#La casa sotto l'acquedotto
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3- Le lavatrici
Una notte autunnale, non paghi della serata trascorsa in un pub, giravamo con l’auto di Luca, senza una meta, così, giusto per passare il tempo e magari trovare qualcuno cui rompere le scatole.
Mentre percorrevamo la via Prenestina, l’occhio malefico di Luca vede un qualcosa che non gli quadra.
Mi fa, “hai visto quelli nella traversa che abbiamo appena superato?”
Assento, “erano due donne e due uomini vicino una macchina”.
Un istante e dopo spericolata inversione di marcia ci ritroviamo nella stradina da poco superata. Avanziamo lentamente, con i fari spenti per non farci notare.
Come detto, c’erano due ragazze, piuttosto giovani, vestite con gonne cortissime. Due uomini che armeggiavano nel cofano della loro auto. Stavano cercando di scaricare una pesantissima lavatrice.
Nel prato accanto, ce ne erano almeno altre tre o quattro.
Quindi l’intenzione di abbandonarvene un’altra era chiara.
Chiedo a Luca, “che vogliamo fare?” Lui senza minimamente scomporsi, “aspettiamo che finiscono di scaricare”.
Appena la lavatrice tocca terra, si accendono i fari della nostra auto, la quale schizza in avanti a gran velocità, per arrestarsi bruscamente, con relativa sgommata, quasi a ridosso dei malcapitati.
Luca esce al volo e giocando sul ormai collaudato equivoco che porta la maggior parte della gente a scambiarci per forze dell’ordine, apostrofa gli uomini, “Beh, che vogliamo fare? Qui c’è divieto di scarico, che fate, ve la ricaricate o vi accollo pure le altre nel prato?”.
Uno dei due. Il più anziano, cerca di accampare una qualche scusa, ma assicura che se la riprendono.
“Bene”, fa Luca, “noi aspettiamo”.
Io intanto facevo una fatica immane a cercare di non sganasciarmi dalle risate, mentre con la coda dell’occhio noto una cosa un po’ strana. Le ragazze, pian piano, un passo per volta si stavano allontanando dalla scena, finché, arrivate a una certa distanza se la danno a gambe levate.
Intanto i due imprecando e sbuffando si ricaricano la lavatrice con immane fatica e la rimettono nel cofano della loro vettura.
Appena terminano, ripartiamo di gran carriera sgommando alla grande.
Appena fuori vista, scoppio di risate da mal di pancia.
Ma non è finita.
Dopo una decina di minuti, il mio compare inverte la marcia. “Che vuoi fare?” gli chiedo.
E lui tranquillamente, “voglio controllare una cosa”.
Appena imbucata nuovamente la stradina di prima, ecco che di nuovo ci sono i due uomini alle prese con la lavatrice.
“Lo sapevo!” esclama Luca. “Adesso aspettiamo che finiscono di scaricare, altrimenti non faticano abbastanza e poi mi sentono”.
E così fu.
Appena buttata la lavatrice nel prato gli arriviamo addosso con più verve di prima.
E subito, con voce incazzatissima, “Allora non ci siamo capiti! Io adesso vi faccio pagare per tutte quelle buttate, così imparate!”
Colti nuovamente in fragrante i due subito corrono a riprendere l’elettrodomestico appena buttato.
Giurando e spergiurando, “no, per carità, la riprendiamo e andiamo via.”
Con rivoli di sudore che gli inzuppava ad entrambi la camicia, tra un impropero e l’altro, fatti a mezza bocca, caricano nuovamente il pesante fardello.
Finito il carico salgono in macchina e si allontanano.
Stavolta non ci muoviamo per essere certi che non tornino. Ovviamente risate a crepapelle.
Poi mi torna in mente un particolare. “Luca, ma le due ragazze che fine hanno fatto?”
Ci guardiamo con aria interrogativa, ma l’unica ipotesi che ci viene in mente è che fossero due prostitute e che per tanto se la sono squagliata.
Bene, così oltre ad averli fatti faticare per aver cercato di imbrattare ancor di più la pubblica via, gli abbiamo rovinato pure la serata, punizione più che meritata.
Riprendiamo il nostro girovagare, anche se guardandoci in faccia, quasi in coro ce ne usciamo con…”io ciò fame”.
Erano più o meno le due di notte, quindi trovare locali aperti abbastanza difficile, allora direzione Porta Maggiore.
Qui chiosco mobile. Paninaro notturno, detto lo zozzone, per motivi che lascio all’immaginazione.
Con poche lire ci si può fare un panino con salsiccia, wurstel, hamburger, bistecca. Ci si poteva aggiungere praticamente di tutto. Tipo melanzane sott’olio, carciofini, cipolle, crauti, pomodori secchi ecc. ecc., immancabili ovviamente le più svariate salse.
Alla fine, veniva fuori una cosa che più che un panino era una vera bomba.
Per mangiarlo era un’impresa, non si riusciva a morderlo, lo schiacciavi e usciva roba dappertutto, ovviamente scolava olio e salsa dovunque, impossibile non imbrattarsi. Il tutto veniva aiutato a scendere da una bella birra gelata.
Cerchiamo in qualche modo di togliere l’unto dalle mani, prima di rimontare in auto, ma non era facile.
Ripartiamo, un giro veloce all’Esquilino, piazza Vittorio e poi visto che la notte ormai pareva morente, decidiamo di chiuderla li.
Luca mi riporta a casa, dove Silly mi sta aspettando per saltarmi addosso e farmi le feste.
Ci salutiamo e resto qualche minuto a fare un po’ di coccole al cane.
Rientrato in casa, tolgo i vestiti, una sciacquata e letteralmente un tuffo nel letto.
La stanchezza è tanta, ma il sonno tarda a venire, ancora ronzano nella mente gli eventi della serata.
Alla fine, mi addormento, con un sorriso di soddisfazione sul viso.
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Io sono tempesta
Sono pioggia stanotte
mi senti come batto forte sulla tua testa
come premo stringente sul tuo ventre svuotato?
Credi di potermi fermare
credi davvero che il tono della tua voce possa essere una stupida paratia
Io scivolo via, oramai lontano da te
passo attraverso gli stipiti delle tue fragili ossa
Scendo giù nei sotterranei della tua mente ed invado
Sono uragano
sono alberi divelti come fuscelli
sono navi rovesciate, spazzate via come foglie
sono spiagge dorate divorate e case senza tetti che navigano
vite che galleggiano su strade che si fanno fiumi
che parlano di noi come morti.
Sono tempesta, e poi tuoni e poi fulmini
e gorghi che inghiottono ricordi
e pensieri assunti a regali, anelli d’oro, bracciali
fedi di legami dissolti, di promesse non mantenute,
amori passati finiti, abbandonati, come figli sulla strada
sfigurati di rughe e tristezze.
Ieri, oggi e domani, questo sono.
E tu non ne hai paura.
(testo: PatrizioT © - foto Tony Frissell)
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La cronaca dell' Aqua "granda" - Venezia 1966
Il 4 novembre del 1966 è il giorno dell'Aqua granda, un'acqua così alta non si ricordava a memoria d'uomo. Venezia è quasi completamente sommersa dall'acqua del mare Adriatico in tempesta. Di seguito un testo denso e sofferto (che è anche lezione di scrittura) ormai introvabile scritto da Giulio Obici, redattore allora di Paese Sera, nel 1967. E nel 2019 siamo ancora qui, come nulla fosse stato.
Ore 18: una prova decisiva per la città
Alle 18, il calcolo delle ore trascorse sottacqua poteva dare un'intuizione dei danni e dei disagi già sofferti, e quello delle probabilità era paurosamente aperto: l'alta marea aveva invaso Venezia alle 22 del 3 novembre, elevandosi con un'impennata prepotente, e alle 5 del mattino successivo avrebbe dovuto, secondo le regole astronomiche, ritirarsi in buon ordine, magari per ritornare più tardi, cioè sei ore dopo. Alle 5, invece, la marea non ebbe che una tenue flessione, scoprendo appena qualche zolla d'asciutto: la laguna non era riuscita ad espellerla. Un primo allarme era scattato. Verso il mezzogiorno, in coincidenza con la nuova onda di marea, le acque, già gonfie, si gonfiarono ancora, recuperando il terreno perduto ed elevando ulteriormente la propria altezza in quello mai abbandonato. Saltavano i telefoni, spariva la luce elettrica e, in molte case, anche il gas: in quasi tutte le zone della città, pur se muniti di alti stivaloni, era impossibile transitare: qualche barca, sotto la pioggia e un caldo sciroccale, ramingava per calli e campi. Venezia, nel buio più completo, affrontava la sera, attendendo le ore 18 - che avrebbero dovuto segnare il secondo e ultimo deflusso di quel giorno - come si attende una prova decisiva. Il dramma in corso, che negli stessi attimi stava sconvolgendo per altre vie altre città e paesi, a Venezia poteva essere seguito e controllato sulle lancette dell'orologio, nella ricerca sottilmente angosciante della conferma che le regole e i tempi che governano la vita lagunare non erano stati del tutto sovvertiti. A Firenze - per spiegarci - il dramma non aveva né tempi né regole da infrangere: era un evento brutale, ingiusto, totalmente abnorme. A Venezia, per devastante che fosse, poteva essere mentalmente contenuto nello schema di un'ipotesi da secoli verificata, e così seguito con una terribile lucidità e con la consapevolezza di ogni minuto che scorreva e di ogni centimetro che le acque si guadagnavano nella loro crescita. Anche la gente che abita i pianterreni e che ormai aveva inutilmente accatastato mobile sopra mobile, non combatteva soltanto contro le acque, ma anche contro il tempo: se Venezia era Venezia, quella devastazione doveva pur cessare. Quasi a rendere più lucido, più percettibile, lo scorrere delle ore, la sommersione progrediva senza fragore di rotte, in un silenzio assoluto. Ingiusto e giusto, irregolare e regolare, il dramma soffocava la bestemmia e induceva alla speranza.
La prova fallisce
Calata la precoce notte di novembre, bloccate le luci, rotto ogni contatto con il mondo che non fosse quello delle radiole a transistor, che tuttavia non restituivano ai Veneziani un'immagine probabile della loro vicenda, si attese l'ultima prova a cui la città e la sua laguna erano chiamate. La prova fallì: ancora una volta la marea non fu espulsa. Anzi - invertendo ogni regola e sconvolgendo ogni tradizione - proprio nel momento in cui avrebbe dovuto calare, riprese a salire. A quel punto - erano le 18 - l'incolumità di Venezia parve vacillare. Stavolta la minaccia non sorvolava la città: vi si era installata e vi maturava; non veniva da fuori per poi seguire prevedibili migrazioni, ma muoveva dal di dentro, dal corpo stesso di Venezia, e per giunta aveva acquisito i caratteri di un fenomeno inarrestabile. Che cosa era successo? Nella generale paralisi, che fin dalla mattina aveva coinvolto anche i telefoni, lo stupore o la disperazione erano rincarate da una paurosa incognita: verso sera, tutti avvertirono che un equilibrio plurisecolare si era rotto, che la città e la laguna avevano smarrito un anello, chi sa quale, del loro delicato ingranaggio. Nessuno, tranne pochi e i pubblici istituti (che in quelle ore parevano essersi diluiti nella marea), sapeva ancora che là, sui litorali, il mare aveva compiuto un disastro che nemmeno la guerra era riuscita a seminare: le difese costiere, tra cui i murazzi, erano scoppiate.
I litorali cedono: il mare tracima in laguna
Scoppiate e rase al suolo. Mentre Venezia affogava nella laguna e in un'attesa lacerante, sul cordone litoraneo si fuggiva. Qui la regola non conosce né ritmi né tempi: è una precisa demarcazione tra laguna e mare. Quel giorno, questa demarcazione non esisteva più: le onde marine, alimentate da un forte scirocco, si congiungevano alle acque lagunari valicando la fascia costiera anche nei tratti più estesi. Non era mai successo. Il Cavallino, che è una penisola tutta orti vigneti e campi, giaceva sotto una coltre di acqua salsa agitata da violente e altissime onde: addio alle coltivazioni per chi sa quanti anni. Decimato il bestiame, macchine agricole spazzate via e non più ritrovate. Invocazioni - si raccontò poi - di gente terrorizzata: qualche fuga in barca là dove prima c'era terra. Il Cavallino, come barriera naturale, non esisteva più: e infatti, l'isola di Burano, che gli sta alle spalle, veniva percossa da ondate paurose, come se d'improvviso si fosse trovata in mare aperto: anche qui la mareggiata entrava nelle case, sparivano la luce e il telefono, le barche si perdevano alla deriva; per di più, saltava anche l'acquedotto. La laguna ha una sentinella, l'isola di S. Erasmo: collocato proprio in faccia alla bocca del porto di Lido, vigila sulle acque che il mare vi incanala e le frena. Quel giorno, l'isola (mille abitanti) era scomparsa sotto ondate alte fino a quattro metri: molte case si svuotarono dei mobili, trascinati via dalle acque. Più oltre, lungo il Lido, la mareggiata decimava le strutture balneari, squassando centinaia di cabine e strappando la sabbia alle spiagge: alcune falle si aprivano sul primo tratto dei murazzi. Ma per i murazzi il vero disastro accadeva più in là, dove il cordone litoraneo si assottiglia ed essi diventano l'unico diaframma che divide il mare dalla laguna. Eretti dalla Repubblica Veneta due secoli or sono, furono concepiti e battezzati come le mura di Venezia contro le insidie dell'Adriatico. Accovacciate ai loro piedi, si stendono due borgate di pescatori e ortolani, settemila persone: San Pietro in Volta e Pellestrina, che se oggi sono ancora là è un vero miracolo. Le mura di Venezia, il 4 novembre, si sono aperte in una decina di punti per un totale di ottanta metri e per altri seicento si sono slabbrate o lesionate o incrinate. Agli abitanti del luogo parve giunta la fine del mondo: fin che il telefono funzionò, invocarono aiuto da Venezia, poi fuggirono in barca alla volta del Lido. Quando Venezia raggiunse le due borgate con una motozattera e alcuni vapori metà della popolazione era già scappata via. A sera mentre il mare continuava a sbriciolare le colossali mura, Pellestrina era pressoché deserta.
Un capitolo ignorato dal centro storico
I Veneziani del centro storico, sequestrati dalla marea, ignorarono questo capitolo del 4 novembre fino all'alba del giorno dopo. E forse fu addirittura una fortuna: poteva anche accendersi la scintilla del panico, e allora la paura del mare sarebbe corsa più in fretta della corrente. Però a chi abita sul bacino di San Marco quelle onde che ingobbivano la laguna e finivano per infrangersi sotto le arcate del Palazzo Ducale, dovettero portare un lugubre presentimento. Un gondoliere ci disse più tardi: -Credevo che il mare fosse arrivato fin qua-. E un vecchio che abita un pianoterra della Giudecca dichiarò a un cronista: -Avevo la sensazione che il mare volesse riempirmi la casa -. La verità è che, se il vento non fosse caduto improvvisamente e la mareggiata avesse potuto continuare anche per poco nella sua opera di distruzione, il mare avrebbe dilagato e messo a dura prova il centro storico. Le fondamenta dei vecchi palazzi, delle vecchie case, per le quali è un pericolo anche lo sciacquio del moto ondoso provocato dai natanti, avrebbero resistito? Per fortuna il vento cadde in tempo perché la dimostrazione del 4 novembre non si spiegasse per intero.
Un rito funebre sulla città agonizzante
Quando, verso le 21, ormai contro ogni attesa, le acque cominciarono a scemare, più d'uno dovette credere al miracolo. Il ritorno così tardivo alla regola fu un altro colpo di scena, un altro repentino voltafaccia. Così come era montata, la marea se ne usciva dalla città, improvvisamente e con una violenza pari a quella del suo accesso. Aveva raggiunto l'inedita altezza di un metro e novantaquattro centimetri sopra il livello medio del mare, devastato tutti i negozi della città, invaso tutte le abitazioni a piano terra, danneggiato quasi tutte le imprese artigianali, strappato la nafta a centinaia di caldaie, inzuppato e deteriorato un numero incalcolabile di libri nelle biblioteche, distrutto merci nei magazzini, mobili nelle case, atti pubblici in molti uffici. In ventiquattr'ore di assoluto dominio, le acque avevano dato la loro terribile dimostrazione e adesso potevano ritirarsi, restituendo ai Veneziani un'altra Venezia, di cui un po' tutti - potendosi infine riversare nelle strade improvvisamente accessibili - sentirono il bisogno di riprendere possesso. Il 4 novembre si concluse con un'immagine iperbolica, eppure lucidamente esatta. Nel buio profondo, senza luna, in cui la città era immersa, più che vedere si intravedeva: ecco la sagoma di una barca in una calle, muri listati a lutto da un segno nero di nafta, materassi sedie mobili immondizie sparsi dovunque, colombi e topi morti a ogni angolo di calle, desolazione nelle case a pianoterra. E su questo uniforme e immobile fondale, ecco centinaia di fiammelle, che lo percorrevano senza illuminarlo. I Veneziani, al lume di candela, perlustravano i luoghi della devastazione: eppure sembrava proprio che celebrassero un collettivo, struggente rito funebre sulla loro città agonizzante
Giulio Obici, Paese Sera, 1967 ©
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Facebook, pomeriggio
Noi-come-loro: “Se hai anche tu un amico ergastolano condividi questo post. Se credi anche tu che non si possa giudicare qualcuno solo perché ha fatto a pezzi il papà e la mamma seppellendoli nel giardino di casa, condividi questo post. Se anche tu ti batti contro la discriminazione verso chi ha dato fuoco alla suocera e non lo abbiamo mai ascoltato davvero, condividi questo post. Se anche tu non ti vergogni di avere un amico che ha messo una bomba sotto un viadotto ed è stato relegato ai margini della società solo perché casualmente sul viadotto stava passando un pullman di bambini, condividi questo post. Se anche tu credi che non si possa odiare qualcuno solo perché ha avvelenato l'acquedotto della città vicina, senza conoscerne nemmeno le motivazioni, condividi questo post.”
Mariulin: “Scusate ma non condivido…” Noi-come-loro: “Hai dei pregiudizi allora…” Mariulin: “Sì qualcuno ce l'ho.” Noi-come-loro: “Razzista!”
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Da San Giovanni a San Pietro, passando per la stazione Termini, Roma appare come una distesa infinita di accampamenti abusivi. Parchi, tunnel o sottopassaggi, ogni anfratto va bene per i clochard che cercano un posto dove ripararsi dal freddo, anche a rischio della propria vita. Dopo l’omicidio della senzatetto brasiliana uccisa a Porta Pia, infatti, sono in molti ad avere paura di vivere in strada. Ma nonostante i continui sgomberi effettuati dalla polizia municipale, l’amministrazione pentastellata non sembra riuscire a trovare una soluzione per l’esercito di invisibili che si rifugia nelle strade della Capitale. Le favelas dell’Acquedotto di Nerone A via di Santa Croce in Gerusalemme, a poche centinaia di metri dalla Basilica di San Giovanni in Laterano, il 18 ottobre scorso la Sezione Pronto Intervento Centro Storico della Polizia Locale, ha effettuato l’ennesima operazione di bonifica degli accampamenti di migranti e sbandati che erano sorti sotto i resti dell’acquedotto di Nerone, costruito per rifornire il ninfeo e il lago della Domus Aurea. Ma a distanza di poche settimane la situazione è tornata esattamente come prima. Sono le tre del pomeriggio quando ci inoltriamo in questa piccola area verde e, sotto gli archi, l'acquedotto è pieno di sporcizia, cartoni e coperte. Un ragazzo, forse bengalese, sta dormendo avvolto in un plaid.“Sto riposando, tra poco devo andare al lavoro”, ci dice dopo essersi svegliato al suono dei nostri passi. “Qui ci sono gli indiani, ma arrivano la sera, soltanto per dormire”, ci spiegano tre ragazzi, anche loro del Bangladesh, intenti a fumare hashish. Qui, raccontano i residenti, lo spaccio è all’ordine del giorno. Tra coloro che qui ci vivono o ci lavorano, cresce la preoccupazione. “Io sono di Napoli ma, ormai, Roma è molto peggio di Napoli”, si sfoga un barista a telecamere spente. E non mancano gli atti di vandalismo. “Qualche sera fa sono stati incendiati gli ombrelloni di un ristorante e hanno tolto una gomma ad una macchina”, denuncia una signora che abita a poche decine di metri dal parco. Stazione Termini, tra degrado ed emergenza freddo Ci spostiamo alla Stazione Termini, il principale snodo ferroviario della Capitale. Qui la situazione è ancora più drammatica. Le ripetute bonifiche non hanno sortito alcun effetto, come confermano i residenti del quartiere Esquilino. L’ultima risale alla fine di ottobre, ma, complice il freddo, dopo il tramonto, via Marsala si trasforma in una distesa di cartoni e coperte. “Più che di decoro è una questione di umanità: non è umano vedere questa fila interminabile di persone distese sui cartoni, fino a ieri non avevano neanche le coperte”, ci dice un ragazzo che lavora nei pressi della stazione. Sono più di cinquanta i senzatetto, per la maggior parte africani, che passano la notte qui o nel vicino Sottopasso Turbigo, dove tra le colonne e le auto che sfrecciano veloci c’è chi si prepara per la notte, cercando di ripararsi dal gelo alla meno peggio. Un senzatetto italiano che vive in un ostello lì vicino ci avverte: “Qui è pericoloso, bevono tutti ed ogni sera scoppia una rissa”. Mentre parliamo due agenti dell’Italpol cercano di allontanare una coppia di clochard visibilmente ubriachi. “È così tutti i giorni”, ci dice alzando le spalle mentre si incammina verso la vicina mensa della Caritas.San Pietro, decine di clochard nei sottopassaggi del Terminal Gianicolo“Oggi sono venuti i carabinieri, ci hanno detto di andare via, noi abbiamo preso le nostre cose abbiamo aspettato un po’ e poi siamo tornati”. Kasper, un clochard polacco che vive nel sottopassaggio del Terminal Gianicolo, vicino alla Basilica di San Pietro, scoppia a ridere (guarda il video). “È divertente, ma non per me”, aggiunge. Ma stavolta nella sua voce c’è un velo di malinconia. Abita qui da qualche mese assieme alla sua cagnolina. Questo tunnel che porta al terminal dove stazionano i bus turistici diretti a San Pietro era stato bonificato all’inizio dell’estate dalla polizia locale e ora è tornato ad essere il rifugio di decine di senzatetto. “A volte siamo dieci, a volte quindici”, ci spiega Richard, un ragazzo lettone, arrivato in Italia dalla Germania per trovare lavoro. Il lavoro non l’ha trovato, e neanche la casa. Così, mentre sogna un futuro in Inghilterra, è finito a vivere nelle viscere della città, a due passi dalle Mura Vaticane. Com’è vivere per strada? “È freddo, ma non abbiamo paura”. “Cosa potrebbe succederci di peggio?”, ci domanda abbozzando un sorriso.“Ci sgomberano, ma fuori fa freddo e quindi torniamo qui” ci spiega, “non c'è logica nel modo in cui ci trattano, non rubiamo, non siamo aggressivi, qualche volta capita che qualcuno beva troppo e finisce a cazzotti, ma niente di più”.[video 1468901]In fuga da Porta Pia: "Lì temevo per la mia vita"Poco più in là riconosciamo una clochard colombiana che avevamo incontrato nei sottopassaggi di Porta Pia. Dopo l’uccisione di Norma Maria ha deciso di fuggire, terrorizzata dall’idea di poter fare la stessa fine della sua amica. "Quell’uomo veniva dietro anche a me sapete?”, ci confessa. “Quel giorno Norma Maria forse era ubriaca, lui l'ha portata lì e l'ha uccisa", racconta spaventata. E aggiunge: “Ho visto su internet le immagini della sua testa fracassata, sono rimasta sconvolta, così sono scappata e da cinque giorni ormai dormo qui”. “I miei vestiti sono ancora tutti là, ma non importa”, ci dice sorridendo. Ma è un sorriso amaro. “Anche se la gente ci passa davanti turandosi il naso e guardandoci come se fossimo porcheria, io preferisco vivere", conclude con gli occhi lucidi per il dolore. Le luci della città iniziano a spegnersi e gli angoli delle strade a popolarsi di senza fissa dimora. E in molti si chiedono se l’amministrazione capitolina, oltre a programmare continui sgomberi spot, sarà capace di trovare una soluzione concreta prima che un altro invisibile della strada perda la vita (guarda le foto).[gallery 1468836]
Le nuove favelas di Roma Da San Giovanni a San Pietro, passando per la stazione Termini, Roma appare come una distesa infinita di accampamenti abusivi.
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2- Le catacombe
Qualche sera dopo, organizzammo una visita guidata alle catacombe. Ovvero un tratto delle catacombe di S. Castulo, tagliato fuori dal resto del complesso, durante la costruzione della linea ferroviaria Roma - Civitavecchia.
L’ingresso era nella sede ferroviaria, a qualche decina di metri dalla casa.
Si poteva accedere tramite un cancelletto che era da qualche tempo rotto.
Scendendo una ripida scalinata ci si ritrovava nei corridoi delle catacombe.
Quella sera eravamo in compagnia di alcuni ragazzi e di qualche ragazza su cui volevamo far colpo.
Scendiamo, con Luca che apre la strada ed io che chiudo la coda.
Armati di torce elettriche, esploriamo i vari corridoi.
Alcuni mostravano i segni di cedimento, con terra caduta dalla volta.
Pesante odore di umido, di marcio.
Scherzi e battute non mancavano certo, tanto per tenere allegra la comitiva.
Alla fine di uno dei corridoi facciamo una piccola scoperta.
Resti umani, teschi e ossa che biancheggiano in un angolo ben riposti, come accatastati.
Si vedevano bene almeno cinque teschi.
Lì la domanda ci sorse spontanea: è normale che ci siano resti umani lasciati così? Incustoditi e alla portata di tutti?
Allora un lampo di genio di Luca.
“Chiamiamo i carabinieri e li avvisiamo”.
Detto fatto.
La chiamata al 112 è rapida e concisa, spiega all’operatore che abbiamo trovato queste ossa e almeno cinque teschi, comunica l’indirizzo e termina la chiamata.
Usciamo e torniamo sulla strada per attendere le forze dell’ordine.
Passano alcuni minuti e si scatena il panico.
Due gazzelle dei carabinieri, una pantera della polizia di stato, un volante della polizia municipale.
Tutte a sirene spiegate che s’infilano quasi a incastrarsi nella stretta viuzza.
Una miriade di lampeggianti che illuminano di blu, con intermittenza i dintorni.
Scende di corsa un appuntato dei carabinieri che a passo svelto avanza verso di noi e subito chiede:
“Dove sono le teste tagliate?”
“Teste tagliate?” Facciamo noi quasi in coro.
Lì subito il dubbio ci assale, ma che cavolo hanno capito?
Un buon quarto d’ora di spiegazioni serve per cercare di dipanare il malinteso, niente omicidi con decapitazione multipla, solo resti d’un sito archeologico.
Poi li accompagniamo sul luogo del ritrovamento e mentre loro fanno gli accertamenti che devono, noi pian piano, dissimulando non curanza, ci allontaniamo, fino a eclissarci.
Naturalmente appena fuori vista la risata generale scoppia fragorosa.
Ridere fino alle lacrime. Fino quasi a farsi venire i crampi.
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1- L’inizio
Era il lontano millenovecento novantuno, Roma. Avevo quasi ventisei anni. Il mondo pareva il mio. Andai a vivere da solo, in una casa, piuttosto spartana, situata sotto l’acquedotto Felice, quasi sopra la linea ferroviaria Roma – Grosseto, lì ho passato gli anni più belli e intensi della mia vita.
La casa era composta da ben tre stanze da letto (altre tipologie di stanza allora sembrava non fossero necessarie), un bagno e una cucina. Aveva un cortile piuttosto ampio e un garage. Il cortile era il regno del mio cane, Silly, una meticcia di taglia medio-grande, pelo lungo marroncino, orecchie con punta piegata in avanti e muso da collie. Occhi dolci che, tenerissima. Purtroppo, era una gran paurosa, per questo attaccava tutti, dovevo stare sempre allerta. Solo un ristretto manipolo di amici poteva avvicinarsi tranquillamente, Luca ovviamente, Roberto, Fabio e Piero. Per tutti gli altri era un problema.
Come dicevo la casa era molto spartana, quasi rustica.
Per uno scapolo però era il massimo.
Le visite di amici, diurne e notturne non mancavano mai.
Si organizzavano cene, feste, riunioni di vario genere.
In un angolo c’era uno zaino sempre pronto per partire, sia per escursioni montane o per interventi di protezione civile.
Ci vivevo solo, ma a due passi abitavano i miei genitori, la mia splendida mamma, per un piatto di pasta al volo c’era sempre.
Qui potevo dare sfogo ai miei hobby e alle mie passioni.
Potevo leggere i miei libri preferiti in santa pace, montare e smontare computer.
Mi ero perfino attrezzato per rendere la cucina una funzionale camera oscura, dove poter sviluppare e stampare le mie foto.
Sì, la fotografia era una delle mie passioni, non perdevo occasione per andare in giro per la città a scattare foto diurne e notturne, oppure in cerca di modelle da fotografare.
Avevo coinvolto un po’ in questa passione anche Luca, uno degli amici che era di…casa in casa mia. Più che amici, praticamente fratelli se pur con genitori diversi. Avevamo cinque anni di differenza, ma la cosa non dava pensiero, lui pareva un vulcano, il classico tipo che una ne pensa e cento ne fa.
Una vera testa matta, con lui non ci si annoiava mai.
Avevamo creato un’intesa perfetta, ci bastava uno sguardo e subito al volo si reggeva il gioco l’un l’altro.
Una notte, sul tardi mentre dormivo il campanello inizia a suonare insistente.
Mi strappa letteralmente dal mondo dei sogni.
Arranco per affacciarmi a vedere chi era, ma vista l’ora tarda un’idea già l’avevo.
Come volevasi dimostrare era Luca, in splendida compagnia, due ragazze, una mora e una bionda, molto giovani e carine, ma andiamo per ordine, non corriamo di questa storia parlerò dopo.
Ogni sera ci si sentiva per telefono, no cellulare, ancora non erano diffusi come ora.
Ci s’incontrava e si stabiliva il dafarsi per la serata.
Luca aveva da poco comprato una macchina nuova, un’Alfa 33 verde bottiglia, fiammante.
Subito avevamo istallato sul tettuccio un antennino, molto simile a quello delle auto civetta delle forze dell’ordine, collegato a una radio trasmittente comunemente detto “baracchino”.
Si parte per andare a bagnare l’acquisto.
Un giro per Roma di notte. Luci, colori, gente d’ogni tipo e razza Caleidoscopica città che sa’ di magico.
Peccato che quando scendiamo per entrare in un pub dove bere alla salute della macchina, nello scendere mi rimane in mano la maniglia interna dello sportello, risultata difettosa.
Incazzatura pazzesca ovviamente. Doppia birra per ingoiare il rospo. Poi si riparte.
Il giorno seguente subito dal concessionario per far riparare il danno, con naturale litigata perché non volevano farlo passare in garanzia.
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