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#Antoine Laurent Castellan
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A Classical Landscape with Figures by Antoine-Laurent Castellan
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"Repas Turk," Plate 71 from Antoine Laurent Castellan and Louis Mattieu Langles, Illustrations de l'Histoire des Othomans: Mœurs, usages, costumes des Othomans, et abrégé de leur histoire (Paris: Nepveu, 1812).
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Tarantismo e musiche per le tarantate in un testo del 1797
LE OSSERVAZIONI DI ANTOINE LAURENT CASTELLAN SUL TARANTISMO E LES AIRS DE LA TARENTULE (DA UN SUO VIAGGIO IN PUGLIA NEL 1797)
  di Gianfranco Mele
In un precedente articolo ho parlato di Antoine-Laurent Castellan, in riferimento ad una “versione del Mito di Aracne” presente su alcuni siti web, che in realtà non è altro che un racconto di Castellan, ambientato in Brindisi e trasmesso a questo viaggiatore dalla gente che là ha incontrato, nel lontano 1797.[1]
Trattavasi (secondo le testimonianze del popolo), di una storia accaduta in quei tempi, pochi anni prima, in quanto protagonista era una ragazza che lo stesso Castellan aveva visto danzare da tarantata. Questo racconto si snoda all’interno di un’opera del Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’ Hellespont et Costantinople, edita a Parigi nel 1819.
L’opera è interessantissima, e narra di un viaggio in Italia da parte dell’autore francese, che fu scrittore e valente pittore. Le prime tappe del Castellan sono Otranto e Brindisi; a Brindisi, oltre che nell’apprezzare il paesaggio e i monumenti, si sofferma nella descrizione del tarantismo e di un episodio di tarantismo da lui direttamente osservato. Mosso dalla curiosità intorno al fenomeno, raccoglie ulteriori informazioni al riguardo. Dedica, perciò, un intero capitolo della sua opera a questo argomento (Lettre IX. Tarentule , effets de sa piqûre ; guérison du tarentisme par la danse ; formalités observées à cet égard ; histoire de la malade).
Nel mio articolo precedente ho inserito unicamente la traduzione dei passi relativi alla storia della tarantata Ginevra, in questo, riporto integralmente la Lettera IX del Castellan, che si apre con una lunga dissertazione sugli effetti del morso della tarantola, sulla danza, sugli effetti terapeutici della musica, sul contesto del rituale. Inserisco, inoltre, gli spartiti delle Airs de la Tarentule che si trovano nel terzo tomo dell’opera, e che sarebbero, secondo quanto riportato dall’autore, le arie che ascoltò durante il suo soggiorno a Brindisi e che si fece trascrivere.
Tavole del Castellan inserite nella sua opera – Otranto
  L’opera del Castellan è ricca di spunti ed osservazioni interessantissime: si ritrovano elementi comparabili con altri resoconti, come il ruolo dell’acqua nel rituale,[2] una descrizione minuziosa dell’ambiente, del ballo e dello stato psicofisico della tarantata; riemerge quella convinzione comune a molti altri autori (sia precedenti che della sua epoca) secondo cui “tarantola” prende il nome dalla città di Taranto, e, sebbene la suggestiva storia della tarantata Ginevra sia l’argomento principale, poiché è questa ad ispirare l’esposizione del Castellan (e ad occupare più della metà dello scritto), tra le annotazioni troviamo la fugace descrizione di un’altra interessante storia di tarantismo (che Castellan mutua da altro autore), quella di Giovanni di Tommaso da San Vito dei Normanni, un caso maschile di tarantismo, la cui singolarità è nel fatto che la “malattia” si manifesta attraverso violenti attacchi di priapismo,[3] tanto che “per impedirgli che facesse movimenti troppo sconci” a quest’uomo venivano legate le mani durante la crisi e durante il ballo.
Tavole del Castellan inserite nella sua opera
  Come ci fa notare Salvatore Epifani,[4] qui il Castellan riprende una descrizione di Andrea Pigonati (già citato altrove nell’opera del Castellan) nella sua Lettera sul tarantismo che risale al 1779.[5]
L’opera dalla quale è tratto il brano presentato a seguire è una trilogia: nel primo volume si ritrova questa sua descrizione del tarantismo inserita nei resoconti della sua tappa in Puglia.[6] Lo scritto è inframezzato da suggestivi bozzetti pittorici dell’autore, che ritraggono paesaggi, scorci e monumenti dei luoghi visitati. Nel terzo volume, come preannunciato dall’autore nella sua dissertazione sul tarantismo, si trovano gli spartiti delle arie eseguite durante i balli dei tarantolati.[7]
N.B.: mentre le note da 1 a 7 del presente scritto sono le mie, da 9 a 12 trattasi delle note originali inserite da Castellan nel suo testo.
Tavole del Castellan inserite nell’opera
   LETTERA IX
Tarantola, effetti della sua puntura; guarigione del tarantismo tramite la danza; formalità osservate a tale riguardo; storia di una malata.
Lo strano uso della danza per diversi giorni alla volta, e con il pretesto di curarle, di persone che sono state, o che credono di essere, morse dalla tarantola, è stato spesso messo in discussione. Abbiamo appena assistito a questa pratica. Posso quindi affermarne l’esistenza, senza tuttavia garantire i risultati.
Sappiamo che la tarantola è una specie di ragno, che prende il nome dalla città di Taranto, dove si dice che sia molto comune. Si trova in alcuni altri cantoni del regno di Napoli; ma quello della Puglia è il più pericoloso, soprattutto durante l’estate. Si dice che dopo essere stato morso, il malato non impieghi molto a cadere in una profonda malinconia, e muoia se non viene salvato. Tra tutti i rimedi che vengono utilizzati, il più efficace, e persino l’unico che guarisce completamente, è la musica.
La puntura della tarantola è mortale? Non vi sono per guarirla altre medicine se non i suoni armoniosi e l’esercizio della danza, o il pericolo è solo nell’immaginazione esaltata degli ammalati?
Se consultiamo gli abitanti del paese, risponderanno affermativamente alle prime due domande, e diverse opere accademiche[8] possono fornire nozioni molto ampie su questo argomento. Per quanto riguarda quest’ultima proposizione, la storia che mi è stata raccontata sembra confermare l’opinione di coloro che ritengono che il morso del grosso ragno di Taranto è una favola, e che la maggior parte di coloro che affermano di esserne stati raggiunti in realtà soffrono di una sorta di mania malinconica, verso la quale un intenso esercizio fisico e i suoni della musica possono dissipare momentaneamente sintomi, se non far guarire del tutto.
Anche gli antichi considerano la musica come il rimedio più appropriato per calmare i bollori del sangue e l’asprezza degli umori,[9] e quando anche questa risorsa è stata impotente, hanno usato ricorrere ad incantesimi, verso i quali la moltitudine ripone più fiducia. È noto che gli Asclepiadi hanno liberato l’arte della guarigione da queste puerilità superstiziose. Tuttavia, anche nei tempi moderni si tende a una fede nell’efficacia della musica come rimedio calmante: si citano esempi di suoi effetti, tra cui[10] quello di un famoso musicista che una ripetuta febbre continua aveva gettato nel delirio. Nel calore dell’accesso ha chiesto un concerto. Alcuni amici che erano presenti gli hanno eseguito una cantata di Bernier: dai primi accordi, il volto del paziente ha ripreso serenità, i suoi occhi erano tranquilli, le convulsioni cessarono, ha versato lacrime di piacere: non appena la musica terminava, ricadeva nel precedente stato. L’uso di tale rimedio, il cui successo fu così fortunato, non fu perso. La febbre e il delirio erano sempre sospesi durante l’ascolto della musica; e il paziente fu così sollevato dalla musica, che fece cantare e ballare anche i suoi genitori, notte e giorno, e persino la sua guardia.
Torniamo al tarantismo e ai suoi sintomi. La malattia attribuita alla puntura della tarantola, può derivare dalla cattiva natura del clima, l’aridità del suolo, la scarsità dei boschi, e il calore eccessivo. In effetti, queste cause tendono a sviluppare e rendere pericolose diverse altre indisposizioni; è persino riconosciuto che l’idrofobia regna in Puglia più che altrove; e l’umidità dell’aria calda, e la sua gravità durante l’estate, fanno sì che le minime malattie diventino più cupe in questo paese.
Ma il tarantismo, che è stato creduto essere l’effetto di uno spirito colpito, non è meno reale, secondo l’opinione dei medici eruditi; e qui ci sono le ragioni per cui non può essere considerato una finzione e trasformato in un gioco: colui che è stato punto dalla tarantola cade presto in un profondo, malinconico e assoluto sconforto; il suo volto assume un aspetto cadaverico, il suo respiro è molto difficile, ha languore e spasmi di stomaco, le sue membra si raffreddano, il suo corpo emana un sudore freddo e gelatinoso, gli occhi fissi e immobili, si ricoprono di un velo, il suo respiro e il suo polso diventano sempre più deboli, la coscienza diminuisce; infine, perde completamente i sensi e muore se l’aiuto non gli è stato dato in tempo.[11]
Airs de la tarentule foglio 1
  Certo, non si può fingere un simile stato, e non si deve sospettare il paziente dell’impostura, a meno che non trovi un certo vantaggio: ora, questa malattia fa molto male, specialmente alle ragazze, per la loro stabilità; inoltre, il rimedio della musica è piuttosto costoso, poiché i musicisti ricevono almeno un ducato al giorno, senza contare il medico, e le danze del paziente per quattro e fino a sette giorni di seguito.
Del resto, questo esercizio, invece di rendere le ragazze e le donne più piacevoli, le deturpa; alcune di loro, molto belle prima, diventano in questa occasione molto sgradevoli; infine, si ha l’opinione che la malattia sia periodica e che ritorni ogni anno fino alla vecchiaia: quindi ci si prende cura, nelle famiglie di notabili, di nascondere alla conoscenza pubblica un simile incidente; e se una ragazza viene punto dalla tarantola, viene fatta ballare in un posto remoto e lontano da tutti gli occhi.
Non c’è dunque interesse o piacere nel ricorrere a un rimedio costoso, che scredita così tanto coloro che ne fanno uso, come a Taranto e nelle altre città pugliesi, se si sa che una donna è stata colpita dal tarantismo e che ha ballato per curare se stessa, si pensa che la si insulti venendo a cantare sotto le sue finestre le arie dedicate alla cura della sua malattia.
Qui si crea l’opinione che i malati fuggano dalla società, cerchino l’acqua con avidità e ne approfittino anche se non sono osservati; si crede anche che a loro piaccia essere circondati da oggetti i cui colori sono molto vivaci. Ma non ho notato la loro pretesa avversione al blu e al nero. I nostri vestiti blu e i nostri cappelli neri non sembrano dare la minima impressione alla malata di cui   sto per parlare, né agli spettatori, che ci hanno anche invitato a ballare con lei.
Airs de la tarentule foglio 2
  Si ritiene comunemente che quando l’individuo affetto dal morso abbia perso i sensi, un musicista debba essere chiamato a provare diversi toni molto allegri su uno strumento; e quando il malato incontra la musica di suo gradimento, si vede immediatamente muoversi nel ritmo, alzarsi e cominciare a ballare. Non ho visto qualcosa del genere qui, e siamo stati informati che le arie che sono state utilizzate per lungo tempo per la cura del tarantismo erano sempre le stesse, e che il loro movimento era inizialmente molto lento, e divenne gradualmente molto vivace e rapido. Per il resto, si può giudicare; poiché ho incaricato uno dei musicisti di scriverli e di darmene una copia.[12] Lascio questi dettagli, che ho ritenuto necessario tuttavia illustrare, e riprendo la mia narrazione, che offrirà gli argomenti in un modo più rapido e più pittoresco, e soprattutto nello stesso ordine in cui hanno colpito i miei occhi.
Mentre passavamo sulla banchina del molo, siamo stati fermati dalla folla, che si accalcava sulla porta di una casa dove si sentiva della musica. Ci siamo fatti spazio, e anche noi siamo invitati ad entrare in una stanza bassa che era servita per diversi anni, e ancora lo era oggi, da scenario e ambiente per la cura del morso della tarantola. Le pareti di questa ampia stanza erano adornate con ghirlande di foglie, mazzi di fiori e rami di vite carichi dei loro frutti, piccoli specchi e nastri di ogni colore erano là sospesi; molta gente era seduta intorno all’appartamento, e l’orchestra occupava uno degli angoli, ed era composta da un violino, un basso, una chitarra e un tamburello. C’era una donna che ballava: aveva solo venticinque anni ma ne dimostrava quaranta; i suoi lineamenti regolari, ma alterati da eccessiva smodatezza, i suoi occhi scuri, il suo aspetto triste e abbattuto, contrastavano con la sua ricercata e variegata decorazione di nastri e pizzi d’oro e d’argento; le trecce dei suoi capelli erano sparpagliate e un velo di garza bianca le cadeva sulle spalle; danzava senza lasciare la terra, con nonchalance, girando costantemente su se stessa e molto lentamente; le sue mani reggevano le estremità di un fazzoletto di seta che faceva oscillare sopra la sua testa, e alcune volte lo gettava indietro: in questo stato, ci offriva assolutamente la posa di quelle baccanti che vediamo su bassorilievi antichi.
  L’aria che si suonava in quel momento era languida, trascinata sulle cadenze, e si ripeteva da capo a sazietà. Poi il motivo è cambiato senza interruzioni; questo era meno lento, e ad un certo punto divenne più vivace, precipitoso e saltellante. Questi brani musicali formavano una successione di rondò, o ciò che chiamiamo pot-pouri. Si passava alternativamente dall’uno all’altro; finalmente si tornava al primo, per dare un po ‘di riposo alla ballerina, e permetterle di rallentare i suoi passi, ma senza farla mai smettere di ballare; lei seguiva sempre il movimento della musica; e come quel movimento si animava, si muoveva e diventava più vivace; ma il sorriso non rinasceva sulle sue labbra scolorite, la tristezza era sempre stampata sul suo sguardo, talvolta rivolto verso il soffitto, di solito verso il suolo, oppure a volte muoveva gli occhi a caso fissando il vuoto, anche se abbiamo cercato di distrarla con ogni mezzo. Le offrirono fiori e frutti; li tenne per un momento tra le mani e li gettò in seguito; furono anche presentati fazzoletti di seta di diversi colori; lei li scambiava con il suo, li agitava in aria per qualche istante, li rendeva, prendeva gli altri. Diverse donne là presenti hanno successivamente ballato con lei in modo da attirare la sua attenzione, e cercavano di ispirarle allegria ma senza successo. Sembrava sottoporsi a quell’esercizio contro voglia ma spinta da una sorta di forza irresistibile, e ciò dovette stancarla molto; il sudore scorreva dalla sua fronte; Il suo petto era ansante, e ci hanno detto che questo stato sarebbe terminato con una sospensione totale delle facoltà; che poi era necessario portarla a letto; che il giorno dopo si sarebbe svegliata ricominciando a a ballare, e che lo stesso rimedio sarebbe stato impiegato nei giorni successivi, fino a quando non le avrebbe dato sollievo.
Questo spettacolo aveva qualcosa di doloroso; e mi ha colpito ancor più fortemente quando ho appreso la storia di questa interessante paziente. Non era stata punta dalla tarantola, sebbene ne fosse convinta; e veniva lasciata nella sua errata convinzione solo per nascondere e per non far dimenticare la vera causa del suo stato, e per non privarla di ogni speranza di cura. Ecco l’origine dell’alienazione di Ginevra; questo è, credo, il nome della malata. All’età di vent’anni, pur non essendo la ragazza più carina tra quelle della sua età, si faceva notare per avere una fisionomia provocante e molto espressiva; la sua bocca era rosea e attraente; i suoi occhi neri erano pieni di fuoco; la sua altezza aveva più duttilità e abbandono della grazia; il suo carattere, per quanto buono e sensibile, era particolare; spesso gioiva fino al delirio, si abbandonava quindi a una tristezza vaga e senza motivo; esagerata in tutti i suoi sentimenti, favoriva l’amicizia per le sue compagne fino all’eroismo, e la sua indifferenza verso gli uomini era simile al disprezzo: quindi doveva esser prevedibile che che se avesse amato un uomo una volta, ciò sarebbe accaduto con veemenza e per tutta la vita. All’età di vent’anni, la sua ora non era ancora arrivata, ma squillò troppo presto per la sua disgrazia. Un giorno stava camminando assorta nei suoi pensieri malinconici sulla spiaggia deserta di Patrica; l’aria era stata rinfrescata da una tempesta e il mare, che era ancora agitato, ondeggiava sulla spiaggia. Un brigantino (piccolo veliero n.d.r.) a metà frantumato era appena approdato: aveva a bordo un uomo. Partito dal porto di Durazzo per stendere le reti, verso il centro del canale una raffica di vento aveva strappato la vela; il suo timone si era rotto tra le sue mani e, in balìa delle onde, la sua barca era stata lanciata sulle rive dell’Italia. Sopraffatto dalla stanchezza, morente di bisogno, deplorava la sua disgrazia, così la ragazza gli andò incontro in aiuto, gli offrì una mano e si offrì di portarlo a casa di sua madre, che esercitò verso di lui con slancio i doveri dell’ospitalità.
Questo albanese era giovane; era infelice; sembrava ragionevole e grato; Ginevra credette di essersi abbandonata al piacere puro e disinteressato che la carità fornisce, mentre in realtà l’amore si era già insinuato nel suo cuore nelle vesti di pietà. Tuttavia, il giovane albanese, combattuto dal desiderio di rivedere il suo paese, e dal tenero interesse che lo lega alla sua benefattrice, finalmente parla della sua partenza. A questa parola, come una folgore colpisce Ginevra facendo chiarezza sui suoi sentimenti; riconosce in essa l’amore, per l’angoscia che l’idea di una separazione, lontana dal suo pensiero, inizia a sentire; onesta, ma appassionata, non ha più il controllo di nascondere la sua confusione e lascia persino sfuggire tutta la violenza dei suoi sentimenti; ma esige da questo straniero che adora, il sacrificio dei legami indissolubili con il suo paese d’origine. Senza esitazione, lui acconsente. Quindi lei stessa favorisce la sua partenza dall’Italia, dove lui non può stabilirsi senza consultare la sua famiglia. Il giorno del suo ritorno è fissato, e Ginevra deve aspettarlo sulla costa, proprio nel punto in cui lui le ha salvato la vita.
Fedele alla sua parola, lei va là ben prima dell’ora stabilita; conta gli istanti; fluiscono con una lentezza disperata. Intanto, il sole è già al tramonto: preoccupata, cammina sulla riva, gli occhi rivolti verso il mare: interroga le onde; il minimo soffio di vento, la minima nube le fa temere una nuova tempesta. Il giorno sta cadendo, il suo cuore è schiacciato e il crepuscolo, di cui la natura si ricopre, oscura, disturba le sue idee; infine, scopre un punto nero all’orizzonte: avanza; è una barca: si precipita alla sommità di una roccia e scuote un velo cremisi, il segnale concordato. Immediatamente lo stesso segnale è attaccato all’estremità dell’albero; lei non può più dubitarne, questa barca le porta il suo amante.
Infatti, l’ albanese si era imbarcato, felice, in una scialuppa a remi decorata con tutti gli attributi della gioia. Gli alberi erano decorati e le vele erano di un bianco brillante. Alcuni musicisti, seduti sulla panca di poppa, suonavano con accenti felici; e la sua famiglia, che l’albanese stava lasciando per stabilirsi nel paese di sua moglie, volle affidare a Ginevra la cura della felicità del figlio, il deposito della sua modesta fortuna e il mobilio necessario per la giovane famiglia.
La barca avanza come in trionfo verso le coste dell’Italia, già il suono degli strumenti raggiunge l’orecchio di Ginevra, tocca la superficie delle onde, calma le sue ansie e porta nel suo cuore speranza e sicurezza. L’imbarcazione si sta avvicinando: l’amore rende i suoi occhi più penetranti; lei distingue, riconosce suo marito che tende le braccia; lei pensa di sentirlo, e questa illusione rapisce una risposta.
Ma improvvisamente un suono sinistro fa cessare le belle melodie; una galera barbarica esce da dietro una roccia sporgente, che la aveva nascosta alla vista degli occhi di tutti. I suoi numerosi remi salgono a ritmo, cadono tutti in una volta e le danno un movimento rapido. Come l’avvoltoio, si libra sopra l’aria e si dirige verso la sua preda. A questa vista, non meno inaspettata che fatale, Ginevra cade in un cupo torpore; il terrore incatena le sue facoltà, i suoi occhi solo conservano un residuo di vita, seguono i movimenti contrari delle due barche.
La fragile barca sta fuggendo, e grida di paura e dolore sono sostituite agli accenti gioiosi. Il giovane e coraggioso albanese esorta i suoi compagni ad una resistenza che risulterà vana: le ombre della notte avvolgono questa scena di desolazione e la nascondono agli occhi della sfortunata Ginevra, che cade impotente sulla riva.
Molto tempo dopo, Ginevra esce come da un sonno profondo: apre gli occhi; ma la luce del giorno li fa chiudere subito. Non può muovere le sue membra, irrigidita dal freddo del mattino. Eppure le sue idee, dapprima confuse, le raccontano la scena del giorno prima; poi, disorientata, fa risuonare la costa con la sua disperazione; lei esamina l’estensione del canale; nessun imbarcazione solca la superficie; non c’è più felicità o speranza per lei; i suoi sensi si alterano, la sua mente si smarrisce e lei precipita nel mare dalla cima della roccia.
I pescatori la videro, si affrettarono a venire in suo aiuto e la portarono a casa di sua madre. Questo atto di disperazione fu seguito da una lunga apatia e da uno sconvolgimento che degenerò in alienazione della mente. Ginevra aveva dimenticato la causa delle sue pene; lei attribuiva le sue condizioni al morso della tarantola. Questa idea le è stata mantenuta, facendole sperare che l’esercizio della danza e gli accordi della musica, che ha veramente placato l’agitazione dei suoi sensi, la abbia finalmente guarita da questa mania malinconica.
Airs de la tarentule foglio 4
  [1] Gianfranco Mele, La storia di Ginevra, una tarantata brindisina di fine Settecento, Fondazione Terra d’Otranto, sito web, febbraio 2019.
[2]            Dei balli delle tarantate in acqua (nel mare o presso fonti, ma anche in casa con l’utilizzo di grossi catini o bacinelle colme d’acqua) parlano vari studiosi: una sintesi è nell’opera di De Martino, nel capitolo dedicato a Lo scenario e gli oggetti del rito (Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, ried. NET marzo 2002, pp. 127-149).
[3]             Varie fonti fanno riferimento al priapismo come effetto del morso della tarantola e come una delle caratteristiche del tarantismo: un fugace riferimento lo fa lo stesso De Martino nel capitolo Il simbolismo dell’”Oistros”; ne fa riferimento il Serao quando cita l’ arcivescovo Niccolò Perotto da Sassoferrato, che a metà del XV secolo, dissertando sugli effetti del morso della tarantola, scrive: “Altri al veder donne, accesi tosto di ardentissima voglia, e come forsennati, corrono loro appresso” (Francesco Serao, Della tarantola o sia falangio di Puglia, lezioni accademiche, Napoli, 1742, pag. 10). Ne parlano, tra Settecento e Ottocento, medici spagnoli (Francisco Xavier Cid, Tarantismo observado en España en que se prueba el de la Pulla, Madrid, 1787, pp. 92-93; Josè Abelardo Nunez, Estudio médico del veneno de la tarántula segun el metodo de Hahnemann, precedido de un resumen historico del tarantulismo, y tarantismo, y seguido de algunas indicaciones terapéuticas y notas clinicas, Madrid, 1861, pag. 27, 109, 113). Plinio, riferisce che il morso dei ragni “desta il membro genitale”. ( Naturalis historia, Libro 37).
[4]            Salvatore Epifani, Sulla pizzica pizzica ed altre tradizioni salentine, note e documenti, Youcanprint Self-Publishing, 2013, pp. 61-62. V. anche, dello stesso autore, A proposito di pizzica pizzica: la lettera sul tarantismo di Andrea Pigonati. (da sito web dell’autore): https://salvatore-epifani.webnode.it/news/a-proposito-di-pizzica-pizzica-la-lettera-sul-tarantismo-di-andrea-pigonati-/
[5]            “Tra i fatti, che conservo con autentici attestati de’ primi medici della provincia di Lecce, ve n’è uno accaduto ad un uomo della Terra di S. Vito per nome Gio: di Tommaso, al quale assisté il Dot. Fisico D. Giacinto Niccola Greco. Il fatto è de’ più strani, mentre il male produsse all’infermo il priapismo, accompagnato con tutti gli altri sintomi; onde per impedirgli che non facesse movimenti troppo sconci lo fecero ballare colle mani legate: e dopo più giorni di ballo guarì” (Andrea Pigonati, Lettera del Signor Cav.e Andrea Pigonati colonnello di S. M. il RE delle Due Sicilie nel corpo del genio al Sig. Abate Angelo Vecchi sul Tarantismo, in: Opuscoli scelti sulle Scienze e sulle Arti tratti dagli Atti delle Accademie e dalle altre Collezioni Filosofiche, e Letterarie, dalle Opere più recenti Inglesi, Tedesche, Francesi, Latine, e Italiane, e da Manoscritti originali, e inediti, tomo II, parte V, Milano, 1779, pag. 309)
[6]             Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tome I, Parigi, 1819, pp. 77-91
[7]             Antoine Laurent Castellan, op. cit., Tome III, tavole in appendice
[8]            Baglivi, Dissert. 1696. Geoffroy Theor., etc. Nicolo Cirillo ha scritto nel 1742 su La Tarantola e falangio di Puglia. L’ingegner Pigonati, nella sua Lettera al abb. Angelo Vecchi, 1779, spiega la forma esatta dei quattro famigerati ragni della Puglia, e certifica la verità delle osservazioni fatte su questo argomento da Baglivi, Epif. Ferdinando, Caputi e altri studiosi sulla Puglia.
[9]            Secondo Vitruvio, la musica dovrebbe essere studiata da medici, architetti, ecc. I suoi effetti mirabili sono noti fin dai tempi di Saul. Platone, Aristotele, Dionisio di Alicarnasso, Diodoro Siculo, Pitagora e Aulo Gellio ne fanno menzione, e quest’ultimo parla dei dottori musicisti.
[10]          J. Berryat, Recueil de Memoires (N.D.R. Si riferisce ad un medico francese, Jean Berryat, e ad una opera da lui curata: “Recueil de mémoires ou collection des pièces académiques concernant la Médecine, l’Anatomie & la Chirurgie, la Chymie, la Physique expérimentale, la Botanique et l’histoire Naturelle”, Parigi, 1754 )
[11]          Tra i fatti autentici raccolti dai medici della provincia di Lecce, citiamo quello di un uomo di San Vito, di nome Giov. di Tommaso, sul quale, oltre ad altri sintomi ordinari, il tarantismo produceva il priapismo più violento: “Onde per impedirgli che non facesse movimenti troppo sconci lo fecero ballare colle mani legate”
[12]          Si può trovare alla fine di quest’opera. Questi brani non hanno nulla a che vedere con quelli che Padre Kircher ha annotato nella sua Arte Magnetica.
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simena · 5 years
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Antoine-Laurent Castellan
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worldsandemanations · 5 years
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Antoine-Laurent Castellan, “Cloud Study” (circa 1812-1818) Sepia wash on paper (19.3 x 23cm
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birzamanlarsu · 7 years
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Hamal ve Saka.
Title - Hammâl, porte-faix. Saccâ, porteur d'eau. Başlık - Hamal. Saka, Su taşıyıcısı
Date - Tarih 1812
Bibliographic Citation - Bibliyografik Künye
CASTELLAN, Antoine-Laurent. Moeurs, usages, costumes des Othomans, et abrégé de leur histoire; par A. L. Castellan, auteur de Lettres sur la Morée et sur Constantinople; Avec des éclaircissemens tirés d'ouvrages orientaux, et communiqués par M. Langlès. Six vol. In-18, ornés de soixante et douze planches, vol. IV, Paris, Nepveu, 1812.
The Gennadius Library - The American School of Classical Studies at Athens Source: http://eng.travelogues.gr/item.php?view=54165
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Aracne, le tarantate e un falso mito
LA STORIA DI GINEVRA, UNA TARANTATA BRINDISINA DI FINE SETTECENTO, CONFUSA CON IL MITO DI ARACNE
  di Gianfranco Mele
  Come noto, il mito di Aracne raccontato da Ovidio ne Le Metamorfosi narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno.[1]
Tavola di Gustavo Dorè per illustrare il mito di Aracne celebrato da Dante (Purgatorio, XII, 43-45); immagine tratta da http://www.worldofdante.org/pop_up_query.php?dbid=I301&show=more.
  L’unica versione del mito alternativa a quella che ci racconta Ovidio, è quella che ci perviene dalla lettura di alcuni frammenti di un’opera di Nicandro, la Theriaca, nei commenti inseriti da uno scoliaste che secondo alcuni sarebbe da identificare in Teofilo Zenodoteo. In tale versione, si narra dell’incesto tra Aracne e suo fratello Falance; Athena punisce per questo motivo i due fratelli, trasformandoli in ragni.
Sul web (e non solo sul web, ma addirittura in alcuni scritti, accademici e non, di studiosi del tarantismo) circola una terza versione senza fonte alcuna (in alcuni casi viene addirittura riportata, con duplice errore, come la storia raccontata da Ovidio): narra (copio e incollo da uno dei tanti siti che riportano tale versione, a loro volta copiandosi e incollando a catena) di “una giovane ragazza, Arakne, la quale fu sedotta da un marinaio che, dopo la prima notte d’amore, partì e da allora ella visse in attesa del ritorno del suo amore. Una mattina la ragazza vide una barca avvicinarsi alla costa e fece il segnale convenuto con il suo marinaio. Dalla nave giunse la risposta: era tornato. Ma a pochi metri dal porto la barca fu affondata da Zeus, il quale voleva la fanciulla per sé, così coloro che erano a bordo perirono affogati. Arakne vide morire il suo amore dopo anni di attesa e si uccise. Così, alla morte della giovane, Zeus s’infuriò e la rimandò in terra per restituirle il torto ricevuto, non come ragazza ma come tarantola”.
In molti di questi siti, tale versione giunge ad essere l’unica citata, o, come si è detto, addirittura ad essere attribuita ad Ovidio e spacciata per quella del poeta latino.
La ritrovo in un blog dedicato alla pizzica, la ritrovo sulla pagina ufficiale del gruppo Zimbaria,[2] su pagine gestite da cultori e musicisti di pizzica, su tesine di laurea pubblicate online, su un lavoro di una docente dell’ Università di Bologna apparso su una rivista specializzata,[3] sulla pagina Wikipedia dedicata alla “pizzica”,[4] e su una innumerevole serie di pagine e blog aventi per oggetto pizzica e tarantismo.[5] Mi chiedo da dove mai la abbiano pescata tutti costoro, visto che nessuno ne indica fonti. Successivamente, noto (e ne trovo conforto) che la questione non è sfuggita ad Armando Polito, che in un suo articolo apparso qualche anno fa su questo sito web di Fondazione Terra d’Otranto, si accorge di questa incredibile confusione e sostituzione.[6]
Una singolare contorsione esplicativa e interpretativa la compie Annarita Zazzaroni, che scrive: “Il tarantismo pugliese è, infatti, legato anche a una vera e propria riscrittura del mito di Aracne: alcuni fanno risalire la nascita della taranta alla trasformazione in ragno di una fanciulla, Arakne, che fu sedotta da un marinaio e abbandonata dopo una notte d’amore. Per anni Arakne attese il ritorno del suo amato ma, quando questo avvenne, la nave del ragazzo affondò durante l’attracco. Arakne era folle di dolore per aver perso per sempre l’uomo che amava. Fu così che Zeus la trasformò in taranta, perché potesse vendicarsi perpetuamente delle sofferenze subite.“ [7]
Ma da quando in qua, e perchè, “il tarantismo pugliese” avrebbe riscritto il mito di Aracne? Da dove origina dunque questa versione, che avrebbe l’aria di una sorta di leggenda metropolitana (o internettiana), se non fosse che la storia è così singolare e avvincente da pensare (come poi di fatto risulta) che è stata presa in prestito da altre fonti[8] (che però non sono, come vedremo, così antiche)?
La risposta sta in un incredibile scambio della paternità e delle origini del racconto, che ci viene trasmesso attraverso gli scritti di un autore francese ottocentesco, Antoine-Laurent Castellan,[9] e che nella sua versione originale non parla affatto di Aracne (né del relativo mito) ma riferisce di una storia, appresa durante un suo viaggio a Brindisi, che ha come protagonisti una ragazza di nome Ginevra e un marinaio di origini albanesi. La storia è perfettamente identica a quella raccontata nel web (e là spacciata come “la storia di Arakne”): racconta dell’ incontro e dell’amore tra la fanciulla e il marinaio, della ripartenza del marinaio, della attesa della ragazza per il ritorno del suo amato, della barca che finalmente un giorno si avvicina alla costa mentre la fanciulla attende, racconta del segnale, del tragico affondamento poco prima che la barca possa approdare, della disperazione della fanciulla che da quel momento “si trasforma in ragno” (o meglio, diviene tarantata)! Ma (“piccoli” e unici particolari discordanti): la fanciulla non si chiama Arakne, ad affondare la barca non è “Zeus” ma una galea (altrimenti detta “galera”) barbarica, e la tragedia si snoda in Brindisi alla fine del Settecento. Castellan la riporta come un fatto realmente accaduto, e da lui appreso in seguito ad una casuale occasione in cui egli assiste come spettatore alla danza di una tarantata.
l’ opera di Castellan
tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Fabbricati di Brindisi
  Questa tarantata, è proprio lei, Ginevra, quella fanciulla che aveva perso il suo amore in quella straziante tragedia. E’ la gente del posto a raccontare a Castellan la storia, e a spiegargli come la ragazza sia diventata tarantata a seguito del trauma subito per la perdita del suo amore. O meglio, e per la precisione: nessun ragno aveva mai morso Ginevra, ma le era stato lasciato credere che così fosse stato. Il trauma per la perdita del suo innamorato era stato così forte che Ginevra aveva rimosso il penoso ricordo dell’accadimento, portandosi però addosso un malessere che aveva rielaborato attribuendolo al morso del ragno. Era stata lasciata volutamente in quella convinzione, per non farle riaffiorare il terribile ricordo, e per non farle perdere la speranza di poter guarire.
Nel classico stile del rimescolamento orale (che oltre che di epoche remote è tipico anche dell’epoca del web), la storia diventa “il Mito di Arakne”, e viene infilato persino un Zeus nel racconto, a “sostegno” della derivazione antica e mitologica del racconto.
Una possibile matrice della confusione e del rimescolamento può essere nel fatto che il Castellan nel suo scritto utilizza il termine araigne (che in italiano è ragno: ciò è stato forse sufficiente a scambiare quell’ araigne per la Aracne – altrimenti detta Aragne – mitologica). Il resto, lo han fatto la sprovvedutezza di chi ha fatto circolare a ripetizione la storia confondendo epoche, personaggi e fonti, e, di sicuro, quell’alone poetico e leggendario che caratterizza l’avvincente, struggente e bellissimo racconto di Castellan.[10]
tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Colonna di Brindisi
  A seguire, trascrivo integralmente il racconto del Castellan traducendolo in italiano (l’opera in lingua originale è consultabile e scaricabile anche attraverso Google books). Premessa: Il Castellan approda in Italia nell’agosto del 1797, e si ferma prima a Otranto, poi a Brindisi. A Brindisi, accade che:
“Mentre passavamo sulla banchina del molo, siamo stati fermati dalla folla, che si accalcava sulla porta di una casa dove si sentiva della musica. Ci siamo fatti spazio, e anche noi siamo invitati ad entrare in una stanza bassa che era servita per diversi anni, e ancora lo era oggi, da scenario e ambiente per la cura del morso della tarantola. Le pareti di questa ampia stanza erano adornate con ghirlande di foglie, mazzi di fiori e rami di vite carichi dei loro frutti, piccoli specchi e nastri di ogni colore erano là sospesi; molta gente era seduta intorno all’appartamento, e l’orchestra occupava uno degli angoli, ed era composta da un violino, un basso, una chitarra e un tamburello. C’era una donna che ballava: aveva solo venticinque anni ma ne dimostrava quaranta; i suoi lineamenti regolari, ma alterati da eccessiva smodatezza, i suoi occhi scuri, il suo aspetto triste e abbattuto, contrastavano con la sua ricercata e variegata decorazione di nastri e pizzi d’oro e d’argento; le trecce dei suoi capelli erano sparpagliate e un velo di garza bianca le cadeva sulle spalle; danzava senza lasciare la terra, con nonchalance, girando costantemente su se stessa e molto lentamente; le sue mani reggevano le estremità di un fazzoletto di seta che faceva oscillare sopra la sua testa, e alcune volte lo gettava indietro: in questo stato, ci offriva assolutamente la posa di quelle baccanti che vediamo su bassorilievi antichi.
L’aria che si suonava in quel momento era languida, trascinata sulle cadenze, e si ripeteva da capo a sazietà. Poi il motivo è cambiato senza interruzioni; questo era meno lento, e ad un certo punto divenne più vivace, precipitoso e saltellante. Questi brani musicali formavano una successione di rondò, o ciò che chiamiamo pot-pouri. Si passava alternativamente dall’uno all’altro; finalmente si tornava al primo, per dare un po ‘di riposo alla ballerina, e permetterle di rallentare i suoi passi, ma senza farla mai smettere di ballare; lei seguiva sempre il movimento della musica; e come quel movimento si animava, si muoveva e diventava più vivace; ma il sorriso non rinasceva sulle sue labbra scolorite, la tristezza era sempre stampata sul suo sguardo, talvolta rivolto verso il soffitto, di solito verso il suolo, oppure a volte muoveva gli occhi a caso fissando il vuoto, anche se abbiamo cercato di distrarla con ogni mezzo. Le offrirono fiori e frutti; li tenne per un momento tra le mani e li gettò in seguito; furono anche presentati fazzoletti di seta di diversi colori; lei li scambiava con il suo, li agitava in aria per qualche istante, li rendeva, prendeva gli altri. Diverse donne là presenti hanno successivamente ballato con lei in modo da attirare la sua attenzione, e cercavano di ispirarle allegria ma senza successo. Sembrava sottoporsi a quell’esercizio contro voglia ma spinta da una sorta di forza irresistibile, e ciò dovette stancarla molto; il sudore scorreva dalla sua fronte; il suo petto era ansante, e ci hanno detto che questo stato sarebbe terminato con una sospensione totale delle facoltà; che poi era necessario portarla a letto; che il giorno dopo si sarebbe svegliata ricominciando a a ballare, e che lo stesso rimedio sarebbe stato impiegato nei giorni successivi, fino a quando non le avrebbe dato sollievo.
Questo spettacolo aveva qualcosa di doloroso; e mi ha colpito ancor più fortemente quando ho appreso la storia di questa interessante paziente. Non era stata punta dalla tarantola, sebbene ne fosse convinta; e veniva lasciata nella sua errata convinzione solo per nascondere e per non far dimenticare la vera causa del suo stato, e per non privarla di ogni speranza di cura. Ecco l’origine dell’alienazione di Ginevra; questo è, credo, il nome della malata. All’età di vent’anni, pur non essendo la ragazza più carina fra quelle della sua età, si faceva notare per avere una fisionomia provocante e molto espressiva; la sua bocca era rosea e attraente; i suoi occhi neri erano pieni di fuoco; la sua altezza aveva più duttilità e abbandono della grazia; il suo carattere, per quanto buono e sensibile, era particolare; spesso gioiva fino al delirio, si abbandonava quindi a una tristezza vaga e senza motivo; esagerata in tutti i suoi sentimenti, favoriva l’amicizia per le sue compagne fino all’eroismo, e la sua indifferenza verso gli uomini era simile al disprezzo: quindi doveva esser prevedibile che che se avesse amato un uomo una volta, ciò sarebbe accaduto con veemenza e per tutta la vita. All’età di vent’anni, la sua ora non era ancora arrivata, ma squillò troppo presto per la sua disgrazia. Un giorno stava camminando assorta nei suoi pensieri malinconici sulla spiaggia deserta di Patrica; l’aria era stata rinfrescata da una tempesta e il mare, che era ancora agitato, ondeggiava sulla spiaggia. Un brigantino (piccolo veliero n.d.r.) a metà frantumato era appena approdato: aveva a bordo un uomo. Partito dal porto di Durazzo per stendere le reti, verso il centro del canale una raffica di vento aveva strappato la vela; il suo timone si era rotto tra le sue mani e, in balìa delle onde, la sua barca era stata lanciata sulle rive dell’Italia. Sopraffatto dalla stanchezza, morente di bisogno, deplorava la sua disgrazia, così la ragazza gli andò incontro in aiuto, gli offrì una mano e si offrì di portarlo a casa di sua madre, che esercitò verso di lui con slancio i doveri dell’ospitalità.
Questo albanese era giovane; era infelice; sembrava ragionevole e grato; Ginevra credette di essersi abbandonata al piacere puro e disinteressato che la carità fornisce, mentre in realtà l’amore si era già insinuato nel suo cuore nelle vesti di pietà. Tuttavia, il giovane albanese, combattuto dal desiderio di rivedere il suo paese, e dal tenero interesse che lo lega alla sua benefattrice, finalmente parla della sua partenza. A questa parola, come una striscia di luce colpisce Ginevra facendo chiarezza sui suoi sentimenti; riconosce in essa l’amore, per l’angoscia che l’idea di una separazione, lontana dal suo pensiero, inizia a sentire; onesta, ma appassionata, non ha più il controllo di nascondere la sua confusione e lascia persino sfuggire tutta la violenza dei suoi sentimenti; ma esige da questo straniero che adora, il sacrificio dei legami indissolubili con il suo paese d’origine. Senza esitazione, lui acconsente. Quindi lei stessa favorisce la sua partenza dall’Italia, dove non può stabilirsi senza consultare la sua famiglia. Il giorno del suo ritorno è fissato, e Ginevra deve aspettarlo sulla costa, proprio nel punto in cui gli ha salvato la vita.
Fedele alla sua parola, lei va là ben prima dell’ora stabilita; lei conta gli istanti; fluiscono con una lentezza disperata. Intanto, il sole è già al tramonto: preoccupata, cammina sulla riva, gli occhi rivolti verso il mare: lei interroga le onde; il minimo soffio di vento, la minima nube le fa temere una nuova tempesta. Il giorno sta cadendo, il suo cuore è schiacciato e il crepuscolo, di cui la natura si ricopre, oscura, disturba le sue idee; infine, scopre un punto nero all’orizzonte: avanza; è una barca: si precipita alla sommità di una roccia e scuote un velo cremisi, il segnale concordato. Immediatamente lo stesso segno è attaccato all’estremità dell’albero; lei non può più dubitarne, questa barca le porta il suo amante.
Infatti, l’ albanese si era imbarcato, felice, in una barca a remi decorata con tutti gli attributi della gioia. Gli alberi erano decorati e le vele erano di un bianco brillante. Alcuni musicisti, seduti sulla panca di poppa, suonavano con accenti felici; e la sua famiglia, che l’albanese stava lasciando per stabilirsi nel paese di sua moglie, volle affidare a Ginevra la cura della felicità del figlio, il deposito della sua modesta fortuna e il mobilio necessario per la giovane famiglia.
La barca avanza come in trionfo verso le coste dell’Italia, già il suono degli strumenti raggiunge l’orecchio di Ginevra, tocca la superficie delle onde, calma le sue ansie e porta nel suo cuore speranza e sicurezza. L’imbarcazione si sta avvicinando: l’amore rende i suoi occhi più penetranti; lei distingue, riconosce suo marito che tende le braccia; lei pensa di sentirlo, e questa illusione rapisce una risposta.
Ma improvvisamente un suono sinistro fa cessare le belle melodie; una galera barbarica esce da dietro una roccia sporgente, che la aveva nascosta alla vista degli occhi di tutti. I suoi numerosi remi salgono a ritmo, cadono tutti in una volta e le danno un movimento rapido. Come l’avvoltoio, si libra sopra l’aria e si dirige verso la sua preda. A questa vista, non meno inaspettata che fatale, Ginevra cade in un cupo torpore; il terrore incatena le sue facoltà, i suoi occhi solo conservano un residuo di vita, seguono i movimenti contrari delle due barche.
La fragile barca sta fuggendo, e grida di paura e dolore sono sostituite agli accenti gioiosi. Il giovane e coraggioso albanese esorta i suoi compagni ad una resistenza che risulterà vana: le ombre della notte avvolgono questa scena di desolazione e la nascondono agli occhi della sfortunata Ginevra, che cade impotente sulla riva.
Molto tempo dopo, Ginevra esce come da un sonno profondo: apre gli occhi; ma la luminosità del giorno li fa chiudere subito. Non può muovere le sue membra, irrigidita dal freddo del mattino. Eppure le sue idee, dapprima confuse, le raccontano la scena del giorno prima; poi, disorientata, fa risuonare la costa con la sua disperazione; lei esamina l’estensione del canale; nessun imbarcazione solca la superficie; non c’è più felicità o speranza per lei; i suoi sensi si alterano, la sua mente si smarrisce e lei precipita nel mare dalla cima della roccia.
I pescatori la videro, si affrettarono a venire in suo aiuto e la portarono a casa di sua madre. Questo atto di disperazione fu seguito da una lunga apatia e da uno sconvolgimento che degenerò in alienazione della mente. Ginevra aveva dimenticato la causa delle sue pene; lei attribuiva le sue condizioni al pungiglione della tarantola. Questa idea è stata mantenuta, facendole sperare che l’esercizio della danza e gli accordi della musica, che ha veramente placato l’agitazione dei suoi sensi, la abbia finalmente guarita da questa mania malinconica.”
  [1] Ovidio, Metamorfosi, IV
[2]    http://www.zimbaria.it/la-pizzica/
[3]    Annarita Zazzaroni, Il ragno che danza. Il mito di Aracne nel tarantismo pugliese, In “Amaltea: Revista di Mitocrìtica”, 2010 (vol. 2), pp. 169-183.
[4]    Nella attuale e più recente versione (magari alla prossima sarà omessa) di Wikipedia alla voce “Pizzica” è riportato un ennesimo copia-incolla della versione che circola sul web e della quale ho preso a caso da altro sito la parte riportata in corsivo in questo scritto.
[5]    Per citarne solo alcune: http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/pizzica_tarantismo150609.html ; http://www.artcaroli.it/opere/arakne/ ; https://www.youreporter.it/foto_la_pizzica_e_le_antiche_origini_del_tarantismo/ ; http://www.storienapoli.it/2014/12/06/il-tamburello-e-la-tarantella/ ; http://pugliaierieoggi.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=14:il-salento&catid=2:territorio&Itemid=20 ; https://pizzica.wordpress.com/ ; https://vivereinsalento.weebly.com/blog/archives/02-2018 ; http://enosud.it/corso-di-pizzica-pizzica/ ; https://sites.google.com/a/student.unife.it/taranta/un-p-di-storia ; http://www.briziomontinaro.it/node/156
[6]    Armando Polito, Aspettando la Notte della Taranta (¼): Aracne, Fondazione Terra d’Otranto, luglio 2014, http://www.fondazioneterradotranto.it/tag/aracne/
[7]    Annarita Zazzaroni, op. cit., pag. 170
[8]    Una laureanda in Lettere dell’ Università di Torino si accorge delle convergenze tra il racconto fornito dalla Zazzaroni e l’opera del Castellan, ma prendendo per buona e originale la versione (senza fonti) del mito con la storia di Zeus, Arakne e il marinaio, non riesce a far derivare quest’ultima da una storpiatura della storia raccontata dal Castellan. Così, finisce con il validare e conferire ancor più valore alla versione-fake: Vanessa Elena Cerutti, La danza del ragno e la sua evoluzione. La tradizione ritrovata e reinterpretata, Tesi di Laurea, Università degli Studio di Torino, pp. 49-51
[9]            Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pp. 83-91
[10]  Talmente suggestivo ed evocativo, che si presta bene ad essere “pensato” in chiave mitologica o leggendaria, o a far ipotizzare (come qualcuno ha fatto) che non sia autentico ma frutto della fantasia dell’autore o della sua trasposizione o adattamento di altre leggende. Sono andato frettolosamente alla ricerca di similitudini: per alcuni versi può far tornare in mente la storia di Odisseo e Nausicaa, o l’ antichissima storia egiziana del “marinaio naufragato”, o ancora, e forse con più elementi in comune, una storia ambientata in Liguria nel medioevo intitolata “Il picco spaccato” (viene raccontata nel 1847 da Pietro Giuria – nella raccolta Tradizioni Italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell’Italia – che la presenta come un racconto tipico della tradizione dei luoghi). Ciascuna di queste storie contiene però varianti fondamentali da discostarsi notevolmente rispetto a quella raccontata dal Castellan.
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