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#Rocco Cataldi
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Rocco Cataldi, poeta dialettale parabitano
di Paolo Vincenti
“Parabbita è chiantata su n’artura / e se standicchia janca cu lle vie / te menzu monte finu a lla npianura / tra fiche, ficalindie e tra l’ulie /”. Quando questi versi furono pubblicati, il loro autore, Rocco Cataldi, non era ancora diventato il poeta dialettale parabitano da tutti riconosciuto e apprezzato.
Questi versi, infatti, dedicati alla città di Parabita, facevano parte della prima raccolta di Cataldi, Rrobba Noscia, pubblicata nel 1949 con l’editrice Bruzia di Castrovillari, con Prefazione di Francesco Russo.  A quel tempo, la poesia dialettale era considerata poco più che un passatempo per improvvisati poeti popolari o peggio popolareschi, nonostante la letteratura salentina avesse già espresso nomi importanti della poesia vernacolare, fra fine Ottocento e inizio Novecento.
Dopo questa prima raccolta di poesie, ne sarebbero venute altre, molto importanti, a corollario di una carriera letteraria che seguì di pari passo la vita e di una vita che entrava  con onestà e sincerità nelle poesie. “E quandu  ‘u cielu e l’arria se sculura, / se sente lu rintoccu t’’a campana / te la Matonna Santa t’’a Cutura /e la burrasca prestu se ‘lluntana / E a mmenzu a ccinca tice l’Ave Maria / nci suntu jeu cu la famija mia/”. Rocco Cataldi era nato a Parabita il 9 gennaio 1927.
Maestro elementare a Matino, Lecce, Racale e Parabita, dove era diventato una vera istituzione, nel 1985 era stato insignito dal Presidente della Repubblica dell’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica”.  Dopo Robba noscia, pubblicò  Storria t’à Madonna t’à Cutura (Paiano Galatina, 1950), poi ripubblicata dall’Adovos di Parabita, nel 1987, con Prefazione di Padre Giuseppe Perrotta. Nel 1956, diede alle stampe Riflessi opachi (Gastaldi Milano) e, dopo una lunga pausa, Lu Ggiudizziu  ‘niversale (Adovos Parabita, 1975), con Prefazione di Aldo D’Antico. Uno dei temi ricorrenti nella sua poetica era il mondo degli umili, quella civiltà contadina alla quale si sentiva profondamente radicato e dalla quale mai volle staccarsi, rivendicandone orgogliosamente l’appartenenza in tutti i suoi scritti. Una civiltà contadina che era, però, al suo crepuscolo e questo determinava in Cataldi un senso di profonda amarezza. Il filo che lo teneva legato a quel mondo in dissoluzione era quello della memoria, del ricordo del buon tempo antico, un tempo fatto di semplicità di gesti e di parole, un tempo in cui bisognava certo tirare la cinghia per andare avanti, ma in cui vi era una genuinità di sentimenti ed una bontà di intenti che, con l’avanzare dei nuovi tempi,  Cataldi temeva fossero irrimediabilmente compromessi. Di qui, l’amaro sfogo contro le brutture e la tristezza dei tempi.
La scelta del dialetto come mezzo espressivo aveva proprio questa valenza, quasi di una battaglia civile in difesa di quei principi di cui la sua storia è sempre maestra. Dice bene Aldo D’Antico, che difende questa scelta di Cataldi rifiutando l’etichetta, che per un certo tempo gli fu appiccicata addosso, di poeta nostalgico, ripiegato su se stesso;  invece, come afferma nella Prefazione al libro  Lu Ggiudizziu  ‘niversale : “scrivere in dialetto non significa soltanto usare la sintassi popolare, ma assumere, quale categoria di ricerca e di espressione, l’anima del popolo, la sua saggezza antica, la sua astuzia proverbiale, la sua inarrestabile dinamica storica, sociale e politica […] Il dialetto, frutto di un’elaborazione linguistica secolare e paziente. .. è uno dei pochi mezzi ‘puri’ rimasti al poeta per esprimere la sua disapprovazione, la sua contestazione, la sua inquietudine [… ] Il linguaggio dialettale ha il potere di scarnificare il contenuto poetico, di renderlo essenziale, di ridurlo a parola; opera cioè una costruzione semantica fondamentale: riconduce il suono a significato culturale, ridando alla parola in sé tutto il suo potenziale espressivo.
E’ in questa visione che il dialetto diventa strumento di rivoluzione linguistica, perché avvicina il lettore al libro, ritenuto elemento di discriminazione fra la cultura ufficiale, quella degli intellettuali, e la cultura popolare, quella degli altri.” Quella di Cataldi, secondo Antonio Errico, è “poesia costruita sulle macerie di miti e deità che come ogni mito ed ogni deità esistono finchè esiste l’uomo che ci crede” (Introduzione a Arretu ‘lla nuveja nc’è lu sule). Nel 1977, venne pubblicato Pale te ficalindie dalla Editrice Salentina di Galatina, con Prefazione di Donato Valli. Nel 1982, è la volta di  Li sonni te li pòviri (Congedo Editore), con Prefazione di Luciano Graziuso, e nel 1988, venne pubblicato dal “Laboratorio” di Aldo D’antico A rretu ‘lla nuveja nc’è llu sule, con Introduzione di Antonio Errico. A proposito della poesia dialettale di Rocco Cataldi, Donato Valli, nel numero della rivista “NuovAlba”  dell’aprile 2005, tracciando un profilo dell’amico perduto, precisa il posto in cui si colloca Cataldi nel panorama della poesia dialettale in generale. Spiega Valli: “nell’ambito di quella che Croce chiamava poesia dialettale ‘riflessa’, esistono almeno due livelli: uno è quello della poesia dialettale dotta (è il caso del poeta di Ceglie Messapico, Pietro Gatti e del poeta magliese Nicola De Donno), l’altro è quello dei poeti che rimangono legati, nella lingua e nei contenuti, alla matrice originaria di una popolarità sentimentale ed espressiva (ed è il caso di Cataldi)”.
Nel 1989, fu pubblicato A passu t’ommu (Congedo), introdotto e commentato da Gino Pisanò. Nel 1996 poi, uscì Culacchi, con Prefazione di Gino Pisanò, e il ricavato della vendita di questo libro, dedicato “Ai buoni perché si mantengano tali; agli altri perché lo diventino”, stampato in numero limitato di copie, il poeta volle che fosse devoluto a favore dell’erigendo monumento a Padre Pio, a Parabita, realizzato grazie soprattutto alla forte religiosità dello stesso Cataldi. L’ultimo libro, del 2000, è Parole terra terra (Congedo editore), con Prefazione di Donato Valli e note esegetiche di Gino Pisanò. A questo, bisogna aggiungere tutte le poesie scritte su cartoncini, per i suoi allievi, nelle più svariate occasioni dell’anno scolastico, come il Natale, la Pasqua, la festa della mamma, la festa del papà, sempre amorevolmente illustrate da Mario Cala e che ancora oggi si trovano in molte case dei parabitani che sono stati allievi del Maestro Rocco. “Rocco Cataldi- Mario Cala” era diventato, negli anni, quasi un marchio di fabbrica: “la penna e il pennello”, come lo stesso Cala afferma in un commosso ricordo dell’amico sulla rivista “NuovAlba”(aprile 2005). E proprio quel materiale eterogeneo che egli aveva prodotto negli anni del suo insegnamento scolastico andò a comporre l’ultimo libro, pubblicato postumo, cioè  Mirando al cuore (Adovos Parabita, 2005),  con commento di Mario Bracci, Prefazione di Mario Cala e Presentazione di Aldo D’Antico. Questo libro, che può essere considerato il testamento morale di Cataldi, è una raccolta di componimenti d’occasione (45, per l’esattezza), cioè poesie scritte dall’autore in più di quarant’anni. Il poeta aveva deciso di raccogliere insieme tutto questo materiale e pubblicarlo, dedicando l’opera all’amico Raffaele Ravenna che, insieme a lui, aveva collaborato alla realizzazione del monumento a Padre Pio da Pietralcina, in Parabita. Sua intenzione era quella di donare tutti i diritti editoriali all’Associazione dei Donatori di Sangue, della quale faceva parte e alla quale, se negli ultimi anni non aveva più potuto contribuire con la donazione per problemi di salute, non faceva mai mancare la propria adesione convinta, con dimostrazioni di grande affetto e sensibilità, come ricorda, in una breve nota introduttiva del libro, Massimo Crusi, Presidente dell’Adovos Parabita. Quasi tutte le poesie presenti in Mirando al cuore nascono da un felice sodalizio: quello di Cataldi con Mario Bracci, che in questo libro cura il commento alle poesie.
La collaborazione Cataldi -Bracci era cominciata sul giornalino scolastico “Il Pierino”, nato nel 1971 e continuato fino al 1995, come ricorda Mario Cala nella sua nota introduttiva. Il maestro Mario Bracci preparava il giornalino ciclostilato, che usciva una volta l’anno, appunto in occasione del Natale, salvo che vi fossero altre circostanze importanti che meritassero un’altra uscita. Cataldi scriveva le poesie e poi si rivolgeva a Mario Cala per preparare qualche disegnino che corredasse i componimenti poetici. Rocco Cataldi morì nel 2004, dopo una carriera lunga e fortunata all’insegna di quei valori, radicati nella società contadina, a cui, come detto, egli apparteneva. Nel 2010 è stata ripubblicata dal Laboratorio Editore la prima raccolta di Cataldi, Rrobba noscia, nella sua versione originale, con una nuova prefazione di Aldo D’Antico. Possiamo quindi rileggere “ A lli furesi”, “Basta ca è fiuru” “’A furtuna”, “’A verità” “La ‘ngurdizia” “Lu faticante e lu camasciu” “Lu scarparu”, e tanti altri testi suggestivi, costruiti su una sintassi semplice ed emozionale.  A distanza di tanti anni si scopre quanto queste liriche siano attuali e dense di significato. Ciò perché Rocco Cataldi  è ormai diventato un “classico”, ossia un punto di riferimento nella produzione letteraria  salentina del secondo Novecento.
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freedomtripitaly · 4 years
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È uno di quei luoghi in grado di ammaliare al primo sguardo ed è parte del circuito dei Borghi Più Belli D’Italia: Guardia Perticara è un piccolo comune in provincia di Potenza che conta meno di 600 abitanti Ma che grazie alle sue strette stradine, alle case in pietra ed agli scorci caratteristici è considerato un vero gioiello della Basilicata. Guardia Perticara deve alla sua particolare architettura l’appellativo di “paese delle case di pietra”, mentre il nome del borgo fa probabilmente riferimento alle pertiche longobarde, ossia porzioni di territorio assegnate un tempo dai Longobardi alle famiglie dei coloni. Il territorio che ospita il paese narra però una storia molto più antica, che pare abbia radici nella già prima età del ferro, nel IX-VIII secolo a.C: sono numerose infatti le testimonianze archeologiche presenti nell’area che raccontano affascinanti epoche passate. I rinvenimenti di corredi tombali risalenti al V secolo a.C. avvenuti a Guardia Perticara, più precisamente in località San Vito, sono stati determinanti ad esempio per reperire informazioni sugli antichi abitanti della Basilicata, gli Enotri. Sono inoltre numerose le popolazioni che si sono succedute nei secoli in questo territorio dalla bellezza disarmante, imprimendogli influenze greco-ortodosse, e segnali del passaggio di saraceni, svevi, angioini e molti altri. È incredibilmente affascinante oggi passeggiare per Guardia Perticara alla scoperta del suo passato e dei tesori che custodisce gelosamente tra le sue mura. Cosa vedere a Guardia Perticara: le attrazioni da non perdere Una visita al piccolo borgo di Guardia Perticara permette di immergersi completamente in luoghi senza tempo e di camminare nel silenzio tra vicoli ordinati di un centro storico dall’atmosfera medievale decorato da archi e balconi fioriti. Nel borgo lucano, la pietra è un simbolo e la sua lavorazione una tradizione millenaria che si trasmette di generazione in generazione. La si ritrova nelle gradinate e nei portali, così come nei ballatoi degli antichi palazzi e dei graziosi dettagli costruttivi che caratterizzano Guardia Perticara. Muovendosi senza fretta per il paese delle case di pietra, si notano qui e là opere magistrali realizzate dai mastri artigiani del luogo. La strada più caratteristica del borgo è Via Armando Diaz, che un tempo era conosciuta come Via dei Carbonari e che ancora oggi regala portali tutti da ammirare, ma interessanti sono anche il rosone di Casa Marra, lo stemma di Palazzo Montano ed il bassorilievo di San Nicola sul portale della Chiesa di San Nicolò Magno. O ancora la mensola in pietra di Casa Sassone oppure l’arco Vico II in piazza Europa. Piccoli gioielli artistici, icona di un luogo che tiene stretta la sua autenticità. È proprio curiosando tra questi esempi di incredibile sapienza costruttiva che si può giungere alla cima del colle dal quale Guardia Perticara si affaccia, per restare letteralmente ammaliati dalla vista che si gode dai suoi 700 metri di altitudine. La valle del sorgente Sauro si stende ai piedi del borgo, creando un paesaggio naturale davvero splendido ed imperdibile se si passa per questo angolo di Basilicata. Tra case arroccate, gradinate che si inerpicano lungo le sponde del colle, archi e fontane, gli edifici religiosi di Guardia Perticara non deludono gli appassionati di questo genere di turismo. Molte sono le interessanti storie e leggende misteriose che aleggiano attorno ai luoghi di culto del borgo, come ad esempio quella legata alla Chiesa di Sant’Antonio. Costruita tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, sembra fu voluta dall’allora principe di Brindisi Ascanio Cataldi, che fece erigere il tempio in segno di ringraziamento per il ritrovamento del figlio rapitogli. All’interno della chiesa è custodita una lapide che ricorda il ruolo della famiglia Cataldi nell’edificazione del luogo sacro, oltre che tele di Biagio Guarnacci ed altri meravigliosi dipinti e sculture lignee. È una leggenda ad aleggiare anche attorno alla Chiesa di Santa Maria di Sauro: si narra che nella pianura dell’omonimo fiume alcuni contadini avrebbero visto la Vergine su di un carro trainato da buoi. La chiesa cela infatti una statua lignea della Madonna col Bambino del XIV secolo, la quale ogni primo maggio viene trasportata in processione fino al paese, per essere ricondotta al santuario nella seconda domenica di agosto. Di valore storico ed artistico è anche la Chiesa Madre dedicata a San Nicolò Magno. Sul suo portale spicca una raffigurazione del santo, risalente al XVII secolo, mentre all’interno del santuario sono numerose le opere di interesse, come ad esempio la statua lignea di San Nicolò vescovo del diciassettesimo secolo, in onore del quale viene ogni 9 maggio celebrata la festa patronale. I dintorni di Guardia Perticara non sono meno affascinanti che il suo nucleo storico: da non perdere assolutamente le grotte basiliane, oltre che i ruderi dell’antica città di Turri ed il bosco comunale Amendola con i suoi 500 ettari di incontaminata macchia mediterranea. Guardia Perticara nel cinema Grazie alla sua suggestiva ambientazione ed alla posizione decisamente panoramica, il borgo di Guardia Perticara è stato spesso scelto come location per famosi film. Solo per citarne alcuni, nel 2010 “Basilicata coast to coast”, il primo film da regista dell’attore lucano Rocco Papaleo, ha mostrato molti angoli caratteristici del territorio lucano, tra cui appunto Guardia Perticara. Già nel 1979 però il borgo aveva ospitato le riprese del film di Francesco Rosi “Cristo si è fermato a Eboli” tratto dall’omonimo libro. https://ift.tt/2Akjag2 Cosa vedere nel borgo di Guardia Perticara È uno di quei luoghi in grado di ammaliare al primo sguardo ed è parte del circuito dei Borghi Più Belli D’Italia: Guardia Perticara è un piccolo comune in provincia di Potenza che conta meno di 600 abitanti Ma che grazie alle sue strette stradine, alle case in pietra ed agli scorci caratteristici è considerato un vero gioiello della Basilicata. Guardia Perticara deve alla sua particolare architettura l’appellativo di “paese delle case di pietra”, mentre il nome del borgo fa probabilmente riferimento alle pertiche longobarde, ossia porzioni di territorio assegnate un tempo dai Longobardi alle famiglie dei coloni. Il territorio che ospita il paese narra però una storia molto più antica, che pare abbia radici nella già prima età del ferro, nel IX-VIII secolo a.C: sono numerose infatti le testimonianze archeologiche presenti nell’area che raccontano affascinanti epoche passate. I rinvenimenti di corredi tombali risalenti al V secolo a.C. avvenuti a Guardia Perticara, più precisamente in località San Vito, sono stati determinanti ad esempio per reperire informazioni sugli antichi abitanti della Basilicata, gli Enotri. Sono inoltre numerose le popolazioni che si sono succedute nei secoli in questo territorio dalla bellezza disarmante, imprimendogli influenze greco-ortodosse, e segnali del passaggio di saraceni, svevi, angioini e molti altri. È incredibilmente affascinante oggi passeggiare per Guardia Perticara alla scoperta del suo passato e dei tesori che custodisce gelosamente tra le sue mura. Cosa vedere a Guardia Perticara: le attrazioni da non perdere Una visita al piccolo borgo di Guardia Perticara permette di immergersi completamente in luoghi senza tempo e di camminare nel silenzio tra vicoli ordinati di un centro storico dall’atmosfera medievale decorato da archi e balconi fioriti. Nel borgo lucano, la pietra è un simbolo e la sua lavorazione una tradizione millenaria che si trasmette di generazione in generazione. La si ritrova nelle gradinate e nei portali, così come nei ballatoi degli antichi palazzi e dei graziosi dettagli costruttivi che caratterizzano Guardia Perticara. Muovendosi senza fretta per il paese delle case di pietra, si notano qui e là opere magistrali realizzate dai mastri artigiani del luogo. La strada più caratteristica del borgo è Via Armando Diaz, che un tempo era conosciuta come Via dei Carbonari e che ancora oggi regala portali tutti da ammirare, ma interessanti sono anche il rosone di Casa Marra, lo stemma di Palazzo Montano ed il bassorilievo di San Nicola sul portale della Chiesa di San Nicolò Magno. O ancora la mensola in pietra di Casa Sassone oppure l’arco Vico II in piazza Europa. Piccoli gioielli artistici, icona di un luogo che tiene stretta la sua autenticità. È proprio curiosando tra questi esempi di incredibile sapienza costruttiva che si può giungere alla cima del colle dal quale Guardia Perticara si affaccia, per restare letteralmente ammaliati dalla vista che si gode dai suoi 700 metri di altitudine. La valle del sorgente Sauro si stende ai piedi del borgo, creando un paesaggio naturale davvero splendido ed imperdibile se si passa per questo angolo di Basilicata. Tra case arroccate, gradinate che si inerpicano lungo le sponde del colle, archi e fontane, gli edifici religiosi di Guardia Perticara non deludono gli appassionati di questo genere di turismo. Molte sono le interessanti storie e leggende misteriose che aleggiano attorno ai luoghi di culto del borgo, come ad esempio quella legata alla Chiesa di Sant’Antonio. Costruita tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, sembra fu voluta dall’allora principe di Brindisi Ascanio Cataldi, che fece erigere il tempio in segno di ringraziamento per il ritrovamento del figlio rapitogli. All’interno della chiesa è custodita una lapide che ricorda il ruolo della famiglia Cataldi nell’edificazione del luogo sacro, oltre che tele di Biagio Guarnacci ed altri meravigliosi dipinti e sculture lignee. È una leggenda ad aleggiare anche attorno alla Chiesa di Santa Maria di Sauro: si narra che nella pianura dell’omonimo fiume alcuni contadini avrebbero visto la Vergine su di un carro trainato da buoi. La chiesa cela infatti una statua lignea della Madonna col Bambino del XIV secolo, la quale ogni primo maggio viene trasportata in processione fino al paese, per essere ricondotta al santuario nella seconda domenica di agosto. Di valore storico ed artistico è anche la Chiesa Madre dedicata a San Nicolò Magno. Sul suo portale spicca una raffigurazione del santo, risalente al XVII secolo, mentre all’interno del santuario sono numerose le opere di interesse, come ad esempio la statua lignea di San Nicolò vescovo del diciassettesimo secolo, in onore del quale viene ogni 9 maggio celebrata la festa patronale. I dintorni di Guardia Perticara non sono meno affascinanti che il suo nucleo storico: da non perdere assolutamente le grotte basiliane, oltre che i ruderi dell’antica città di Turri ed il bosco comunale Amendola con i suoi 500 ettari di incontaminata macchia mediterranea. Guardia Perticara nel cinema Grazie alla sua suggestiva ambientazione ed alla posizione decisamente panoramica, il borgo di Guardia Perticara è stato spesso scelto come location per famosi film. Solo per citarne alcuni, nel 2010 “Basilicata coast to coast”, il primo film da regista dell’attore lucano Rocco Papaleo, ha mostrato molti angoli caratteristici del territorio lucano, tra cui appunto Guardia Perticara. Già nel 1979 però il borgo aveva ospitato le riprese del film di Francesco Rosi “Cristo si è fermato a Eboli” tratto dall’omonimo libro. Protagonista anche al cinema, Guardia Perticara è un borgo storico della Basilicata ricco di monumenti, chiese ed altre bellezze tutte da scoprire.
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gadgetsrevv · 5 years
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Badelj comeback feels right | Football Italia
Marginally missing out on a top four spot in the 2017-18 Serie A season, Lazio were eager to make their goal of Champions League football become reality the following year. To ensure their success, the Biancocelesti invested heavily, making several acquisitions in the summer transfer window to reinforce their squad. One of those new additions, Milan Badelj, seemed an outstanding move by management.
The Croatia international was an experienced individual in the top flight of Italian football and was signed on a Bosman after refusing to extend his contract with Fiorentina. Although he would be making a higher salary – a minimum of €1.5m in each of the four years until the end of his contract in 2022 – any future cash sum that would be offered for the midfielder by a buying club would automatically become capital gain.
A deal that satisfied both parties, Badelj was ready for a new adventure and Claudio Lotito’s side were ready to offer it to him. However, after just one year in Rome, the 31-year-old has likely already seen his time in the Biancocelesti jersey come to an end.
A regular starter for La Viola, Badelj looked as if he was the type of player who needed consistent minutes to find his top condition. However, being signed by Lazio following his lengthy run to the World Cup Final in Russia, he had a prolonged holiday which saw him miss pre-season with his new team. As a result, he automatically started his tenure with Le Aquile as an understudy to Lucas Leiva and it remained that way for the remainder of the 2018-19 campaign, due to competition from the various attacking and defensive alternatives for the midfield in the squad.
Despite making 26 appearances in all competitions, it never felt like he actually settled into Simone Inzaghi’s tactics and way of football in the Capital, nor did he show that he was interested in fighting for a starting position. Presumably a lack of fitness or unfamiliarity in a 3-5-2 formation, these are some of the main reasons why Badelj’s return to Florence this summer did not come as the biggest of surprises.
It’s a rare move on the market, one that makes sense for absolutely everyone concerned. Although losing an important depth player, this gives the chance for other squad members to show their worth at Lazio. In this scenario, Valon Berisha and Danilo Cataldi are perfect examples. Looking to bring his talent to one of the top leagues in Europe, the Kosovo international – who was purchased in the same transfer window as the Croatian – was hindered by injury last campaign. This kept him to just four starts and 14 appearances in all competitions, an all-time low for the former RB Salzburg midfielder. Returning to full fitness ahead of the 2019-20 campaign, he is being tested in the middle of the park in pre-season as he gets set to officially leave his mark in Italy.
As for Cataldi, the same criteria apply. Being loaned out to several sides in the past in an attempt to unlock his quality with consistent playing time, he was kept in Rome last year where he made just eight starts and 18 total appearances. This was the cause of being behind Badelj in the pecking order. However, now the Italian can be the back-up to Lucas Leiva, ready to prove that he can be the future of Lazio.
After surviving the relegation battle by just three points, it was evident that Fiorentina needed radical changes, and that started from the top. President Rocco Commisso took over to end 17 years of the Della Valle brothers – which was a huge step forward – but also lost several players in the centre of the park. Edimilson Fernandes and Gerson departed this summer after their loan spells expired, in addition to Christian Nörgaard and Jordan Veretout, who were sold. This left the midfield deprived of experience and quality.
For this reason alone, Badelj returning to Florence could not be a more suitable move for the club. Although attempting to primarily invest in youth, the former Viola midfielder will find himself feeling more at home, especially by reuniting with Coach Vincenzo Montella from their 2014-15 season together.
It is important to also note that Fiorentina do have the final call on making this loan deal permanent, so it’s all still in the balance. This is why, while turnover and change occurs, taking a chance on a player that can bring security to the team is definitely worth the risk.
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Osvaldo Giannì e la poesia popolare salentina
di Paolo Vincenti
Studioso competente quanto umile, seppe interpretare il proprio operare culturale come un servizio, nel senso più alto e nobile del termine. Non cercava le luci della ribalta, era uomo estraneo a certi protagonismi, del tutto immune alle lusinghe che l’ambiente letterario sa dispensare ai suoi protagonisti. Parliamo del professor Osvaldo Giannì, a sette anni dalla sua scomparsa.
Nato nel 1937, si era laureato in Lettere Classiche nel 1963 presso l’Università di Bari. Chiari e ben delineati i suoi interessi di studio fin dall’inizio: la lingua e la poesia dialettale salentina, in particolare tavianese. La figura di Orazio Testarotta accompagna la sua carriera. Ancor di più, quella di Sebastiano Causo, tanto che la sua bibliografia si apre e si chiude con questo nome: ne scrive su “Nuovi Orientamenti” nel 1978 e su “Presenza Taurisanese” nel 2010.  Apprezzato docente, ha insegnato per una vita Lettere, nel Ginnasio del Liceo Classico “Dante Alighieri” di Casarano.
Si coniugano in lui l’amore per la propria terra, il paesello che non abbandonò mai, e la cura filologica dello studioso di rango, che volle salvare dall’oblio il vasto repertorio delle voci popolari del suo paese, quei poeti e prosatori dialettali che dovevano essere ai suoi occhi custodi del mos maiorum. All’acribia dello studioso si univa la semplicità dell’uomo, in un connubio che anche nei periodi più duri della malattia non ebbe a dissolversi. Vecchia scuola, padroneggiava la lingua italiana con una scrittura bella, chiara, lontana da manierismi e astrusità.  È morto nel gennaio del 2012.
Del poeta salentino Orazio Testarotta (1870-1964), alias Oronzo Miggiano, autore dialettale, cieco dalla nascita, originale interprete di una poesia bozzettistico-satirica, che è filone creativo scarsamente coltivato nel corso del Novecento, Giannì è stato il principale promoter. Ha analizzato tutto il corpus delle liriche del poeta tavianese, scrivendone su riviste e anche in volume, in una delle sue pubblicazioni più importanti nel 1997[1].
Nel libro, con Presentazione di Lorenzo Ria e Prefazione di Donato Valli, Sebastiano Causo aveva tradotto le poesie in italiano. Giannì amava l’arguzia, il brio, la sagacia, l’irriverenza della poesia di Testarotta, insomma quell’ italum acetum, di cui parlavano i latini, che intride le più importanti composizioni satiriche della nostra letteratura, connotando versi e prose dei suoi rappresentanti più originali e genuini. Infatti, come scrive Giannì nell’Introduzione del suo libro, “I versi di Orazio Testarotta, pur uniformandosi letterariamente alla Stilistica e Metrica della poesia in lingua (nelle strutture compositive, nel sistema metrico e nelle figure metriche, ecc.) restano sempre satira di costume: non riflettono mai petrarchismi, romanticismi o ermetismi di sorta, anzi, idealmente contrapponendosi a tali “climi” e nozioni, e formule stilistiche, si configurano come ultima prova ed esperienza di versificazione dialettale veracemente popolare, cioè a dire realistico-burlesca. Restando l’isolato rappresentante del bozzettismo e del ‘favolismo’ satirico, 0razio Testarotta costituisce, dal dopoguerra ad oggi, nell’interno della poesia dialettale un contrappunto, ossia una ideale testimonianza di ‘opposizione’, di poesia ‘forte’, oggettiva, plastica, che rimane legata alla grande tradizione realistica, che ammette ancora una fraterna e complice consonanza coi lettori: protagonista, infatti, nell’arte di Testarotta, è il popolo, ravvisato nella multiformità dei suoi atteggiamenti mentali e nelle variegate manifestazioni del suo modus vivendi; protagonista è l’ambiente ‘paesano’ salentino (urbano e giammai paesaggistico) di cui tutta l’opera di Testarotta ci restituisce una mirabile ed esemplare oleografia (l’oleografia di un mondo popolare e piccolo-borghese).”
E quella opposizione forte, oggettiva, Giannì doveva amare, negli echi della poesia del suo concittadino, forse per un piacere intellettuale verso il duttile e variegato sistema espressivo utilizzato dal poeta, forse ancora, per unità di intenti, quella salace ironia, sorniona e sorridente, di cui egli stesso era portatore, fors’anche, se non sicuramente, per un interesse filologico, di studioso, verso quella lingua che riteneva la progenitrice della lingua italiana di cui egli era insegnante. Al Testarotta venne anche intitolato un concorso di poesia dialettale nel suo paese, a cui Giannì dedicò il libro L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi.[2]
Chi lo ha conosciuto, ha per lui parole di affetto e stima. Lo ricorda come un uomo molto colto ed un gran conversatore, il professor Antonio Lupo, già suo collega presso il Liceo “Dante Alighieri” di Casarano e poi anche Preside dello stesso Liceo. La figlia, Irene Giannì, che col padre condivide la professione di insegnante, mi dice: “Ricordo che ha amato moltissimo la poesia di Testarotta, lo faceva ridere di gusto e pensare, in un commisto di serio e faceto, che un po’ gli assomigliava.  Mio padre amava ridere e scherzare e spesso gli riusciva anche bene. E ricordo che rideva molto ‘con gli occhi’: potevi capire come e quando sarebbe insorto il sorriso semplicemente osservando il modo in cui i suoi occhi si assottigliassero poco prima che esplodesse fragorosa la risata. Certo, non aveva un carattere perfetto, sapeva arrabbiarsi e fare arrabbiare, rimproverare e farsi rimproverare, ma questo rientra nella normale considerazione delle cose. L’immagine o le immagini più autentiche che ci siano mai state di lui, per me, sono le caricature che colleghi, amici, o alunni hanno disegnato di lui: lui era così come appariva in quelle immagini…un tipo ironico e scherzoso”.
Con “A sporta picciulara” – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento,[3] Giannì intendeva sostenere una meritoria operazione di recupero e salvataggio del dialetto tavianese, colto nella parlata viva, nell’interagire quotidiano fra i nativi dialettali del secolo scorso, prima che questo enorme portato culturale, oltre che linguistico, andasse perduto del tutto, a causa della sopravanzante modernità. La sua, dunque, una vera e propria battaglia di valenza civile a difesa di quello che gli studiosi definiscono patrimonio demo-etno-antropologico di un popolo, al declino di un’era, come ultima testimonianza di una tramontante civiltà a cui Giannì evidentemente affidava i propri sentimenti di accorata nostalgia. Questo, sosteneva Giannì, era quanto egli stesso aveva tentato di fare con il volume sul Testarotta, e quanto cercava ancora di fare con questa raccolta di versi e prose in dialetto tavianese del Novecento di autori sconosciuti e fino ad allora mai pubblicati. A sporta picciulara, in dialetto, è un contenitore di gran capienza, come vuole essere appunto il libro, che raccoglie tanti materiali diversi.  Un’ode alla lingua dei nostri avi, insomma, messa a duro repentaglio dallo scorrere inesorabile del tempo e dalle innovazioni tecnologiche che esso porta con sé, primo fra tutte l’odierna comunicazione di massa.
Un’operazione che, al di là dell’intento del curatore di cristallizzare la lingua, rende il dialetto ancora caldo e palpitante di accenti e vibrazioni e moti dell’anima, che le nuove generazioni, inconsapevoli di tanta ricchezza, non riescono a cogliere.  Ma Giannì, con fermezza quasi tranchant, credeva nella necessità di congelare la lingua degli avi – parlava senza mezze misure di “ipostatizzazione linguistica” –il che, secondo me, comportava inevitabilmente anche una adesione sentimentale, sia pure malcelata, a quel mondo primigenio, per chi come lui si faceva laudator temporis acti, difensore del tempo che fu, inevitabilmente diffidente verso le innovazioni. Quello che infatti ci consegna l’opera di Giannì è uno spaccato della parlata popolare dell’ultimo Novecento, prima che questa mutasse in quella sorta di pastiche, ibridazione, quale è oggi la lingua dialettale, anche nella parlata dei più anziani, poiché troppe suggestioni, il linguaggio dei media in primis, ormai la condizionano, la snaturano, la meticciano.
Questa selezione di testi, invece, era per Giannì importante, nella sua immediatezza e genuinità, a maggior ragione in quanto anche i più noti poeti dialettali del Novecento che hanno scritto in dialetto non possono definirsi poeti dialettali, poiché hanno utilizzato un dialetto colto, raffinato, letterario, e ben pochi sono stati i poeti dialettali veri e propri, fra i quali citava il parabitano Rocco Cataldi. E al Cataldi, Giannì era unito proprio dall’amore per Orazio Testarotta. Da piccolo, Cataldi aveva conosciuto il poeta dialettale di Taviano, il quale lo ospitava volentieri nella sua casa, dove viveva solo;  un giorno, Testarotta ascoltò alcune composizioni di Rocco, che aveva trovato il coraggio di leggergliele e, dopo un lungo silenzio(come ricorda lo stesso Cataldi in un aneddoto raccontato sulla rivista “NuovAlba”[4]), il poeta disse: “E bravu lu scettu” e lo incoraggiò a continuare sulla strada intrapresa: quella frase divenne il titolo di una poesia di Cataldi dedicata proprio al Testarotta. In effetti, come spiega Donato Valli, “nell’ambito di quella che Croce chiamava poesia dialettale ‘riflessa’, esistono almeno due livelli: uno è quello della poesia dialettale dotta (è il caso del poeta di Ceglie Messapico, Pietro Gatti e del poeta magliese Nicola De Donno), l’altro è quello dei poeti che rimangono legati, nella lingua e nei contenuti, alla matrice originaria di una popolarità sentimentale ed espressiva (ed è il caso di Cataldi)”[5].
E questo filone popolaresco della poesia e della prosa, è quello riportato alla luce da Giannì, nel senso di una produzione che muove da colori, umori e sapori che sono radicati nel popolo. Come afferma Aldo D’Antico, “scrivere in dialetto non significa soltanto usare la sintassi popolare, ma assumere, quale categoria di ricerca e di espressione, l’anima del popolo, la sua saggezza antica, la sua astuzia proverbiale, la sua inarrestabile dinamica storica, sociale e politica… Il dialetto, frutto di un’elaborazione linguistica secolare e paziente … è uno dei pochi mezzi ‘puri’ rimasti al poeta per esprimere la sua disapprovazione, la sua contestazione, la sua inquietudine… Il linguaggio dialettale ha il potere di scarnificare il contenuto poetico, di renderlo essenziale, di ridurlo a parola; opera cioè una costruzione semantica fondamentale: riconduce il suono a significato culturale, ridando alla parola in sé tutto il suo potenziale espressivo.”[6]
Di Orazio Testarotta, ovvero Oronzo Miggiano, Giannì ha scritto anche su «Note di Storia e Cultura Salentina»[7]. Alla lingua degli avi, egli era talmente legato che spesso ne parlava anche ai suoi allievi, condendo le lezioni di italiano latino e greco con divertenti battute in dialetto.
L’altra figura relativa agli studi di Giannì è quella di Sebastiano Causo, poeta nativo di Taviano ma vissuto a Taranto. Intellettuale molto raffinato, per quanto appartato e schivo, eccellente poeta, aveva pubblicato circa venti libri. Era legato a Giannì (che ne traccia un commosso ricordo sulla rivista “Presenza Taurisanese”[8]) da sentimenti di personale amicizia prima che di collaborazione culturale: aveva spesso tradotto in lingua italiana le poesie dialettali studiate da Giannì.
  Negli ultimi anni, quando ormai la malattia stava prendendo il sopravvento, Giannì ha collaborato con il periodico “La Piazza”, edito nel suo comune di Taviano. “Viveva appartato, in solitudine”, mi dice lo storico Vittorio Zacchino, “specie negli ultimi anni, che sono stati rattristati dai problemi di salute, ma era persona amabile, generosa e molto disponibile nei confronti degli amici e dei colleghi”.  È ancora Irene Giannì a parlare: “la sua eredità morale coincide con la sua professione di docente, che ha svolto con correttezza e passione per quarant’anni: i suoi allievi, dai primi d’inizio carriera agli ultimi, sono i testimoni più autentici, a mio avviso, del suo lavoro, perché ancora lo ricordano e per come lo ricordano. Questa è l’eredità che mio padre ha lasciato anche alle sue nipotine, che amava tanto”. “Uno studioso serio e rigoroso”, dice di lui lo storico dell’arte Mario Cazzato, “ci fornì una preziosa collaborazione quando con Antonio Costantini e Vittorio Zacchino, stavamo lavorando al libro su Taviano”[9].
Se penso alla sua carriera, mi vengono in mente i versi di Virgilio, nelle Georgiche, “Laudato ingentia rura, exiguum colito” (Libro II, vv.412-413), cioè, “loda il campo grande (l’insegnamento dei classici greci e latini, nella sua carriera di insegnante) e coltiva il piccolo (i suoi studi sulla letteratura locale)”. Questo ha fatto Giannì, si parva licet componere magnis, unire alto e basso, in una operazione meritoria, per la quale vale serbargli grato ricordo.
  Bibliografia diacronica degli scritti di Osvaldo Giannì.
  La riforma nella scuola media secondaria di primo grado, in «18° Meridiano – periodico Indipendente», Lecce, marzo 1965, p. 8.
Sebastiano Causo –parte prima, in «Nuovi Orientamenti», a. IX, n. 48, genn-febb. 1978, Lecce, pp. 13-19.
Sebastiano Causo – parte seconda, in «Nuovi Orientamenti», a. IX, n. 49-50, marzo-giug. 1978 , Lecce, pp. 49-57.
Appunti di lettura su “Questa mia sera” – Poesie di Renato Ungaro (Gabrieli editore, Roma 1978) – parte prima, in «Nuovi Orientamenti», a. X, marzo-giug. 1979, n. 55-56, Lecce, pp. 21-33.
Appunti di lettura su “Questa mia sera” – Poesie di Renato Ungaro – parte seconda, in  «Nuovi Orientamenti», a. X, luglio-agos. 1979, n. 57, Lecce, pp. 3-7.
Un’ispirazione tesa a scoprire l’ultima ragione, recensione a Rosario Nichelini, Il fiore del nostro inverno – Poesie, Napoli 1979, in «Nuovi Orientamenti», a. XI, genn-febb. 1980, n. 60, Lecce, pp. 5-7.
Visioni ed echi di esperienza vissuta, recensione a Rosario Nichelini, Diario della memoria felice – Poesia, Napoli 1982, in «Nuovi Orientamenti», a. XIV, genn-febb. 1983, n. 78, Lecce, pp. 23-24.
L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi,  a cura di Osvaldo Giannì, Taviano, Graphosette Tipografia srl, 1984.
Ironia in forma di versi, in «Quotidiano di Lecce», a. VI, n. 192, 14 aprile 1984, pp. 16-17.
Postfazione  in Giorgio Primiceri, Divagazioni – poesie in dialetto, Matino, Tipografia San Giorgio, 1985.
Alberto Gatti, Felix – poesie, in «Nuovi Orientamenti», a. XX, nov-dic. 1989, n. 117, Lecce, pp. 35-40.
Homo artifex salutis suae (un contributo d’incentivazione), in «Bollettino d’Informazione SNALS», Lecce, 1990 .                                                                                                                                     Le satire di Orazio Testarotta, in «Apulia», Banca Popolare Pugliese, n.1, marzo 1995, Matino, pp.113-123.                                                                                                                                                        Uomo e terra nelle poesie di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», lugl-agos. 1995, Taurisano, pp.8-9.
Orazio Testarotta, poeta dialettale tavianese, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie-Otranto, vol. VII, 1995, Lecce, Argo editore, pp. 231-246.
Augusto Fonseca-Jugoslavia, Jugoslavia, in «Presenza Taurisanese», agos-settem. 1996, Taurisano, pp. 6-7.                                                                                                                                
Le Opere di Orazio Testarotta – testi editi ed inediti, a cura di Osvaldo Giannì, Galatina, Congedo editore,1996.
Contributi per una bibliografia di studiosi salentini dell’ultima generazione – parte prima, in « Note di Storia e Cultura Salentina», vol. IX, 1997, Lecce, Argo editore, pp. 121-149.
Contributi per una bibliografia di studiosi salentini dell’ultima generazione – parte seconda, in « Note di Storia e Cultura Salentina», voll. X-XI, 1998/1999, Lecce, Argo editore,  pp. 189-205.
L’antologia de «L’Albero» di Comi, recensione a Gino Pisanò, L’Albero, Bompiani, Milano, 1999, in «Presenza Taurisanese», a. XIX, ott.-nov. 1999, Taurisano, pp. 7-8.
Poesie di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», genn-febb. 2000, n. 12, Taurisano, p. 15.
Auguri letterari a Mario Marti, in «Presenza Taurisanese», nov. 2000, Taurisano, p. 5.
Stagioni dell’anno e stagioni dell’anima nella poesia di Sebastiano Causo, in «Presenza Taurisanese», sett-ott. 2001, n. 155, Taurisano, pp. 10-11.
Le poesie di Sebastiano Causo, in «Note di Storia e Cultura Salentina», vol. XIV, 2002, Lecce, Argo editore, pp. 199-232 .
Recensione a Naom Chomsky, in «Quaderni di Nuovo Spartaco», Casa Amata s.r.l., n. 1, stampe, Taviano, 2003, pp. 1-20.
Recensione a James Hillman, Il potere – come usarlo con intelligenza, in «Quaderni di Nuovo Spartaco», Casa Amata s.r.l., n. 2, stampe Taviano, 2004, pp. 1-24.
Un’operazione di salvataggio della parlata popolare di un comune salentino (Taviano) non ancora documentata, nell’archivio storico locale, relativamente all’ultimo Novecento, in «Note di Storia e Cultura Salentina», vol. XVI, 2004, Lecce, Argo editore, pp. 291-307.
A sporta picciulara – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento, a cura di Osvaldo Giannì, Taviano, Grafema Tipografia, 2004.
 Nota introduttiva, in Roberto Leopizzi, Varie, eventuali ed affini – Spilla la parte, Taviano, Grafema Tipografia, 2006, pp. 59-61.
Vero o falso? Improbabile – a proposito di un inedito di Orazio Testarotta (“Me ne strafotto”), in «La Piazza», n. 5, ott. 2006, Taviano, Grafema Tipografia, pp. 18-19.
L’importanza della Poesia oggi – un contributo d’incentivazione, «La Piazza», n. 8, dic. 2007, Grafema Tipografia, Taviano
Nota introduttiva in Giuliano D’Elena, Poesie (Parole di carne), Taviano, Grafema Tipografia, 2007
Appunti di lettura su “La leggenda di domani” di Maria Corti (Manni, Lecce 2007), in «La Piazza», n. 9, febbr. 2008, Taviano, Grafema Tipografia, pp. 12-15.
Se n’è andato per sempre – Sebastiano Causo poeta e scrittore salentino, in «Presenza Taurisanese», a. XXVIII, n. 232, lug-agos. 2010, Taurisano, p. 7.
  Note
[1] Osvaldo Giannì, Le Opere di Orazio Testarotta – testi editi ed inediti, Galatina, Congedo editore, 1997.
[2] Osvaldo Giannì, L’incontro – 3° concorso di poesia dialettale salentina – Premio Orazio Testarotta – Testi,  Taviano, Graphosette Tipografia srl, 1983.
[3] Osvaldo Giannì ,“A sporta picciulara” – testi dialettali tavianesi in versi e prosa dell’ultimo Novecento,  Taviano, Grafema Tipografia,2004.
[4] Rocco Cataldi, Il poeta e la sua terra, in «NuovAlba», numero unico, Parabita, aprile 2001, pp.14-15.
[5] Donato Valli, Sul filo dei ricordi: piccola storia di un’amicizia, in «NuovAlba»,  n.1, Parabita, aprile 2005, pp.8-9.
[6] Aldo D’antico, Prefazione, in Rocco Cataldi, “Lu Ggiudizziu  ‘niversale”, Adovos Parabita, Tipografia Martignano,1975.
[7] Osvaldo Giannì, Orazio Testarotta, poeta dialettale tavianese, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie, vol. VII, 1995, Lecce, Argo editore, pp. 231-246.
[8] Osvaldo Giannì, Se n’è andato per sempre – Sebastiano Causo poeta e scrittore salentino, in «Presenza Taurisanese», a. XXVIII, n. 232, Taurisano, luglio-agosto 2010, p. 7.
[9] A. Costantini – V. Zacchino – M. Cazzato, Taviano storia arte e territorio, Galatina, Grafiche Panico, 2005, recensito dalla stessa IRENE GIANNÌ, in «Note di Storia e Cultura Salentina», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Maglie, vol. XVII, 2006, Lecce, Argo editore, pp.343-346.
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