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Dosso Dossi e la bambocciata come auto-ritratto di corte.
Dosso Dossi
7 aprile 2012 alle ore 1:01
La cospicua mole critica sulla produzione artistica ferrarese, e in particolare quella che analizza l’opera dei fratelli Dossi, (Giovanni e Battista), si è raramente misurata sul problema dei loro autoritratti. Non risulta infatti che ce ne siano giunti, ad eccezione di uno, come tale annoverato da un inventario della galleria degli Uffizi, ma in seguito rifiutato come spurio dalla più parte degli studiosi che sono entrati nell’argomento. Tale carenza di approfondimenti prende forse l’avvio dal fatto che i due autoritratti singoli che Girolamo Baruffaldi dichiara di aver veduto da fanciullo presso lo studio “dell’eccellente filosofo e antiquario Alfonso Gioia, accreditato ed erudito ferrarese” non sono più stati ritrovati e dal fatto che un secondo doppio ritratto dei due, in un affresco con Ercole e l’Idra lernea è andato distrutto.
La descrizione che Baruffaldi dà di Dosso (Giovanni Luteri) e di suo fratello Battista si innesta in una biografia, che finge fin dall’incipit una strenua competizione tra i due artisti, intrisa di invidie, colpi bassi e dati contraffatti, a discapito di ogni verità storica [Indice ragionato vol. I, p. 108]. Molte delle informazioni, si intende, sono di prima mano, e l’autore della Vita non lesina nel dichiarare l’attendibilità delle proprie fonti, e la loro provenienza. Il suo intento primario è quello di sfatare il giudizio deteriore e fiorentinocentrico montato dal Vasari, che, nella sua Vita di Dosso, non tesse lodi che, secondo Baruffaldi, il pittore ferrarese avrebbe invece meritato. Una volta scagionati i due artisti attraverso la dimostrazione che molti autorevoli scrittori ne hanno in seguito tessuto le lodi, come Vasari, anche Baruffaldi, tuttavia, non esita a ricostruire arbitrariamente le vicende biografiche dei due artisti per far risaltare la figura di Dosso e mettere in secondo piano quella di Battista. Tutto parte dalla citazione dei versi di Ariosto, che cita Giovanni nel suo poema, ma non il fratello. Per Baruffaldi sarebbe questa la causa scatenante della loro inimicizia. Il biografo crea cioè il mito della discordia tra fratelli, che si sarebbero divisi “se il Duca […] non li avesse voluti uniti sempre nel lavoro qualunque volta ordinasse loro qualche operazione pittorica di suo servizio: e certamente se la mano del padrone non fosse stata loro sopra, si sarebbero vedute fra d’essi scene assai luttuose [252]”. Addirittura! Più che abboccare all’esca di Baruffaldi, un lettore critico qui dovrebbe farsi un bel sorriso, riconoscere che si sta giocando con un esempio morale, tipico della retorica e della prammatica del genere letterario delle vite e prendere il testo con le pinze, anche perché, è stato dimostrato che la vera ragione delle probabili inimicizie tra i Dossi non fu tanto la non condivisa fama poetica, quanto piuttosto la divisione dell’eredità paterna. Detto ciò, saremo ora all’erta, e ogni dato o elemento che nella biografia baruffaldiana sia innestato a bella posta per indorare la pillola di questa montatura, sarà d’ora in poi da prendere con altrettanta cautela.
Ad aver letto il Bellori, e la descrizione che egli fa di Caravaggio “Era egli di color fosco, ed aveva foschi gli occhi, nere le ciglia ed i capelli, e tale riuscì ancora naturalmente nel suo dipingere” ci viene subito in mente che la fisionomia era spesso usata per creare un personaggio, cioè, come si credeva diffusamente, i tratti somatici di una persona erano lo specchio della sua interiorità, del suo carattere, o come si diceva allora, della sua complessione. Della stessa tecnica sembra far uso Baruffaldi quando dice: “Battista […] trasse dalla nascita uno spirito torbido” e ancora: “Battista magro e macilente di faccia, col naso schiacciato e simo, di barba rara, ma di molta capigliatura e tutta rabbuffata, picciolo e curvo di statura e di spalle, e piuttosto sembrava una ridicola e odiosa figura, che un uomo nato a cose insigni e virtuose com’era: e ben gli si vedeva per lo fuori trasparire quell’animo cattivo, che lo riempiva. [258]”. È dilettevole commentare col Della Porta [Della Fisonomia dell’huomo libri sei, Padova, Tozzi, 1627] la descrizione appena letta: il magro è disconvenevole [97v], il macilento corrisponde al mercurio infelice [52v]; il naso simo (ovvero schiacciato, come quello delle scimmie) è tipico segno di lussuria [59r]; la barba rara è legata a un proverbio: “poca barba e men colore / sotto il ciel non è peggiore” [154v]; la statura piccola denota frettolosità [166r]; e infine, delle spalle curve, ovvero di un accenno di gobba, si dice: “L’huomo gobbo con difficultà può esser huomo da bene” [91v].
Come viene descritto Dosso, invece? Ecco un esempio di virtù, in contrasto con la figura meschina dell’invidioso e malvagio fratello: “Dosso era bello d’aspetto, calvo di fronte, di prolissa barba, d’occhi azzurri e faccia allegra, e ben colorito, non che ben proporzionato di tutta la persona”. Va da sé che ci troviamo di fronte a una conclamata opposizione fisiognomica atta ad acuire lo scontro tra fratelli: uno, il maggiore, virtuoso e ben proporzionato; l’altro, il minore, vizioso e infelice. A questo punto mi chiedo se sia veramente il caso di dare conto e credibilità a una informazione che, come abbiamo dimostrato, è costruita a bella posta per dire qualcos’altro. Ovvero che Dosso non avesse effettivamente gli occhi azzurri, ma questi occhi angelicati servono a contrapporlo alla natura torbida del fratello. Un’altra cosa che ci può mettere in guardia dalla veridicità di queste affermazioni è che la descrizione della fisionomia dei due fratelli non è disposta, nel testo, in corrispondenza della descrizione fatta dei due autoritratti della collezione Gioia, ma in un’altra posizione, e cioè di seguito all’episodio del litigio avvenuto tra i due, a chiusa del momento di massimo conflitto raccolto dalla biografia [258]. Molti hanno creduto alle parole di Baruffaldi, non cercando nelle opere di Dosso un autoritratto, o cercando addirittura tra i personaggi coloro che potessero corrispondere a questa descrizione. Nessuno dei personaggi raffigurati, infatti, corrispondeva di fatto alla rappresentazione da lui descritta. Dal momento che, come è noto, è prassi comune che i pittori inserissero la propria effigie nelle loro opere, a guisa di firma, sarà bene controllare se questi autoritratti non siano stati effettivamente realizzati dal pittore. Una delle regole sintattiche fondamentali per identificare l’autoritratto è lo sguardo verso l’esterno. Questa posizione è dovuta al fatto che, come spiega Alberti, l’artista è costretto a guardarsi nello specchio mentre si dipinge. La quasi totalità dei personaggi che guardano verso l’esterno, cercando l’attenzione e il contatto visivo degli spettatori, a meno che si tratti di ritratti dichiarati di altre persone, è da valutare e soppesare come autoritratto, proprio per questa ragione prammatica. L’identificazione, poi, può essere avvalorata grazie alla presenza di simboli, o alla somiglianza con altri autoritratti noti di epoche diverse della vita dei pittori.
Nel caso dei Dossi la questione è più difficile: come abbiamo visto c’è un solo Autoritratto agli Uffizi, noto come tale ma rifiutato, e un doppio ritratto a esergo della vita del Baruffaldi, inciso, che a detta di Gibbons è apocrifo e ottocentesco. In ogni caso esistono alcuni ritratti di personaggi anonimi, ma presi dal vero, che ci portano a credere, sia per somiglianza, sia per simboli e attributi distintivi, che si tratti proprio di autoritratti. Alcuni di essi sono quasi certi, per gli stessi motivi intuitivi per cui un conoscitore attribuisce un dipinto a un artista: è pressoché fulmineo, al momento dell’incontro con lo sguardo di un artista, il brivido di agnizione che getta un ponte nel tempo e ci pone di fronte al suo volto. È sufficiente quindi uno sguardo per dichiarare la propria identità? Molto spesso lo è, soprattutto se si tratta di un’epoca in cui alla struttura delle immagini era sottesa una serie di regole ben note e ampiamente diffuse e attuate. Vale a dire che, anche se un biografo non mette nero su bianco che un pittore si è ritratto in una determinata opera (o se non troviamo menzione di un autoritratto nei suoi scritti) la validità del documento figurativo supera l’importanza di ciò che quello di seconda mano non dice, la supera in qualità di fonte primaria, ovvero di autografo. Se quindi né Vasari, né Baruffaldi, né altri hanno salvato dall’oblio gli autoritratti dei Dossi indicandoceli, ciò non significa che sulla base della prassi artistica, e grazie al serrato confronto con gli altri autoritratti noti, noi non possiamo almeno porci il problema.
Il primo intenso e riconoscibile sguardo auto-identificativo, unito a una conclamata e beffarda dichiarazione di genialità e al brillante sorriso giovanile è nel cosiddetto Ritratto del buffone Gonella, alla Galleria Estense di Modena. Vi fu un primo tentativo di identificare il modello con Dosso stesso in Mendelsohn, tentativo che esula dalle conseguenze del presentarsi “in maschera” e da ciò che queste comportano. Da allora l’idea non è più stata ripresa. La storia critica di questo dipinto lo allontana dall’intentio auctoris, mano a mano nel tempo. È sufficiente leggere la scheda di Mauro Lucco, nel catalogo della mostra di New York, per comprendere come un certo approccio formalista, che passa sottogamba l’originaria e filologica ricostruzione del codice illocutivo di un testo figurativo, nuoccia alla comprensione storica più di un incendio negli archivi. Lucco infatti, come tutti gli altri prima di lui, parte dall’idea scontata che il personaggio effigiato sia un Buffone. Egli non lo descrive nei suoi attributi identificativi, ma assume per scontato il titolo dato al dipinto nella sua linea storiografica. Egli ignora completamente ogni problema iconografico, non si pone neppure il problema del fatto che a questo buffone manca tutto: la marotte, ovvero lo scettro figurato, le campanelle o i sonagli, che normalmente ne adornano i vestiti, l’abito divisato e multicolore, proprio del Jolly, del Fool, anche nell’iconografia degli arcani maggiori dei Tarocchi. Peraltro Lucco rifiuta anche l’integrazione proposta da alcuni autori riguardo alla scritta sul cartiglio definendole come “inconcludenti”. Egli cita una seconda “versione” (copia) del dipinto che si trova nella collezione Anacleto Frezzati a Venezia, senza però averla vista, in essa si legge chiaramente la scritta: “Sic Genius” [fig. 1], sarà quindi nostra premura integrare le lettere mancanti in questo modo: SIC GI[E]NIUS anche nella versione modenese, e se non bastasse l’errata grafia, diremo che era norma, in un sostrato basso, e da parte di un artista non necessariamente colto, fare errori grammaticali nel latino, che poi, in mancanza di una norma generale, nel Rinascimento ferrarese, e all’alba del XVI secolo, proprio errore non era, visto che la lettera i che segue la g serve solo a enfatizzare la pronuncia dolce della consonante affricativa postalveolare sonora (ʤ), che senza i potrebbe essere equivocata per una occlusiva velare sonora. Quello che Lucco non considera, però, è che nella traslazione di contesti collezionistici, e in particolare in quella seguita alla devolution dell’intero patrimonio mobile estense, era piuttosto semplice che le identificazioni dei soggetti dei quadri fossero passibili di cambiamento, in particolar modo se, supportate da un mito letterario assai in voga, alcune iconografie si prestavano, dopo la morte dell’autore, a tradirne con più efficacia la popolarità. A maggior ragione, considerando il dipinto come un autoritratto, non aveva più senso, dopo la morte dell’autore, conservarne anche il vero soggetto, e la coincidenza di un sorriso (ritenuto all’epoca piuttosto volgare, perché mostrava i denti, come in certi quadri di genere dei Campi) fu il perno sul quale innestare il cambio di soggetto. L’autoritratto giovanile (1510) di Dosso Dossi corrisponde all’epoca della fine della sua formazione artistica e lo ritrae all’incirca all’età di ventiquattro anni. Il cursus studiorum di Dosso fu supportato dal Duca stesso, con viaggi nei centri artistici nevralgici della penisola. Tale ritratto, perdendo ogni valenza ritrattistica e cortigiana, divenne in seguito una sorta di pezzo da galleria, davanti al quale si potevano raccontare ai propri ospiti, divertenti aneddoti letterari: Gonella prese le sembianze di Dosso e lo sostituì. È del tutto plausibile infatti che all’epoca si fosse già persa l’identità del modello nel ritratto e che questa fosse sostituita da un soggetto più divertente, in deroga al bellissimo sorriso della figura. Ma come possiamo meglio argomentare l’identificazione con Dosso di questo giovane dal sorriso turlupinatore (non testimoniata se non da attributi e fattezze somatiche)? Oltre alla notevole somiglianza coi più tardi autoritratti, di cui parleremo più oltre, egli presenta due caratteristiche di notevole importanza: veste un copricapo nero con una medaglia dorata, che lo accomuna a molti altri autoritratti di pittori cinquecenteschi, e in particolare quello di Giovanni Paolo Lomazzo come Abate dell’Accademia della Val di Blenio, [J. B. Lynch, "Giovanni Paolo Lomazzo's Self-portrait in the Brera," GBA, 64, 1964, 189-97]. Sappiamo che Lomazzo, nel suo Trattato [ Trattato, lib. VI, cap. xlvi, p. 413: “sì come fa fede oltra le molte facciate dipinte in Italia da diversi, quella del Palazzo Ducale a Ferrara dipinta da Dosso & suo fratello di bellissime figure, dove con mirabile arte si vede che i termini sostengono l’architrave”], disse molto bene di Dosso. A meglio osservare il dipinto, si scorge un altro particolare in comune: l’ alloro, pianta tipica di artisti e poeti, che nell’autoritratto di Lomazzo è disposto sul cappello, mentre in quello di Dosso è addirittura sottoforma di albero alle sue spalle, le cui foglie sembrano spuntare dalla calotta come piume inserite nella tesa. Ovviamente questo simbolo botanico riporta al concetto di gloria eterna, guadagnata dall’artista in qualità di servitore del suo duca.
Infine sembra che non sia stato notato da nessuno che, con la mano sinistra, il ragazzo tiene una tavoletta, sulla quale è imposto il cartiglio con la scritta di cui abbiamo già parlato. L’attenzione della critica infatti si è concentrata soltanto sull’epigrafe. Questa tavoletta potrebbe essere proprio un supporto pittorico, o persino un libro, considerando che la tela sarebbe stata decurtata, ciò avviene di solito quando si vuole eliminare un attributo e cambiare soggetto a un dipinto, forse, una mano con un pennello. Ma queste sono solo illazioni. Un altro elemento tralasciato dalla discussione è cosa sia dipinto sulla medaglia d’oro (tipico segno di riconoscimento dei pittori) che pende dalla falda ripiegata del copricapo sul lato destro. La presenza di un capretto, invece, mi conforta nella discussione della plausibilità della mia ipotesi, in quanto l’animale torna solo tre volte nelle opere dei Dossi, e credo funzioni come una sorta di firma criptata. Una capra con le mammelle piene di latte e pronte per la mungitura è inserita nel fregio della scala del Castello del Buonconsiglio di Trento [fig. 2], una decorazione a fresco portata a termine da entrambi i fratelli intorno ai primi anni Trenta del Cinquecento, per il vescovo Bernardo Clesio.
Non manca infine un caso in cui (senza ulteriore discussione) si propone il Buffone come un autoritratto giovanile [Mendelsohn, 1914]. Grazie a questo precedente possiamo qui affermare che il soggetto della tela fu cambiato (probabilmente dopo la morte di Dossi) in un più generico ritratto di buffone, grazie anche al fatto che il personaggio sorride in modo piuttosto evidente. Non bisogna dimenticare, comunque, che i Dossi - secondo Baruffaldi - erano “piuttosto cari al Duca per le loro buffonerie” [242]. E questo ritratto si sposa perfettamente col clima allegro e ridanciano della corte ferrarese. Di grande interesse è notare che la provenienza della famiglia dei Dossi da Trento (città con la quale intrattenevano rapporti, che li portarono a decorare il Castello del Buon Consiglio) è una provenienza montana, mentre Ferrara era una corte di pianura per eccellenza, questo potrebbe avvalorare la presenza del capretto in braccio al personaggio, identificandolo giocosamente con il montanaro Zanni, o Vanni, personaggio della Commedia dell’Arte che incarna l’ingenuità volgare e di matrice maccheronica degli abitanti delle valli scesi in pianura per fare fortuna. Questa identificazione corrisponderebbe sia al nome di Dosso, Giovanni, appunto, sia al suo abbigliamento e all’ambientazione pastorale. Non è peraltro casuale che contadini col costume di Zanni siano raffigurati negli affreschi del mese di marzo a Palazzo Schifanoia, da Francesco del Cossa. Una descrizione del quadro infine è sfuggita alla critica, si tratta di un diario di viaggio del critico letterario John Addington Symonds, che riporto qui di seguito:
“In the picture-gallery at Modena there is a masterpiece of Dosso Dossi. The frame is old and richly carved; and the painting, bordered by its beautiful dull gold, shines with the lustre of an emerald. In his happy moods Dosso set color upon canvas as no other painter out of Venice ever did; and here he is at his happiest. The picture is the portrait of a jester, dressed in courtly clothes and with a feathered cap upon his head. He holds a lamb in his arms, and carries the legend, Sic Genius. Behind him is a landscape of exquisite brilliancy and depth. His face is young and handsome. Dosso has made it one most wonderful laugh. Even so perhaps laughed Yorick. Nowhere else have I seen a laugh thus painted: not violent, not loud, although the lips are opened to show teeth of dazzling whiteness; but fine and delicate, playing over the whole face like a ripple sent up from the depths of the soul within. Who was he ? What does the lamb mean? How should the legend be interpreted? We cannot answer these questions. He may have been the court fool of Ferrara; and his genius, the spiritual essence of the man, may have inclined him to laugh at all things. That at least is the value he now has for us. He is the portrait of perpetual irony, the spirit of the golden sixteenth century which delicately laughed at the whole world of thoughts and things, the quintessence of the poetry of Ariosto, the wit of Berni, all condensed into one incarnation and immortalized by truthfullest art. With the Gaul, the Spaniard, and the German at her gates, and in her cities, and encamped upon her fields, Italy still laughed ; and when the voice of conscience sounding through Savonarola asked her why, she only smiled—Sic Genius.”
Dalla lettura del passo risulta chiaro che il Symonds alla data del suo viaggio in Italia (1879), non aveva i problemi di lettura della scritta sul cartiglio, interpretata chiaramente per quello che anche la copia della collezione veneziana testimonia: “sic genius”. La frase significa letteralmente “così il genio”. Di grande suggestione è poi l’interpretazione che viene data da Symonds, non del tutto scorretta.
A questo proposito risulta piuttosto interessante notare che gli studi di Giulio Cesare Scaligero sul De die natali di Censorino, sebbene successivi al nostro dipinto, testimoniano un ampio interesse nei confronti di questo testo. Tale interesse trova la sua più intensa concentrazione proprio alla corte ferrarese, come sappiamo dagli studi di Aby Warburg su Palazzo Schifanoia e sulla Rinascita del paganesimo antico. In particolare è Lilio Giraldi, un umanista ferrarese che nel 1541 pubblica il trattato: De Annis et Mensibus, caeterisque temporum partibus, difficili hactenus et impedita materia, dissertatio facilis et expedita. Eiusdem Calendarium et Romanum et Graecum, gentis utriusque solennia, ac rerum insigniter gestarum tempora complectens, magno tum historiis, tum caeteris autoribus cognoscendis usui futurum, [Basileae 1541] che tratta del computo calendariale. Una delle poche citazioni del sintagma sic genius anteriori alla data del dipinto si trova in un epigramma dell’umanista siciliano Antonio Geraldini.
Seguendo la descrizione di Censorino, sappiamo che il genius è il dio sotto la tutela del quale ciascuno di noi nasce:
“Genius est deus, cuius in tutela ut quisque natus est vivit. Hic sive quod ut genamur curat, sive quod una genitur nobiscum, sive etiam quod nos genitos suscipit ac tutatur, certe a genendo genius appellatur. 2 Eundem esse genium et larem multi veteres memoriae prodiderunt, in quis etiam Granius Flaccus in libro, quem ad Caesarem de indigitamentis scriptum reliquit. Hunc in nos maximam quin immo omnem habere potestatem creditum est. 3 Nonnulli binos genios in his dumtaxat domibus, quae essent maritae, auctores putaverunt; Euclides autem Socraticus duplicem omnibus omnino nobis genium dicit adpositum, quam rem apud Lucilium in libro saturarum XVI licet cognoscere. Genio igitur potissimum per omnem aetatem quotannis sacrificamus, 4 quamquam non solum hic sed et alii sunt praeterea dei conplures hominum vitam pro sua quisque portione adminiculantes, quos volentem cognoscere indigitamentorum libri satis edocebunt. Sed omnes hi semel in uno quoque homine numinum suorum effectum repraesentant, quocirca non per omne vita spatium novis religionibus arcessuntur: 5 genius autem ita nobis adsiduus observator adpositus est, ut ne puncto quidem temporis longius abscedat, sed ab utero matris acceptos ad extremum vitae diem comitetur. Sed cum singuli homines suos tantum modo proprios colant natales, ego tamen duplici quotannis officio huiusce religionis adstringor: 6 nam cum ex te tuaque amicitia honorem dignitatem decus adque praesidium cuncta denique vitae praemia recipiam, nefas arbitror, si diem tuum, qui te mihi in hanc lucem edidit, meo illo proprio neclegentius celebravero: ille enim mihi vitam, hic vitae fructum adque ornamentum pepererunt.”
http://books.google.it/books?ei=2Rt3T7_qB8iKswbAxKiWBA&hl=it&id=nddPAAAAcAAJ&dq=intitle%3Adie+intitle%3Anatali+inauthor%3Acensorinus&q=sic+genius#v=onepage&q=sic%20genius&f=false
http://www.csus.edu/indiv/r/rileymt/PDF_folder/de_genio_Socratis.PDF
[…]
Altri due verosimili [auto]ritratti a mezzobusto, questa volta possibilmente di Battista Dossi, il fratello minore, possono essere riconosciuti sulla base della reciproca somiglianza dei tratti somatici, e vanno identificati in due dipinti che si trovano oggi a Firenze, e a Los Angeles, si tratta rispettivamente del San Giovanni Battista [fig. 3] e del San Giorgio
[fig. 4 http://www.getty.edu/art/gettyguide/artObjectDetails?artobj=134718 ], essi sembrano presentare analogie genetiche col modello dell’autoritratto di Modena, sono leggermente più tardi, e rappresentano il pittore alla svolta della juventus, una delle sette età dell’uomo. Non è un caso che il primo dei due sia da identificare in un San Giovanni Battista, soggetto che gioca anche sull’omonimia del Dosso minore, e potrebbe essere un gioco di allusione retorica tipico della corte estense, (e più latamente delle corti rinascimentali), dove sappiamo che i componenti del seguito del Duca erano spesso celati in personaggi letterarii e ritratti in veste di santi. Un altro elemento che ci permette di identificarlo come un autoritratto nelle spoglie di San Giovanni Battista è il gesto deittico che invece di essere puntato verso il cielo (come spesso avviene) è appoggiato flemmaticamente sul petto, quasi a dire “io”. Un terzo autoritratto con evidente gestualità deittica e a figura intera è rappresentato dal San Giovanni Battista [fig. 5] di Genova (già Coll. Gnecchi) in cui il modello ritratto si sporge verso l’aspiciente in modo piuttosto squilibrato e indica il cielo con un gesto della mano destra, che potrebbe provenire dal prototipo del san Giovanni Battista di Leonardo da Vinci, o da modelli raffaelleschi da esso desunti. Questi ultimi tre dipinti raffigurano lo stesso modello, ma - nella fizzione - diversi personaggi o diversi tagli di inquadratura. L’analisi dei tratti fisiognomici ci spinge a credere che si tratti di una stessa persona. Lo sguardo diretto è inoltre un secondo elemento sintattico che riporta al tema dell’autoritratto in veste di santo.
Infine, è da identificare in un autoritratto di Dosso, in veste di pittore di corte, il personaggio che guarda verso l’esterno nella cosiddetta Allegoria di Ercole degli Uffizi, che presenta una linea ermeneutica piuttosto vessata. Nessuno dei commentatori infatti analizza strutturalmente i singoli elementi in essa raffigurati, cadendo così nel problema della iperinterpretazione. Il primo ad approntare uno studio monografico del dipinto è Gibbons, prima in un articolo, poi in un capitolo della sua monografia sui fratelli Dossi, che riprende l’articolo già pubblicato. Calvesi si distanzia dall’interpretazione del dipinto come un’Allegoria di Ercole, attribuendo indimostrabili valenze dionisiache. Infine Lucco e altri riprendono le idee dei precedenti studiosi, facendo una sintesi delle loro ricerche.
Né l’iconografia di Bacco, né quella di Ercole possono essere giustificate dalla totale assenza degli attributi di riconoscimento: il personaggio seduto, con le spalle scoperte, che tira una sfera verso di sé, e indossa una corona di rose, identificato da Gibbons con Ercole (ed Ercole II d’Este), non può essere un ritratto del Duca, in quanto, all’epoca, egli avrebbe avuto una trentina d’anni [cfr. Lucco scheda 42, p. 219: “non sfugge allo studioso…a petto d’un duca giovane, atletico, vitale, qui si vede rappresentato un Ercole vecchio, debilitato”], né può essere identificato con l’eroe mitologico in quanto manca dei principali segni di riconoscimento: la leontea e la clava. Tantomeno si può pensare (neppure con uno sforzo di fantasia) che si potesse scambiare il personaggio per Bacco, ché non ha né vino, né uva, né corone di pampini o d’edera, e soprattutto ha la barba bianca, caratteristica che a quanto mi consta sarebbe un hapax nell’iconografia del dio del vino. Si può spiegare la suggestiva caduta ermeneutica di Gibbons che pubblica il suo studio nel 1965, con l’influenza molto intensa che nel pensiero iconologico, a Princeton, poteva avere il saggio di Panofsky su Ercole al bivio: [Hercules am Scheidewege und andere antike Bildstoffe in der neueren Kunst, Leipzig Teubner, 1930] e con una sua impermeabilità all’idea di cercare le identità dei personaggi nei quadri, che lui stesso definisce in altri casi “intrinsically unlikely” [Cfr. Gibbons, scheda 107, p. 230].
Ciò che va messo in atto per leggere il significato di una simile immagine è l’analisi della struttura del dipinto; si tratta a primo acchito di una scena di genere, ma dalle connotazioni squisitamente cortigiane. La presenza di elementi cortesi infatti riporta al clima delle arti che fiorivano alla corte estense, al collezionismo di animali rari, per cui Alfonso aveva una vera passione, e alla questione dinastica della fertilità. Se partiamo dall’alto a sinistra troviamo un uomo vestito elegantemente, che guarda verso il pubblico, egli stringe con la mano una corona di pampini, mentre sulle sue ginocchia è disposta una capra Jamnipari, probabilmente di sesso maschile. Marco Masseti, zoologo dell’università di Firenze mi scrive: [Ti confermo che la capra che mi hai mandato è di origine indiana. Si tratta di un maschio (vedi cornetti), forse adulto, di razza Jamnapari, diffusa nell'Uttar Prardeh. E' all'origine dell'attuale razza anglo-nubiana, dova anche i maschi sono acorni.]. Tale identificazione ci permette di avvalorare l’identificazione di Dosso nel personaggio che guarda verso l’esterno, essa infatti riprende il precedente autoritratto in veste di giovane artista, che abbiamo testé analizzato, e condivide con esso l’attributo di riconoscimento: il capretto. Essa non sarà quindi un simbolo di lussuria come è stato più volte erroneamente ipotizzato, ma un vero e proprio attributo di riconoscimento. Come abbiamo visto Dosso era noto a corte non solo come pittore, ma anche per le sue buffonerie, e ciò riporta al personaggio dello Zanni, che condivide con lui le origini montane e una sorta di maschera arcadica di pastore. I pastori oltre a produrre latte e carne avevano la possibilità di commerciare con le pelli degli animali macellati, che in ferrarese erano detti “dossi” (cfr. Voci di terre estensi : glossario del volgare d'uso comune (Ferrara - Modena) da documenti e cronache del tempo secoli XIV - XVI, Fondazione di Vignola. Giuseppe Trenti. Iconografia a cura di Achille Lodovisi, Vignola, 2008, p. 214, s.v. “do[s]so”). Non è da escludere che i Dossi integrassero la loro attività di pittori con quella di conciatori di pelli o pergamene, e che avessero preso questo soprannome dalla loro attività, anche solo nella finzione sociale cortigiana. Ma anche queste sono illazioni. Sta di fatto, però, che il tipo di capra raffigurata è piuttosto raro, e diffusamente raffigurato come elemento prezioso ed esotico in diversi dipinti e opere d’arte dell’epoca. In particolare in alcuni teleri di Carpaccio (storie di san Gerolamo) e in un bronzetto di Andrea Riccio (Giove che munge la capra Amaltea).
Potrebbe trattarsi di un dono del Duca a Dosso per i suoi servigi, sappiamo infatti che il pittore era particolarmente benvoluto, un dono che gioca comunque sulla sua identità letteraria di montanaro arcade sceso alla corte ferrarese. Altresì i due autoritratti costituiscono per la ripresa del sintagma autoritratto/capra una coppia: il primo raffigura l’artista giovane appena giunto a corte dopo il suo periodo di formazione, l’altro invece raffigura l’artista a corte, in un ritratto di famiglia. Analizzare la propriocezione dell’artista in questo secondo caso è di fondamentale importanza: la possibilità di ritrarsi come artista di corte, mentre tiene in mano una corona vegetale (di vite e non di alloro) ci testimonia il desiderio di eccellenza di Dosso, come artista ufficiale, che compare in un ritratto della famiglia d’Este, tutto giocato sull’umorismo che lo contraddistingueva. In secondo luogo, comparire come un personaggio che porta in braccio una capretta in un contesto faceto, e con un sorriso bonario, ci trasmette la sua soddisfazione per ciò che egli ha raggiunto, a pochi anni dalla morte, e al tempo stesso l’onore di poter essere parte della famiglia ducale, non tanto come un pari, quanto piuttosto come un famiglio. Inoltre, se ci fossero ancora dubbi sull’autografia di Dosso Dossi per questo dipinto, la sua firma figurata, cioè l’autoritratto stesso, li fugherà completamente.
Gli altri personaggi vanno identificati sulla base delle somiglianze e delle età, che essi avevano in corrispondenza della data assegnata al dipinto (1540-2). A quell’epoca Alfonso I era deceduto, e non è una coincidenza trovarlo in veste all’antica, che tira a sé una palla di cannone. Gibbons ha ipotizzato che si trattasse di un martello e della relativa attività atletica, che tuttavia fu rifondata soltanto nel 1910 [Gibbons, art. p. 493: “On the table is a mask and a tambourine, as well as two stone balls, at least one of them yoked to a cord, like the device used in the event of a track meet known as the hammer throw” nel libro p. 98]. Conosciamo invece la passione per la balistica di Alfonso, che vinse la flotta veneziana grazie alla avanzata tecnica balistica dei suoi cannoni, prodotti proprio a Ferrara. Le due sfere corrispondono in grandezza e in materiale (pietra) alle palle di cannone, usate nelle battaglie del Cinquecento. Non è un caso che diversi ritratti di Alfonso, di mano dello stesso Dossi, o copie da originali, raffigurino sempre il Duca con una mano sulla bocca di un cannone e alle spalle un campo di battaglia. È possibile che, non potendo inserire un cannone in questo contesto, Dosso abbia deciso di caratterizzare il personaggio di Alfonso con una coppia di palle di cannone, che descrivevano in modo altrettanto sagace una delle sue principali passioni. Alfonso era già morto da sei anni nel 1540, ma la somiglianza con la ritrattistica nota è davvero sorprendente. La barba grigia, il naso con una sorta di allargatura in corrispondenza del setto (tipico di tutta la famiglia) denotano una conoscenza del modello da parte di Dosso, che aveva lavorato per lui, e una probabile trasposizione su tela di una maschera funebre [??].
Dalla sua posizione di profilo che lo distingue strutturalmente da altri personaggi, che non lo sono, possiamo dedurre che il taglio laterale sta a significare che il personaggio era già deceduto all’epoca del ritratto. Questa ipotesi è confortata da altri due volti: quello soprastante di Ercole I d’Este, che richiama in maniera sorprendente le fattezze fisiognomiche dell’avo della famiglia. Non è un caso che egli sia disposto al di sopra di Alfonso, ma a lato di Ercole II, con il quale condivide il nome. In ogni caso, essendo nato nel 1490 ca. Dosso avrebbe potuto comunque conoscerlo prima della morte, avvenuta quando egli aveva circa 15 anni, nel 1505.
La medaglistica e alcuni ritratti in marmo (oggi al Louvre), altresì di profilo, ad opera dello scultore di corte Sperandio Savelli, ritraggono Ercole I d’Este con una quasi totale sovrapponibilità col personaggio che sta di fronte all’autoritratto di Dosso, e anzi restituiscono il colore che invece non fa parte della ritrattistica bronzea o marmorea.
Dietro Ercole I è invece un personaggio con barba lunga e castano scura, che sorride e rivolge lo sguardo verso Alfonso. Si tratta di Ercole II, suo figlio e legittimo erede, che allora aveva circa 32 anni, età che corrisponde con le sembianze del personaggio, e che era Duca di Ferrara. Egli non presenta attributi, se non la vicinanza con la consorte, Renata di Francia, che sta quasi nascosta sotto di lui. Ai suoi lati invece si possono identificare i due fratelli, tutti gli eredi sono accomunati dallo sguardo rivolto al padre: Francesco d’Este, duca di Massalombarda, di circa 24 anni, che tiene in mano un fuso con un rametto di sambuco, e che nella riflettografia era stato originariamente dipinto con un’armatura (egli infatti intraprese la carriera militare). È essenziale dire che il fuso con la stecca e la matassa di lana, così come il ramo di sambuco su di esso inserito alludono più che all’iconografia di Ercole e Onfale, alla quale sono stati messi in relazione, all’uso popolare di fare dono di questi oggetti alle future spose. La provenienza della consorte di Francesco, la vedova Maria di Cardona, marchesa di Padula, nel Principato di Citra e contessa di Avellino, avvalora questa suggestiva ipotesi, in quanto come è noto la regione era in origine abitata dalle famose streghe di Benevento [Paolo Diacono, Hist. Lang.]. Il loro matrimonio si svolse nel 1536, con il beneplacito di Carlo V [DBI, s.v. Francesco d’Este, p. 346]. Francesco presenta una straordinaria somiglianza con il più invecchiato ritratto noto ad acquerello [F. Rodi, Annali(Ms. Classe I, 645) Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea]. È inoltre possibile che l’attributo del fuso alluda al fatto che più d’una volta Francesco recitasse nelle commedie che si allestivano a corte, con un senso di rovesciamento carnascialesco tipico di queste manifestazioni. Alla sinistra di Ercole II si trova Ippolito I d’Este, di 31 anni, che all’epoca era già stato nominato cardinale, e che prediligeva i tessuti cremisini che indossa, con la barba e i capelli castano rossicci, e che corrisponde ai ritratti noti che sono giunti fino a noi, nonostante non ne esistano di lui così precoci. Anche il cane maltese che probabilmente Ippolito tiene in braccio allude al concetto di fedeltà [???].
Rimangono solo le due donne: una, Renata di Francia, quasi sommessa, al di sotto del proprio marito all’età di trent’anni, unita in un legame matrimoniale, che è anche di prossimità; l’altra, invece, con il seno nudo e un coltello in mano rivolto verso il proprio cuore, e un piatto di frutta. Il coltello allude all’iconografia di Lucrezia, e quindi alla sua identità: si tratta infatti della Borgia, moglie di Alfonso I d’Este, e madre dei tre rampolli presenti nel dipinto. Non è un caso che ella sia ritratta di profilo in quanto all’epoca era già deceduta (già dal 1519), ed è per così dire congiunita al marito dalla corda, che è legata alla sfera di pietra, disposta sul tavolo. Di fronte a lei stanno anche una maschera e un tamburello, simboli di musica e teatro, che fiorirono alla sua corte. Il tamburello è in particolare uno strumento femminile, che si addice alla duchessa. Il piatto di frutta che tiene con la mano sinistra allude certamente alla sua fertilità, che diede al consorte i tre eredi maschi, qui effigiati. I ritratti delle donne risultano meno caratterizzati dal punto di vista somatico, ma sono identificabili grazie alla prossemica e al rapporto con altri personaggi maschili. Dopotutto, quello della donna in particolare era un ritratto che alla corte di Ferrara incarnava un archetipo di bellezza omologata, pensato per esprimere caratteristiche morali più che somatiche. Si pensi ai ritratti di Laura Dianti di Tiziano, e alla vicinanza di questi ultimi con un tipo di ritratto femminile quasi universale. Non deve stupire il fatto che il seno di Lucrezia sia scoperto, anche questo escamotage è finalizzato a simboleggiarne la fertilità, peraltro già più volte adottato dalla ritrattistica ufficiale. Quello di renata di Francia invece è coperto dalle figure che si trovano di fronte a lei, forse anche per simboleggiare il suo rigore calvinista.
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