#Delitti di mafia
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unita2org · 12 days ago
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QUEL GIORNO ACCADEVA...
29 gennaio 2025 29 Gennaio 1921 Vittoria (Ragusa) ucciso Giuseppe Compagna, consigliere comunale socialista Giuseppe Compagna, consigliere comunale socialista di Vittoria (Ragusa) rimase ucciso in una incursione di combattenti di orientamento nazionalista, fascisti e il gruppo mafioso locale, che devastarono il circolo socialista  e spararono sui lavoratori presenti. Fonte: C.tro siciliano di…
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curiositasmundi · 2 years ago
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C’è una convergenza di interessi tra mafiosi ed estremisti di destra su alcuni delitti eccellenti e stragi, manovrata da una regia ancora occulta che mette in collegamento Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e terroristi neri. Storie macchiate dal sangue di vittime innocenti su cui si attende ancora una verità, non solo giudiziaria ma anche politica. Il tema centrale, come scrivono i giudici della Corte d’assise di Bologna nell’ultima sentenza sulla strage del 2 agosto, “è il collegamento tra Cosa Nostra, l’eversione terroristica di destra e i collegamenti con il gruppo di potere coagulatosi intorno alla P2 e a Licio Gelli“. Ci sono una serie di legami che dimostrano che tra i “neri” dei Nuclei armati rivoluzionari, di cui faceva parte anche Massimo Carminati, e Cosa Nostra, vi fossero scambi operativi, “mediati da altri soggetti”. Le inchieste giudiziarie documentano come in diverse vicende i boss calabresi sono andati a braccetto con i neri. E comprendere lo sviluppo di questo intreccio è compito pure della Commissione parlamentare antimafia. Lo scorso aprile sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Bologna, da cui si legge che è stato un attentato, quello del 2 agosto 1980 alla stazione, eseguito da neofascisti. I giudici mettono in collegamento la strage con l’omicidio a Palermo del presidente della Regione, Piersanti Mattarella, fratello del Capo dello Stato. Per quel delitto sono stati assolti i neri Fioravanti e Cavallini. Nel processo di Bologna sono stati recuperati elementi che hanno indotto i giudici a ritenere che “l’eliminazione di Mattarella dopo quella di Aldo Moro, al quale si apprestava a succedere, secondo ragionevoli interpretazioni della fase storica, era indispensabile per eliminare un irriducibile ostacolo ai piani della P2 e al contempo a quelli di Cosa nostra, convergenti sull’obiettivo data l’azione che Mattarella aveva avviato in Sicilia per sottrarre il suo partito all’alleanza con la mafia”. I sicari di Mattarella non hanno ancora un nome, ma sono stati condannati come mandanti i componenti della cupola. I neri rivendicarono il delitto: “Qui Nuclei Fascisti Rivoluzionari, rivendichiamo l’uccisione dell’onorevole Mattarella in onore ai caduti di Acca Larentia”. Seguita da comunicati di rivendicazione di Br e Prima linea ritenuti depistanti, quasi a correggere quella prima incauta rivendicazione. L’assoluzione in primo grado nel 1995 scaturisce dalle dichiarazioni di Buscetta e Marino Mannoia, i quali assicuravano che i killer erano uomini di Cosa Nostra, senza tuttavia saperli identificare. Fioravanti e Cavallini erano stati processati in base alle accuse rivolte da Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, che li indicava come autori dell’agguato; la testimonianza della moglie di Piersanti Mattarella che vide in faccia il killer e ne descrisse l’andatura ballonzolante di Fioravanti; e infine la presenza di Valerio Fioravanti a Palermo nei giorni in cui Mattarella fu ucciso. Su questo delitto la procura della Repubblica di Palermo sta ancora indagando. E poi c’è lo stesso modello di pistola che uccide Mattarella e il giudice Mario Amato, organizzato e portato a termine dai terroristi dei Nar. In questo caso spara Gilberto Cavallini. La perizia sulla pistola risulta “coincidente” con quella utilizzata per uccidere Mattarella. Ci sono “punti di collimazione” e poi la Colt utilizzata dai “neri” per uccidere Amato aveva “un difetto di funzionamento”, come quella che i testimoni oculari hanno detto per l’arma utilizzata nell’agguato al presidente della regione siciliana. Gli specialisti del Racis dei carabinieri sono riusciti a comparare i proiettili dell’omicidio Mattarella con la Cobra usata dai Nar a Roma. Il risultato è “coincidente”: significa che c’è una probabilità molto alta che l’arma sia la stessa. Sulla saldatura tra mafia e Nar indagava pure Giovanni Falcone, lui non era il solo a credere nella pista “fascio-mafiosa”. La commissione antimafia presieduta da Bindi ha tolto il segreto alla relazione sul delitto Mattarella del 1989 firmata Loris D’Ambrosio, allora in servizio all’Alto commissariato, in cui spiega che “l’inesistenza di piste mafiose per gli autori materiali non implica, sia ben chiaro, l’esclusione della matrice mafiosa dell’omicidio”. Per D’Ambrosio non era solo mafia. Mattarella viene ucciso come “nemico dell’anti-Stato”. E proprio la scelta di affidare l’esecuzione a terroristi neri permette ai capi di Cosa Nostra di “disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo” e dimostrare “alla stessa organizzazione quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’anti-Stato è in grado di esercitare”. Una storia fascio-mafiosa che è materia per un’attenta inchiesta di una commissione parlamentare. Magari quella dell’Antimafia.
Dal delitto Mattarella alla strage di Bologna: la trama oscura che lega mafia e terrorismo nero - Lirio Abbate – repubblica.it
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agrpress-blog · 1 year ago
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Il grande giornalista, saggista e sceneggiatore romano, esperto di terrorismo, intelligence, mafie e criminalità organizzata, compirebbe settantuno anni. Nato a Roma il 1° febbraio 1953 - è morto il 19 luglio 2023 dopo una breve malattia -, giornalista professionista dal ’74, Andrea Purgatori consegue il master of Science in Journalism presso la Columbia University di New York nel 1980. Inviato del «Corriere della Sera» per circa venticinque anni (dal 1976 al 2000), è noto per le sue numerose inchieste e reportages su casi scottanti del terrorismo internazionale italiano dei cosiddetti “anni di piombo” e sullo stragismo, come il caso Moro (1978) e la strage di Ustica (1980 - A. Purgatori è stato il giornalista d’inchiesta che più di ogni altro si è battuto per la ricerca della verità sulla strage di Ustica). Ha raccontato molti delitti da mafia dal 1982 fino alla cattura di Totò Riina (1993). Ha realizzato reportages su numerosi conflitti, fra cui la guerra in Libano (dal 1982 al 1985), la guerra fra Iran e Iraq (1980-88), la prima guerra del Golfo (1991), l’intifada e le rivolte in Tunisia e in Algeria. Oltre che per il «Corriere della Sera», ha scritto per «l’Unità», «Vanity Fair», «The Huffington Post», «Le Monde diplomatique». Ha collaborato fino all’ultimo con il «Corriere della Sera» e «Style». È stato autore e conduttore di Uno di notte (1998). Ha realizzato servizi televisivi per Dossier, Spazio Sette, Focus (RaiDue 1978-88). In tv ha condotto anche Confini (1996, RaiTre). Ha scritto molte fiction per la tv - Caravaggio (2008), Lo scandalo della Banca Romana (2010), Il commissario Nardone (2012), Lampedusa (2016). Per la saggistica ha scritto A un passo dalla guerra (1995), Il bello della rabbia (1997), I segreti di Abu Omar (2008). Nel 2019 ha pubblicato il romanzo Quattro piccole ostriche (HarperCollins). Per il cinema ha scritto Il muro di gomma (1991) di Marco Risi, dedicato alla sua inchiesta sulla strage di Ustica, Il giudice ragazzino (1994) di Alessandro Di Robilant - film sulla vita del giudice siciliano Rosario Livatino (1952-1990) dal suo ingresso in magistratura al suo impegno nella lotta alla mafia fino al suo assassinio -, L’industriale (2011) di Giuliano Montaldo. Ha vinto, fra gli altri, il Nastro d’Argento per il Miglior Soggetto con Il muro di gomma, il Premio Hemingway per il giornalismo (1993), il Premio Crocodile - Altiero Spinelli per il giornalismo (1992), il Globo d’Oro (1994) per la Miglior Sceneggiatura di Il giudice ragazzino e il Premio Sergio Amidei (2009), con Marco Risi e Jim Carrington per la Migliore Sceneggiatura Internazionale di Fortapasc (2009) di M. Risi, film sulla vita e la tragica fine del giornalista Giancarlo Siani (1959-1985). Nel 1987, oltre a partecipare al soggetto ed alla sceneggiatura del film Spettri di Marcello Avallone, vi appare come attore. Nel 2002 partecipa al programma televisivo Il caso Scafroglia (RaiTre), interpretando la voce off che dialoga con il conduttore (Corrado Guzzanti), mentre nel 2006 prende parte al film Fascisti su Marte di C. Guzzanti e Igor Skofic. Sempre con C. Guzzanti ha realizzato Aniene (SkyUno). È stato coatore del programma tv di Antonio Albanese Non c’è problema (2002, RaiTre). Dal maggio 2014 al giugno 2020 è stato presidente di Greenpeace Italia. È stato membro dell’Accademia del Cinema Italiano e dell’Accademia Europea del Cinema, presidente delle Giornate degli Autori e, dal marzo 2015, membro del Consiglio di Gestione della SIAE (Società Italiana degli Autori e Editori). Dalla stagione 2017/18 ha condotto la nuova edizione di Atlantide (La7), per cui riceve il Premio Flaiano (2019) come Miglior Programma Culturale. Fra i sui ultimi lavori, nell’autunno 2022, la docu-serie Netflix Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi. Nel 2018 Andrea Purgatori ha partecipato, con una sua preziosa testimonianza, alla realizzazione del libro fotografico Aldo Moro. Memoria, politica, democrazia
(Archivio Riccardi, 2018), da cui è tratta la mostra fotografica omonima, formata da oltre cento scatti del grande fotografo Carlo Riccardi (1926-2022).
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giancarlonicoli · 1 year ago
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13 nov 2023 16:18
“IO E DE DONNO SIAMO VIVI PERCHÉ LA MORTE DI BORSELLINO HA RESO INUTILE LA NOSTRA SOPPRESSIONE” - MARIO MORI E GIUSEPPE DE DONNO APRONO LE VALVOLE DOPO L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA - NEL LIBRO “LA VERITÀ SUL DOSSIER MAFIA-APPALTI” SI ACCENDE UN FARO SU QUEL FASCICOLO CHE, DOPO LA STRAGE DI CAPACI, DOVEVA PASSARE NELLE MANI DI BORSELLINO. MA NON FU MAI COSÌ E VENNE ARCHIVIATO – I DOCUMENTI IN CASSAFORTE DEL SINDACO DI PALERMO ORLANDO, I NOMI DELLE AZIENDE ITALIANE COINVOLTE NELL’ORGIA DI APPALTI PUBBLICI E… -
Estratto dell’articolo di Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera”
«Io e De Donno siamo vivi perché la morte di Borsellino ha praticamente reso inutile la nostra soppressione». Lo scrive il generale dei carabinieri Mario Mori, che con il colonnello Giuseppe De Donno è autore de La verità sul dossier mafia-appalti (Piemme, 235 pagine, 19,90 euro). Il libro è «quel» libro sulla mafia e sul «sistema della corruzione coessenziale alla mafia», con nomi e cognomi, che mancava.
I due autori, militari del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dell’Arma, sono stati i più stretti collaboratori di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, e questo libro volevano scriverlo da tempo, ma non hanno potuto, perché hanno dovuto trascorrere quindici anni a difendersi dall’accusa surreale di aver «trattato» con la mafia (per dissuaderla dalle stragi).
Un’accusa dalla quale sono stati assolti definitivamente «perché il fatto non costituisce reato» solo sette mesi fa.
La maxi-inchiesta Mori e De Donno raccontano l’inchiesta che «avrebbe potuto cambiare l’Italia», svolta dai Ros in Sicilia e consegnata nel 1991 a Falcone. Partita dagli appalti nei comuni di Baucina e di Bagheria, l’inchiesta si estese a tutta l’Isola e poi all’Italia, come aveva profetizzato Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta (1961) con la metafora della «linea della palma, che viene su, su per l’Italia, ed è già oltre Roma».
Il dossier dei Ros non ebbe mai vita facile. Nemmeno dopo l’assassinio di Falcone, il 23 maggio 1992, e poi di Borsellino, avvenuto il successivo 19 luglio. E alla fine venne seppellito definitivamente insieme con i due magistrati.
[…]
«Da un lato c’era il nemico — scrivono i due autori — e dall’altro quelli che senza essere oppositori dichiarati, omettevano, ritardavano, silenziavano». Il riferimento, esplicito, è non solo ai politici, ma anche e soprattutto ai magistrati. Un lungo elenco, tra quelli vivi e quelli morti (di vecchiaia) e secondo una differente gradazione di responsabilità, che va da Pietro Giammanco a Giuseppe Pignatone, a Giancarlo Caselli. Tutti, politici e magistrati, raccontati per ciò che hanno fatto (di male) o per ciò che non hanno fatto (di bene), o per la loro dantesca ignavia. Stesso discorso per il fronte antimafia «di professione».
Palermo, le collusioni
L’ex sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, per esempio. Mentre in tv accusava Falcone di tenere chiusi nei cassetti documenti su delitti eccellenti, custodiva in cassaforte documenti su imprese compromesse con la mafia, negandone l’esistenza davanti al magistrato Alberto Di Pisa, il quale fece perquisire il Municipio e trovò quei documenti.
Di Pisa stava per incriminare Orlando, ma due giorni dopo finì sui giornali con l’accusa di essere «il Corvo», cioè l’autore di lettere anonime contro Falcone e altri. Un falso, grazie al quale però gli tolsero l’inchiesta, di cui non si saprà più nulla. Poi, quattro anni dopo, nel 1993, distrutta la sua carriera, Di Pisa verrà assolto.
Gli appalti pubblici
Nell’orgia di appalti pubblici preconfezionati, in cui «la mafia che uccide è il “ministero della Difesa” dell’anti-Stato politico-economico», i Ros, Falcone, Borsellino e pochi altri (come il pm Felice Lima a Catania, che per non fare la stessa fine dovette lasciare il penale e trasferirsi al civile) capirono di aver messo a nudo «il sistema cardiocircolatorio della mafia, in tutta la Sicilia e in tutta l’Italia», «un sistema in cui guadagnavano tutti e in cui il mondo dell’economia non era certo vittima (come nello schema monco di Tangentopoli), ma al contrario era complice, anzi erano proprio gli imprenditori ad avviare la macchina».
Tanti i nomi importanti in cui si sono imbattuti i Ros - il libro ne contiene decine -, dall’impresa Tor di Valle di Roma, con il suo titolare Pietro Catti, genero di Alcide De Gasperi, alla Calcestruzzi di Ravenna del capitano d’industria Raul Gardini, che finirà suicida, fino all’«uomo degli appalti» in Sicilia, Filippo Salamone da Agrigento.
Dopo Giovanni Falcone E tuttavia, uccisi Falcone, la moglie e la sua scorta il 23 maggio ’92, l’inchiesta mafia-appalti non fa in tempo a passare nelle mani di Borsellino che il 13 luglio i pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato (oggi senatore del M5S) ne chiedono l’archiviazione. Ma a Borsellino non dicono nulla. Nemmeno nella riunione tra magistrati che si tenne in Procura a Palermo il giorno dopo, il 14 luglio, in cui Borsellino intervenne in maniera dura e preoccupata. Di questi e di molti altri «particolari» si è venuti a conoscenza solo trent’anni dopo […]
Il 19 luglio esplode l’autobomba che uccide Paolo Borsellino e i cinque membri della scorta, il 22 luglio il procuratore Giammanco appone il suo «visto» alla richiesta di archiviazione e il 14 agosto, la vigilia di Ferragosto, il gip di Palermo, Sergio La Commare, archivia mafia-appalti, «l’archiviazione più veloce della storia». Borsellino non doveva indagare.
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roma-sera-giornale · 1 year ago
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Roma Città Criminale: Dal Clan dei Marsigliesi a Mafia Capitale di Giovanni de Ficchy
Redazione Tutte le strade portano a Roma, anche quelle del crimine.Dalle scene dei delitti alle aule dei tribunali, un viaggio tra i fatti di sangue che hanno segnato la storia della capitale:gli episodi di cronaca giudiziaria più clamorosi tra quelli che negli ultimi cinquantacinque anni hanno avuto Roma come protagonista. Il reale negli anni trascorsi è stato fagocitato, e trasformato dai…
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claudio1959 · 2 years ago
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FALCONE e BORSELLINO EROI.
ALESSANDRO SALLUSTI oggi su Libero. Proviamo a mettere le cose in chiaro, perché quando la sinistra dice alla destra - come ha fatto nelle scorse ore a proposito della nomina del presidente della commissione parlamentare antimafia e dell’anniversario della strage di Capaci, “giù le mani da Falcone e Borsellino”, sta bestemmiando in chiesa. Andiamo con ordine. Paolo Borsellino era un uomo di destra che più di destra non si può, da giovane universitario fu dirigente del Fuan, l’organizzazione del Movimento Sociale Italiano che raccoglieva gli studenti di destra e nel 1992, due mesi prima della sua morte, il Msi lo candidò come presidente della Repubblica: ottenne solo 47 voti perché chi oggi a sinistra e non solo lo celebra come un Giusto della Patria gli preferì Oscar Luigi Scalfaro. Tutto questo è stato censurato, rimosso da una propaganda martellante, non ne trovate traccia neppure sulla sua biografia su Wikipedia che non è quel luogo di libertà e indipendenza che dice di essere. E veniamo a Giovanni Falcone, ucciso sì dalla mafia ma ancora prima dalla sinistra politica e giudiziaria. Nel 1990, l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando, leader della sinistra cattocomunista, intervistato da Michele Santoro a Samarcanda, iniziò il killeraggio: «Falcone - disse senza avere in mano uno straccio di prova - ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti». A ruota seguì una campagna denigratoria guidata dalla corrente di sinistra della magistratura, Magistratura democratica, e un processo davanti alla commissione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura da parte di colleghi invidiosi del suo successo e molto ansiosi di disfarsi di una figura diventata ingombrante. E adesso la sinistra ci dice “giù le mani da Falcone e Borsellino”? Tenetele giù voi le mani dalla memoria di eroi che non sono mai stati vostri, eroi che sarebbero entrambi ancora vivi se la sinistra non li avesse scaricati e abbandonati al loro destino, nel caso di Borsellino non solo ma anche perché uomo di destra. La sinistra può rimuovere e sbianchettare la storia quanto vuole, per interesse e per vergogna, ma la storia è questa e nessuno può cambiarla: Borsellino e Falcone sono vittime della sinistra ed eroi della destra.
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infosannio · 2 years ago
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Dal delitto Mattarella alla strage di Bologna: la trama oscura che lega mafia e terrorismo nero
Dietro alcuni attentati e delitti eccellenti si nasconde una regia ancora occulta (di Lirio Abbate – repubblica.it) – C’è una convergenza di interessi tra mafiosi ed estremisti di destra su alcuni delitti eccellenti e stragi, manovrata da una regia ancora occulta che mette in collegamento Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e terroristi neri. Storie macchiate dal sangue di vittime innocenti su cui si…
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cinquecolonnemagazine · 2 years ago
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Letizia Battaglia la fotografa di Palermo
Letizia Battaglia fotografa della mafia è una giusta definizione? Attraverso i suoi scatti, Letizia Battaglia ha senza dubbio testimoniato in molti momenti questo aspetto della vita di Palermo ma non è stato l'unico. Il suo occhio era rivolto alla città con i suoi mille volti, con le sue molte contraddizioni. La fotografia è stata per lei una missione, un modo per raccontare la sua terra in anni molto difficili. Unica donna tra tanti uomini Quando inizia la sua carriera di fotografa è il 1969: Letizia ha 34 anni e collabora con il quotidiano palermitano "L'Ora" ed è l'unica collega donna tra tanti uomini. Dopo una breve permanenza a Milano, torna nella sua città dove con il suo obiettivo testimonia momenti cruciali della vita della sua città. I suoi scatti fanno il giro del mondo e le guadagnano nel 1985 il Premio Eugene Smith a New York, ex aequo con la fotografa americana Donna Ferrato. Nel 1999 le viene invece tributato il premio "Mother Johnson Achievement for Life". Espone non solo in Italia, ma anche in Francia, Gran Bretagna, Svizzera, Brasile, America e Canada e in alcuni paesi dell'est Europa. Negli anni Ottanta da vita al "Laboratorio d'If" uno spazio di formazione per fotografi e fotoreporter. Letizia Battaglia fotografa di Palermo Ci sono immagini che dopo decenni sono ancora impresse nella nostra memoria. Una di queste è senza dubbio quella che ritrae Piersanti Mattarella esanime tra le braccia del fratello Sergio. L'allora presidente della Regione Sicilia fu assassinato da Cosa Nostra il 6 gennaio del 1980 e Letizia Battaglia fu la prima fotoreporter ad accorrere sul luogo del delitto. Pochi mesi prima aveva immortalato un altro dei delitti eccellenti di quel periodo: quello del giudice Cesare Terranova avvenuto, appunto, il 25 settembre 1979. La foto ritrae il giudice alla guida di una Fiat 131 con i vetri dei finestrini rotti. Per Letizia Battaglia la fotografia era uno strumento di lotta civile. Immortalare ciò che la mafia stava compiendo in quegli anni era come una missione. Con le sue foto testimoniò, ad esempio, l'ascesa del clan dei Corleonesi mentre gli scatti che ritrassero Giulio Andreotti insieme agli imprenditori Ignazio e Antonino Salvo presso l'hotel Zagarella furono ammessi agli atti durante il processo al politico democristiano. Palermo non era solo mafia. Era una città che viveva una realtà molto più complessa. Il suo impegno costante la porterà a ritrarre questa complessità andando a sbirciare negli angoli più nascosti, a scovare i volti delle persone comuni. Eppure saranno due fatti di mafia a segnare la fine della sua carriera di fotografa: i delitti Falcone e Borsellino avvenuti rispettivamente a maggio e a luglio del 1992. Diverse fonti raccontano che Letizia fosse stanca di confrontarsi ancora con la violenza. L'impegno politico L'impegno politico fu un'altra parte importante della vita di Letizia Battaglia. Nel 1979 figura tra i fondatori del Centro di Documentazione "Giuseppe Impastato". Negli anni Ottanta e Novanta ha ricoperto diversi incarichi politici: consigliera comunale con i Verdi, assessore comunale a Palermo nella giunta Orlando, deputata all'Assemblea regionale siciliana con La Rete e vice presidente della Commissione Cultura nell'XI legislatura. Lo scorso anno, il 13 aprile, una lunga malattia l'ha portata via. Via dalla sua Palermo che ha ritratto con amore e dolore. In copertina foto di F. Heiberger da Pixabay Read the full article
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andreamassarisindaco · 2 years ago
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GIORNATA IN RICORDO DELLE VITTIME DI MAFIA, FIDENZA ERA PRESENTE ALLA GRANDE MANIFESTAZIONE DI MILANO Il 21 marzo, XXVIII Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Un'iniziativa voluta e promossa da Libera ma che, da qualche anno, ricorre anche istituzionalmente, per merito della Legge n. 20 dell’8 marzo 2017. Il primo giorno di primavera è stato dunque l'occasione per recitare ancora una volta i nomi e i cognomi di chi ha perso la vita nei tanti, troppi delitti di mafia che funestano il nostro Paese. Un interminabile “rosario civile”, attraverso il quale farli vivere ancora, per non farli morire mai. Quest'anno la piazza scelta per la manifestazione è stata quella di Milano, dove sono giunti cittadini e rappresentanti istituzionali da ogni parte d’Italia, per catalizzare le energie di quanti vogliono impegnarsi per una giustizia sociale, avverso le mafie e la corruzione. Fidenza era come sempre dal 2014 presente con l'assessore alle Politiche Sociali @alessia.frangipane e il gonfalone comunale, orgogliosamente sostenuto dagli agenti della Polizia Locale in alta uniforme. #fidenza #avvisopubblico #liberacontrolemafie #legalità #mafie #parma (presso Milano) https://www.instagram.com/p/CqGb1OvI18t/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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arcobalengo · 2 years ago
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Intanto don Masino svelava particolari inquietanti agli inquirenti statunitensi. Nella primavera del 1985, Buscetta raccontò di Giulio Andreotti, già cinque volte presidente del Consiglio e ministro di quasi tutti i governi del dopoguerra, come patron di Cosa Nostra al sostituto procuratore federale di New Work Richard Martin, collega e amico personale di Giovanni Falcone. Ma anche ad Antony Petrucci, agente della Dea. Anche la Cia mostrò interesse per i segreti di Buscetta: in cambio della sua collaborazione, ai suoi cari viene garantita una residenza negli Stati Uniti. Ma Buscetta, in cuor suo, sapeva che era meglio stare lontano dall’Agenzia. Sapeva quanto fosse pericolosa quella «congrega di killer di Stato», come lui stesso definì la Cia. Don Masino conosceva molti dei suoi segreti. Sapeva che negli anni Sessanta era stata la Cia a commissionare a Cosa Nostra l’assassinio del presidente dell’Eni Enrico Mattei, inviso alle sette sorelle del petrolio. Lui stesso aveva partecipato ai sopralluoghi che avevano preceduto il sabotaggio dell’aereo personale di Mattei, parcheggiato all’aeroporto di Catania. Alla fine dell’estate 1985, Totò Riina era latitante da sedici anni, Bernardo Provenzano da ventidue. Non li cercava nessuno. Palermo era spaccata in due: voglia di cambiare e voglia di mafia. Il Maxiprocesso stava per iniziare e c’erano giudici che si defilavano. Nessuno voleva fare il presidente della Corte. C’era chi si giustifica con problemi di salute, chi di famiglia. La sensazione era che nessuno voleva guai. Si faceva fatica a trovare un presidente per il “Processo alla mafia”. Il 10 febbraio del 1986 si aprì finalmente il dibattimento. Gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso erano quattrocentosettantaquattro. Con loro, erano finiti nel carcere dell’Ucciardone anche l’ex sindaco Vito Ciancimino e gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Alla fine ad accettare lo scranno bollente era stato Alfonso Giordano, sarebbe stato lui presidente della Corte di Assise alla fine. Veniva dal civile, era una grande sorpresa. Il giudice a latere era Pietro Grasso, i pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. «Silenzio, entra la Corte», scrisse in prima pagina “Il Giornale di Sicilia”. Un titolo perfetto per il processo dove per la prima volta c’erano mafiosi che volevano parlare. Per diciotto mesi Palermo, e il resto d’Italia, furono catturati da quanto accadde nell’aula bunker. Il 16 dicembre 1987, dopo trentacinque giorni di camera di consiglio, trecentoquarantanove udienze, mille e trecentoquattordici interrogatori, seicentotrentacinque arringhe difensive, Cosa Nostra siciliana incassò la sconfitta più dura della sua storia: diciannove ergastoli e duemila e seicentosessantacinque anni di carcere. «La mafia è in ginocchio», dichiararono pomposamente i ministri di Roma. La notizia delle condanne al Maxiprocesso di Palermo fece il giro del mondo. Era una vittoria per il pool, per Giovanni Falcone, quello delle «comiche figure» e delle «sceneggiate » descritte sul quotidiano cittadino. Tutti erano certi che ormai la mafia era alle corde, ferita mortalmente. C’è solo un uomo che non si fece travolgere dalla sbornia del successo: Falcone. Sapeva troppe cose sulla mafia e i suoi complici. Aveva intuito, accantonato, ma non dimenticato, piste insolite sui delitti eccellenti e su organizzazioni nazionali e transnazionali, di cui nessuno parlava. Sapeva che stava per arrivare il momento più difficile. Anche perché seimila chilometri più a occidente c’era qualcuno di molto potente che “il processo alla mafia” proprio non l’aveva mandato giù. Proprio adesso che la solidità dell’accordo Italy Project era fondamentale per il futuro del mondo doveva saltare tutto in aria. Non era accettabile. L’alleanza doveva essere ripristinata, anche a costo di versare del sangue, tanto sangue.
Franco Fracassi - The Italy Project
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unita2org · 1 month ago
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QUEL GIORNO ACCADEVA...
5 GENNAIO 1984 Assassinato il giornalista GIUSEPPE FAVA Giuseppe Fava nasce a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il 15 Settembre del 1925. Profondamente innamorato del paese natale, dove i genitori abitarono sino alla fine degli anni ’90, lo visitava spesso e lo ha celebrato nei suoi scritti (paese mio). Nel 1940, ottenuta la Licenza Ginnasiale presso il ginnasio Michelangelo Pantano…
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corallorosso · 3 years ago
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«È tutto finito. Ho speso la mia vita per rincorrere gli ideali contro le mafie e ho immaginato di riscattare la mia terra da un’immagine negativa. È una cosa pesantissima. Non lo so se per i delitti di mafia ci sono condanne così». Mimmo Lucano
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abr · 3 years ago
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Un altro mostro di cartapesta viene giù dalla diabolica Disneyland italiana: la trattativa fra Stato e mafia, uno dei mostri più laboriosi, complicati, fabbricato a tavolino, non c'è stata.Mai. Assolti tutti: da Marcello Dell'Utri - l'unico ad essere assolto «per non aver commesso il fatto» (tradotto: coinvolgerlo è stata pura invenzione, c'entrava ZERO, qualunque fossero i fatti di cui si discute, ndr) - che, nel fantastico e travagliato bestiario del travaglismo e dintorni, avrebbe dovuto fare da ponte per incastrare Berlusconi e la mafia e farlo apparire non una vittima di minacce e soprusi, ma un compare di Totò Riina. Tutto falso e anche fabbricato. Il povero generale Mario Mori (...) è stato assolto perché il fatto non costituisce reato (tradotto: ha parlato coi mafiosi ma facendo il suo mestiere, ndr). Fu lui ad arrestare il capo dei capi, Riina, che ha finito (...) i suoi giorni in galera. E lo stesso dicasi per gli altri ufficiali del Ros, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. L'unico condannato resta, con lo sconto di un anno, il boss Leoluca Bagarella. (...) L'inchiesta aveva lo scopo di disonorare tutti i servitori dello Stato che hanno annichilito Cosa Nostra (...) facendone i loschi congiurati di un complotto: quello per intavolare illegalmente una «trattativa» col crimine organizzato, cedendo favori nella vita all'interno delle carceri in cambio della garanzia che Cosa Nostra avrebbe smesso con lo stragismo (...). Lo scopo finale della messinscena della mai avvenuta trattativa era chiarissimo: attaccare Dell'Utri perché siciliano e sodale di Berlusconi, per poter poi attaccare Berlusconi, facendone un complice persino nei due delitti più infami della storia del nostro Paese, quelli che spensero le vite di Falcone e Borsellino. Per raggiungere lo scopo di quella caccia alle streghe furono usati tutti gli strumenti delle guerre segrete.
Paolo Guzzanti la fa INGOIARE a quelli che le scorciatoie giustizialiste (c’è un apposito giornale sorto per sostenere la caccia alle streghe anti comuniste), via https://www.ilgiornale.it/news/cronache/i-giustizialisti-cartapesta-1977357.html
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giancarlonicoli · 2 years ago
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28 lug 2023 14:17
“CON PURGATORI LAVORAVAMO A UN DOCUFILM D’INCHIESTA SULLA MAFIA, CI SENTIVAMO PEDINATI” – IL REGISTA MARCO TULLIO GIORDANA RACCONTA L’ULTIMO PROGETTO AL QUALE STAVA LAVORANDO CON IL GIORNALISTA SCOMPARSO: “AVVERTIVAMO SPESSO UNA IMPALPABILE SORVEGLIANZA, L’AGGIRARSI DI FIGURE STRANE. MALGRADO LA POPOLARITÀ, PURGATORI ERA ANCHE MOLTO ODIATO. LE SUE INCHIESTE ERANO DISTURBANTI PER I MANOVRATORI…" -
Estratto dell'articolo di Marco Tullio Giordana per “la Repubblica”
Non entrerò nella questione se siano state ben fatte le diagnosi di Andrea Purgatori e conseguentemente prescritte le cure adeguate. È materia al momento sub judice e, dolore a parte, non mi sento in diritto di metterci bocca. Tutta la tenerezza possibile invece ai suoi figlioli, che per amore di verità hanno raddoppiato il peso della loro croce. Negli ultimi tre anni l’ho molto frequentato per via di un progetto che volevamo fare assieme.
(...)
Anche perché il nostro materiale si basava su atti processuali e sentenze passate in giudicato, inoppugnabili perfino per il plotone di avvocati incaricati di verificare. Questa serie, che inizialmente doveva chiamarsi “La zona grigia”, si trasformò abbastanza rapidamente in un’altra idea: non più il lungo film che avrebbe dovuto inevitabilmente misurarsi con le convenzioni romanzesche, ma una miscela di finzione e indagine giornalistica per la quale Andrea Purgatori era adattissimo grazie alla formidabile presenza scenica (faccia da Dick Tracy, voce profonda e autorevole, come quella del grande Sergio Zavoli o degli eroici baritoni verdiani) e alla credibilità delle sue trasmissioni, una su tutte quella “Atlandide” che lo hanno reso così popolare e benvoluto.
Facemmo anche diversi sopralluoghi in Sicilia raccogliendo molte testimonianze – di magistrati, giornalisti, investigatori e anche di gente comune – per venire a capo di una scaletta stringente e inappellabile.
L’uscita e il grande successo di “Vatican Girl”, dove Purgatori era voce narrante e carismatica presenza investigativa, ci convinse di essere sulla strada giusta e aumentò la nostra voglia di realizzare il progetto. Cominciarono subito alcune stranezze. Intanto la sensazione di essere intercettati, addirittura seguiti. Si trattasse di me ci sarebbe da ridere, ma trattandosi di Purgatori e delle sue inchieste sempre fastidiose e rivelatrici (Da Ustica a Pecorelli, da Pasolini a Moro, da Giovanni Paolo I a Emanuela Orlandi, per non dire che di queste) l’ipotesi non era peregrina.
Anche vedendosi privatamente da me o nella sua nuova abitazione piena di piante e quadri o in qualche ristorante deciso all’ultimo (e dove, cittadino del mondo, Andrea Purgatori si divertiva ad apostrofare in hindi, singalese o swahili i vari gestori), avvertivamo spesso una impalpabile sorveglianza, l’aggirarsi di figure strane. Con una certa incoscienza ne prendevamo atto senza osservare precauzioni, addirittura ridendone.
In fondo le nostre informazioni provenivano da carte accessibili a chiunque, nulla era segreto o scandaloso o “coperto”, tutto era di dominio pubblico. La storia d’Italia sarebbe perfettamente leggibile solo ad aver voglia di raccontarla (e soprattutto di ascoltarla). Dunque? Dunque niente, soltanto una minuscola osservazione.
Malgrado la popolarità (bastava andare in giro con lui per rendersi conto da quanta stima e riconoscenza fosse circondato) Purgatori era anche molto odiato. Le sue inchieste, nella miglior tradizione del giornalismo di strada anziché di scrivania, erano immensamente disturbanti per i manovratori.
Che parlassero di trattativa, di politici collusi, di delitti e mattanze eccellenti, prelati ambigui, giudici “avvicinati” e corrotti, le sue trasmissioni avevano sempre fatto centro e creato quel sentimento di appartenenza civile oggi sommamente detestato da chi non vuole né controllo né opposizione. Che a nessuno venga in mente di citare Anna Politkovskaja, o Alexander Litvinenko o Jamal Ahmad Khashoggi. Casomai a qualche stupido complottista, giusto per poterlo dileggiare.
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generalstarfishperfection · 3 years ago
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Letizia Battaglia - Palermo, 5 marzo 1935 – Cefalù, 13 aprile 2022
Letizia Battaglia – la storia di Palermo in un rullinoLa fotografa siciliana è al centro del documentario Shooting the Mafia, diretto da Kim Longinotto«Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino». Robert CapaRobert Capa ha assolutamente ragione. Se si vuole inquadrare un oggetto o una figura, bisogna porsi nella giusta distanza e aspettare il momento più adatto. 
È questione di un attimo, e in men che non si dica la foto non è più la stessa di quella che l’occhio (e, di conseguenza, la mente) aveva previsto.Dietro a quella frase, però, c’è dell’altro. Capa nel pronunciare quelle parole ha lasciato intendere un altro aspetto dell’essere un fotografo: essere lì, vivere quel momento e sentire quando è momento di fermare il tempo. È ciò che ha fatto Letizia Battaglia, che oltre a essere una fotoreporter, è una vera combattente. A raccontarla ci pensa Kim Longinotto con il documentario Shooting the Mafia, presentato a Milano in occasione della decima edizione del Weworld festival.
 L’evento è organizzato dall’associazione WeWorld Onlus, che da anni si occupa della condizione delle donne e dei bambini nel mondo.La carriera di Letizia Battaglia parte ufficialmente verso la fine degli anni ‘60, quando decide di prendere in mano la macchina fotografica contribuendo con i suoi scatti ad arricchire le pagine della rivista L’Ora. Dopo essere stata per alcuni anni a Milano, decide di tornare a Palermo, una città che ha bisogno di tanto rullino per raccogliere tutto il patrimonio instaurato nel corso della storia.
Eppure la seconda metà del Novecento ha messo Palermo nella condizione di dover convivere con la paura, che in questo caso ha il volto di Cosa Nostra. La testimonianza di Letizia Battaglia da questo punto di vista è la perfetta dimostrazione della ferita che all’epoca faticava a rimarginarsi.La fotografia ha il pregio (in alcuni casi si può parlare anche di fardello) di immortalare un’emozione, che può essere la gioia in un momento di svago, o il dolore di fronte alla morte. 
La sua fama cresce principalmente su quest’ultimo punto, con un repertorio d’immagini che descrivono l’orrore che ha travolto Palermo dagli anni ’70 in poi.È storia quella fotografia che ritrae uno dei tanti momenti bui che ha coinvolto la città, il frammento che segna la scomparsa del Presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella , il fratello dell’odierno Capo dello Stato Sergio Mattarella.La Mafia, con la sua striscia di sangue e di delitti, andava per forza raccontata. E non solo per il diritto di cronaca, un servizio utile al cittadino e a una democrazia liberale come l’Italia, ma per quelle persone verso le quali spesso si dimentica del grande lavoro svolto da Letizia Battaglia.Il contributo più grande si vede infatti quando al centro dell’obiettivo ci stanno figure umili, coloro che più di ogni altra si trovano a fronteggiare quel grosso macigno sociale che non smette di colpirle. I bambini, ad esempio, sono più volte raccontati nello sfondo di alcune zone corrose dal potere criminale, come il quartiere Zen.
Il discorso si fa ancora più interessante quando è la donna a essere messa a fuoco dall’autrice, nel pieno di un’emancipazione che, anche se a piccoli passi, comincia a migliorare la condizione di vita femminile.Una delle foto più rappresentative è senza dubbio il ritratto del lutto di Rosaria Costa, la consorte di Vito Schifani , uno degli uomini della scorta che ha perso la vita insieme al magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morbillo, e i colleghi dell’arma Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. In quella foto il dolore spicca grazie alla scelta del chiaro scuro che divide in due il suo volto. La sofferenza, percepibile nei suoi occhi, le conferirà invece un coraggio che si tramuta in un discorso rivolto agli assassini di Capaci nella chiesa di San Domenico: «io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio». Una sfida così potente alla Mafia è il primo passo verso il cambiamento, l’esito di un lungo percorso tracciato dalle immagini di una donna altrettanto temeraria come Letizia Battaglia, la prima in Europa a ricevere il Premio Eugene Smith, ottenuto nel 1985 insieme alla collega americana Donna Ferrato.
Di Riccardo Lo Re
Letizia Battaglia di Francesca Esposito:La grande fotografa, attivista per i diritti, se ne è andata. La ricordiamo con questa bellissima intervista che ha rilasciato a Francesca Esposito in occasione del progetto - Site Specific Meraviglioso Reale - a L’AquilaPer ricordare Letizia Battaglia, che ci ha lasciati qualche ora fa, riproponiamo questa intervista, originariamente pubblicata il 2 febbraio 2022.
L.B. "Non me ne accorgevo di essere libera, di volere cose diverse. Ho sempre vissuto per quello che sentivo, non per gli altri. Io stessa non sapevo che stavo lottando, mi sembrava normale".
L.B. "Ho provato a cercare la bellezza interiore. Ho cercato di imporre alla mia macchina fotografica soprattutto la parte che spera, quella che vuole lottare".F.E. Un nome, un destino quello di Letizia Battaglia: che “fotografa la bellezza interiore”, è convinta che “bisogna essere di parte” e “prendere sempre una posizione”.
La incontriamo in occasione del progetto - Site Specific Meraviglioso Reale a L’Aquila -: gigantografie di suoi scatti campeggiano sui ponteggi della futura Casa delle Donne dell’associazione Donne TerreMutate. L’iniziativa è a cura di Camilla Carè di Off Site Art che, dal 2014 accompagna i lavori di riedificazione del centro storico dopo il sisma.F.E. Ma chi è Letizia Battaglia?Classe 1935, fotogiornalista palermitana pluripremiata, nel 1985 Letizia Battaglia è la prima donna europea a ricevere il premio Eugene Smith per i suoi scatti di impegno sociale. Nel 2017 viene inserita dal New York Times tra le 11 donne più influenti al mondo.Ha esposto le sue fotografie in musei e istituzioni, dalla Francia al Canada, passando per il Brasile. Sulla sua vita è stato realizzato il documentario Shooting the Mafia (2019), diretto dalla regista britannica Kim Longinotto. Dal 1991 dirige la rivista di sole donne «Mezzocielo» e dal 2017 il Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, per cui organizza workshop e incontri. Roberto Andò ha da poco finito di girare una serie tv dedicata alla sua vita.
F.E. In Meraviglioso Reale possiamo dire che il mezzo è il messaggio: cosa pensa delle donne di oggi?
L.B. Potrebbero fare molto di più, per loro stesse e per l’umanità. Questo mondo ha bisogno che le donne amministrino, che governino. Non 4 su 100, ma 50 e 50: insieme devono gestire il mondo a secondo delle loro qualità. Devono imparare a imporsi nei partiti, nei luoghi di lavoro. Ovunque le donne in qualche modo accettano. Non ne posso più della retorica, le donne devono gestire la loro vita. La nostra, quella di tutti.
F.E. Perché?
L.B. Il problema è che le donne non votano per le donne. Lavorano meno degli uomini, sono costrette spesso a lasciare l’impiego quando hanno dei figli, hanno salari più bassi dei colleghi maschi. Serve un cambiamento nel nostro atteggiamento, dobbiamo esigere rispetto per il lavoro che facciamo. Serve solidarietà umana per vincere questa battaglia.
F.E. Lei è femminista?
L.B. Sono più che femminista. Non è vero che le femministe siano dispettose con le altre donne, sono donne che fanno comunità. Non possiamo più accontentarci perché poi va avanti il pensiero maschile che naturalmente è diverso quello femminile. Se lavorassimo insieme le cose avrebbero più armonia. Noi siamo più generose, più coraggiose, più amanti dell’ambiente e della natura.
F.E. Lo storico Alessandro Barbero si è chiesto se le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi.
L.B. Governare è un dovere, il dovere di esserci e di occuparsi del pianeta che va in malora, dell’inquinamento, dei popoli oppressi. Le donne non sarebbero lì solo parlare, ma farebbero meglio.
F.E. Come si fa contro il patriarcato?
L.B. Nel loro privato le donne devono essere decise, ma anche nei partiti. Con fiducia e certezza, il ricatto con gli uomini bisogna farlo. E dobbiamo uscirne, altrimenti c’è la disperazione.
F.E. Impegno civile, giustizia e libertà. Tanti i suoi valori, più di tutto la bellezza. Cosa è per lei?
L.B. Sono anni che fotografo la bellezza. È innocenza, freschezza del comportamento. Con la macchina fotografica cerco lo sguardo puro, nel senso più ampio del termine.
F.E. Dove trovare la purezza?
L.B. La purezza sono le bambine, le donne. Ho fotografato recentemente alcune donne che hanno il cancro, arrivavano da tutta Italia. Ho provato a cercare la bellezza interiore. Ho cercato di imporre alla mia macchina fotografica soprattutto la parte che spera, quella che vuole lottare.
F.E. Lei come si sente?
L.B. Meravigliosa. So che sono così. Il punto qui è amare se stessi. Ho quasi 87 anni, ammalata con tanti problemi. Sono euforica per il fatto di aver condotto una vita come la mia. Sono felice di aver lottato.
F.E. Lo scrittore Emanuele Trevi dice che tenderemo ad assomigliare al nostro nome.
L.B. Non mi piace il mio cognome, è troppo esplicito.
F.E. Lei si definisce una fotografa militante. Cosa significa?
L.B.  Denunciare al mondo quello che il mondo non vuole vedere, vuol dire non avere scrupoli nel raccontare e denunciare. Bisogna essere di parte. Prendere una posizione. Non sono una che fa le foto per venderle ai giornali, per metterle nei libri o per fare le mostre. Ho sempre scelto da che parte stare. Ho sempre sentito questa urgenza.F.E. Di fotografare?L.B. Non sono una brava fotografa, ho riconosciuto errori e pensato che avrei potuto fare meglio. Più che una fotografa sono una persona che fotografa, ho avuto una vita incredibile. Ho fatto volontariato psichiatrico, teatro, ho avuto l’amore.
F.E. L’amore per Santi Caleca, un punto di riferimento ancora oggi. Poi quello per Franco Zecchin. Come andò?
L.B. Ero andata a vedere uno spettacolo di Grotowski, partita da Palermo con il treno per Venezia. Uno dei componenti della compagnia, mentre ero nel pubblico, è venuto da me e mi ha chiesto di partecipare a uno stage promosso dalla Biennale di Venezia.Dopo qualche mese sono partita, mi hanno chiamata e lì ho conosciuto Franco Zecchin. C’erano francesi, giapponesi. Era proibito fotografare, invece io trasgredii e feci qualche scatto. Fecero la spia e mi chiesero i rullini. Franco, di corsa, uscì fuori da questa villa e mi comprò dei rullini con cui scambiarli. Era stato coraggioso e solidale. Pochi giorni dopo siamo usciti in barca a Venezia, lui fece scolare un po’ di acqua del mare sulla mia mano. Era un tipo così, timido non stucchevole. E questo fu il suo gesto d’attenzione. Quella notte, anziché dormire insieme agli altri con il sacco a pelo, ci spostammo da soli in una stanza che ospitava un allestimento scenico pieno di foglie secche sul pavimento. Quella notte cominciammo a conoscerci.
F.E. Cosa è l’amore?
L.B. Non posso raccontare l’amore di chi ho fotografato. Però posso dire che non è innamoramento, che è non vero e pericoloso. L’amore è rispetto ed empatia. È piacersi molto, anche fisicamente. Fotografare, ad esempio, è un atto d’amore.
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paoloxl · 3 years ago
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Ergastolo ostativo, la Camera approva la legge “peggiorata” - Osservatorio Repressione
285 sì, 47 astenuti e un voto contrario. Bocciato l’emendamento Magi che correggeva la “stortura” della Spazza-corrotti nel 4 bis. Benefici esclusi anche per i reati contro la Pubblica amministrazione, come per i mafiosi.
di Eleonora Martini
Il Movimento 5 Stelle esulta e anche il Pd mostra una discreta soddisfazione. Ma il testo sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, licenziato ieri dalla Camera con 285 voti a favore, 47 astenuti (tra i quali +Europa e Italia viva) e un voto contrario, si discosta in molti punti dalla direzione indicata nella sentenza n.97 dell’aprile 2021 con la quale la Corte costituzionale ha giudicato illegittima l’attuale legislazione che vieta la liberazione condizionale e i benefici penitenziari (lavori esterni, permessi premio, ecc.) ai detenuti o agli internati che non collaborino con la giustizia.
A maggio prossimo scadrà l’anno di tempo che ì giudici costituzionali diedero al legislatore per sanare questa stortura del nostro ordinamento. Ma se per la Consulta non si può chiudere la porta del carcere “in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia”, perché non sempre la collaborazione nelle indagini è segno di vero ravvedimento né viceversa, il testo messo a punto in commissione Giustizia (relatore il pentastellato Mario Perantoni), ed emendato ieri prima del voto finale, pone ulteriori paletti (la concedibilità dei benefici viene preclusa se vi è stata “collaborazione inutile” o “irrilevante”) e, per quanto riguarda l’ergastolo, aumenta da ventisei a trenta anni la pena da scontare prima di poter presentare l’istanza di liberazione condizionale.
E anche se il presidente della Camera Roberto Fico ha definito il testo che deve ora passare all’esame del Senato “un intervento normativo importante e necessario per la lotta alla mafia”, nell’ostatività finiscono anche i reati contro la pubblica amministrazione, proprio insieme ai delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione dell’ordine democratico, riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, sequestro di persona e così via.
Il tentativo del deputato di +Europa, Riccardo Magi, di correggere con un emendamento questa “abnormità” dovuta alla cosiddetta “Spazza-corrotti” del 2019 precipitata nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, quello che norma il regime ostativo, è naufragato in un voto a scrutinio segreto chiesto da Fratelli d’Italia. “All’epoca del voto sulla Spazza-corrotti Forza Italia aveva presentato una bella pregiudiziale di costituzionalità anche con riferimento a questa parte della legge – ha detto Magi in Aula presentando il suo emendamento �� il Pd aveva votato contro, definendo lo Spazza-corrotti una norma “spazza diritto”, la Lega aveva votato favorevolmente rinnegando poi quella scelta al punto di promuovere i referendum per la giustizia giusta”.
Eppure la correzione di +Europa che eliminava i reati contro la Pa dal 4 bis ha convinto solo Italia viva, mentre FI ha lasciato libertà di scelta. Risultato: 121 voti a favore, 227 contrari. Una bocciatura che il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, definisce “sconfortante” perché l’emendamento Magi “avrebbe posto fine ad una norma insensata, pericolosa e demagogica”.
“L’equiparazione ai fini delle modalità esecutive della pena del reato di corruzione a quelli dì mafia – denuncia Caiazza – è figlia della follia populista e giustizialista che ha travolto il nostro Paese, e della sua ossessione punitiva. La graduazione della diversa gravità dei reati appartiene da sempre ai più elementari principi dì civiltà giuridica”. Altri emendamenti proposti dalla maggioranza sono invece stati approvati In particolare quello che prevede che i benefici penitenziari possano essere concessi dal Tribunale di sorveglianza “al detenuto o internato sottoposto a regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41 bis solamente dopo che il provvedimento applicativo dello speciale regime sia stato revocato o non prorogato” dal Ministero della Giustizia.
La domanda dei benefici penitenziari, da parte del detenuto, può essere presentata, ribadisce il testo, così come ha stabilito la sentenza della Cassazione del 2020 e della Corte costituzionale 253/2019. Quella varata ieri dalla Camera è, secondo Leu, “una buona riforma”, ma per associazioni quali “Nessuno tocchi Caino” e Antigone invece è come minimo “un’occasione persa”. Lo dice Patrizio Gonnella che di Antigone è presidente: “Il legislatore è rimasto imprigionato nella paura di fare un regalo alle mafie, innovando in modo non sufficiente la legislazione penitenziaria” e con “finanche un inutile aggravamento della disciplina”.
da il manifesto
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