#Galleria Capece
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Stasera a Maglie (Lecce)!
Un post veloce, quasi concitato, perché mi devo preparare per dopo… Stasera alle ore 19.00 sarò a Maglie (Lecce) alla Galleria Capece, per la presentazione di «Santificare le feste», e invito tutte e tutti a partecipare. Insieme a me ci saranno Cesare Minutello e Piero Sansò, per leggere e parlare, mentre Francesco Bucci e Luca De Rosa interverranno in musica, con chitarra e…
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#ANPI Eugenio Santacesaria#Cesare Minutello#Cristina Carlà#Fondazione Capece#Francesco Bucci#Galleria Capece#Giada DInunzio#Giampiera Dimonte#Il latte versato#Luca De Rosa#Maglie#Mario Badino#Mesagne#Piero Sansò#Santificare le feste#Stefano Esperti
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Appunti per una presentazione di «Se tolgo il nodo», Anna Rita Merico
L'1 marzo 2024, a Maglie, presso la Galleria Capece, nell'ambito della rassegna «Il marzo della poesia» a cura della Fondazione Capece, si è tenuta la presentazione della raccolta di Anna Rita Merico «Se tolgo il nodo» di recente edita da Musicaos Editore. Qui di seguito il testo del mio intervento.
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L’immagine del Minotauro nel racconto di Friedrich Dürrenmatt, posta in principio di «Se tolgo il nodo», pone l’attenzione su due elementi.
Il primo, più evidente, è l’invito a osservare la diversità in modo differente, ovvero a guardare diversamente tutto l’impianto di valori con cui la mitologia si racconta attraverso i secoli. Il Minotauro infatti è una figura che in nessuno di noi, nella sensibilità comune, ispirerebbe fiducia, tenerezza, compassione.
Il secondo aspetto è nel carattere del Minotauro, che è un figlio mostro non voluto, nascosto all’interno di un labirinto. Come ci ricorda Juan Eduardo Cirlot, nel suo «Dizionario dei simboli», il labirinto viene costruito o raffigurato anche per intrappolare i demoni che, una volta al suo interno, non sarebbero stati in grado di sfuggire da esso; sempre Cirlot, citando Mircea Eliade, scrive che compito del labirinto è quello di proteggere il Centro, il Mistero.
Il Minotauro posto in questo nuovo labirinto è un mistero nascosto, è un invito a entrare in una dimensione in cui si attueranno diversi capovolgimenti di senso.
Tutta la struttura di «Se tolgo il nodo» procede per inclusione di un nucleo nell’altro, dai ringraziamenti a Mario Tobino, Franco Basaglia, Michel Foucault, Ronald Laing, all’ingresso nell’antro del labirinto del Minotauro, alla nota di Antonio Nazzaro che precede i testi, ed è inclusa a sua volta nell’“opera”.
Anche questa traccia iniziale merita una nota, dato che gli autori citati hanno tutti a che fare con il tema della reclusione-isolamento associato al trattamento psichiatrico dell’anima. Sempre secondo Diel, ultimo citato da Cirlot a proposito di labirinto, quest’ultimo simboleggia proprio la psiche.
Quindi ricapitolando da questi primi riferimenti posti in principio di «Se tolgo il nodo», comprendiamo come questa raccolta si inscriva intimamente nel percorso poetico tracciato sin qui da Anna Rita Merico, decidendo di affrontare con la scrittura un tema legato al rapporto tra psiche, corpo, socialità, apertura-chiusura.
Non è un caso se la scelta cade su pensatori agenti nel sociale e non su filosofi o poeti tout court.
Il registro è volutamente intimo.
Il dialogo è tra forza bruta del fatto sociale, realistico, e reazione di un vissuto corporale, dove qui però è assodato che quando si parla di individuo si parla di un ente in cui anima e corpo condividono tutto, come sosteneva Friedrich W. Nietzsche nel suo Zarathustra, noi “non abbiamo” un corpo, noi “siamo” un corpo.
La “bava di ragno”, il linguaggio come “tentacolo filiforme”, sottolineano quanto evanescente sia il legame che dalla parola conduce alla cosa.
Il corpo è soggetto nella sua interezza, l’io non è un insieme organico privo di consapevolezza, l’io ha contezza materiale, nella riflessione, di tutti i suoi frammenti, che cerca di tenere costantemente uniti.
Espressioni utilizzate dalla poeta coma“affilata nientificazione”, “un filo potente scuce” riportano all’immagine di quel filo che serve per circolare nel labirinto senza smarrire la via del ritorno, “e perderò il dentro e il fuori / e non sapevo se la mente fosse oggetto tra gli oggetti”.
La poesia di Anna Rita Merico, che già in altri luoghi ha fatto i conti con un moto di decentramento dell’Io dal proprio mondo soggettivo, con un rifiuto pressoché totale di ogni rappresentazione e presentazione dell’Ego a scapito dell’individualismo, qui presenta una prima persona che pur avendo consapevolezza di ciò che esperisce col proprio corpo, si trova smarrita, persa e frantumata in particelle, “oggetto tra gli oggetti”.
C’è un testo, “Santità”, nel quale al corpo accade il trascendimento, un percorso transumano, quello che accade, prefigurato da più di trenta anni di arte performativa e adesso giunto alle soglie dell’estetica poetica.
La trasformazione e la mutazione non sono tuttavia qui etichette di comodo, non si tratta di un manierismo tentato per mettersi alla pari di un “discorso generale” – anche poetico – in atto, proprio Foucault definiva un discorso come “insieme degli enunciati che appartengono a uno stesso sistema di formazione”, potremmo proseguire con ”sistema di formazione poetico”:
«Se tolgo il nodo» è un richiamo implicito allo smarrimento vero, reale, tangibile, sanguigno, bavoso, scabroso, escoriato.
«Se tolgo il nodo» il ritorno al di fuori del labirinto mi è precluso, sono perso.
Le “energie filate”, i raggi, ricordano la presenza di un corpo estatico nelle ultime poesie di Antonin Artaud.
In “Storie” c’è la negazione dell’amore nell’attesa, un corpo attende un altro corpo, ciò che arriva è un corpo che ha l’urgenza di trovare un oggetto, una discarica imbellettata come un manichino in vetrina, con l’ossessione che ritorna ciclica “bella bella bella bella bella bella”, ripetuta sei volte, svuotando di significato la bellezza. La ripetizione è utilizzata proprio per svuotare la poesia della sua funzione di ritornello accomodante.
C’è un rapporto di ridefinizione dell’oralità, nel verso frantumato che stilisticamente ha oltrepassato una fase legata alla rappresentazione poetica del linguaggio.
L’oralità della poesia è colta in presa diretta, sul corpo-ventre-stomaco, non dice più coi termini della razionalità, percorrendo però con raziocinio il crinale di un delirio lucido, “il mio stomaco è sottile linea di leppe [...] otre di rabbia”.
È importante in questa ricerca l’utilizzo del vuoto, degli spazi, delle percorribilità sulla pagina di un testo che è anche spaziale, territorio.
Anche se i presupposti teorici affondano le radici nel mito per una sua revisione, questa raccolta è con molta probabilità quella meno radicata, seppure l’azione poetico performativa si accompagni a diversi luoghi e relazioni «Se tolgo il nodo», quest’opera presenta un messaggio urgente, di scuotimento etico.
Quando l’autrice utilizza termini come “otre”, “cotenna di nervo”, richiama i termini di un’area animale. La sacca animale utilizzata come otre per l’acqua, l’otre in cui Eolo consegna i venti imbrigliati a Ulisse.
Quello che si cerca è un disperato aggancio tra corpo e animale. “Digiuno in spirali nervose” ci dice che il nutrimento è acquisizione dello spirito, ma non perché il corpo diventa spirito, ma perché lo spirito non è stato mai altro che corpo.
L’immagine del filo che cuce, che sutura, che collega i punti della pelle, che unisce le carni, è altrove associata a quelle del graffio, della ferita, della crepa.
In testi come “Rostri”, “Fusioni” c’è la certezza che per Anna Rita Merico la parola non sia più un fatto referenziale, un circuitare tenuto a bada tra significante e significato.
La parola assume qui la stessa valenza che assume in teatro, nella singolarità di una scena vivida che non è solo raccontata. Tutti i richiami alla corporeità gettano un ponte di prossimità con il lettore che non può non provare ciò che legge, che appartiene a un suo passato remoto, rivivere lo strazio, se vogliamo, dello strappo, della perdita, perché è di sé stesso lettore che trova le tracce. In tal senso questa è una raccolta che presenta una visuale interiore che diviene nostra.
Una comunanza di isole che si incontrano, come accade nel testo “Abitudini”.
La suggestione di partenza è un gesto che lega, come un collare, che in realtà concretizza un’amicizia.
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La poesia contemporanea, quella che dal secolo scorso lega autori come T. S. Eliot, Paul Celan, Josif A. Brodskij, Wisława Szymborska, e arriva ai giorni nostri con autori che legano il corpo alla scrittura, come Durs Grünbein – nel nostro paese potremmo citare Amelia Rosselli e Valerio Magrelli – è una poesia in cui il sostrato filosofico, le ragioni, sono sempre collegate a ciò che si scrive. La scrittura di Alda Merini è uno scavo profondo, a partire dalla psiche in dialogo con le fonti letterarie e bibliche, del suo vissuto corporeo, è anche per e grazie a lei se siamo qui a parlare di un “Marzo della poesia”, perché nel giorno del suo compleanno è stata fissata la data per la “Giornata Mondiale della Poesia”.
Concludo con una riflessione proprio sul significato della “Giornata Mondiale della Poesia”, in relazione alla scrittura di Anna Rita Merico. Quando diciamo “Mondiale”, diciamo che sarà la giornata mondiale della poesia anche in India, in Sudan, in Uruguay, in Siria, in Giappone; luoghi che se hanno subito il mito, come il Minotauro ad esempio e il Labirinto, come fattore culturale da ibridare con la propria esperienza. Il passo di Anna Rita Merico è un passo in avanti, nella consapevolezza che poesia e pensiero, inscindibili, devono discutere e mettere in discussione il mito. La “Giornata” in tal senso, non può essere concepita come “Giornata della Poesia Occidentale”.
https://musicaos.org/se-tolgo-il-nodo-anna-rita-merico-poesia-44/
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Marirò Savoia: d'autunno le parole
Marirò Savoia: d’autunno le parole
di Anna Rita Merico (Marirò Savoia a Maglie, 28 maggio 2022, presso Galleria Capece) Foglie nel momento in cui si avventurano nel volo leggero senza dritta traiettoria. Foglie appaiate al soffio di un vento di dentro che le fa volteggiare, le mette in comunicazione tra loro, le inabissa nell’ultimo passo di danza, le accende di tinte furiose. Il regista ne vivifica i fuochi. Il regista: un…
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Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (II parte)
di Riccardo Carrozzini
Fig. 5 – Lo scheletro ricomposto, a Maglie (da Teresa Salomi, come le successive fino alla fig. 5e)
La vendita venne infine effettuata al Museo di Zoologia e di Anatomia comparata della Regia Università di Pisa, il cui direttore era il prof. Sebastiano Richiardi, che offrì un corrispettivo di lire mille più spese di trasporto a suo carico. La spedizione venne effettuata nel maggio 1903. In una lettera di quello stesso mese al Richiardi, il Presidente Garzia lo informa dell’avvenuta spedizione ed aggiunge: ���Le accludo una relazione, di questo egregio giovane Sig. Salomi Liborio, appassionatissimo cultore di Scienze naturali, il quale, sotto la direzione dell’insegnante prof. Consiglio di questo Liceo ha curato la preparazione e l’imballaggio del cetaceo“. Brani di questo documento, trascritto integralmente più oltre, vengono citati nell’articolo di Braschi – Cagnolaro – Nicolosi in precedenza citato. La scansione della relazione, di 8 pagine, mi è stata mandata il 22 maggio 2014 dal dott. Nicola Maio, dell’Università di Napoli, al quale è stata fornita da uno degli autori.
Fig. 5a – Particolare arto anteriore
Fig. 5b – Particolare parte posteriore del cranio
Fig. 5c – Particolare delle costole
Fig. 5d – Particolare delle prime vertebre
Fig. 5e – Particolare della mandibola
Da una lettera della Giunta provinciale amministrativa di Terra d’Otranto del 3 luglio 1903 (prot. 10775), che si esprime in ordine ad una deliberazione dell’Istituto Capece, risulta che il Salomi, “avendo questi col suo lavoro contribuito al maggior vantaggio dell’amministrazione”, ricevette come compenso per l’opera prestata la somma di £. 50,00.
Fig. 6 – La lettera in francese per la vendita dello scheletro (Fondaz. “Capece”)
Fig. 7a – La lettera al prof. S. Richiardi, pag. 1
Fig. 7b – La lettera al prof. S. Richiardi, pag. 2 (Fondaz. “Capece”)
Vi è poi una lettera del Prof. S. Richiardi, del Museo di Pisa, il quale aveva, evidentemente, anticipato di tasca sua le £. 1.025,00 pagate all’Istituto Capece per lo scheletro. Richiardi faceva rilevare che la quietanza di pagamento rilasciata dal Capece era sbagliata perché intestata a Salvatore e non a Sebastiano Richiardi, la qual cosa gli aveva impedito fino ad allora (10 maggio 1904) di essere rimborsato dall’Università di Pisa, e pregava il Presidente Garzia di inviargli una nuova quietanza correttamente redatta. Riferiva, nella stessa lettera, che “il Fisetere [9] è montato, mancano però l’ultima vertebra, una delle ossa del bacino, n. 8 denti, n. 3 ematoapofisi od ossa a V, n. 20 pezzi degli arti – dovrebbero essere 30+30”.
Fig. 8 – L’articolo di Braschi – Cagnolaro – Nicolosi citato nel testo
Do’ anche conto delle spese sostenute dall’istituto Capece in occasione del recupero di questo scheletro: si trova, infatti, tra la documentazione, un rendiconto finale (denominato “Conto cetaceo”) delle spese sostenute, che ammontarono a lire 576,85; detratte queste dalle lire 1.025,00 avute come corrispettivo, risultò un guadagno netto, per l’Istituto Capece, di lire 448,15.
Fig. 9 – Il “Conto cetaceo” (Fondaz. “Capece”)
ig. 10 – Il compenso di 50 lire a Salomi (Fondaz. “Capece”)
Lo scheletro del capodoglio è ancora esistente presso la Certosa di Calci, dove l’Ateneo pisano ha il suo Museo di Storia naturale, dotato di una stupenda galleria che contiene gli scheletri di numerosi cetacei (si vedano le foto in calce alla presente).
È trascritta infine fedelmente, di seguito, la relazione di Salomi di cui si è fatto cenno più sopra, scritta su carta intestata del Liceo – Ginnasio Capece (una pagina di questa è l’ultima foto in calce), nella quale si autodefinisce “perduto amatore di Zoologia” e dalla quale si può chiaramente evincere, dai molti particolari e dalle descrizioni, chi era, quanto a conoscenze e competenze nel settore, Liborio Salomi già a 20 anni; questo documento è il più lungo testo con firma autografa che sono riuscito a trovare [10].
Relazione di Liborio Salomi
Ill.mo Signor Direttore,
Prima di ogni altro mi permetta presentarmele quale un appassionato di Storia Naturale. Ho venti anni e sono in procinto di conseguire la licenza liceale in questo Liceo, dopo di che vorrò dedicarmi completamente allo studio delle scienze biologiche che ho coltivato sin da ragazzo. Ero ancora tale quando cominciai a catturare insetti e a sezionare quanti mammiferi, uccelli ed altri animali mi capitassero fra le mani; e poi ho continuato sempre più a sentirmi attratto dalle tante bellezze di cui è ricca la natura, e possiedo una discreta raccolta di insetti indigeni, di resti fossili, di uccelli imbalsamati da me stesso, di animali in alcool, fra i quali un bellissimo aborto mostruoso di Ovis Aries etc.. Qui in Maglie mi conoscevano già tutti per appassionato di Scienze Naturali, allorché un caso speciale venne a mettermi in maggiore evidenza. Fu questo l’arrivo in Otranto di un Capodoglio. Nello scorso anno infatti, nel 18 gennaio 1902 i soldati del Semaforo, addetti al servizio di Otranto nella località così detta “Palascia”, avvisarono che in alto mare galleggiava uno scafo di bastimento capovolto. A tale avviso, i poveri marinai otrantini, sperando di trovare in esso dei tesori che valessero a sollevare alquanto la loro miseria, si misero in mare con sette barche, ma grande fu la loro delusione quando, giunti al voluto scafo, riconobbero in esso un immane pesce, a dir loro già morto da parecchi giorni. Assicuratolo con una forte gomena attorno la coda lo rimorchiarono nel porto, donde il Sindaco, per ragione d’igiene pubblica, lo fece trasportare non lungi da Otranto, nella località detta “Rinule” a circa tre chilometri dall’abitato. Ben presto la notizia dell’invenimento di questo grande cetaceo si sparse per quasi tutta la provincia e da ogni parte di essa si recarono ad Otranto delle persone per vederlo. Tra queste ci fui anche io ed altri compagni di scuola, accompagnati dal sig. Giuseppe Consiglio, professore di Fisica e Scienze Naturali in questo Liceo. Dapprima vedemmo il cetaceo da sugli scogli e poscia con delle barche potemmo osservarlo da vicino. La putrefazione era già cominciata nell’interno, e ad ogni cavallone un po’ forte e quindi ad ogni conseguente muoversi del cetaceo, veniva fuori dalla sua bocca un puzzo penetrante e insopportabile. Provvisto di una discreta macchina fotografica il prof. Consiglio ritrasse l’animale, e la fotografia sebbene non molto chiara è abbastanza sufficiente per mostrare come esso giacesse sul fianco sinistro e come, ad arguirlo dalla bava bianchiccia che vedesi intorno alla bocca, fosse inoltrata in esso la putrefazione. Essendo lo Stato padrone di tali mostri che si rinvengono sulle coste italiane, il sindaco di Otranto annunziò al governo la scoperta del Capodoglio, perché si pigliassero serii provvedimenti onde distruggerlo, potendo riuscire, con la sua putrefazione, di grave danno per gli abitanti delle spiagge vicine. Si attendeva invano ordine dal Ministero, allorché il preside di questo Liceo, il sig. Giuseppe Gabrieli [11], attualmente bibliotecario all’Accademia dei Lincei, pensò che fosse conveniente all’Istituto Capece l’acquistare lo scheletro di un Capodoglio, sì importante nello studio della Zoologia ed Anatomia comparata e così raro nello stesso tempo. Si telegrafò dapprima alla Capitaneria del porto di Taranto, e avendo questa risposto che il cetaceo era in potere del Ministero di P. Istruzione, il presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto Capece, il sig. Cav. Raffaello Garzia, fece delle pratiche presso di esso, il quale rispose che il cetaceo era a disposizione del gabinetto di Storia naturale di Maglie. Fu così che io, alunno della 2a liceale, e perduto amatore di Zoologia, ebbi dalla Onorevole Commissione di questo Liceo il piacevolissimo incarico di andare ad Otranto per dirigere la scarnificazione del cetaceo e sorvegliare a che nessuna parte dello scheletro venisse menomamente lesa. L’operazione per denudare le ossa fu di somma difficoltà e dispendio, sia per la località che non mi permise di trarre a secco il cetaceo, sia per la poca praticità del personale addetto al lavoro, sia in ultimo per i tempi piovosi. Potei constatare subito trattarsi di un individuo di Physeter macrocephalus, di sesso femminile. La pelle era completamente intatta, ciò che esclude l’idea che l’animale fosse morto per ferita. Dei denti, in massima parte cariati, mancavano otto, ciò che, tenendo anche conto della coda completamente liscia, mi fece pensare trattarsi di un individuo assai inoltrato negli anni. La putrefazione avvenuta mi impedì assolutamente di fare qualsiasi osservazione anatomica sui tessuti molli, e mi tolse anche l’agio di constatare se nella vescica orinaria vi fossero dei calcoli, e delle incrostazioni di simil natura sulle pareti dell’intestino. Ciò che mi colpì grandemente furono i muscoli tutti invasi, nel loro spessore, da corpuscoli un po’ più piccoli dei granelli di pepe, di color bianco-giallognolo e che alla osservazione microscopica sembrano delle uova di Elminti [12]. Fosse la morte del Cetaceo stata causata dall’esistenza di qualche parassita? Mancando di libri da riscontro non ho potuto venire a conclusione alcuna, eppure potrebbe trattarsi di qualche specie nuova o poco studiata di Elminto. Circa lo scheletro fui dapprima sommamente meravigliato di trovar distaccate le ossa facciali del lato sinistro, ma ben presto potei attribuir ciò al peso della massa muscolare sopraincombente del lato destro. Ebbi massima cura di conservare le ossa del cinto pelvico tanto importanti nello studio dell’anatomia comparata. Dopo 13 giorni di continuo lavoro le singole ossa furono trasportate a Maglie ed infossate nella calce viva per farle spolpare e sgrasciare completamente. Circa un mese fa le ho tolte da essa per pulirle definitivamente ed ora sono in viaggio per Pisa. Anche l’imballaggio è costato lavoro e fastidio, ma per la scienza bisogna far tutto, ed io mi reputo fortunatissimo di aver lavorato, ancor sì giovane, per la preparazione dello scheletro di un Capodoglio che di ora in poi adornerà (me l’auguro) le ricche sale del Museo pisano, vanto e gloria del nostro chiarissimo Savi [13]. E voglio sperare che ella trovi lo scheletro in buono stato, in modo che il mio lavoro non sia andato completamente perduto, e che voglia attribuire qualche piccolo difetto alla mancanza dei mezzi necessarii per la preparazione di tali scheletri e alla mia poca pratica con essi. Prima di fare l’imballaggio ho situate le ossa alla meglio onde fare la fotografia dello scheletro intero, e fra giorni mi farò un pregio di mandargliela insieme a quella del cetaceo in mare ed altre ritraenti diverse ossa e regioni singole dello scheletro, ed una rappresentante un frammento di membrana endoteliale dello sfiatatoio [14]. Lo scheletro come le sarà facile constatare è lungo, così disarticolato, m. 10,30, ma con i dischi intervertebrali misurava m. 11, pur essendo lungo m. 12 rivestito dalle masse muscolari. Nell’imballarlo ho messo nel gabbione oltre al capo anche l’atlante l’epistrofeo saldato alle altre cinque vertebre cervicali ed al processo odontoide rudimentale, le vertebre dorsali, le lombo-caudali e le costole. Nel cassone ho messo lo sterno, il primo paio di costole, i denti, le ossa del cinto pelvico, alcune ossa del capo che trovai da esso distaccate, le clavicole, le scapole, gli omeri, le ossa, saldate verso la loro estremità, dell’antibraccio, le ossa carpali con le rispettive falangi (1) [15] ed alcune ossa articolate alla faccia inferiore delle vertebre lombo-caudali, e che non so invero cosa siano, pur avendo cercato di riscontrare varii testi di anatomia comparata. (Che anzi le sarei obbligatissimo se volesse indicarmi a quali dello scheletro umano corrispondano queste ossa e che ufficio compiano nei cetacei). Di queste ossa vi è una nel gabbione che per l’azione della calce ha l’estremità libera un po’ bruciata, ma credo che ciò non pregiudichi lo scheletro; ché nella relazione del Gasco [16] sulla Balena catturata a Taranto, ho letto come anche nello scheletro di essa alcune parti siano state sostituite da legno. È mai possibile evitare qualche piccola avaria in scheletri così colossali e nello stesso tempo risultanti da ossa spugnose e fragili in sommo grado? Avrei desiderio di scrivere una piccola monografia su questo Cetaceo, ma a causa della mancanza di materiale di studio, rimando tal lavoro al primo anno di studii universitarii, che veramente non mi son ancor deciso dove fare. Potrà darsi che venga a Pisa; è un centro di studii tanto rinomato! Giorni fa leggevo nella Mammologia [17] Italiana del Cornalia di uno scheletro di Physeter, arenato nel 1868 in Calabria e da lei egregiamente preparato per l’Università di Bologna. Credo, se non mi sbaglio, che manchi ancora in Italia un elenco completo dei cetacei giunti morti o dati a secco sulle sue spiagge; e sto curando, tanto per contributo a tale elenco, di raccogliere notizie precise su tutti i cetacei rinvenuti sulle coste della penisola salentina. Pochi anni or sono ad Ugento, sullo Ionio, dettero a secco contemporaneamente parecchi capodogli, ma per la putrefazione avvenuta, il governo, a richiesta delle autorità locali, mandò due navi per curarne il loro affondamento in alto mare.
Giorni fa fui chiamato da alcuni cavatori di pietra per vedere delle ossa che avevano trovato a nove metri di profondità: Recatomi sul luogo ebbi a constatare trattarsi dei resti di un Equus caballus mastodontico, quaternario. Ho quasi tutti i denti, che sono veramente bellissimi. Di resti di Equus ed altri animali quaternarii trovansi spesso nelle nostre cave ed io ho una discreta raccolta, ma mi mancano molti scheletri di animali odierni per farne gli studi comparativi. Se crede ella che tali resti fossili possano servirle a qualche cosa, non dovrà che avvisarmene, ed io sarò fortunatissimo di farglieli avere. E così dico pure di qualsiasi prodotto naturale della penisola salentina.
Mi permetta intanto di ossequiarla e professarmele suo dev.mo
Liborio Salomi di Angelo
Maglie il 12 maggio 1903
Fig. 11 – Lo scheletro del capodoglio alla certosa di Calci (Foto dal prof. Roberto Barbuti, Università di Pisa, come le successive fino alla fig. 14)
Fig. 12 – Sulla mandibola si può leggere “Otranto, gennaio 1902”
Fig. 13 – Un’altra vista dello scheletro
Fig. 14 – Una vista della Galleria cetacei con lo scheletro recuperato da Salomi in primo piano
Fig. 15 – Una pagina della lettera-relazione di Salomi
Note
[9] Sinonimo di capodoglio, derivata dal nome scientifico latino.
[10] Ringrazio il prof. Barbuti, già citato in precedenza, che si è messo in contatto col dott. Alessandro Corsi, direttore della Biblioteca di Scienze naturali dell’Università di Pisa; questi ha autorizzato la pubblicazione della relazione.
[11] Giuseppe Gabrieli, da Calimera (LE), padre di Francesco (quest’ultimo deceduto nel 1996, uomo di sconfinata cultura che fu uno dei più grandi orientalisti italiani e Presidente dell’Accademia dei Lincei), orientalista anch’egli, mentre era Preside del “Capece” vinse il concorso per bibliotecario dell’Accademia dei Lincei di Roma e lasciò la Presidenza del “Capece” per assumere il nuovo prestigioso incarico.
[12] Elminti: nome caduto in disuso, che non designa un gruppo zoologico definito, ma genericamente i vermi, in particolare quelli parassiti.
[13] Dall’Enciclopedia on line Treccani: Savi, Paolo. – Naturalista (Pisa 1798 – ivi 1871), figlio di Gaetano, prof. di storia naturale nell’Università di Pisa (dal 1823); socio corrispondente dei Lincei (1860). Autore di molti notevolissimi lavori sulla geologia della Toscana, in cui sostenne la teoria attualistica di Ch. Lyell, e di due importanti opere ornitologiche.
[14] Evidentemente presso l’Università di Pisa non vi è traccia di queste foto, visto che nell’articolo prima citato è stata pubblicata una foto fornita dalla dott. Elena Valsecchi, pronipote di Liborio Salomi. Forse le foto sono quelle pubblicate in questo volume, in possesso della figlia Teresa.
[15] Qui vi è la nota (1) nel manoscritto, e a piè di pagina è scritto: le ultime vertebre caudali.
[16] GASCO, Francesco Giuseppe: famoso naturalista (Mondovì 3 nov. 1842 – Roma 23 ott. 1894). Dal Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 52 (1999), di Maria B. D’Ambrosio: … Nel 1877 il G. vinse la cattedra di zoologia e anatomia comparata all’Università di Genova, e qui si occupò anche del Museo zoologico che arricchì di nuovi reperti fra cui lo scheletro di una balenottera arenatasi a Monterosso in Liguria; contemporaneamente pubblicò una relazione, iniziata a Napoli, su una balena arenatasi a Taranto nel febbraio del 1877 che identificò nella balena dei Baschi, Balaena Biscajensis (euglacialis). Nel 1878 le sue ricerche sulla osteologia dei Cetacei lo spinsero a visitare i più importanti musei europei fra cui quelli di Parigi, Londra, Copenaghen, Leida e Bruxelles, dove più ricche erano le collezioni cetologiche e molto quotati i cultori di questo ramo della zoologia. Invitato dal direttore del Museo di Copenaghen X. Reinhardt a studiare lo scheletro di un esemplare catturato nel 1854 a San Sebastiano sulle coste spagnole, giunse alla conclusione che si trattava della stessa specie della balena di Taranto. …
[17] La mammologia è la scienza che studia i mammiferi, classe di vertebrati con caratteristiche come ad esempio pellicce e un complesso sistema nervoso. La mammologia si dirama anche in altre discipline, quali la primatologia (studio dei primati) e la cetologia (studio dei cetacei).
#capodoglio#Liborio Salomi#Otranto#punta Palascia#Riccardo Carrozzini#Ambiente#Miscellanea#Spigolature Salentine
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“Due padri, due figli”, il libro di Salvatore D’Incertopadre fa tappa a Cori
Appuntamento sabato 4 Marzo, alle ore 17:00, presso il Museo della Città e del Territorio di Cori. Insieme all’autore interverranno il Sindaco Tommaso Conti, lo scrittore Pietro Vitelli e l’editore Dario Petti.
Sabato 4 Marzo, alle ore 17:00, presso il Museo della Città e del Territorio di Cori, si terrà la presentazione del nuovo libro di Salvatore D’Incertopadre “Due padri, due figli. Una famiglia tra Napoli e Latina”. Insieme all’autore interverranno il Sindaco Tommaso Conti, lo scrittore Pietro Vitelli e Dario Petti, della Atlantide editore che ha pubblicato il volume. A distanza di un anno dalla sua opera di esordio nel campo letterario, “Il sindacalista” prefato da Susanna Camusso, Segretario Nazionale Cgil, Salvatore D’Incertopadre, ex Segretario Provinciale della Cgil pontina, originario di Napoli dove è nato nel 1952, torna in libreria, stavolta con un romanzo. Il testo narra la storia di una famiglia, i Capece, che passano parte della loro vita nel capoluogo campano, per poi trasferirsi a Latina nei primi anni ‘80. Attraverso la saga di questa famiglia l’autore mette sotto i riflettori per la prima volta una migrazione dalla Campania alla provincia di Latina, molto importante e numericamente consistente, che specie negli anni dell’industrializzazione raggiunse punte di diverse migliaia di persone.
Il titolo “Due padri, due figli” fa riferimento a un nonno, un figlio e un nipote, che attraversano la storia italiana dal Settembre1943 fino ai giorni nostri. C’è la Napoli degli anni del dopoguerra e del boom economico, con le sue bellezze artistiche e naturali, la sua creatività, la capacità di arrangiarsi tra le mille difficoltà di una metropoli del Mezzogiorno e le contraddizioni della sua gente. E c’è la città di Latina, costruita negli anni Trenta dal fascismo, nel bel mezzo di una pianura, un tempo palude. Una città senza storia se non quella dei suoi pionieri Veneti, Friulani ed Emiliani che, insieme all’immigrazione successiva, stimolata dall’ingresso della provincia nella Cassa per il Mezzogiorno, non sono mai riusciti a integrarsi per formare un popolo. In queste due città crescono due giovani che affrontano la vita in modo diverso, dalle amicizie alla scuola, dal lavoro alla politica, dall’amore per una donna all’affetto per i figli. Ma la vera protagonista di questa storia è una donna, Assunta, capace di guidare i suoi uomini attraverso le difficoltà che la famiglia incontrerà nella vita.
Antonio Polselli, autore della prefazione, che definisce il libro di D’Incertopadre come un romanzo realistico sociale e di formazione, così introduce il lettore “Due padri, due figli. Una famiglia tra Napoli e Latina è un libro che si legge con curiosità e piacere perché scritto con una prosa fluida e spigliata, viva e palpitante. È un romanzo di grande respiro che nella sua vastità, nella galleria ben assortita dei personaggi, nell’intrigo delle vicende e nell’intrecciarsi dei punti di vista, sembra voler abbracciare la totalità del reale. Un romanzo appassionato e documentato, pieno di personaggi autentici, sinceri e pieni di umanità. Un romanzo originale e avvincente imperniato sui temi della famiglia, dell’amore, dell’amicizia e del lavoro”.
Marco Castaldi
Addetto Stampa & OLMR
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Domenica 12: due appuntamenti!
Due sono gli appuntamenti con la mia poesia (e non solo) questa domenica, 12 marzo. La mattina, presso la Villa Comunale di Mesagne (Brindisi), in occasione della giornata di Tesseramento 2023 dell’ANPI, proporrò il mio monologo poetico «Il latte versato». L’iniziativa avrà inizio alle ore 9.30; i monologhi, invece, alle ore 11.30. Oltre al mio, ci saranno quelli di Cristina Carlà, Giampiera…
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#ANPI Eugenio Santacesaria#Cesare Minutello#Cristina Carlà#domenica 12 marzo 2023#Fondazione Capece#Francesco Bucci#Galleria Capece#Giada DInunzio#Giampiera Dimonte#Il latte versato#Luca De Rosa#Maglie#Mario Badino#Mesagne#Piero Sansò#Poesie#Santificare le feste#Stefano Esperti#Villa Comunale
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Domenica 12, «Santificare le feste» a Maglie
Domenica 12 marzo, alle ore 19.00, presso la Galleria Capece di Maglie (Lecce), presenterò «Santificare le feste». Converserò con Cesare Minutello; le letture saranno a cura di Piero Sansò; Francesco Bucci e Luca De Rosa eseguiranno gli intermezzi musicali con chitarra acustica e batteria. Questo post è un invito a partecipare: da tutto il leccese e le province confinanti, venite, accorrete,…
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#Cesare Minutello#domenica 12 marzo 2023#END Edizioni Non Deperibili#Fondazione Capece#Francesco Bucci#Galleria Capece#Lecce#Luca De Rosa#Maglie#Mario Badino#marzo poetico#Piero Sansò#Santificare le feste
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Libri| I giorni ed i versi, di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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Libri| I giorni ed i versi di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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Ciò che si muove (frustoli di arte contemporanea)
di Paolo Vincenti
Ogni artista che operi nell’ambito dell’arte informale è quasi un chimico trovandosi nella necessità di utilizzare e combinare insieme materiali diversi, seguendo i procedimenti dettati dal proprio estro. Certamente Fernando Spano lo è, perché nella sua ricerca pittorica, l’utilizzo dei materiali si coniuga con la dimensione esistenziale dell’arte come intesa da questo poliedrico e affermato artista salentino. Per esempio, utilizza una composizione fra ossidi di ferro e bitume per il ritratto di Lucio Fontana, uno dei tanti che compongono la sua galleria di icone dell’arte. Ma andiamo con ordine. Doveroso, fornire alcuni dati biografici sul pittore. Fernando Spano nasce il 13 Marzo del 1965 a Veglie, vive e lavora a Lecce. Nel 1987 inizia la sua attività, interessandosi prima alla forma tradizionale della pittura, soprattutto alla tecnica dell’affresco, e poi via via spostandosi verso la pittura informale e le tecniche miste, essendo sempre più attratto dalle sperimentazioni chimiche. Questo lo porta verso la prima delle tematiche della sua carriera, ossia la ritrattistica. Il primo grande artista di cui sviluppa il ritratto è Pablo Picasso, verso il quale nutre una vera ossessione, cosa che riporta al concetto di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte secondo il noto saggio di Walter Benjiamin. Infatti, Spano realizza una serie infinita di ritratti, oltre che di Picasso, di Lucio Fontana, di Joseph Beuys, di Jackson Pollock, vere icone per lui nell’ambito artistico.
«Forse la storia si ripete, di sicuro le emozioni si rinnovano ad ogni ritorno, ma si caricano delle sensibilità, dei trascorsi personali, delle conoscenze acquisite, degli imprevisti legami e delle analogie che una rilettura sapiente ci rivela”, scrive Eduardo Pascali (in “Fernando Spano”, Catalogo Mostra Bari, 2001), “A questa consapevolezza del dipanarsi della storia, uguale a se stessa e nello stesso sempre diversa, si richiama il lavoro e l’impegno di Fernando Spano.
L’invito dell’artista è chiaro e semplice: recuperare, da una parte, con gli occhi nuovi e moderni, i maestri, cogliere, d’altra parte, la loro presenza, anche in una prospettiva critica, nella realtà attuale. Realtà che hanno contribuito a modificare con le proposte artistiche, talvolta dirompenti, provocatorie e in anticipo sui tempi dell’uomo comune». Attraverso la riproposizione di questi grandi maestri dell’arte universale, Spano vuole in realtà riaffermare la propria individualità artistica, emblematico in questo senso il titolo della mostra tenuta a Lecce, presso l’ex Conservatorio di Sant’Anna, a cura di Dino Del Vecchio: “Io ci sono”. Il suo, cioè, è un citazionismo la cui matrice è la pop art, quindi non sterile o fine a sé stesso. Dietro al ritratto, v’è la concezione artistica del pittore e proprio la sua anima. “Queste opere non sono un omaggio agli autori, ma rappresentano un momento di ricerca e riflessione sulle potenzialità espresse dal loro contributo all’arte e alla società”, scrive Andrea Fiore in “Fernando Spano. Identità e distruzione”, Catalogo della mostra tenuta a Maglie e Brindisi nel 2017 (Galatina, Editrice Salentina, 2017). A riprova di quanto detto, nel segno della più ardita sperimentazione artistica, poi Spano realizza una serie di lavori in cui prende delle famose opere d’arte e le trasforma attraverso il bitume, seguendo l’esempio di Beuys, quasi mentore per Spano. Un’altra interessante serie di opere è quella intitolata “Velivoli”, in cui vecchi aeroplani di guerra solcano un cielo nuvoloso o nevoso, trasmettendo inquietudine, timore, ansia allo spettatore. “Questo corpus di opere”, scrive ancora Andrea Fiore, “costituisce la serie di lavori indicata come ‘Velivoli’, attraverso la quale Spano si confronta e riflette sulla capacità di distruzione dell’uomo. Come il giovane Beuys – pilota di aeroplani come quelli rappresentati – trova la salvezza nella sua trasformazione in artista-sciamano, così le opere di Spano trovano nel momento della distruzione prima la morte e poi la conseguente rinascita”. A partire dal 1991, Spano partecipa a moltissime mostre personali e collettive. Fra le ultime, citiamo la mostra collettiva presso la Galleria Scaramuzza di Arte contemporanea a Lecce nel 2011, la Mostra personale presso la Galleria Scaramuzza di Lecce del 2013, la Mostra personale presso lo spazio espositivo del “Caffè Cittadino” , a Lecce, 2015, ancora presso la Galleria Scaramuzza Arte Contemporanea, Lecce, 2016, la Mostra personale presso la Fondazione Capece, Maglie, nel 2017, la Mostra personale presso la Galleria San Luca, Brindisi nel 2017, la Mostra personale presso la Fondazione per l’Arte e le Neuroscienze “Francesco Sticchi”, Maglie, nel 2018. Molto interessante il suo ciclo “Monumenta”, in cui vengono presi dei monumenti del passato e reinterpretati attraverso la tecnica mista. Grandi esempi dell’arte classica, greca e romana, oggi non più esistenti, che rivivono nella contemporaneità di un’arte fortemente sperimentale, che riannoda in questo modo i fili fra passato e presente, coniugando in alchemica sintesi tradizione e innovazione. Ancor più interessanti, i cicli “Memorabilia” e “Volti della memoria”: vasi attici, crateri dell’arte appulo-lucana, elementi dell’arte fittile, statue dell’arte greca, che rivivono sulla tela attraverso un’elaborazione visiva che sembra un invito a recuperare la bellezza perduta, oggi che quei fili di cui si diceva prima sembrano essersi del tutto disgregati.
E ricollocare i materiali rispetto alla loro destinazione naturale, è quello che fa Gix, nome d’arte di Giovanni Strafella, il quale lavora sui materiali con una ricerca molto avanzata, verso l’informale più arduo. Moltissime le mostre cui ha partecipato, come “Arkè Arco dei Pappi”, Copertino e “Kontemporanea”, Lecce, nel 2004, “Caroli Hotels”, Gallipoli e “Castello – Corigliano D’Otranto” nel 2005, al Palazzo Baronale Romano, Pisignano, e alla Cappella Santa Anastasia, Copertino, nel 2006, “Arte Spazio”, Treviso, 2006, “B&B Chiesa Greca”, Lecce, nel 2008, “Cantine Aperte “Taurino”, Guagnano, 2009, “La Locanda”, Copertino, “Palazzo Ducale”, Presicce, “Arte alla Torre”, Leverano, 2012, “Shoah”, Stazione FSE , Copertino, 2015, ecc. Un’esplosione di colori, la sua arte, che si esplica nella più totale libertà di intrugliare elementi diversi presi anche dalla nostra tradizione contadina del passato.
A metà fra pittura e scultura, le sue opere, come “Luce nel vuoto”, “Ecocentro”, “Sviluppo lineare”, “Movimento del passato”. Gix è un artista sempre in movimento. “Nell’agire di Gix niente di riflessivo che miri ad un risultato, niente di appagante o di appagato, ma pulsioni al primo stadio, incuranti del seguito di critiche e giudizi che potranno suscitare. Eppure in tanti, ormai, ci fermiamo davanti ad una sua opera alla ricerca di una risposta. Gix pone domande con la fermezza di chi proclama assiomi”, scrive U.V.A, nel catalogo “Gix: ammiratore dell’energia” (Sannicola, s.d.). Giovanni Strafella vive ed opera Copertino, ha anche un sito: www.gixart.it. V’è, nelle sue opere polimateriche, come “Anarchia cosmica”, “Forma plastica”, “Croce rossa”, “Evoluzione”, una vitalità che si trasmette all’esterno e sembra voglia conquistare l’universo. “In tale processo di trasformazione, le forme e le soluzioni formali sono tutte chiamate in causa e non ci stupisce per questo andare di continuo tra una possibile scultura o un’ installazione ed una giacenza orizzontale”, scrive Angela Serafino, nel sito. “Tutto si muove perché il Caos non conosce direzioni uniformi. Coinvolge tutto attorno, lo invade, poi si addolcisce e si commuove per tutta la estensione di cui è capace, dopo aver raccolto di qua e di là le possibilità di esplorazione. Queste estensioni, cariche di passaggi, sono le opere di Strafella”. E Paola Nestola: “Gix, disintegrando e reintegrando la realtà, si libera di una tensione tradotta, più che in espressionismo figurato, in espressionismo astratto”.
Fra i più interessanti artisti dell’ultima generazione è sicuramente Rocco Cardinale, originario di Taranto, che vive ed opera nell’isola di Las Palmas de Gran Canaria. Nato nel 1981, spirito inquieto, ha fatto varie esperienze e sperimentato varie forme di comunicazione. Amante dei fumetti e della musica punk, con una formazione classica alle spalle, ha capitalizzato le sue passioni nella forma artistica a lui più congeniale. La sua creatività si esprime fra pittura e disegno, la sua cifra stilistica è un concentrato di suggestioni diverse. Suggestiva è del vero la mostra “La folla e gli sguardi”, tenutasi presso l’ex Convento dei Teatini, Lecce, nel giugno 2013. Nelle figure rappresentate, tributarie della fumettistica, quello che colpisce sono i tratti somatici, in particolare gli occhi e la bocca, volutamente dilatati, esagerati, distorti. Una folla di sguardi senza nome che ci osservano con fare circospetto, oppure sornione, sottilmente diabolico, sempre inquietante. C’è un po’ sotto traccia l’inquietudine del perturbante, di freudiana memoria.
Cardinale è sicuramente molto vicino alla street art e al writing, anche per motivi anagrafici. L’artista infatti vive il proprio tempo, è immerso nel mondo contemporaneo con la sua multimedialità, gli innumerevoli stimoli, e questo si riflette nell’eterogeneità delle fonti della sua arte visiva. Egli non è legato ad una scuola particolare né ad una temperie storico artistica definita, semmai la sua arte si caratterizza per un nomadismo culturale, come lo ha definito Toti Carpentieri nel catalogo di presentazione della mostra “La folla e gli sguardi” (a cura di Toti Carpentieri, con traduzione in inglese e spagnolo, Galatina, Editrice Salentina, 2013). Precisamente, la sua arte si può definire skate/surf art, una forma di espressione certamente influenzata dall’arte dei murales e dalla musica punk. Figure di uomini e di donne si ammassano nei suoi quadri, realizzati con la tecnica del collage, a riempire tutto lo spazio, con colori particolari dati dalla mina e dall’acrilico utilizzati. A volte, le figure umane si trasformano, divengono figure indefinite, vagamente grottesche. Volti su volti, che rivendicano il loro diritto di esistere e cercano di comunicarci dalle tele un messaggio indecifrabile, forse l’incomunicabilità stessa. Cardinale ha esposto in mostre collettive e personali, come al “Surf cafè” di Taranto nel luglio 2010 e luglio 2011, e presso la Chiesa di Santa Maria della Pace a Lecce, nel dicembre 2011, in occasione della presentazione del libro “Formazione, trasformazione, riformazione. Dialogo emotivo per immagini”, di V.Colapietro e M.E. De Carlo (Franco Angeli Editore, 2011), che riporta in copertina una sua opera. Nel 2015, Cardinale ha esposto all’Agora Gallery di New York, nell’ambito della mostra collettiva “The Manifestation of Milieu”. Insomma, un artista di talento da tenere presente.
PAOLO VINCENTI
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