quindi combattere gli Ofionesi qualora essi non volessero arrendersi. Queste mene però non erano ignote agli Etoli neanche quando ei dapprima le macchinava; e non sì tosto si presentò con l’esercito, che accorsero tutti contro lui con numerose soldatesche; e fino i Bomiesi e i Calliesi, che sono gli ultimi tra gli Ofionesi e si stendono fino al golfo Meliaco, non stettero a vedere.8
Tito Livio (I secolo a. C.): … come si giunse al Corace – è un monte altissimo tra Gallipoli e Naupatto, ivi …9
Pausania (II secolo d. C.):   10
Stefano di Bisanzio (VI secolo) ci ha tramandato una notizia tratta dal XX libro delle storie di Polibio (II secolo a. C.), opera della quale solo i primi cinque ci sono pervenuti integri, degli altri rimangono frammenti od epitomi: Corace, monte tra Gallipoli e Naupatto: Còrace, monte tra Gallipoli e Naupatto. Polibio nel  20° libro.11
Oltre all’Etolia, anche la Misia aveva una città con lo stesso nome.
Periplo di Scilace (IV secolo a. C.), che può essere considerato come il primo portolano del Mediterraneo: Misia. Dopo la Tracia il popolo dei Misi. Si trova a sinistra del golfo di Olbia per chi naviga verso il golfo di Cio fino a Cio. La Misia è una penisola. Le città greche in essa sono: Olbia e il suo porto, Gallipoli e il suo porto, il promontorio del golfo di Cio e a sinistra la città di Cio e il fiume Cio. Il periplo della Misia fino a Cio ha la durata di un giorno.12  
Non era da meno la Tracia con la sua Gallipoli sullo stretto dei Dardanelli, come mostra l’attuale nome  turco Gelibolu, che ne è la fedele trascrizione. Non conosco fonti classiche su questa città, ma non è da escludersi, data la vicinanza, che la testimonianza precedente si riferisca proprio ad essa.
Il destino ha voluto che sopravvivessero solo la Gallipoli turca e quella salentina (nelle due immagini che seguono), ma non è per noi un motivo di vanto che l’osceno grattacielo campeggiante sulla città rappresenti un oltraggio alla città ideale immaginata da Platone 2400 anni fa: … come forse soltanto, io  dicevo, bisogna soprattutto disporre in modo che coloro che vivono nella città abbastanza bella abbastanza bella non si tengano lontani in alcun modo dalla geometria. E infatti tutte le cose accessorie a questo non sono di poco conto.13
Però, visto che l’obbrobrio, forse, piace ai più e, considerato che la Gallipoli salentina è una delle mete privilegiate del turismo internazionale, aveva torto il buon Platone e, molto più modestamente, ho torto anch’io …
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1 Antiquitates Romanae, XIX, 3: Λευκίππῳ τῷ Λακεδαιμονίῳ πυνθανομένῳ ὅπου πεπρωμένον αὐτῷ εἴη κατοικεῖν καὶ τοῖς περὶ αὐτόν, ἔχρησεν ὁ θεὸς πλεῖν μὲν εἰς Ἰταλίαν, γῆν δὲ οἰκίζειν, εἰς ἣν ἂν καταχθέντες ἡμέραν καὶ νύκτα μείνωσι. Καταχθέντος δὲ τοῦ στόλου περὶ Καλλίπολιν ἐπίνειόν τι τῶν Ταραντίνων …
2 All’epoca Calabria designava solo la penisola salentina.
3 Corographia, II, 66: … post Barium et Gnatia et Ennio cive nobiles Rudiae, et iam in Calabria Brundisium, Valetium, Lpiae, Hydrus mons, tum Sallentini campi et Sallentina litora et urbs Graia Callipolis.
4 Traduco così il Senum, città non identificata; da aggiungere che  e le varianti, che qui non riporto, complicano la questione.
5 Naturalis historia, III, 16: Oppida per continentem a Tarenti Uria, cui cognomen ob Aoulan Messapiae, Aletium, in ora vero Senum, Callipolis, quae nunc est Anxa, LXXV a Tarento.
6 Geographia, 29: … Beretos quae nunc Leuca, Yentos quae nunc Augentum, Valentium, Lubias ubi nunc est Callipolis …
7 Ἱστορίαι, VII, 154: Μετὰ δὲ οὐ πολλὸν χρόνον δι᾽ ἀρετὴν ἀπεδέχθη πάσης τῆς ἵππου εἶναι ἵππαρχος˙ πολιορκέοντος γὰρ Ἱπποκράτεος Καλλιπολίτας τε καὶ Ναξίους καὶ Ζαγκλαίους τε καὶ Λεοντίνους καὶ πρὸς Συρηκοσίους τε καὶ τῶν βαρβάρων συχνούς, ἀνὴρ ἐφαίνετο ἐν τούτοισι τοῖσι πολέμοισι ἐὼν ὁ Γέλων λαμπρότατος. Τῶν δὲ εἶπον πολίων τουτέων πλὴν Συρηκουσέων οὐδεμία διέφυγε δουλοσύνην πρὸς Ἱπποκράτεος.
8 Αὐλισάμενος δὲ τῷ στρατῷ ἐν τοῦ Διὸς τοῦ Νεμείου τῷ ἱερῷ, ἐν ᾧ Ἡσίοδος ὁ ποιητὴς λέγεται ὑπὸ τῶν ταύτῃ ἀποθανεῖν, χρησθὲν αὐτῷ ἐν Νεμέᾳ τοῦτο παθεῖν, ἅμα τῇ ἕῳ ἄρας ἐπορεύετο ἐς τὴν Αἰτωλίαν. Καὶ αἱρεῖ τῇ πρώτῃ ἡμέρᾳ Ποτιδανίαν καὶ τῇ δευτέρᾳ Κροκύλειον καὶ τῇ τρίτῃ Τείχιον, ἔμενέ τε αὐτοῦ καὶ τὴν λείαν ἐς Εὐπάλιον τῆς Λοκρίδος ἀπέπεμψεν τὴν γὰρ γνώμην εἶχε τὰ ἄλλα καταστρεψάμενος οὕτως ἐπὶ Ὀφιονέας, εἰ μὴ βούλοιντο ξυγχωρεῖν, ἐς Ναύπακτον ἐπαναχωρήσας στρατεῦσαι ὕστερον. Τοὺς δὲ Αἰτωλοὺς οὐκ ἐλάνθανεν αὕτη ἡ παρασκευὴ οὔτε ὅτε τὸ πρῶτον ἐπεβουλεύετο, ἐπειδή τε ὁ στρατὸς ἐσεβεβλήκει, πολλῇ χειρὶ ἐπεβοήθουν πάντες, ὥστε καὶ οἱ ἔσχατοι Ὀφιονέων οἱ πρὸς τὸν Μηλιακὸν κόλπον καθήκοντες Βωμιῆς καὶ Καλλιῆς ἐβοήθησαν.
9 Storie, XXXVI, 30, 34: … ut ad Coracem ventum est, mons est altissimus inter Callipolim et Naupactum , ibi …
10 Descrizione della Grecia, X, 22, 2-7: Οἱ μὲν δὴ ἡγεμόνες τῶν βαρβάρων οἱ ἄλλοι κατεπεπλήγεσαν τὸ Ἑλληνικόν, καὶ ἠπόρουν ἅμα ὑπὲρ τῶν μελλόντων, ἐς οὐδέν σφισι πλέον προχωροῦντα ὁρῶντες τὰ ἐν χερσί: τῷ δὲ Βρέννῳ λογισμὸς παρίστατο ὡς εἰ ἀναγκάσει τοὺς Αἰτωλοὺς οἴκαδε ἐς τὴν Αἰτωλίαν ἀναχωρῆσαι, ῥᾴων ἤδη γενήσοιτο ὁ πόλεμος αὐτῷ πρὸς τὸ Ἑλληνικόν. ἀπολέξας οὖν τῆς στρατιᾶς μυριάδας τοὺς πεζοὺς τέσσαρας καὶ ὅσον ὀκτακοσίους ἱππέας, Ὀρεστόριόν τε αὐτοῖς καὶ Κόμβουτιν ἐφίστησιν ἄρχοντας, οἳ ὀπίσω κατὰ τοῦ Σπερχειοῦ τὰς γεφύρας καὶ αὖθις διὰ Θεσσαλίας ὁδεύσαντες ἐμβάλλουσιν ἐς τὴν Αἰτωλίαν: καὶ τὰ ἐς Καλλιέας Κόμβουτις οἱ ἐργασάμενοι καὶ Ὀρεστόριος ἦσαν, ἀνοσιώτατά τε ὧν ἀκοῇ ἐπιστάμεθα καὶ οὐδὲν τοῖς ἀνθρώπων τολμήμασιν ὅμοια. γένος μέν γε πᾶν ἐξέκοψαν τὸ ἄρσεν, καὶ ὁμοίως γέροντές τε καὶ τὰ νήπια ἐπὶ τῶν μητέρων τοῖς μαστοῖς ἐφονεύετο: τούτων δὲ καὶ τὰ ὑπὸ τοῦ γάλακτος πιότερα ἀποκτείνοντες ἔπινόν τε οἱ Γαλάται τοῦ αἵματος καὶ ἥπτοντο τῶν σαρκῶν. γυναῖκες δὲ καὶ ὅσοι ἐν ὥρᾳ τῶν παρθένων, ὅσαι μὲν φρονήματός τι αὐτῶν εἶχον, ἑαυτὰς ἔφθησαν ὡς ἡλίσκετο ἡ πόλις διειργασμέναι: τὰς δὲ ἔτι περιούσας ἐς ἰδέαν ὕβρεως πᾶσαν μετὰ ἀνάγκης ἦγον ἰσχυρᾶς, ἅτε ἴσον μὲν ἐλέου, ἴσον δὲ τὰς φύσεις καὶ ἔρωτος ἀπέχοντες. καὶ ὅσαι μὲν τῶν γυναικῶν ταῖς μαχαίραις τῶν Γαλατῶν ἐπετύγχανον, αὐτοχειρίᾳ τὰς ψυχὰς ἠφίεσαν: ταῖς δὲ οὐ μετὰ πολὺ ὑπάρξειν τὸ χρεὼν ἔμελλεν ἥ τε ἀσιτία καὶ ἡ ἀυπνία, ἀστέγων βαρβάρων ἐκ διαδοχῆς ἀλλήλοις ὑβριζόντων: οἱ δὲ καὶ ἀφιείσαις τὰς ψυχάς, οἱ δὲ καὶ ἤδη νεκραῖς Αἰτωλοὶ δὲ πεπυσμένοι τε παρὰ ἀγγέλων ἦσαν ὁποῖαι σφᾶς κατειλήφεσαν συμφοραὶ καὶ αὐτίκα ὡς τάχους εἶχον ἀναστήσαντες ἀπὸ τῶν Θερμοπυλῶν τὴν δύναμιν ἠπείγοντο ἐς τὴν Αἰτωλίαν, τά τε παθήματα τῶν Καλλιέων ἐν ὀργῇ ποιούμενοι καὶ πλέον ἔτι τὰς οὐχ ἑαλωκυίας πω διασώσασθαι πόλεις προθυμούμενοι. ἐξεστρατεύοντο δὲ καὶ οἴκοθεν ἀπὸ τῶν πόλεων πασῶν οἱ ἐν ἡλικίᾳ, ἀναμεμιγμένοι δ᾽ ἦσαν ὑπὸ ἀνάγκης τε καὶ φρονήματος καὶ οἱ γεγηρακότες: συνεστρατεύοντο δέ σφισι καὶ αἱ γυναῖκες ἑκουσίως, πλέον ἐς τοὺς Γαλάτας καὶ τῶν ἀνδρῶν τῷ θυμῷ χρώμεναι. ὡς δὲ οἱ βάρβαροι συλήσαντες τούς τε οἴκους καὶ τὰ ἱερὰ καὶ ἐνέντες πῦρ ἐς τὸ Κάλλιον ἐκομίζοντο τὴν αὐτήν, ἐνταῦθα Πατρεῖς μὲν ἐπικουροῦντες Αἰτωλοῖς Ἀχαιῶν μόνοι προσέκειντο ἐξ ἐναντίας τοῖς βαρβάροις ἅτε ὁπλιτεύειν δεδιδαγμένοι, καὶ ὑπὸ πλήθους τε τῶν Γαλατῶν καὶ τῆς ἐς τὰ ἔργα ἀπονοίας μάλιστα ἐταλαιπώρησαν: οἱ δὲ Αἰτωλοὶ καὶ αἱ γυναῖκες αἱ Αἰτωλαὶ παρὰ πᾶσαν τεταγμένοι τὴν ὁδὸν ἐσηκόντιζόν τε ἐς τοὺς βαρβάρους, καὶ οὐδὲν ἄλλο ὅτι μὴ τοὺς ἐπιχωρίους ἐχόντων θυρεοὺς ὀλίγα αὐτῶν ἡμάρτανον, διώκοντάς τε ἀπέφευγον οὐ χαλεπῶς καὶ ἀναστρέφουσιν ἀπὸ τῆς διώξεως ἐπέκειντο αὖθις σπουδῇ. Καλλιεῦσι δὲ καίπερ δεινὰ οὕτω παθοῦσιν ὡς μηδὲ τὰ ὑπὸ Ὁμήρου πεποιημένα ἔς τε Λαιστρυγόνας καὶ ἐς Κύκλωπα ἐκτὸς εἶναι δοκεῖν ἀληθείας, ὅμως κατὰ τὴν ἀξίαν ἐγίνετο ἡ ὑπὲρ αὐτῶν δίκη: ἀπὸ γὰρ τεσσάρων μυριάδων προσόντων σφίσιν ὀκτακοσίων ἐλάσσονες ἡμίσεων ἐς τὸ στρατόπεδον οἱ βάρβαροι τὸ πρὸς Θερμοπύλαις ἀπεσώθησαν.
11 Storie, XX, 10-11: Κόραξ, ὄρος μεταξὺ Καλλιπόλεως καὶ Ναυπάκτου. Πολύβιος εἰκοστῷ.
12 Scyllaci periplus, 93; in Geographi Graeci minores, a cura di Karl Müller, Didot, Parigi, 1855, v. I, p. 68: Μυσία. Μετὰ δὲ Θρᾶικην Μυσία ἔθνος. Ἔστι δὲ τὸ ἐπ᾽ ἀριστερᾶι τοῦ Ὀλβιανοῦ κόλπου ἐκπλέοντι εἰς τὸν Κιανὸν κόλπου μέχρι Κίου. Ἡ δὲ Μυσία ἀκτή ἐστι. Πόλεις δ᾽ ἐν αὐτῆι Ἑλληνίδες εἰσὶν αἵδε· Ὀλβία καὶ λιμήν, Καλλίπολις καὶ λιμήν, ἀκρωτήριον τοῦ Κιανοῦ κόλπου, καὶ ἐν ἀριστερᾶι Κίος πόλις καὶ Κίος ποταμός. Παράπλους δὲ τῆς Μυσίας εἰς Κίον ἡμέρας μιᾶς. Misia. Presso la Tracia il popolo dei Misi. Si trova a sinistra del golfo di Olbia per chi naviga verso il golfo di Cio fino a Cio. La Misia è una penisola. Le città greche in essa sono: Olbia e il suo porto, Gallipoli e il suo porto, il promontorio del golfo di Cio e a sinistra la città di Cio e il fiume Cio. Il periplo della Misia fino a Cio ha la durata di un giorno.  
13 Repubblica, III, 527c   … ὡς οἷόν τ᾽ ἄρα, ἦν δ᾽ ἐγώ, μάλιστα προστακτέον ὅπως οἱ ἐν τῇ καλλιπόλει σοι μηδενὶ τρόπῳ γεωμετρίας ἀφέξονται. Καὶ γὰρ τὰ πάρεργα αὐτοῦ οὐ σμικρά.
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