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L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (terza parte)
Famiglia Imperiale di Genova. Nella tela è raffigurato Giovanni Vincenzo Imperiale con la sua famiglia(Domenico Fiasella-Giovanni Battista Casoni, 1642, olio su tela, Genova,
di Mirko Belfiore
Di Andrea I (1647-1678), quinto marchese di Oria e secondo principe di Francavilla, le notizie pervenuteci sono poche. Sappiamo che nacque nel 1647 probabilmente a Francavilla e si sposò a Monaco con Pellina Grimaldi, figlia di Ercole principe di Monaco, marchese de Baux, dalla quale ebbe solo due figli, Michele e Maria Teresa Aurelia.
Rimase a lungo a Genova e successivamente si trasferì a Napoli e in seguito nel suo feudo salentino. Grandissimo benefattore, secondo le cronache, nella capitale partenopea dove si recò nel gennaio del 1678, egli “camminava sempre con un codazzo di storpi e affamati, i quali gli chiedevano aiuto e che egli sussidiava di larga moneta”. Dopo alcuni anni, “intronato dal rumorio di Napoli, stufo delle accoglianze, delle veglie, delle cortigianerie”, si ritirò a Francavilla dove preferì dedicarsi ai “tesori della sua beneficenza e pensava come provvedere ai bambini affamati e alla loro istruzione”. Alla sua morte lasciò scritto nel suo testamento, stilato il 25 novembre 1678 dal notaio Paolo Lamarino, che venissero elargiti numerosi legati pìì e “soprattutto duemila ducati per l’introduzione delle Scuole Pie” con lo scopo di istituire l’istruzione gratuita per i giovani e l’assistenza ai moribondi. Questa stessa filantropia animò e pervase anche gli altri componenti della famiglia.
Il fratello Ambrogio (1652-1678), di cui si rammenta la generosità verso la popolazione durante la carestia del 1672, nel suo testamento destinò un lascito di cinquecento ducati per creare una rendita che dovesse costituire la dote annua per “una zitella povera e pericolante nell’onore”, con clausola di sospensione e di passaggio della rendita all’istituzione pubblica, qualora fosse sorto “un Conservatorio di vergini o un rifugio di donne pentite”.
L’altro consanguineo Giovan Battista (1655-1729), una volta morto, lasciò parte della sua eredità per la fondazione di un Conservatorio accanto alla chiesa di San Nicola di Francavilla e per la realizzazione di un Monte di Pietà per i poveri, struttura che ancora oggi compie lo stesso servizio.
Cardinale Giuseppe Renato Imperiale
Ma fu con Giuseppe Renato (1651-1737) che la potenza della famiglia Imperiale si consolidò ulteriormente all’ombra della veste purpurea. Dopo alcuni trascorsi genovesi e un barlume di carriera militare, egli, nel 1662, fu inviato insieme ai tre fratelli dallo zio Cardinale Lorenzo, il quale li collocò nel collegio ungarico-germanico sotto la protezione di papa Clemente X. La sua esperienza e la sua capacità in campo politico lo portarono a rivestire numerose cariche di prestigio, al servizio di numerosi Papi. Innocenzo XI, lo nominò suo tesoriere, Alessandro VII lo creò Cardinale il 13 febbraio del 1690 con la diaconia di San Giorgio in Velabro, spedendolo successivamente a Ferrara come suo legato, e infine Clemente XI, il quale lo inviò in qualità di suo consigliere privilegiato, a incontrare l’Imperatore Carlo VI d’Asburgo, giunto in Italia per riallacciare le relazioni con il papato.
Dopo la nomina legatizia di Ferrara arrivò, nel 1696, l’assegnazione di una delle cariche più importante con la quale Giuseppe Renato, seppe per quasi trent’anni, dimostrare il proprio rigore, competenza e cultura: la prefettura della Congregazione del Buon Governo. Il Cardinale non fu solo un abile diplomatico, ma fu uomo sensibile e colto. Creò un’importante biblioteca e fu “mecenate di letterati i quali lo tennero in molta estimazione e gli dedicarono molte opere”.
Nel conclave del 1730, a causa dell’età avanzata e del veto del re di Spagna Filippo V (1683-1724), non fu eletto papa. Malgrado i molti impegni romani, rimase pur sempre legato al feudo pugliese. Qui volle che dopo la sua morte fosse trasferita parte della sua biblioteca; qui appoggiò favorevolmente l’iniziativa del fratello Andrea riguardo alla fondazione delle Scuole Pie, legando a questa iniziativa ben cinquecento ducati e qui, per meglio raccogliere le ossa di San Renato, donate nel 1649 a Francavilla da Monsignor Capobianco, pensò di inviare un busto reliquiario d’argento commissionato a un valente orefice romano e giunto in città solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1737.
Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).
Degno discendente fu Michele III Senior (1677-1738), sesto marchese di Oria e terzo principe di Francavilla, Grande di Spagna di prima Classe (1703), sposo di Irene Grimaldi: “addimostrò in sul principio buoni intendimenti e buon cuore”. L’immagine tramandataci di lui è quella di un giovane colto ed esperto umanista votato agli studi in legislazione civile ed ecclesiastica.
Laureato in “utroque iure”, riusciva a tener testa ai più dotti giuristi del tempo, dai quali era per questo molto temuto. Il carattere del Principe si rivela ancor oggi a noi, quando guardiamo il suo ritratto conservato nel palazzo di Francavilla. Un vivo senso degli antichi valori feudali, la volontà di tutelare ed accrescere il prestigio della casata, quel filantropismo, pregio della famiglia, unita a un temperamento impulsivo ed aggressivo, che gli costarono il carcere, animarono sempre gli eventi più importanti della sua vita: dal difficoltoso rapporto prima, con l’unico figlio Andrea II, nato nel 1697 a Francavilla e poi con il nipote Michele IV Juniore (1719-1782).
Per la prima parte:
L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (prima parte)
Per la seconda parte:
L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (seconda parte)
#Ambrogio Imperiali#Andrea Imperiali#Cardinale Lorenzo Imperiale#famiglia Imperiale#Giuseppe Renato Imperiali#marchese di Oria#Michele Imperiale#Mirko Belfiore#priincipe di Francavilla#Pagine della nostra Storia#Spigolature Salentine
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Nel link, qui sopra, un documentario storico (lunghetto ma da vedere) su sant’Ambrogio ovvero uno dei protagonisti dell’innesto della romanità in Cristo che ha reso possibile il ritorno dell’elemento di verità originaria conservata nella antica saggezza “pagana” alla sua Radice Prima ossia alla Sapienza Primordiale del Verbo Divino. Un innesto questo di Roma in Cristo – la dantesca “Roma onde Cristo è romano” – nel quale si è manifestato, sul piano storico, il Sacerdozio Eterno e Regale, al modo di Melchisedek, del Cristo, di Colui che, per l’appunto, è l’unico Rex et Sacerdos. Su questo Sacerdozio regale ed eterno, per tutti i secoli cristiani, si è fondato il delicato e difficile equilibrio tra Autorità Spirituale e Potere Politico. Un equilibrio che Ambrogio contribuì a definire nel suo non facile rapporto con l’imperatore Teodosio. A chi oggi potrebbe scandalizzarsi della durezza che Ambrogio usò verso gli ariani, gli ebrei ed i residuali “pagani” del suo tempo, è bene ricordare che la tolleranza è concetto ambivalente. Essa se malintesa, come nel mondo moderno, porta inevitabilmente al relativismo e peggio al nichilismo.
D’altro canto la complessità della storia è una sfida continua per tutti. Nel documentario, suggerito, laddove si parla della difesa ad oltranza, e certo sbilanciata, che Ambrogio fece dei cristiani responsabili dell’incendio di una sinagoga non viene detto che quel colpevole episodio fu la ingiusta reazione all’uccisione di un cristiano per mano di alcuni zeloti ebrei o, secondo altre fonti, la reazione all’aggressione, sostenuta dagli ebrei locali, di alcuni gnostici valentiniani ad una processione di monaci in onore dei “santi maccabei”. L’episodio, che certamente non fu unico, va quindi ascritto al contesto delle tensioni tra due comunità religiose che nascondevano anche conflitti politici.
Il tema che qui vogliamo affrontare, sotto il profilo storico, è quello della cosiddetta “svolta costantiniana” del IV secolo, quando i cristiani divennero maggioranza relativa e iniziarono a ribaltare la situazione a loro favore. Fino ad allora i perseguitati erano stati essi, i cristiani, ma non per mano romana come generalmente si pensa. Anzi, già subito dopo i fatti di Gerusalemme, l’autorità romana mostrò un atteggiamento di difesa verso i cristiani perseguitati dal Sinedrio e lo stesso Tiberio, come spiega Marta Sordi, emanò un rescritto che considerava la “licita” nuova “religio”. Un rescritto tuttavia poi bloccato dal Senato. Roma vedeva in quel nuovo gruppo di origine ebraica una comunità obbediente all’impero anziché in costante ribellione come quella ebraica e pertanto lo tutelava nella speranza che ad esso finissero per aderire tutti gli ebrei ottenendo così la pacificazione della turbolenta Palestina. Nelle successive persecuzioni imperiali, a parte la questione del bruciare l’incenso alla “divinità” dell’imperatore (che era un rito di origine orientale ed estraneo alla tradizione romana, la quale non aveva mai contemplato la divinizzazione del re), si percepisce, all’indagine storica, una chiara pressione sull’autorità romana per mano ebraica, volendo il Sinedrio e la diaspora regolare una volta per sempre i conti con gli “eretici galilei”. Fu dunque, in particolare, la diaspora ebraica a sobillare i pagani e l’autorità imperiale contro i cristiani. Pare, ad esempio, che sia stata Poppea, moglie di Nerone, il vanesio imperatore allievo ribelle di Seneca, che era diventata adepta “gentile” di alcuni maestri ebrei romani, a spingere il marito ad imputare ai cristiani l’incendio dell’Urbe.
In quella che solitamente è chiamata “svolta costantiniana” in realtà l’imperatore Costantino non ha giocato quasi alcun ruolo dato che, con il suo editto, egli si limitò a riconoscere ai cristiani libertà di culto alla pari di altri gruppi religiosi. La vera e propria svolta iniziò successivamente, proprio all’epoca di Ambrogio e Teodosio. La controversia intorno all’incendio della sinagoga di Callinico nascondeva ben altro che non la pressione di Ambrogio sull’imperatore affinché perdonasse i cristiani responsabili del misfatto. Il punto era un altro. Teodosio, ottemperando al suo dovere imperiale, voleva punire i responsabili addossando alla comunità cristiana le spese di ricostruzione della sinagoga, ma Ambrogio intervenne argomentando che egli, Teodosio, era un imperatore cristiano – in nome del “nome cristiano” più tardi Ambrogio lo avrebbe umiliato, imponendogli una pubblica penitenza, quando il sovrano si rese responsabile del massacro di Tessalonica – e che quindi non poteva mettere sullo stesso piano il vero culto, quello cristiano, ed uno falso, quello ebraico. La soluzione adottata da Teodosio, ossia ricostruire la sinagoga a spese dell’erario e moderare la pena comminata ai colpevoli, segnò la nascita del concetto di tolleranza premoderno come conosciuta fino alla Rivoluzione Francese ed il vero inizio della svolta “costantiniana”. Da quel momento l’impero diventava cristiano, confessionale, ed in tale contesto agli altri culti, benché ancora leciti ed ammessi, furono imposte restrizioni da “cordone sanitario”. Le comunità religiose allogene potevano sì celebrare il proprio culto ma non fare proselitismo, potevano sì conservare i loro templi ma non costruirne di nuovi, i loro membri potevano sì esercitare professioni private ma non essere ammessi a cariche pubbliche.
La tolleranza, in tal senso, era intesa come circoscrizione del “male” e non più come eguaglianza tra i culti. Un tipo di tolleranza non egalitaria che non fu propria del solo mondo cristiano giacché è stata quella ordinaria anche in terra islamica, nei confronti delle “genti del Libro” ovvero ebrei e cristiani, ed anche presso gli ebrei quando, nei pochi e rari casi nei quali godettero di egemonia, usarono discriminare gli altri culti. Come ad esempio nel regno caucasico dei khazari, VI secolo, quando i rabbini insediatisi a corte ottennero la cacciata e la ghettizzazione dei cristiani (il ramo aschenazita dell’ebraismo postbiblico deriva anche da qui).
Per la nostra mentalità relativista tutto questo è scandaloso ma in realtà corrisponde perfettamente alla logica della Verità che non può essere parificata alla non verità. Chi crede che la Verità esiste inevitabilmente non può, ed è cosa giusta in base a tale logica, accettare la sua relativizzazione. Se per noi “liberali” è assurdo che lo Stato operi una scelta tra le diverse visioni religiose e filosofiche, altrimenti sarebbe Stato confessionale o se laico etico, non era così nella logica veritativa di Ambrogio e Teodosio. E – si badi – in linea di principio non è così, cristianamente parlando, neanche oggi quando lo Stato liberale è cosa accettata da tutti compresi i cristiani. Infatti, in linea di principio, in un’ottica cristiana l’Autorità politica, soprattutto se “consacrata”, non può lasciare che i falsi culti si diffondano in particolare a danno di coloro che, spiritualmente ed intellettualmente più deboli, si mostrano incapaci di discernere il vero dal falso. Affermare questo, naturalmente, significa esporsi all’accusa di intolleranza, l’accusa tipica rivolta alla Chiesa da parte liberale, nonostante il controverso e difficile cammino che ha portato, dopo la Rivoluzione Francese, i cattolici ad accettare, se non in linea di principio quantomeno in via di fatto e di accomodamento, il criterio liberale della libertà religiosa, ovvero a tollerare i fondamenti relativistici, di matrice massonica, della democrazia liberale.
Dunque la democrazia di tipo liberale è il migliore dei sistemi ed alla fine anche i cristiani hanno dovuto convincersene, sebbene alcuni di essi soltanto per tolleranza di fatto? Bisogna, per rispondere, valutare il rovescio della medaglia. E’, ad esempio, in nome delle libertà individualistica che oggi possiamo assistere non solo alla parificazione giuridica tra matrimonio eterosessuale ed unioni omosessuali ma anche al riconoscimento, coerente con le premesse liberali, del diritto alla pedofilia, che ormai si profila all’orizzonte delle legislazioni pomposamente definite “più avanzate”. Sulla base dei postulati del liberalismo l’Autorità non può opporsi al proselitismo – e qui riemergono le “ragioni” di Ambrogio e della antica Cristianità – dei culti più spiritualmente e socialmente pericolosi, dal New Age a Scientology, dal Geovismo al Teosofismo, che fanno strame soprattutto, come temevano gli antichi inquisitori, tra coloro che per difetto di evangelizzazione (e questa è una grave responsabilità dei cristiani) o per poca istruzione o per debolezze caratteriali e psicologiche abboccano alla setta di turno sovente rimettendoci famiglia, salute e patrimonio. In nome della libertà religiosa si è fatta avanti persino la richiesta di riconoscimento, quale culto legittimo, del satanismo. Nella logica relativista nulla si può opporre a tale richiesta dato che, in quella logica, la “chiesa di Satana” ha lo stesso diritto e valore giuridico della Chiesa cattolica.
La democrazia liberale nasce storicamente dal “settarismo” protestante, inaugurato dall’individualistico “libero esame” di Lutero. Il suo cammino trionfale inizia poi nel XVIII secolo con la nascita degli Stati Uniti d’America, all’ombra del relativismo massonico di Washington e degli altri padri fondatori. La concezione massonica per la quale la Verità non esiste (essendo una auto-costruzione “iniziatica” dell’uomo) o, meglio, per la quale essa, inattingibile storicamente, sarebbe diluita un po’ in tutte le fedi sicché nessuna di esse può pretendere un primato sulle altre, è il fondamento irrinunciabile della democrazia liberale. Che lo si voglia o meno, è così. Gli Stati Uniti, infatti, sono il paradiso del settarismo e da lì, da oltreoceano, le più svariate sette sono ritornate in Europa, senza che nessuno possa opporsi al loro, spesso aggressivo, proselitismo anche quando tutto finisce in coartazioni o, a volte, stragi. Come nel caso del suicidio di massa perpetrato dai membri della setta del “Tempio del Popolo”, fondata dal pastore Jim Jones, a Jonestown in Guyana nel 1978. Un episodio, quest’ultimo, forse estremo ma significativo anche perché ricorda, da vicino, la pratica del suicidio rituale, l’“endura” (la morte per fame), del catarismo medioevale, il quale considerando la materia e la carne il male dal quale liberarsi imponeva, a certi livelli iniziatici, ai suoi adepti di ricorrere al suicidio. Il catarismo fu una delle ricorrenti forme di gnosi spuria come lo sono le diverse sette neospiritualiste oggi pullulanti. Venne duramente represso, con la cosiddetta “crociata contro gli albigesi”, ma uno storico imparziale, e nient’affatto simpatizzante con la Chiesa, come Henry Charles Lea, ha ammesso che “una vittoria dei catari avrebbe riportato l’Europa ai tempi selvaggi e primitivi”.
Arriviamo così ad un punto cruciale. L’amico e storico Franco Cardini, cattolico romano per fede, è l’autore di un interessante saggio “Contro Ambrogio” (egli ha promesso di scrivere in futuro anche un altro saggio da titolare “Pro Ambrogio” ma finora non ha mantenuto la promessa). Nella chiusa di tale libro Cardini si chiede se non ci fosse stata la svolta costantiniana, e quindi senza Ambrogio, la Chiesa avrebbe evitato di percorrere la via che poi ha condotto a “crociate” ed “inquisizione”.
Sembrerebbe, quella di Cardini, la solita “pippa” anticristiana e la solita richiesta di infiniti “meaculpa”. Ma non è così, giacché Cardini, storico di primordine, sa molto bene quanto la vulgata su crociate ed inquisizione sia in gran parte falsa e falsificata dalle antiche polemiche anticlericali sette-ottocentesche. Da lui, anche se non solo da lui, lo scrivente ha imparato che la “crociata” non era tale ma soltanto l’innesto del concetto giuridico romano di “ius bellum”, guerra giusta, sull’esperienza spirituale del pellegrinaggio in Terra Santa e che quindi essa fu un “pellegrinaggio armato” ma non una “guerra santa”, dato che in ambito cristiano nessuna guerra, neanche quella “giusta”, tollerata come male a volte necessario per evitare un male maggiore, può essere “santa”. Sempre da lui lo scrivente ha appreso che l’inquisizione ecclesiale è stata in genere relativamente molto più prudente e molto meno dura e facile al ricorso effettivo alla tortura di quella laica che, invece, ha continuato ad usare i suoi strumenti di costrizione fisica anche in tempi di secolarizzazione del potere politico. Lo scrivente ha poi appreso che la vera e propria mattanza di streghe si registra in terra protestante dato che, “Malleus maleficarum” di Kramer e Sprenger, nel XV secolo, a parte, gli inquisitori cattolici iniziarono ben presto a capire la natura folklorica di certe pratiche popolari “stregoniche” e quindi a derubricarle a superstizione che in quanto tale era competenza degli evangelizzatori ma non dei tribunali inquisitoriali. Esemplare il caso di Gostanza la presunta strega di san Miniato, sulla quale Cardini ha curato un libro, salvata, dal linciaggio popolare, dal suo stesso inquisitore. Anche il caso di Galileo Galilei non si è svolto come lo raccontano, in quanto lo scienziato pisano ebbe un trattamento certo non in linea con il truculento immaginario di torture cui sarebbe sato sottoposto per ottenere l’abiura. In realtà, per quanto stiamo sempre parlando di una pressione psicologica processualmente ottenuta, Galilei aspettò il processo ospite riverito nella villa di un cardinale e quale pena canonica gli fu imposta la recita dei salmi penitenziali. Morì, infine, confortato dai sacramenti, lui che mai ripudiò la sua fede cattolica, e dalle cure di una sua figlia suora.
Orbene, per tornare al suo libro di sant’Ambrogio, Cardini ponendosi e ponendoci la domanda, sopra ricordata, ossia se la Chiesa senza svolta costantiniana avrebbe evitato certe pagina dolorose della sua storia, sembra non tener adeguatamente conto della logica stessa dell’Incarnazione per la quale Dio ha accettato di entrare nella storia umana post-adamica, quindi in una storia contrassegnata dal peccato e dalla fallacia umana, assumendosene il rischio, ossia caricandosi il fardello non solo del peccato anche della fallacia e della debolezza degli stessi cristiani, quindi delle loro sempre possibili mancanze di carità. Nella logica dell’Incarnazione, la Chiesa è Corpo Mistico di Cristo e, come tale, non può essere considerata alla stregua di una qualsiasi associazione a scopo religioso, motivo per il quale Essa non poteva non confrontarsi a vario titolo e con varie modalità, storicamente dinamiche, con le culture con le quali sarebbe venuta a contatto ed anche con l’Autorità politica. In altri termini, era inevitabile, per la logica stessa dell’Incarnazione, che, ottenuta da Costantino la libertà religiosa, la Chiesa ottenesse da Teodosio anche la sanzione politica del riconoscimento della primazia spirituale sugli altri culti. Il problema, tutto medioevale, dell’eccesso in senso teocratico di certuni Papi, che illegittimamente oltrepassarono il limite di autonomia del Potere regale, è un altro discorso che esula dall’oggetto proprio di queste riflessioni. Per questa medesima logica “ambrosiana”, secoli dopo, Pio IX, spodestato del potere temporale, giustamente non accettò la tutela offertagli dai Savoia usurpatori mediante la “legge delle guarentigie”, perché si trattava di una legge unilaterale dello Stato italiano, quindi modificabile ad libitum da qualsiasi governo, che riduceva la Chiesa alla stregua di una mera associazione di privati cittadini. Non dunque di un trattato internazionale e bilaterale tra soggetti che si riconoscono reciprocamente ed alla pari sotto il profilo giuridico.
D’altro canto non si può neanche dimenticare che nella logica dell’Incarnazione rientra anche tutto il complesso di opere di assistenza e carità come anche l’intero patrimonio artistico che la Cristianità ha generato e ci ha lasciato in eredità. Senza la svolta costantiniana forse non ci sarebbe stata l’inquisizione ma neanche la cattedrale di Notre Dame a Parigi, non ci sarebbero forse state le crociate ma neanche il Duomo di Firenze, non ci sarebbe stata la stretta unione tra l’altare ed il trono ma neanche la Commedia di Dante e probabilmente non sarebbe sopravvissuta neanche la Chiesa se fosse rimasta una semplice congrega privata di fedeli di un esotico culto di origine palestinese. Quindi senza il “duro” Ambrogio neanche il “serafico” Francesco. Insomma se il Verbo si è fatto carne non sarebbe poi stato possibile che la Chiesa non assurgesse ad una concreta visibilità e corporeità che comporta anche una dimensione giuridica e quindi una continua interrelazione con il Politico. Con tutti i rischi storici del caso. Piaccia o meno.
Ciascun cattolico, come lo scrivente, deve debitamente ed onestamente farsi carico del “peso storico” del passato comprese le sue zone d’ombra ma senza complessi di colpa ed anzi rivendicando le ragioni, misconosciute dai detrattori, di Ambrogio e degli inquisitori, benché – sia chiaro! – senza nostalgie o sogni di restaurazione, impossibile a realizzarsi in termini umani ovvero con mezzi politici ossia in mancanza innanzitutto di una trasformazione interiore che solo orazione e vita sacramentale possono ottenerci da Dio. Dalla fattuale accettazione del mondo nel quale egli vive, tuttavia, il cattolico non deve giungere, come fanno i suoi correligionari “progressisti”, anche ad incensarlo o a fare proprie le ragioni, gli esiti ai quali esse possono portare abbiamo sopra evidenziato, dei “nemici” di ieri (e, senza farci soverchie illusioni, anche di oggi). Ai detrattori del nome cristiano si deve ricordare, piuttosto, che, le vicende storiche della modernità, sono lì a dimostrare quanto loro non si sono dimostrati migliori dei cristiani e che nessuno, né loro né noi cristiani, può scagliare la prima pietra. Un approccio “neopagano” oggi molto di moda – fatto proprio anche da taluni cari amici dello scrivente – dimentica con troppa facilità che, a ben guardare, anche il mondo antico, nonostante il pullulare di culti nella Roma tardoimperiale, non praticava affatto la tolleranza relativista, come quella moderna di tipo massonico, dato che, al contrario, ciascun culto per essere ammesso doveva avere il placet imperiale o senatoriale. Il moltiplicarsi dei culti nella tardo-romanità va piuttosto letto alla luce del fatto che essi, sotto diverse forme, nascondevano più o meno una identica narrazione mitica, mentre la nuova fede cristiana, benché lealissima verso l’Impero, non era riducibile ad un mero mito.
Ora, però, proprio perché la dichiarazione di rivendicazione senza infingimenti del “peso storico” della tramontata Cristianità non vuol essere, come detto, anche prassi intesa alla restaurazione – che è bene ribadirlo non è cosa operabile con mezzi umani – non è possibile chiudere queste riflessioni senza una ultima considerazione. Il dramma dei secoli cristiani non è stato, come ritengono i cattolici modernisti, quello della svolta costantiniana, ossia del passaggio della Chiesa nel IV secolo, ottenuta la libertà religiosa, alla “prevaricazione”, quanto piuttosto quello del fatto che per tutti quei secoli i cristiani, certo per molteplici fattori spirituali, sociali, politici, economici, sia come singoli sia come comunità, grandissime eccezioni di santità a parte (che non furono poi così poche, comprese quelle della gente comune e conosciute solo a Dio perché non ufficialmente canonizzate), non hanno dimostrato di essere coerenti con la Carità che è parte di e deriva dalla Verità ossia dalla Persona Divino-Umana di Cristo. E’ il problema della “metanoia”, della trasformazione interiore, della “conversione del cuore” al Cuore di Dio. Se i cristiani e la Cristianità hanno mancato in qualcosa è in questo, non nel pretendere il riconoscimento della primazia della Verità. Perché tutti i Papi, fino a Giovanni Paolo II ed a Benedetto XVI, non hanno mai negato che la Verità viene prima della libertà e che senza la Verità non c’è neanche la libertà o che, senza la prima, la seconda finisce per rovesciarsi, come sovente la storia moderna ha dimostrato, nel suo contrario. Se per un liberale il primato spetta alla libertà, per un cristiano, anche per un cristiano del XXI secolo, il primato spetta sempre e comunque alla Verità. Il punto sta tutto nel come attuare tale primato senza violare la libertà altrui e senza imporlo coattivamente agli altri. Qui, appunto, l’unica risposta, quella ad esempio indicata da Papa Benedetto XVI nelle encicliche “Deus caritas est” e “Caritas in Veritate”, è la conversione interiore personale di ciascun cristiano che sappia manifestarsi all’esterno nei rapporti sociali e politici fino a conquistare il cuore degli altri in modo che, poi, tutti insieme, nella Chiesa, si sappia contribuire a rendere possibile e concreta, carnale, una, forse, futura migliore Cristianità anche sociopolitica. Naturalmente solo a Dio piacendo ossia se questo è nei Suoi imperscrutabili disegni.
Luigi Copertino
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L'ultima Roma imperiale e l'ultima Roma repubblichina
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L'ultima Roma imperiale e l'ultima Roma repubblichina
a) L’ULTIMA ROMA IMPERIALE Da “Storia d’Italia, Vol. 4, pagg. 143 e segg., Montanelli e Gervaso, RCS 1994, Milano”, citiamo: Non risulta che i Romani, o per meglio dire gli abitanti di Roma, si rendessero esatto conto di cio’ che significava la decisione di Odoacre di spedire a Costantinopoli le insegne imperiali e di abolire la carica di Augusto. Il Senato, che pro-forma si riuniva per avallare le decisioni del tirannello di turno, lo considero’ un fatto di ordinaria amministrazione, anzi lo saluto’ come una provvida riunificazione dell’Impero dopo la divisione fattane da Costantino. Che tutto l’Occidente se ne fosse separato; che Roma, una volta caput mundi, non lo fosse piu’ neanche dell’Italia, la quale ormai gravitava piu’ su Milano e Ravenna; che la Penisola non fosse piu’ che la remota propaggine di un Impero che si proclamava ancora Romano, ma che in realta’ era soltanto grecorientale, parvero loro tutte cose di scarso rilievo e di secondaria importanza. Questa indifferenza e’ significativa. Non che, intendiamoci, all’atto pratico il Senato avesse la possibilita’ e i mezzi di opporsi. Se avesse osato, per dirla con Mussolini, i Lanzichenecchi di Odoacre avrebbero fatto di quell’aula sorda e grigia un loro bivacco. Ma almeno un addio alle aquile ed ai fasci littori, cioe’ a ottocento anni di Storia e di Gloria, avrebbe potuto risuonarvi. Invece, niente. Fra gli epigoni di quella che era stata la piu’ rigogliosa aristocrazia del mondo, non se ne trovo’ uno disposto a pronunciare un epitaffio. L’ultimo Senatore degno di questo nome era stato Simmaco, alle cui “Lettere” dobbiamo il piu’ gradevole ritratto dell’agonizzante Roma imperiale. Veniva da una grande famiglia di Consoli e Prefetti, che avevano servito con la medesima accortezza gli interessi dello Stato e quelli propri, come dimostrava l’immenso patrimonio che avevano accumulato. Fra l’altro essi avevano disseminato, dal Lago di Garda alla Baia di Napoli, una catena di sontuose ville, in modo da poter scorrazzare la Penisola senza lo scomodo di uscire di casa. Simmaco era l’ultimo rappresentante della cultura pagana, sebbene di fatto di religione si proclamasse agnostico. “Che importanza ha” disse all’imperatore Valentiniano “quale strada si sceglie per giungere al Vero? Quel che conta sapere e’ che non si arrivera’ mai a scoprirlo”. Gran signore ed intimo amico di Vezio Pretestato, capo della minoranza pagana in Senato, egli fu designato a patrocinarla nella sua ultima battaglia contro il Cristianesimo. L’imperatore Graziano, completamente dominato da Ambrogio, sulla fine del quarto secolo ordino’ la chiusura e la confisca di tutti i templi dedicati agli dei e la rimozione dal Senato della statua della Vittoria che Augusto vi aveva installato. Simmaco si oppose con un discorso degno del miglior Cicerone, e fu bandito da Graziano. Morto costui e succedutogli Valentiniano II, Simmaco riprese la sua battaglia oratoria e l’avrebbe vinta sull’animo del nuovo giovane imperatore, se Ambrogio non fosse intervenuto con la sua foga abituale. Il Vescovo di Milano trionfo’ perche’ aveva dalla sua la fede. Simmaco non aveva che la ragione. Le sue “lettere” sono una limpida, ma parziale descrizione della Roma dei suoi tempi, dal punto di vista dei ricchi privilegiati, che ancora vi mantenevano posizioni di rielievo, sia pure soltanto decorative. Quella che non lo e’ piu’ sul piano politico, e’ ancora pero’ la capitale intellettuale dell’Occidente, dove chiunque voglia parlare al mondo civile e’ costretto a venire ad imparare la lingua e i costumi e per trovare gli strumenti di diffusione. Nei palazzi si sono accumulati libri ed oggetti d’arte. Vi sono tappeti che costano fino a duecento milioni di lire. Battaglioni di cuochi preparano pranzi sontuosi. E dalle conversazioni e’ bandita ogni parola che non sia del piu’ classico latino. Questa societa’ non e’ chiusa. Accoglie tutti coloro, indigeni o forestieri, che in qualche modo fanno spicco, ma gli impone la sua etichetta. Le ambizioni sono piu’ intellettuali che politiche. Tuttavia la dedizione al bene pubblico e’ ancora grande. Questa classe dirigente, lungi dal trarre profitto dalle sue cariche amministrative e diplomatiche (di quelle militari ha perso persino il ricordo) se le mantiene finanziando di tasca propria circhi e teatri. E’ un ceto signorile di altissima civilta’ che non ruba piu’ perche’ i suoi avi hanno gia’ rubato abbastanza, e alla cui porta tutti i forestieri, barbari o meno, fanno ressa per essere accolti.
C’e’ senza dubbio del vero in questo attraente ritratto, ma visto da una parte sola. L’altra ce la fornisce un cristiano, anzi un prete di Marsiglia, Salviano, nel suo libro “Il governo di Dio”, di cui Agostino ebbe probabilmente conoscenza.
Salviano non vede che oppressione, corruzione e immoralita’, a differ enza di quanto avviene nelle societa’ barbariche, rozze ma certamente dallo spirito di sacrificio, di un sentimento di solidarieta’ e di fratellanza e dalla legge dell’onore. “Roma muore e ride” dice questo puritano che non l’ama e che forse ha letto un po’ troppo di Tacito. Ma anche nella sua descrizione del vero c’e’. La citta’ aveva in quel momento meno di duecentomila abitanti, fra i quali i Romani di razza dovevano contarsi, al massimo, a centinaia. Dai tempi di Cesare essa era una metropoli in prevalenza orientale, che si era abituata a vivere parassitariamente alle spalle delle province romanizzate. A parte una cartiera e una fabbrica di coloranti, le sue uniche industrie erano la politica ed il saccheggio. Quest’ultimo aveva riempito il suo tesoro pubblico e quelli privati come nel secolo decimonono il saccheggio coloniale avrebbe fruttato la ricchezza dell’Inghilterra. Ma esso era finito da un pezzo, ormai: da quando Costantinopoli bloccava I mercati orientali e le invasioni barbariche avevano paralizzato quelle occidentali. Da allora sempre piu’ Roma ma aveva dovuto contare solo sulla Penisola. Ma neanche qui le cose andavano bene. La popolazione complessiva non superava i cinque milioni. Ma ai guai della decadenza demografica dovevano aggiungersi quelli del declino della classe media. Dai Gracchi in poi Roma aveva sempre lottato per ricostruire o puntellare quella societa’ contadina di coltivatori diretti che davano i mgliori soldati all’esercito e i migliori funzionari all’amministrazione. Ma il sistema fiscale del basso Impero l’aveva definitivamente rovinata. La Tributaria era talmente corrotta e prevaricatrice che, stando a Salviano, per la prima volta nel terzo secolo si videro cittadini romani fuggire, per salvarsi, oltre la “cortina di ferro” del limes, e rifugiarsi presso i barbari. L’imperatore Valentiniano I ne fu cosi’ colpito che istitui’ una nuova professione: quella dei “Difensori della Citta” cui erano affidati i reclami contro il fisco. Ma nessun rimedio di legge e’ valido quando il costume si corrompe. I memorialisti del tempo hanno lasciato scritto che coloro che vivevano sulle tasse erano piu’ numerosi di coloro che dovevano pagarle. Ed era la conseguenza di due fenomeni ugualmente deleteri e che si sviluppano sempre di pari passo: da una parte il proliferare della burocrazia, dall’altra l’assottigliamento dei contribuenti. I quali, incapaci di far fronte al fisco, sempre piu’ vendevano il podere o la piccola fattoria al latifondista, facendosene assumere in qualita’ di coloni, cioe’ pressappoco di servi della gleba. Fu questo il vero inizio del Medioevo almeno dal punto di vista sociale, e comincio’ a verificarsi prima dell’arrivo dei barbari. Da quando le guerre di conquista erano finite, era cessato anche l’afflusso degli schiavi. E quindi i grandi proprietarierano ben contenti di assoldare come contadini quelli piccoli, dopo everne ricomprato le terre. Costro, dal canto proprio, cercavano un padrone: non solo per sottrasi alla Tributaria, ma anche per avere in lui un protettore nello scompiglio che si andava accentuando. Il grande feudatario, che sin qui aveva vissuto un po’ nel suo palazzo a Roma, un po’ nella sua villa di campagna, comincia a cambiare visionomia, e si trasforma nel potente che e’ gia’ l’inizio del Feudalesimo. La villa che finora tirava soltanto al comodo e al bello perche’ alla sua protezione accudivano i Prefetti e i Generali con le loro forze di polizia, adesso cerca anche la sicurezza e si trasforma piano piano in castello, cioe’ in fortilizio, perche’ lo Stato non e’ piu’ sempre in grado di difenderla dai briganti che infestano le contrade e dai “federati” che cominciano a calarvi e con essi spesso si confondono. Quello che invece non cambia e’ il rapporto umano fra il padrone ed il colono, che si e’ da poco sostituito allo schiavo ma che il padrone seguita a trattare come tale. Questa e’ una delle ragioni per cui il Feudalesimo, fenomeno tipicamente germanico, in Italia attecchi’ prima che altrove, ma vi ebbe anche la vita piu’ corta. I barbari che non si erano allenati al comando sugli schiavi, avevano del vassallaggio un’idea molto piu’ umana dei Romani, perche’ lo esercitavano sui loro fratelli, quindi con molte limitazioni e garanzie. I Romani invece si erano sempre riconosciuti il diritto di disporre della vita dei loro dipendenti, e vi avevano contratto una specie di vizio mentale. Paolino di Pella si congratulava della propria mentalita’ scrivendo, in questi tempi, di essersi sempre contentato, quanto a concubine, delle serve: il che costituiva, secondo lui, solo l’esercizio di un diritto. In questo contado scarsamente popolato da una plebe di mezzadri e di braccianti senz’altra protezione che quella grazisamente concessa dai potenti, solo costoro vivevano agiatamente, perche’ quasi tutto il reddito veniva rastrellato a Roma. Ma anche qui ci si guardava dal distribuirlo equamente. Mentre Simmaco iscriveva nel suo registro dei conti la spesa di oltre cinquecentomilioni di lire per uno spettacolo nel Circo, dove trenta gladiatori sassoni preferivano strangolarsi ciascuno con le proprie mani piuttosto che sbudellarsi l’un l’altro, un vasto proletariato viveva solo di sussidi, di elemosine e di piccoli intrallazzi, approfittando di ogni disordine per dedicarsi al saccheggio di banche e negozi. Ad Ammiano Marcellino, che vi giunse alla fine del quarto secolo da Antiochia, Roma fece l’impressione di una citta; piacevole e corrotta, dove la raffinatezza e la crudelta’, l’intelligenza ed il cinismo, il lusso e la miseria, la tradizione e l’anarchia si mescolavano in dosi abbastanza robuste. Ammiano scriveva in un latino un po’ imparaticcio, ma era un imparziale galantuomo, a cui il paganesimo non impedi’ per esempio di condannare Giuliano l’Apostata per I suoi tentativi contro le liberta’ cristiane. E al suo giudizio ci crediamo, anche perche’ conferma sia il ritratto in rosa di Simmaco che quello in nero di Salviano. Le due Rome, quella splendida dei pochi e quella miserabile dei molti, convivevano. E si capisce come’essa potesse apparire diversa secondo gli occhi che la guardavano. Altri due cronisti forestieri, Macrobio e Claudiano, non videro che la prima, forse perche’ ebbero la ventura di essere accolti nella buona societa’. Ma le loro descrizioni puzzano di omaggio. Anch’essi, tuttavia ci aiutano a capire come mai Roma accettasse con tanta facilita’ la sua spoliazione del titolo di Capitale dell’Impero. Tutte le decadenze in tutti i luoghi e in tutti i tempi sono contrassegnate dai medesimi fenomeni: le accresciute distanze sociali fra un numero sempre piu’ piccolo di privilegiati e una massa sempre piu’ grande di derelitti, l’affievolimento di ogni vincolo di solidarieta’, e la totale indifferenza di tutti agli interessi della comunita’. Nei salotti della ricca Roma, quasi tutta pagana, si parlava di Cicerone e di Catullo, si citava Aristotele, si corbellavano I Generali barbari, le loro rozze maniere, i loro errori di pronuncia e di ortografia. Nei “bassi” della povera Roma cristiana ci si arrangiava come si poteva e si era troppo impegnati a mettere daccordo il desinare con la cena per potersi preoccupare dell’Impero, dello Stato, del Passato e del Futuro. Che un lanzichenecco tedesco cresciuto alla corte di Attila, come Odoacre, avesse rispedito le aquile e i fasci a Costantinopoli e stesse governando l’Italia come un Re indipendente, non interessava a nessuno. A intendere e ad esprimere in tutta la sua grandezza e tragicita’ questa catastrofe ci fu solo un poeta. Ma non era romano, e nemmeno italiano. Era un gallo nativo forse di Tolosa, forse di Narbona, si chiamava Rutilio Namaziano, veniva dalla carriera amministrativa, ed era prefetto in Toscana e in Umbria. Prima di tornarsene in patria bsotto l’incalzare delle invasioni visigote e vandale, volle pagare il suo debito di gratitudine a Roma, che aveva fatto di lui un uomo civile e colto, dedicandole un’apostrofe che dimostra quanto quella civilta’ e cultura egli le avesse assimilate. Forse il suo libro “De reditu” e’ l’ultimo capolavoro della latinita’ classica. Comunque, lo e’ certamente l’addio all’Urbe che vi e’ incluso: Ascolta, regina bellissima di un mondo che hai fatto tuo, o Roma, accolta negli stellati cieli, asolta madre di uomini e di dei. Non lontani dal cielo siamo noi quando ci troviamo nei tuoi templi…. Tu spargi i tuoi doni eguali ai raggi del sole per ovunque in cerchio fluttua l’Oceano… Non ti fermarono le sabbie infocate di Libia, non l’estrema terra armata di ghiaccio ti respinse…. Facesti una patria sola di genti diverse, giovo’ a chi era senza leggi diventare tuo tributario poiche’ tu trasformavi gli uomini in cittadini e una citta’ facesti di cio’ che prima non era che un globo.
Non si poteva dire di piu’, ne’ meglio. Questo barbaroi dal cuore traboccante di affetto, di riconoscenza, di ammirazione, aveva composto per Roma il piu’ bell’epitaffio in un latino degno di Virgilio. Ma i Romani non lo lessero. E ancor oggi il nome di Namaziano e’ noto solo a pochi studiosi. b) L’ULTIMA ROMA REPUBBLICHINA Questa e’ la Roma che oggi ospita due Stati: la Citta’ del Vaticano (Santa Sede) e la Repubblica italiana. La citta’ del Vaticano rappresenta lo Stato temporale della comunita’ cristiana che prende le redini della citta’ dal VI secolo dopo Cristo e non lo lascia fino alla sedicente unita’ d’Italia. La Repubblica italiana rappresenta lo stato di una comunita’ unificata con la forza e tenuta assieme con l’inganno. Alla Santa Sede ora non si pagano piu’ tributi, ma neanche essa ne paga per il mantenimento della citta’. Alla Repubblica italiana si pagano tributi salatissimi che servono ad alimentare i suoi clientes, non certo per contribuire ad aiutare chi ne ha bisogno (vedi ultimi terremotati), per le quali imposte piu’ di un centinaio di piccoli imprenditori si sono suicidati. Strani costoro, che invece di ribellarsi si suicidano (ma che volete, questi sono gli Italiani). Sia la Santa Sede (gia’ Papato) che la Repubblica italiana (gia’ Regno d’Italia e poi Impero) soffrono degli stessi problemi che afflissero la Roma imperiale: le accresciute distanze sociali fra un numero sempre piu’ piccolo di privilegiati e una massa sempre piu’ grande di derelitti, l’affievolimento di ogni vincolo di solidarieta’, e la totale indifferenza di tutti agli interessi della comunita’. In entrambi questi Stati, corruzione, privilegi e ruberie sono gli elementi caratterstici della classe governante, incapace a governare, ma capacissima a depredare lo Stato. Addirittura molti Italiani confondono i privilegi, che chiamano “diritti acquisiti con le lotte sindacali” con i diritti naturali. I diritti naturali sono innati ed uguali per tutti, mentre i privilegi sono acquisiti con la forza e diversi per ogni classe che ne gode. Nel paragrafo precedente abbiamo citato: “La Tributaria era talmente corrotta e prevaricatrice che, stando a Salviano, per la prima volta nel terzo secolo si videro cittadini romani fuggire, per salvarsi, oltre la “cortina di ferro” del limes, e rifugiarsi presso i barbari.” Nella Repubblica italiana le cose non sono affatto cambiate, ma qui i cittadini preferiscono il suicidio alla ribellione. Parlo con il massimo rispetto per questi suicidi che, invece di essere condannati, dovrebbero essere vendicati”. Uno dei Ministri (tra i piu’ idioti) della Repubblica delle banane ha affermato pubblicamente che tutti coloro che se ne vanno dall’Italia costituiscono un bene, perche’ non hanno voglia di lavorare. Costui, oltre che essere idiota, e’ anche un ottimo camuffatore della realta’, perche’ deve proteggere le sue banane. Nella Repubblica delle banane si verifica lo stesso fenomeno avuto nella Roma del tardo impero: “coloro che vivevano sulle tasse erano piu’ numerosi di coloro che dovevano pagarle.” La Repubblica italiana ha circa cinquecentomila uomini in armi pronti a difenderla perche’ da essa ricevono lo stipendio; ha inoltre piu’ di dieci milioni di dipendenti pubblici, parapubblici, o collusi con il pubblico, che non hanno nessuna voglia di rinunciare ai loro privilgi e pronti a scendere in piazza per difenderli anche con la forza, visto che ne hanno perche’ ricevono lauti compensi.
Lo scrivente e’ demoralizzato e finanche mortificato per questa realta’ e, purtroppo, ancora non vede nessuno all’orizzonte capace di terminare questo schifo con la stessa sorte che tocco’ alla Roma del Tardo Impero, ma non dispera. Giambattista Vico non ha mai sbagliato con la sua teoria dei “Corsi e ricosri storici”. Prima o poi ci sara’ un nuovo Odoacre che fara’ fare alla Repubblica delle banane la stessa fine dell’Impero romano d’occidente: ci sara’ certamente qualcuno che non potendo riconsegnare le insegne a nessun altro, probabilmente le brucera’ e con esse brucera’ le chiappe a tutti gli schifosi privilegiati che usurpano gli interessi della collettivita’. Meditate, gente, meditate e, soprattutto, ribellatevi.
Costa adriatica, aprile 2017.
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L'ultima Roma imperiale e l'ultima Roma repubblichina
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L'ultima Roma imperiale e l'ultima Roma repubblichina
a) L’ULTIMA ROMA IMPERIALE Da “Storia d’Italia, Vol. 4, pagg. 143 e segg., Montanelli e Gervaso, RCS 1994, Milano”, citiamo: Non risulta che i Romani, o per meglio dire gli abitanti di Roma, si rendessero esatto conto di cio’ che significava la decisione di Odoacre di spedire a Costantinopoli le insegne imperiali e di abolire la carica di Augusto. Il Senato, che pro-forma si riuniva per avallare le decisioni del tirannello di turno, lo considero’ un fatto di ordinaria amministrazione, anzi lo saluto’ come una provvida riunificazione dell’Impero dopo la divisione fattane da Costantino. Che tutto l’Occidente se ne fosse separato; che Roma, una volta caput mundi, non lo fosse piu’ neanche dell’Italia, la quale ormai gravitava piu’ su Milano e Ravenna; che la Penisola non fosse piu’ che la remota propaggine di un Impero che si proclamava ancora Romano, ma che in realta’ era soltanto grecorientale, parvero loro tutte cose di scarso rilievo e di secondaria importanza. Questa indifferenza e’ significativa. Non che, intendiamoci, all’atto pratico il Senato avesse la possibilita’ e i mezzi di opporsi. Se avesse osato, per dirla con Mussolini, i Lanzichenecchi di Odoacre avrebbero fatto di quell’aula sorda e grigia un loro bivacco. Ma almeno un addio alle aquile ed ai fasci littori, cioe’ a ottocento anni di Storia e di Gloria, avrebbe potuto risuonarvi. Invece, niente. Fra gli epigoni di quella che era stata la piu’ rigogliosa aristocrazia del mondo, non se ne trovo’ uno disposto a pronunciare un epitaffio. L’ultimo Senatore degno di questo nome era stato Simmaco, alle cui “Lettere” dobbiamo il piu’ gradevole ritratto dell’agonizzante Roma imperiale. Veniva da una grande famiglia di Consoli e Prefetti, che avevano servito con la medesima accortezza gli interessi dello Stato e quelli propri, come dimostrava l’immenso patrimonio che avevano accumulato. Fra l’altro essi avevano disseminato, dal Lago di Garda alla Baia di Napoli, una catena di sontuose ville, in modo da poter scorrazzare la Penisola senza lo scomodo di uscire di casa. Simmaco era l’ultimo rappresentante della cultura pagana, sebbene di fatto di religione si proclamasse agnostico. “Che importanza ha” disse all’imperatore Valentiniano “quale strada si sceglie per giungere al Vero? Quel che conta sapere e’ che non si arrivera’ mai a scoprirlo”. Gran signore ed intimo amico di Vezio Pretestato, capo della minoranza pagana in Senato, egli fu designato a patrocinarla nella sua ultima battaglia contro il Cristianesimo. L’imperatore Graziano, completamente dominato da Ambrogio, sulla fine del quarto secolo ordino’ la chiusura e la confisca di tutti i templi dedicati agli dei e la rimozione dal Senato della statua della Vittoria che Augusto vi aveva installato. Simmaco si oppose con un discorso degno del miglior Cicerone, e fu bandito da Graziano. Morto costui e succedutogli Valentiniano II, Simmaco riprese la sua battaglia oratoria e l’avrebbe vinta sull’animo del nuovo giovane imperatore, se Ambrogio non fosse intervenuto con la sua foga abituale. Il Vescovo di Milano trionfo’ perche’ aveva dalla sua la fede. Simmaco non aveva che la ragione. Le sue “lettere” sono una limpida, ma parziale descrizione della Roma dei suoi tempi, dal punto di vista dei ricchi privilegiati, che ancora vi mantenevano posizioni di rielievo, sia pure soltanto decorative. Quella che non lo e’ piu’ sul piano politico, e’ ancora pero’ la capitale intellettuale dell’Occidente, dove chiunque voglia parlare al mondo civile e’ costretto a venire ad imparare la lingua e i costumi e per trovare gli strumenti di diffusione. Nei palazzi si sono accumulati libri ed oggetti d’arte. Vi sono tappeti che costano fino a duecento milioni di lire. Battaglioni di cuochi preparano pranzi sontuosi. E dalle conversazioni e’ bandita ogni parola che non sia del piu’ classico latino. Questa societa’ non e’ chiusa. Accoglie tutti coloro, indigeni o forestieri, che in qualche modo fanno spicco, ma gli impone la sua etichetta. Le ambizioni sono piu’ intellettuali che politiche. Tuttavia la dedizione al bene pubblico e’ ancora grande. Questa classe dirigente, lungi dal trarre profitto dalle sue cariche amministrative e diplomatiche (di quelle militari ha perso persino il ricordo) se le mantiene finanziando di tasca propria circhi e teatri. E’ un ceto signorile di altissima civilta’ che non ruba piu’ perche’ i suoi avi hanno gia’ rubato abbastanza, e alla cui porta tutti i forestieri, barbari o meno, fanno ressa per essere accolti.
C’e’ senza dubbio del vero in questo attraente ritratto, ma visto da una parte sola. L’altra ce la fornisce un cristiano, anzi un prete di Marsiglia, Salviano, nel suo libro “Il governo di Dio”, di cui Agostino ebbe probabilmente conoscenza.
Salviano non vede che oppressione, corruzione e immoralita’, a differ enza di quanto avviene nelle societa’ barbariche, rozze ma certamente dallo spirito di sacrificio, di un sentimento di solidarieta’ e di fratellanza e dalla legge dell’onore. “Roma muore e ride” dice questo puritano che non l’ama e che forse ha letto un po’ troppo di Tacito. Ma anche nella sua descrizione del vero c’e’. La citta’ aveva in quel momento meno di duecentomila abitanti, fra i quali i Romani di razza dovevano contarsi, al massimo, a centinaia. Dai tempi di Cesare essa era una metropoli in prevalenza orientale, che si era abituata a vivere parassitariamente alle spalle delle province romanizzate. A parte una cartiera e una fabbrica di coloranti, le sue uniche industrie erano la politica ed il saccheggio. Quest’ultimo aveva riempito il suo tesoro pubblico e quelli privati come nel secolo decimonono il saccheggio coloniale avrebbe fruttato la ricchezza dell’Inghilterra. Ma esso era finito da un pezzo, ormai: da quando Costantinopoli bloccava I mercati orientali e le invasioni barbariche avevano paralizzato quelle occidentali. Da allora sempre piu’ Roma ma aveva dovuto contare solo sulla Penisola. Ma neanche qui le cose andavano bene. La popolazione complessiva non superava i cinque milioni. Ma ai guai della decadenza demografica dovevano aggiungersi quelli del declino della classe media. Dai Gracchi in poi Roma aveva sempre lottato per ricostruire o puntellare quella societa’ contadina di coltivatori diretti che davano i mgliori soldati all’esercito e i migliori funzionari all’amministrazione. Ma il sistema fiscale del basso Impero l’aveva definitivamente rovinata. La Tributaria era talmente corrotta e prevaricatrice che, stando a Salviano, per la prima volta nel terzo secolo si videro cittadini romani fuggire, per salvarsi, oltre la “cortina di ferro” del limes, e rifugiarsi presso i barbari. L’imperatore Valentiniano I ne fu cosi’ colpito che istitui’ una nuova professione: quella dei “Difensori della Citta” cui erano affidati i reclami contro il fisco. Ma nessun rimedio di legge e’ valido quando il costume si corrompe. I memorialisti del tempo hanno lasciato scritto che coloro che vivevano sulle tasse erano piu’ numerosi di coloro che dovevano pagarle. Ed era la conseguenza di due fenomeni ugualmente deleteri e che si sviluppano sempre di pari passo: da una parte il proliferare della burocrazia, dall’altra l’assottigliamento dei contribuenti. I quali, incapaci di far fronte al fisco, sempre piu’ vendevano il podere o la piccola fattoria al latifondista, facendosene assumere in qualita’ di coloni, cioe’ pressappoco di servi della gleba. Fu questo il vero inizio del Medioevo almeno dal punto di vista sociale, e comincio’ a verificarsi prima dell’arrivo dei barbari. Da quando le guerre di conquista erano finite, era cessato anche l’afflusso degli schiavi. E quindi i grandi proprietarierano ben contenti di assoldare come contadini quelli piccoli, dopo everne ricomprato le terre. Costro, dal canto proprio, cercavano un padrone: non solo per sottrasi alla Tributaria, ma anche per avere in lui un protettore nello scompiglio che si andava accentuando. Il grande feudatario, che sin qui aveva vissuto un po’ nel suo palazzo a Roma, un po’ nella sua villa di campagna, comincia a cambiare visionomia, e si trasforma nel potente che e’ gia’ l’inizio del Feudalesimo. La villa che finora tirava soltanto al comodo e al bello perche’ alla sua protezione accudivano i Prefetti e i Generali con le loro forze di polizia, adesso cerca anche la sicurezza e si trasforma piano piano in castello, cioe’ in fortilizio, perche’ lo Stato non e’ piu’ sempre in grado di difenderla dai briganti che infestano le contrade e dai “federati” che cominciano a calarvi e con essi spesso si confondono. Quello che invece non cambia e’ il rapporto umano fra il padrone ed il colono, che si e’ da poco sostituito allo schiavo ma che il padrone seguita a trattare come tale. Questa e’ una delle ragioni per cui il Feudalesimo, fenomeno tipicamente germanico, in Italia attecchi’ prima che altrove, ma vi ebbe anche la vita piu’ corta. I barbari che non si erano allenati al comando sugli schiavi, avevano del vassallaggio un’idea molto piu’ umana dei Romani, perche’ lo esercitavano sui loro fratelli, quindi con molte limitazioni e garanzie. I Romani invece si erano sempre riconosciuti il diritto di disporre della vita dei loro dipendenti, e vi avevano contratto una specie di vizio mentale. Paolino di Pella si congratulava della propria mentalita’ scrivendo, in questi tempi, di essersi sempre contentato, quanto a concubine, delle serve: il che costituiva, secondo lui, solo l’esercizio di un diritto. In questo contado scarsamente popolato da una plebe di mezzadri e di braccianti senz’altra protezione che quella grazisamente concessa dai potenti, solo costoro vivevano agiatamente, perche’ quasi tutto il reddito veniva rastrellato a Roma. Ma anche qui ci si guardava dal distribuirlo equamente. Mentre Simmaco iscriveva nel suo registro dei conti la spesa di oltre cinquecentomilioni di lire per uno spettacolo nel Circo, dove trenta gladiatori sassoni preferivano strangolarsi ciascuno con le proprie mani piuttosto che sbudellarsi l’un l’altro, un vasto proletariato viveva solo di sussidi, di elemosine e di piccoli intrallazzi, approfittando di ogni disordine per dedicarsi al saccheggio di banche e negozi. Ad Ammiano Marcellino, che vi giunse alla fine del quarto secolo da Antiochia, Roma fece l’impressione di una citta; piacevole e corrotta, dove la raffinatezza e la crudelta’, l’intelligenza ed il cinismo, il lusso e la miseria, la tradizione e l’anarchia si mescolavano in dosi abbastanza robuste. Ammiano scriveva in un latino un po’ imparaticcio, ma era un imparziale galantuomo, a cui il paganesimo non impedi’ per esempio di condannare Giuliano l’Apostata per I suoi tentativi contro le liberta’ cristiane. E al suo giudizio ci crediamo, anche perche’ conferma sia il ritratto in rosa di Simmaco che quello in nero di Salviano. Le due Rome, quella splendida dei pochi e quella miserabile dei molti, convivevano. E si capisce come’essa potesse apparire diversa secondo gli occhi che la guardavano. Altri due cronisti forestieri, Macrobio e Claudiano, non videro che la prima, forse perche’ ebbero la ventura di essere accolti nella buona societa’. Ma le loro descrizioni puzzano di omaggio. Anch’essi, tuttavia ci aiutano a capire come mai Roma accettasse con tanta facilita’ la sua spoliazione del titolo di Capitale dell’Impero. Tutte le decadenze in tutti i luoghi e in tutti i tempi sono contrassegnate dai medesimi fenomeni: le accresciute distanze sociali fra un numero sempre piu’ piccolo di privilegiati e una massa sempre piu’ grande di derelitti, l’affievolimento di ogni vincolo di solidarieta’, e la totale indifferenza di tutti agli interessi della comunita’. Nei salotti della ricca Roma, quasi tutta pagana, si parlava di Cicerone e di Catullo, si citava Aristotele, si corbellavano I Generali barbari, le loro rozze maniere, i loro errori di pronuncia e di ortografia. Nei “bassi” della povera Roma cristiana ci si arrangiava come si poteva e si era troppo impegnati a mettere daccordo il desinare con la cena per potersi preoccupare dell’Impero, dello Stato, del Passato e del Futuro. Che un lanzichenecco tedesco cresciuto alla corte di Attila, come Odoacre, avesse rispedito le aquile e i fasci a Costantinopoli e stesse governando l’Italia come un Re indipendente, non interessava a nessuno. A intendere e ad esprimere in tutta la sua grandezza e tragicita’ questa catastrofe ci fu solo un poeta. Ma non era romano, e nemmeno italiano. Era un gallo nativo forse di Tolosa, forse di Narbona, si chiamava Rutilio Namaziano, veniva dalla carriera amministrativa, ed era prefetto in Toscana e in Umbria. Prima di tornarsene in patria bsotto l’incalzare delle invasioni visigote e vandale, volle pagare il suo debito di gratitudine a Roma, che aveva fatto di lui un uomo civile e colto, dedicandole un’apostrofe che dimostra quanto quella civilta’ e cultura egli le avesse assimilate. Forse il suo libro “De reditu” e’ l’ultimo capolavoro della latinita’ classica. Comunque, lo e’ certamente l’addio all’Urbe che vi e’ incluso: Ascolta, regina bellissima di un mondo che hai fatto tuo, o Roma, accolta negli stellati cieli, asolta madre di uomini e di dei. Non lontani dal cielo siamo noi quando ci troviamo nei tuoi templi…. Tu spargi i tuoi doni eguali ai raggi del sole per ovunque in cerchio fluttua l’Oceano… Non ti fermarono le sabbie infocate di Libia, non l’estrema terra armata di ghiaccio ti respinse…. Facesti una patria sola di genti diverse, giovo’ a chi era senza leggi diventare tuo tributario poiche’ tu trasformavi gli uomini in cittadini e una citta’ facesti di cio’ che prima non era che un globo.
Non si poteva dire di piu’, ne’ meglio. Questo barbaroi dal cuore traboccante di affetto, di riconoscenza, di ammirazione, aveva composto per Roma il piu’ bell’epitaffio in un latino degno di Virgilio. Ma i Romani non lo lessero. E ancor oggi il nome di Namaziano e’ noto solo a pochi studiosi. b) L’ULTIMA ROMA REPUBBLICHINA Questa e’ la Roma che oggi ospita due Stati: la Citta’ del Vaticano (Santa Sede) e la Repubblica italiana. La citta’ del Vaticano rappresenta lo Stato temporale della comunita’ cristiana che prende le redini della citta’ dal VI secolo dopo Cristo e non lo lascia fino alla sedicente unita’ d’Italia. La Repubblica italiana rappresenta lo stato di una comunita’ unificata con la forza e tenuta assieme con l’inganno. Alla Santa Sede ora non si pagano piu’ tributi, ma neanche essa ne paga per il mantenimento della citta’. Alla Repubblica italiana si pagano tributi salatissimi che servono ad alimentare i suoi clientes, non certo per contribuire ad aiutare chi ne ha bisogno (vedi ultimi terremotati), per le quali imposte piu’ di un centinaio di piccoli imprenditori si sono suicidati. Strani costoro, che invece di ribellarsi si suicidano (ma che volete, questi sono gli Italiani). Sia la Santa Sede (gia’ Papato) che la Repubblica italiana (gia’ Regno d’Italia e poi Impero) soffrono degli stessi problemi che afflissero la Roma imperiale: le accresciute distanze sociali fra un numero sempre piu’ piccolo di privilegiati e una massa sempre piu’ grande di derelitti, l’affievolimento di ogni vincolo di solidarieta’, e la totale indifferenza di tutti agli interessi della comunita’. In entrambi questi Stati, corruzione, privilegi e ruberie sono gli elementi caratterstici della classe governante, incapace a governare, ma capacissima a depredare lo Stato. Addirittura molti Italiani confondono i privilegi, che chiamano “diritti acquisiti con le lotte sindacali” con i diritti naturali. I diritti naturali sono innati ed uguali per tutti, mentre i privilegi sono acquisiti con la forza e diversi per ogni classe che ne gode. Nel paragrafo precedente abbiamo citato: “La Tributaria era talmente corrotta e prevaricatrice che, stando a Salviano, per la prima volta nel terzo secolo si videro cittadini romani fuggire, per salvarsi, oltre la “cortina di ferro” del limes, e rifugiarsi presso i barbari.” Nella Repubblica italiana le cose non sono affatto cambiate, ma qui i cittadini preferiscono il suicidio alla ribellione. Parlo con il massimo rispetto per questi suicidi che, invece di essere condannati, dovrebbero essere vendicati”. Uno dei Ministri (tra i piu’ idioti) della Repubblica delle banane ha affermato pubblicamente che tutti coloro che se ne vanno dall’Italia costituiscono un bene, perche’ non hanno voglia di lavorare. Costui, oltre che essere idiota, e’ anche un ottimo camuffatore della realta’, perche’ deve proteggere le sue banane. Nella Repubblica delle banane si verifica lo stesso fenomeno avuto nella Roma del tardo impero: “coloro che vivevano sulle tasse erano piu’ numerosi di coloro che dovevano pagarle.” La Repubblica italiana ha circa cinquecentomila uomini in armi pronti a difenderla perche’ da essa ricevono lo stipendio; ha inoltre piu’ di dieci milioni di dipendenti pubblici, parapubblici, o collusi con il pubblico, che non hanno nessuna voglia di rinunciare ai loro privilgi e pronti a scendere in piazza per difenderli anche con la forza, visto che ne hanno perche’ ricevono lauti compensi.
Lo scrivente e’ demoralizzato e finanche mortificato per questa realta’ e, purtroppo, ancora non vede nessuno all’orizzonte capace di terminare questo schifo con la stessa sorte che tocco’ alla Roma del Tardo Impero, ma non dispera. Giambattista Vico non ha mai sbagliato con la sua teoria dei “Corsi e ricosri storici”. Prima o poi ci sara’ un nuovo Odoacre che fara’ fare alla Repubblica delle banane la stessa fine dell’Impero romano d’occidente: ci sara’ certamente qualcuno che non potendo riconsegnare le insegne a nessun altro, probabilmente le brucera’ e con esse brucera’ le chiappe a tutti gli schifosi privilegiati che usurpano gli interessi della collettivita’. Meditate, gente, meditate e, soprattutto, ribellatevi.
Costa adriatica, aprile 2017.
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