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Locc inequalities quantumness gravity
Come rivelare la natura quantistica della gravità, attraverso esperimenti con oscillatori armonici quantistici. In uno studio pubblicato questo mese su Physical Rewiew X, un gruppo di ricercatori guidato dall’italiano Ludovico Lami dell’Università di Amsterdam (Paesi Bassi) è riuscito a teorizzare, per comprendere se la gravità abbia o meno una natura quantistica, una serie di esperimenti dove l’entanglement non è il protagonista.
Ludovico Lami, fisico, primo autore dello studio pubblicato su Physical Review X. Originario di Pisa, dopo la laurea alla Scuola Normale, un dottorato a Barcellona, due post-doc a Nottingham (Regno Unito) e in Germania, ora è assistant professor all’Università di Amsterdam. Crediti: QuSoft Cercare di comprendere quale sia la natura della forza di gravità è una delle sfide della fisica moderna. È una forza quantistica? Oppure è una forza “classica”, per cui una descrizione geometrica su larga scala è sufficiente? O è qualcosa di ancora diverso? Fino ad ora, tutte le proposte sperimentali per rispondere a queste domande si sono basate sulla creazione del fenomeno quantistico dell’entanglement tra masse pesanti e macroscopiche. Ma più un oggetto è pesante, più tende a perdere le sue caratteristiche quantistiche e diventare “classico”, rendendo incredibilmente difficile far comportare una massa pesante come una particella quantistica. Sembrerebbe dunque di essere in una sorta di vicolo cieco: abbiamo teoricamente uno strumento, l’entanglement, che potrebbe aiutarci a chiarire dubbi fondamentali sulla natura della gravità, ma non riusciamo a mettere in piedi alcun esperimento, per adesso, che ci possa aiutare a raggiungere un tanto agognato responso. Ora potrebbe esserci un piccolo spiraglio, seppur ancora teorico, di via d’uscita: un articolo pubblicato questo mese su Physical Rewiew X da Ludovico Lami dell’Università di Amsterdam (Paesi Bassi) e Julen Pedernales e Martin B. Plenio, due fisici dell’Università di Ulm (Germania) propone un modo alternativo per testare la natura della gravità. Qual è questa proposta? Quale idea ci sta dietro? Lo abbiamo chiesto al primo autore dell’articolo, Ludovico Lami appunto, fisico originario di Pisa, laurea alla Scuola Normale, dottorato a Barcellona, due postdoc a Nottingham (Regno Unito) e in Germania e oggi assistant professor all’Università di Amsterdam. Lo scopo del vostro studio è rivelare la “quantumness of gravity”. Di che si tratta? E come la tradurrebbe in italiano? «La natura quantistica della gravità, non c’è traduzione migliore. Semplicemente, si tratta di capire se l’interazione gravitazionale tra sistemi quantistici è quantistica, più genericamente non classica, oppure è descritta, come dice Einstein, da un campo puramente classico». Quindi il vostro obiettivo è trovare un modo per mettere alla prova questa natura quantistica della gravità? «In realtà si dovrebbe dire più accuratamente non classica. Questo perché l’esperimento che proponiamo non confermerebbe la natura quantistica della gravità: il suo scopo principale è confutare la sua natura puramente classica. L’esperimento potrebbe anche fornire indizi a supporto del fatto che sia quantistica, ma appunto, lo scopo primo è falsificare l’ipotesi che sia un campo classico a mediare le interazioni gravitazionali». Dagli studi precedenti sembrava che gli unici esperimenti possibili dovessero basarsi sul fenomeno dell’entanglement. In che modo? «Il metodo che fa affidamento sull’entanglement è stato proposto da Richard Feynman in una famosa conferenza a Chapel Hill nel 1957 e si basa su un’idea abbastanza semplice. Praticamente, si prende una massa sorgente che può trovarsi in uno stato di sovrapposizione, cioè sostanzialmente può trovarsi in due punti diversi dello spazio (immaginiamo uno a destra e uno a sinistra). Poi si considera di avere un’altra massa di test. Come si comporterà quest’ultima? Verrà attratta dalla massa precedente. Ma poiché la massa sorgente può trovarsi in due punti diversi dello spazio, avremo che la massa di test entrerà in uno stato di sovrapposizione anch’essa. Si forma perciò uno stato entangled: se la massa sorgente è a sinistra, la massa di test viene attratta a sinistra, se la massa sorgente è a destra viene attratta a destra. Perciò se in qualche modo possiamo certificare che l’unica interazione fra la massa sorgente e quella di test è la gravità e si è formato entanglement, allora vuol dire che il campo gravitazionale della massa sorgente è entrato in una sovrapposizione anch’esso, dunque non potrebbe avere una natura semplicemente classica». E questo tipo di esperimento ha portato a qualche risultato concreto? «No, perché si sta parlando di esperimenti estremamente complicati da realizzare. Per essere posta in uno stato quantistico di sovrapposizione, la massa deve essere molto piccola. Questo perché questi stati quantistici sono assai fragili, perciò è necessario che la massa sia completamente isolata, cioè si trovi in uno stato delocalizzato. Questo però non si riesce a fare per una massa abbastanza grande da generare un campo gravitazionale misurabile».
Schema della bilancia di torsione utilizzata da Henry Cavendish nel 1797 per misurare la forza di gravità. Analoghi “oscillatori armonici” potrebbero ora essere utilizzati per rivelare la natura quantistica della gravità Il vostro approccio invece qual è? «Quello che Feymann intendeva dire con il suo esperimento è che, se la gravità è classica, si comporta come un sistema puramente classico che però parla localmente con i due sistemi quantistici. Questo paradigma di due soggetti quantistici che comunicano attraverso un canale classico prende il nome di paradigma Locc (Local Operations and Classical Communication). Dunque, quello che diciamo nel nostro articolo è: partendo dal presupposto che se la gravità è classica agisce come una Locc, riusciamo a trovare delle condizioni a cui queste Locc devono per forza obbedire? E riusciamo a progettare un esperimento che potenzialmente violi queste condizioni? Quindi quello che noi deriviamo sono le condizioni che una qualunque dinamica su un sistema bipartito deve avere se vuole essere Locc. Noi, perciò, progettiamo un esperimento che cerchi di testare se queste condizioni, che chiamiamo Locc inequalities, siano verificate o meno». Ma concretamente in cosa consiste? «Allora questa è l’idea generale dell’esperimento. Poi noi nell’articolo consideriamo anche un’implementazione specifica, però, secondo me, è importante dire che indipendentemente dall’implementazione il concetto dell’esperimento è generale. Comunque, l’applicazione specifica di cui noi parliamo nell’articolo è molto semplice: prendiamo n oscillatori armonici quantistici, cioè n “massine” attaccate a molle quantistiche, che essendo dotate di massa interagiscono con la gravità. Le prepariamo in quelli che in fisica chiamiamo stati coerenti, stati molto classici ed estremamente facili da preparare. Le masse iniziano ad oscillare e si influenzano a vicenda, ma nonostante interagiscano tra di loro, dopo l’interazione rimangono ancora degli stati coerenti: non si è creato entanglement. Quello che noi riusciamo a dimostrare è che questa dinamica sul sistema quantistico non è una Locc. Quindi, sostanzialmente, l’esperimento funziona così: si prendono degli oscillatori armonici, noi abbiamo preso per esempio dei pendoli a torsione, si osserva quello che succede e si cerca di verificare che questa dinamica non sia compatibile con un campo gravitazionale puramente classico». Ma è tutto teorico o si potrebbe realizzare? Che cosa manca per farlo? «Sì, per ora è soltanto una proposta. Sostanzialmente quello che manca sono degli oscillatori di qualità. Infatti, prima di tutto bisognerebbe raffreddarli fino allo stato vicino al vuoto. Poi occorrerebbe conoscere con estrema precisione le frequenze di oscillazione, che tra l’altro dovrebbero essere molto basse, affinché gli oscillatori abbiano il tempo di influenzarsi. Io sono un teorico, non uno sperimentale, però da quello che so non esistono ancora degli oscillatori di cui si possa conoscere la frequenza esatta con una precisione così alta». Per saperne di più: Leggi su Physical Review X l’articolo “Testing the Quantumness of Gravity without Entanglement”, di Ludovico Lami, Julen S. Pedernales e Martin B. Plenio Read the full article
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Ep. VIII : Gli stereotipi sugli Italiani all'estero: come ci vedono nel mondo?
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La superradianza dei buchi neri gravitazionali
Buchi neri e atomi gravitazionali e sistemi quantistici macroscopici. Uno studio pubblicato su Physical Review Letters suggerisce che l'analogia tra atomi ordinari e gravitazionali – buchi neri circondati da una nuvola di particelle con massa molto bassa – è più profonda della semplice somiglianza nella struttura e che tale somiglianza può essere sfruttata per scoprire nuove particelle con i prossimi interferometri per onde gravitazionali. Ne parliamo con uno degli autori, il 24enne Giovanni Maria Tomaselli. Generalmente si pensa che i buchi neri inghiottiscano tutte le forme di materia ed energia che li circondano. Tuttavia, è noto da tempo che possono anche perdere parte della loro massa attraverso un processo chiamato superradiance – superradianza, in italiano – efficace solo nel caso in cui in natura esistano nuove particelle con massa molto bassa, non ancora osservate ma previste da diverse teorie al di fuori del Modello standard della fisica delle particelle.
Giovanni Maria (“Gimmy”) Tomaselli, 24enne nato a Benevento. Appassionato di scienza fin dalla tenera età, negli anni del liceo ha partecipato alle Olimpiadi della matematica e a quelle della fisica. Dopo aver studiato fisica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, si è poi spostato all’Università di Amsterdam per proseguire gli studi come dottorando. Crediti: G.M.Tomaselli Quando la massa viene estratta da un buco nero tramite la superradianza, forma una grande “nuvola” attorno al buco nero, creando un cosiddetto atomo gravitazionale. In una pubblicazione apparsa recentemente su Physical Review Letters, un team composto dai fisici Daniel Baumann, Gianfranco Bertone e Giovanni Maria Tomaselli dell’Università di Amsterdam e da John Stout dell’Università di Harvard suggerisce che l’analogia tra atomi ordinari e gravitazionali è più profonda della semplice somiglianza nella struttura, e che tale somiglianza può essere sfruttata per scoprire nuove particelle con i prossimi interferometri di onde gravitazionali. Media Inaf ne ha parlato con Tomaselli, 24enne nato a Benevento, che dopo aver studiato fisica alla Scuola Normale Superiore di Pisa si trova ora all’Università di Amsterdam per proseguire gli studi come dottorando. Tomaselli, cosa sono gli atomi gravitazionali? «Atomo gravitazionale è il nome che diamo a un ipotetico sistema composto da un buco nero e da una “nuvola” attorno a esso, composta da un tipo di particella teorizzata ma mai osservata. Chiamiamo queste particelle bosoni ultraleggeri, assioni, oppure simil-assioni. Queste particelle hanno una massa molto piccola, e questa caratteristica fa sì che manifestino comportamenti quantistici anche a distanze molto grandi, quali appunto le dimensioni dei buchi neri. Questo sistema quantistico macroscopico è matematicamente equivalente ad un sistema quantistico microscopico molto più familiare: l’atomo di idrogeno. Nel nostro caso, il buco nero gioca il ruolo del protone, la nuvola di assioni gioca il ruolo dell’elettrone, e l’attrazione elettromagnetica è sostituita da quella gravitazionale. Ecco perché “atomo gravitazionale”». In che modo fanno emettere un buco nero? «Una domanda legittima è come possa formarsi un atomo gravitazionale, per la quale abbiamo una risposta precisa ma controintuitiva. Si pensa generalmente che i buchi neri possano solo “mangiare”, e non “emettere” niente. Ciò è vero solo a metà: è in realtà possibile estrarre un po’ di energia da un buco nero, purché esso ruoti su sé stesso. Questo processo fu scoperto da Sir Roger Penrose, e va sotto il nome di superradiance (che non cercherò di tradurre in italiano) quando a compierlo sono i bosoni ultraleggeri che menzionavo prima. La massa estratta del buco nero va a finire in questa nuvola che lo circonda. Il bello della superradiance è che è in un certo senso inevitabile: dato un buco nero rotante e un bosone della massa giusta, la formazione della nuvola è solo una naturale conseguenza».
Un atomo nel cielo. Se esistessero nuove particelle ultraleggere, i buchi neri sarebbero circondati da una nuvola di tali particelle che si comporta in modo sorprendentemente simile alla nuvola di elettroni in un atomo. Quando un altro oggetto pesante spiraleggia e alla fine si fonde con il buco nero, l’atomo gravitazionale viene ionizzato ed emette particelle proprio come vengono emessi gli elettroni quando la luce colpisce un metallo. Crediti: Uva, Baumann et al. Che impatto ha questo processo di emissione sull’evoluzione dei buchi neri? «La superradiance lascia la sua firma in diversi modi. Per esempio, oltre a ridurne la massa, riduce anche la velocità con cui i buchi neri ruotano su sé stessi. Ciò che noi abbiamo studiato in questo articolo (scritto con i professori D. Baumann e G. Bertone dell’Università di Amsterdam, più J. Stout dell’Università di Harvard) è invece il caso in cui l’atomo gravitazionale sia parte di un sistema binario, cioè abbia, ad esempio, un altro buco nero che gli orbita attorno. In genere questi sistemi spiraleggiano a causa dell’emissione di onde gravitazionali, e infine si fondono in un unico buco nero più grande. Se invece la nuvola di bosoni ultraleggeri è presente, il modo in cui i due buchi neri spiraleggiano viene cambiato completamente: buona parte dell’energia del sistema viene usata per distruggere parte della nuvola, portando i buchi neri a fondersi più rapidamente. Abbiamo chiamato questo processo “ionizzazione”, perché è matematicamente molto simile alla ionizzazione dell’atomo di idrogeno». È possibile dimostrare sperimentalmente che sta avvenendo? «A partire da quasi otto anni fa, siamo in grado di rilevare e misurare le onde gravitazionali emesse da sistemi binari che spiraleggiano e si fondono. Se riuscissimo a misurarle per un intervallo di tempo sufficientemente lungo, potremmo scoprire abbastanza facilmente la firma di questo processo di ionizzazione. Tuttavia, ci aspettiamo che ciò sia possibile soltanto con futuri esperimenti di onde gravitazionali, ad esempio l’interferometro Lisa, che dovrebbe venir lanciato in orbita eliocentrica tra (almeno) 15 anni». Se si riuscissero a rilevare questi atomi gravitazionali, cosa sarebbe possibile dedurre in termini di fisica delle particelle? «L’esistenza degli atomi gravitazionali è incognita perché non sappiamo se queste particelle, i bosoni ultraleggeri, siano davvero presenti in natura oppure no. Tuttavia, essi sono predetti da diverse teorie, quali la teoria di Peccei-Quinn o la teoria delle stringhe. Se riuscissimo a confermare l’esistenza degli atomi gravitazionali, avremmo un indizio molto forte a sostegno della correttezza di queste teorie. Ciò sarebbe una grande notizia, perché sta diventando sempre più difficile fare scoperte in questo campo usando il classico metodo degli acceleratori di particelle. Inoltre, è possibile che i bosoni ultraleggeri siano i responsabili della materia oscura, che sappiamo comporre la maggior parte della massa dell’universo, ma sulla cui natura fondamentale siamo piuttosto confusi. Gli atomi gravitazionali potrebbero senz’altro aiutarci a capirne di più!». Per saperne di più: Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Sharp signals of boson clouds in black hole binary inspirals” di Daniel Baumann, Gianfranco Bertone, John Stout e Giovanni Maria Tomaselli Read the full article
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Ep. VIII : Gli stereotipi sugli Italiani all'estero: come ci vedono nel mondo?
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