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Le 11 armate impiegate dal Regio Esercito nella Seconda Guerra Mondiale - la 4ª Armata
Proseguiamo nella pubblicazione del quarto degli undici articoli su cui sarà strutturato il nostro lavoro, dedicato alle altrettante armate impiegate sui vari fronti dal Regio Esercito italiano nel corso del secondo conflitto mondiale. L’articolo odierno è dedicato alla 4ª Armata, essa a differenza della 1ª Armata a cui era toccato l’onore dell’ultima resistenza dell’Asse in terra d’Africa e…
#3ª Armata#3ª Armata Regio Esercito#Armate italiane Seconda Guerra Mondiale#Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta#Generale Carlo Geloso#Territorio Libero di Trieste
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DI SOVENTE, IN CUCINA (di Carla Guelfi, agosto 2018)
C’era una volta una cucina con un profumo assai persistente, dal carattere unico e deciso, sprigionato da certi ingredienti messi a cuocere -a fuoco lento- in tegami di coccio, reso ancor più graffiante dalla aggiunta di un pizzico di spezie in polvere. Delicatamente, l’odore ti faceva strada dal portone, caro sentore di un paradiso dei sensi, per poi accoglierti a braccia spalancate sull’uscio di casa. Nell’ensemble risultava essere -squisitamente sovrastante- il guanciale di maiale. Sfrigolando in padella con abbondante olio di oliva, raggiungeva la doratura scoppiettando particelle di grasso nell’aria. Avrebbe, col suo sapore, avvolto croccante la punta acida della salsa di pomodoro sui bucatini scolati al dente e fumanti, lasciati a riposare nella zuppiera bianca esalando vapore. Il guanciale sposava anche il vino svaporato sulle carni dolci degli arrosti, e accompagnava alla fine del pranzo l’intenso e fragrante aroma di caffè. In cucina si allestivano grandi tavolate, e il numero dei commensali era flessibile: mai meno di sette -numero dei componenti della famiglia- per arrivare ad un massimo di dieci o undici persone, tutte riunite intorno al tavolo per gustare, conversando, i piaceri del palato. L’artefice e custode delle schiette ricette tradizionali romane portava con disinvoltura il nome dell’eroina di Vincenzo Bellini: Norma. Mano pesante nel condire, non deludeva mai le aspettative di cotanto profumo. Durante la preparazione dei cibi, andava dispensando saggi consigli paesani elargiti ad un pubblico languido in attesa davanti ai fuochi; si trattava perlopiù di ammonimenti. La morale era efficace e quasi coreografica, e si concludeva con la “Cucchiarella” sbattuta sul bordo del tegame lasciata per qualche secondo sospesa a mezz’aria, minacciosa; dopodichè -solenne- tornava a “Rumare” il sugo. Era una preziosa collaboratrice e amica di famiglia. In quello spazio si mescolava proprio tutto: agli odori si aggiungevano i volti, i discorsi, e spesso, molto spesso, le liti tra noi fratelli; tanta intensa e collettiva esperienza stancava tutti, e dopo il caffè aveva inizio un fuggi-fuggi generale: gli ospiti venivano gentilmente accompagnati alla porta, Norma come un fulmine rassettava la cucina e correva a prendere la littorina per Marino, e i rimanenti andavano disperdendosi per lo più in attività silenziose, tipo la “Pennichella” o la lettura dei fumetti.
A nonna Beatrice -a capotavola- devo una menzione speciale, è a lei che riconosco il primato delle emozioni al gas-nervino che, terrorizzandomi, mi avrebbero tenuta sveglia di notte. Io e la nonna dopo il pranzo indugiavamo a tavola, e quando tutti erano spariti, lei -guardandomi assorta- dava inizio alla malìa con un respiro profondo. Tacitamente, mi chiedeva di andare ad aprire la porta immaginaria che affacciava su strade e piazze: percorsi di un tempo in cui si erano svolti fatti di cronaca, vicende legate a personaggi realmente vissuti e tramandate in un crescendo, si erano arricchite, via, via, con i colori del narratore di turno. I racconti di nonna spiccavano vividi e decisi, se cruenti; per poi dissolversi in bianco e nero, se poetici; filmica, la visione si proiettava con un raggio di luce dalle sue pupille alle mie prendendo vita. “La notte del sette di gennaio, da più di trecento anni, scalpitano sui sanpietrini di piazza Navona sei cavalli neri, che percossi dalla frusta del cocchiere nitriscono e imbizzarriscono; al traino, inseguita da una tempesta d’aria, c’è una carrozza in fiamme. Inizia così, una ridda intorno alla piazza, e gira, gira all’infinito. Dentro al cocchio c’è una donna che ride…è Olimpia Pamphilij! Porta via con sé due casse piene d’oro trafugate da sotto il letto di papa Innocenzo X ormai morto; a cassetta è il Diavolo in persona a condurre la danza infernale. Ad un certo punto il girotondo cessa, e da piazza Navona i cavalli si lanciano al galoppo verso ponte Sisto; il cocchio traballa, quasi si rovescia, e perde monete d’oro mentre precipita giù per la scalinata, inabissandosi nel Tevere… l’acqua nera si chiude sull’assurdo coacervo, e l’eco rimanda un latrato fino all’alba. Ci credi?!”. Libera me Domine, nonna! Certo che ci credevo! Fino al terrore che mi faceva torcere le mani, mentre trattenevo il desiderio di segnarmi con la croce; e non c’era via di scampo! Se provavo a sottrarmi al tuo sguardo, mi sembrava addirittura di vedere riflesso sul vetro della credenza il luccichìo ribelle degli occhi color oro, avidi e compromessi, di Olimpia. Alla pausa assai tesa, aggiungevi:”Mai avventurarsi la notte del sette gennaio da quelle parti: il prodigio è presagio di morte”.
La storia di Olimpia Pamphilij, detta la “Pimpaccia”, era un classico che non finiva mai di spaventarmi. Di gran lunga più permeante era la storia di Beatrice Cenci. ”Giovanissima, fu decapitata perchè accusata di parricidio: l’esecuzione pubblica avvenne nella piazza antistante alla prigione di Castel Sant’Angelo, dove era stata reclusa…e da allora, ogni undici settembre -data dell’esecuzione- illuminata dalla luna viene vista passeggiare sul ponte, con la testa mozzata sotto al braccio”.
Leggende maligne spacciate per vere, raccontate con la stessa enfasi retorica con cui sentivo recitare a Ungaretti i versi dell’Odissea televisiva; raccontate dopo il pranzo, infiammavano le mie percezioni del vizio, dell’avidità, e del castigo: micce corte, accese dallo sfregamento degli zoccoli caprini e dal timor di Dio, incendiavano col napalm, polverizzandomi. Dal canto suo, nonna, terminato il racconto e in piena difficoltà digestiva, mollava la postazione lasciandomi annientata: mentre si allontanava, intorno alla sua testa vedevo volteggiare leggiadri satelliti a forma di razze volanti. Non udii mai dal suo labbro proferire il famoso epilogo: “…E vissero felici e contenti”: con lei ingoiavo il sapore denso del mistero maledetto, grazie a lei una specie di brivido mistico arricchì per sempre il mio patrimonio genetico. Cosa avrei potuto chiedere di più a questa nonna, nata nel 1894 nel leggendario Palazzo Scapucci, meglio noto come il Palazzo della Scimmia?
La leggenda narra che tra il 1500 e il 1600, nella torre del palazzo avvenne il curioso rapimento di un bambino dalla culla, per “Zampa” della scimmia di proprietà del nobile Scapucci, padre del neonato: il primate, geloso delle attenzioni a lui sottratte, rubò il pargolo portandolo via con sé, e il gentiluomo, venuto a conoscenza del fatto, riebbe indietro il bambino emettendo il solito fischio di richiamo usato solitamente per attirare la scimmia, coinvolgerla in giochi e offrirle del cibo. Nata dentro alla leggenda, nonna, già dal primo vagito, avrà interloquito con la leggenda stessa: il rapimento da parte della scimmia, seppur a lieto fine, l’avrà forse iniziata da subito al timore del perpetuarsi del crimine? Il reiterarsi dello stesso avrebbe comportato l’allontanamento dai suoi cari… avrà creduto di vedere l’animale saltellare e arrampicarsi fra i rami del ciliegio sotto la finestra della sua camera? Probabilmente la prima volta l’avrà udita da sua madre, o nel dialetto pittoresco dei vicoli dove passeggiava, dalla “Sediara” o dalla “Carbonara”.
Spalancando gli occhi, avrà soddisfatto quel sadico piacere, tipico del narratore o narratrice, di invasare in lei, bambina e senza filtri, la paura. Coi figli prima e con i nipoti poi, tramandò lei stessa l’inganno. Smarrì molto presto la ragione, e in scorribande selvagge sconfinò in quella regione di praterie infinite situata tra l’onirico e il vero. Affermava in ultimo di chiamarsi Beatrice Cenci. Di giorno per lo più silente, era la notte il luogo dove la sua voce tornava a narrare ricordi incapaci di leggere correttamente il tempo, un po’ dislessici e claudicanti, che andavano da un decennio all’altro storpiando i nomi degli interpreti della sua vita. Fu per me un vero rompicapo decifrare assonnata le sue memorie, più difficile di un cruciverba di Alessandro Bartezzaghi.
Spesso chiamava ad alta voce un ufficiale che le aveva cantato serenate appassionate, con un nome molto simile a quello di suo marito Carlo, classe 1891, forgiato alla Scuola Militare della Nunziatella a Napoli, monarchico convinto; autorevole e rigoroso, amava sciogliersi nei pomeriggi domenicali intrattenendo gli ospiti, con una calda voce baritonale, per intonare “Non più andrai” dalle Nozze di Figaro di Mozart, e insieme al lei, alla nonna, “Il Duetto delle ciliegie” dall’Amico Fritz di Mascagni. “Duettando”, una ciliegia tirò l’altra, e nacquero sei figli. Nessun militare fra i cinque maschi, bensì un tenore, un baritono, un pittore, un correttore di bozze, e un commerciante; l’unica figlia femmina dal carattere volitivo sposò un bas- bariton- pittore. Questo è tutto ciò che evinsi dal suo farneticare notturno. Chissà se capii bene… di sicuro, e come facevo sempre, obbedivo al desiderio di ascoltarla. Nonna Beatrice �� stata la prima persona che ho visto morire: avevo quattordici anni, e nel mio letto la vidi boccheggiare come un pesce senza ossigeno. Una lacrima le si fermò all’angolo dell’occhio, batté la palpebra e la lasciò andare. Fu il suo ultimo segno di vita. “Larga è la foglia stretta è la via, dite la vostra che io ho detto la mia”.
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Le 11 armate impiegate dal Regio Esercito nella Seconda Guerra Mondiale - la 3ª Armata
Qualche giorno fa abbiamo pubblicato il primo degli undici articoli su cui sarà strutturato il nostro lavoro dedicato alle altrettante armate impiegate sui vari fronti dal Regio Esercito italiano nel corso del secondo conflitto mondiale. L’articolo odierno è dedicato alla 3ª Armata, essa a differenza della 1ª Armata a cui era toccato l’onore dell’ultima resistenza dell’Asse in terra d’Africa e…
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16 febbraio 1943, la strage di Domenikon
16 febbraio 1943, la strage di Domenikon
Il 16 febbraio 1943, membri della resistenza greca, attaccano nelle vicinanze di Domenikon, un piccolo villaggio della Grecia centrale situato in Tessaglia, un convoglio militare italiano. Nello scontro che ne segue rimangono uccisi nove militi delle Camicie nere, mentre 43 greci, fra attaccanti e supposti fiancheggiatori, vengono uccisi durante l’azione militare. Seguì uno degli episodi più bui…
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#16 febbraio 1943#Cesare Benelli#Generale Carlo Geloso#Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale#Occupazione della Grecia#Regio Esercito#Strage di Domenikon
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Grecia centrale, 16 febbraio 1943 la strage di Domenikon
Grecia centrale, 16 febbraio 1943 la strage di Domenikon
Il 16 febbraio del 1943, membri della resistenza greca, attaccano nelle vicinanze di Domenikon, un piccolo villaggio della Grecia centrale situato in Tessaglia, un convoglio militare italiano. Nello scontro che ne segue rimangono uccisi nove militi delle Camicie nere, mentre 43 greci, fra attaccanti e supposti fiancheggiatori, furono uccisi a seguito dell’azione.
Come reazione il generale della…
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#Generale Carlo Geloso#Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale#Occupazione della Grecia#Regio Esercito#Strage di Domenikon
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