#''passione ci vuole. passione'' -cit
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theophagie · 1 year ago
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Watching amvs dated 2006-2014 made with clips pulled straight out of either the playstation 2 or the nintendo ds and with an average quality of 480p
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deathshallbenomore · 2 years ago
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ciao ! come va il tuo arabo?
صباح الخير!
(stiamo ancora lavorando su come si possa dire buongiornissimo in arabo con la stessa accezione da boomer. un giorno raggiungerò le cime dell’A2 - devo giusto recuperare l’ossigeno - e dall’alto della mia incontestabile expertise risolverò questo dilemma)
MANNAGGIA il mio arabo si è un attimo arenato perché ho avuto un po’ di cose molto pressanti da fare, e se combiniamo il tutto con la voglia di staccare un po’ perché in fondo era estate anche per me, otteniamo ben pochi progressi ahimè
MA! appena riesco a sbloccarmi con questa roba che sto scrivendo e che fortunatamente e fortunosamente, إن شاء الله , ARRIVERÀ PURE A UN TERMINE, mi ci tufferò di nuovo perché la passione è sempre lì. del resto, ci vuole passione (cit)
مع السلامة✨💓
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canesenzafissadimora · 3 years ago
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Non erano fidanzati, non avrebbero dovuto esserlo mai. Si vedevano a momenti. Cercavano il calore, la passione, non cercavano amore né un rapporto stabile, almeno uno di loro. Lui era libero come il vento, come gli uccelli. A volte cercava un altro calore, un altro letto e altre lenzuola, un profumo diverso dal suo. Lei era diversa, le importava di sapere quanto sarebbe durata.
Passavano notti di passione, complicità, ma la mattina tornava l’incubo. Lei si arrabbiava, ma con se stessa. Passavano mesi e le cose tra loro non cambiavano mai, lui era di molte, lei solo di uno. Lei adorava passare notti al suo fianco, lo guardava mentre dormiva, non si spiegava come potesse volerlo così tanto. Sapeva peró, che anche lui la voleva, ma quello era un amore troppo folle e lei non lo sopportava. Pensava sarebbe stato meglio finire tutta quell’avventura. Lui le disse arrivederci e le diede un bacio sulle labbra, come sempre, convinto che l’avrebbe vista di nuovo il giorno seguente. Lei sapeva sarebbe stato un addio, quindi lo guardó fisso negli occhi e con le lacrime disse “ti amo”.
Lui chiuse la porta. Passarono i giorni, lui la cercó, lei non rispose. Dopo mesi, per caso, si videro. Lei tremava, lui per la prima volta aveva un nodo in gola. Sapeva di averla persa per sempre. Lei ha trovato un altro uomo, un uomo che si prende cura del suo amore. Lei peró sa che non amerà mai nessuno come ha amato lui, ma si accontenta, perchè questo le ci vuole, una storia tranquilla, un amore sano.
Lui dopo mesi continua il suo gioco ma in maniera diversa. In tutte le donne cerca lei, la sua essenza, ma non la trova e si sente vuoto. Avrebbe dovuto apprezzare di più l’amore che lei gli avrebbe sempre dato. Si maledisse. Prese il cellulare e con le lacrime agli occhi le scrisse “mi manchi, voglio te al mio fianco”. Lei non rispose...
(Cit.)
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lucedellalunasulmare · 5 years ago
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- Gli uomini hanno uno strano rapporto con il sesso, Jack. Mi sento diverso. Lontano anni luce dalla massa.
- Perché Nolan?
- Ti spiego. Prendi il sesso orale ad esempio. Hanno la fissa del sesso orale. Ce l'hanno e lo impongono quasi. A me non dispiace affatto. Ma, se faccio sesso con una donna, la cosa che mi fa stare bene è sapere che lei sta bene, che fa quello che le piace, non quello che piace a me. Perché, se non piace a lei, IO, me ne accorgo. E non è travolgente. Così non ne vale la pena. Mentre faccio sesso orale con una donna la cosa che mi fa impazzire è guardarla negli occhi,attraversarla con lo sguardo, saperla eccitata, saperla coinvolta, non impegnata in una perfetta finzione per fare quello che piace a me. Il sesso è arte. E l'arte non si fa con il cazzo Jack. Quello ce l'hanno tutti. La passione è un'altra cosa. La fantasia, l'immaginazione sono un'altra cosa. Lì ci vuole anima e mente, altro che cazzo, Jack.
[Cit.]
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svartjugend · 6 years ago
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La luna rossa era uno squarcio aperto sull’inferno.
Come se non fossi abbastanza nauseato dall’ennesima estate che aveva scelto di lasciarmi fuori dalla festa dell’esistenza, abbandonato sulla statale del disprezzo come un cane vecchio e abbruttito da anni di incurie, dovetti accettare anche un’altra notte di eclissi.
Anche quest’anno infatti studio aperto aveva annunciato l’eclissi più lunga del secolo e di telegiornale in telegiornale rimbalzavano ovunque, a mo’ di mantra, servizi che descrivevano cosa sarebbe stato e come avrebbe funzionato lo spettacolino: eclissi, eclissi, un povero cristo si dà fuoco, eclissi, continua nel mondo la caccia al nero, eclissi, crocifissi nelle scuole, eclissi, pubblicità di occhialini per l’eclissi, interviste sull’eclissi a gente in vacanza, eclissi, dati personali venduti ad Amazon e alla Russia (meglio che alla Spagna, eh) e Facebook che apre una app di incontri poco dopo Cambridge Analitica, ma la buona notizia è che con questa app puoi trovare sicuramente qualcuno da limonare mentre guardi l’eclissi così che potrai alimentare con ricordi del genere la tua autostima quando sarai vecchio e inizierai a pensare alla morte. Questo era il palinsesto.
“Alla fine la luna è stata catturata delle fiamme, sembra un enorme occhio rosso piantato nel cielo nero e terso che quest’estate poco afosa ci ha offerto fino ad oggi. L’ombra che pian piano l’ha coperta sembrava comandata da forze oscure, signori lo ammetto era quasi inquietante ma come possiamo pensare che una simile meraviglia possa entrarci qualcosa con il male che c’è nel mondo? Spero di riuscire a comunicare quello che sto provando e le immagini che vedo a voi che non siete altrettanto fortunati e che magari state lavorando al chiuso anche alle 22 di questa nottata unica...” Il tono della parlata e il suo stile all’inizio mi avevano sinceramente incuriosito, costretto com’ero da mesi a leggere testi di lavoro con la loro sintassi rigida e spigolosa, ma poi ruotai in senso antiorario la manopola del volume della vecchia radio panasonic che avevo preso da camera dei miei e la ridussi al silenzio. “Forze oscure, si, e chi cazzo le comanderebbe in questo mondo di ritardati?” pensavo tra me e me mentre mangiavo una fetta di fesa di tacchino decisamente poco invitante e qualche foglia di insalata che probabilmente, al netto del sapore amaro lasciatomi in bocca e del tempo che aveva trascorso in fondo al frigo, non era più commestibile e che per di più era bagnata di un’acqua opaca nella quale spero si annidassero colture di batteri potenzialmente letali per l’umanità intera.
In caso interessasse a qualcuno, non è che me ne stessi chiuso in casa a mangiare come una donna in crisi di mezza età per convincermi che avrei potuto fare una vita sana, non ci credevo e nemmeno avevo di queste pretese, semplicemente avevo deciso di seguire gli insegnamenti della grande letteratura e dei suoi personaggi più ignorati e maltrattati: ignorare tutto e (soprattutto) tutti, perché di speranza veramente non c’è ne è mai stata e non ce ne sarà più [e non provate a convincermi che Dostoevskij veramente credesse negli spiragli di luce che decideva di inserire in alcune sue opere, perché ormai si è capito che lo ha fatto solo per evitare i rimorsi di coscienza che sarebbero spuntati come fiori in primavera dopo la trafila di suicidi che avrebbe potuto causare la sua letteratura. Che poi in Russia comunque non è che se la passino troppo meglio visto che il quarto sport nazionale dopo “ammazza la spia estera”, a quanto ne sappiamo, è morire di overdose.].
Quando mi guardavo intorno o diventavo compassionevole oppure mi incattivivo, perché ad essere onesti la mia disillusione nel poter apportare un qualche contributo a questa merda di commedia umana non era ancora totalmente cancellata, ma la strada verso cui ci avviavamo era sostanzialmente quella, quella del nascondersi dietro a carte, pratiche, autorità e altri contenitori vuoti come la realizzazione e la famiglia, perché tutto il resto ci aveva deluso e basta. Non riuscivo, ad esempio, ad essere pienamente d’accordo con chi sosteneva che l’uomo fosse un’animale ipocrita ed egoista, in primo luogo perché per essere ipocriti bisognerebbe comunque avere dei principi e degli ideali da tradire (che già non sarebbe poco, sia averli sia avere le palle di tradirli con la consapevolezza di andare incontro ad una piccola-grande gogna sociale), in secondo luogo perché l’egoismo è razionale, lucido e calcolato, o al più si rivela azzardato se la persona ha determinate inclinazioni, qui invece ognuno fa quello che cazzo gli pare nell’illusione di fare meglio per sé; per di più pochi hanno l’onestà di ammetter di aver fatto una cazzata, ma preferiscono rifuggire questa vergogna e anzi quasi se ne vantano, soddisfatti di aver dato ascolto alla loro parte emotiva, soddisfatti di aver espresso i propri sentimenti (che, ricordiamocelo, vanno espressi per forza, non vanno mai trattenuti, tipo un bisogno corporale, a prescindere dall’impatto che potrebbero avere sugli altri e su di noi stessi!).
Parlavo con quelle poche persone che ancora mi suscitavano un po’ di pietà, che mi inducevano al contatto umano e partecipavo alle loro conquiste e ai loro drammi, sapendo sempre dove saremmo andati a parare ma senza riuscire mai a smettere di stupirmi.
La ragazza che insiste con una storia che è destinata a morire e a farle del male  nonostante non abbia motivi per credere che questa volta ne uscirà incolume, l’amico che non riesce a stare da solo e come una tossico non riesce a stare senza qualcuno vicino, legandosi morbosamente alla prima disgraziata che vuole solo farsi due risate, l’amica che è consapevole del fatto che siano avventure di una notte e che più andranno avanti e più difficile sarà accettare che un vero legame non c’è (a meno che non si voglia chiamare legame un rapporto di convenienza, dove una scopata serve solo a distrarsi, a rilassare i nervi), un conoscente che litiga con la moglie e si sfoga andando a puttane, un altro amico che si è licenziato dal sesto lavoro in un mese perché non accetta che a un certo punto l’adolescenza è finita, che avviandoti verso i 30 iniziano a sopprimerti, ogni giorno una goccia di veleno, anestetizzante, di modo che non ti renda nemmeno conto dei momenti che bruci e che perdi, dei dolori che causi e dei torti che subisci.  
Tutti questi pensieri mi turbinavano attorno, con le loro immagini e le loro storie a seguirli in coda, decisi di aprire una birra presa al discount per rallentarli e disperderli un po’, sapevo che il tappo della bottiglia saltando in aria avrebbe fatto un rumore sordo che mi rilassava, feci forza con il manico di un coltello e il tappo schizzò in alto, tesi le orecchie attendendo quel botto rassicurante ma il suono venne coperto da un fastidioso brusio proveniente da fuori la finestra. Mi affaccio quanto basta per osservare quanto succede senza farmi vedere e scopro di essere stato catapultato in un girone dantesco: tutti i terrazzini in cemento dei palazzi del quartiere sono illuminati dalle stesse luci installate negli anni ‘80 e tutti brulicano di donne, uomini e bambini che ridono e chiacchierano con i vicini, sentendosi costretti a dimostrare che abbiano rapporti di civiltà con i loro dirimpettai, “Probabilmente degli assassini o degli stupratori”, “Il figlio è un tossico, mi mette  paura...” direbbero a cena, al riparo da orecchie indiscrete , ma fa nulla, in pubblico è un’altra storia. Il mio cervello collega i pezzi del puzzle e realizza di non essere all’inferno “ah, già… l’eclissi” penso mentre scelgo di manifestare nel modo più discreto possibile il mio disprezzo: non solo non accendo la luce del terrazzo che resta l’unica spenta e sembra un livido su un lembo di pelle bianca, ma spengo anche la luce della stanza: è un pungo nell’occhio da fuori, proprio come volevo, per di più la luce sanguigna della luna viene attirata dal marmo che compone il pavimento e si lascia riflettere per la sala, diffondendo una soffusa aura rossiccia che alimenta la mia passione in questo momento infinito.
Mi stendo sul pavimento e mi lascio torturare da un bombardamento di frasi di circostanza, di falsi complimenti e, come colpo di grazia, di promesse dei genitori in risposta alle domande dei bambini: “Come è andato quell’affare di cui mi parlava? Ah, male? Mi dispiace ma sono certo che si rifarà, in fondo lei è uno del mestiere...” “Si, caro nel 2030 saremo sicuramente liberi di andare su Marte.”, “Ma certo che puoi fare l’astronauta da grande, basta impegnarsi e volerlo!”…. Ma smettetela! Siate realisti! Smettetela di promettere futuri dolci, di inculcare l’illusione che tutto è raggiungibile, che otterremo quello che ci meritiamo perché si, perché il mondo è giusto e le ambizioni sono sempre ripagate. Parlate ai vostri figli di un futuro nero, pieno di violenza, stagnazioni sociali e lotte per la supremazia (non si sa bene supremazia su cosa, ma comunque lotte), fate in modo che arrivino ai vent’anni con la fame negli occhi come i ragazzini della ex-jugoslavia, pronti a costruire delle fondamenta contro gli incubi che i nonni raccontavano loro da bambini, fate in modo che nella continua lotta per arrivare a posizioni sempre migliori i ricordi della vostra famiglia siano veramente percepiti come qualcosa di prezioso e non come un incidente di percorso nella strada per un futuro arido di quelle promesse che ci venivano fatte e per le quali esistono poche possibilità di realizzazione. Dite che si vivrà male per stimolare lo spirito di chi vorrebbe un futuro migliore, non fate come focus, vi ricordate Focus, la rivista, che faceva le copertine con i robot e le auto volanti e asseriva spavalda “Ecco come sarà nel 2018!”? Poi il 2018 è arrivato, e siamo solo morti di fame e ci litighiamo il rame con gli zingari [cit.] e dobbiamo lottare per convincere la gente a vaccinarsi; ecco Focus ha formato una generazione che si aspettava il drone per volare gratis a 18 anni, mentre i droni oggi li usano per attaccare guerriglieri nazionalisti e eserciti di terroristi islamici e i bambini con la fame negli occhi.
Prendo la moto ed esco, il motore fabbricato negli anni ‘90 copre ogni rumore, e dentro al casco riprendo a pensare che sono dieci anni che vedo le stesse storie, ormai so già come finiranno, aspetto solo di capire come arriveranno al finale, tragico o glorioso (raramente, a dire il vero) che sia. Come nelle infinite serie di remake e spin-off che l’industria cinematografica dà periodicamente in pasto a orde di fan sempre più affamati, insensibili alla qualità, ingordi e crudeli, in perfetta simbiosi con l’industria che nutre sulle loro spalle.
Penso che sono un pessimo spettatore che da dieci anni vede le stesse storie, sente gli stessi racconti e che vede le stesse eclissi, ma che dopo tutto questo tempo non sono ancora sicuro sui pensieri che dovrebbero ispirarmi e sulla funzione che dovrei avere in tutto questo.
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praticalarte · 5 years ago
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Stefano Masili
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Chi è Stefano Masili? Stefano Masili è un fabbricante d’immagini, un fabbricante di sogni, questo è l'immagine che più mi affascina. Attraverso la mia personale fabbrica cerco di comunicare e sedurre attraverso le immagini che costruisco. Che mestiere fai? Ho sempre lavorato come Assistente Amministrativo nella Pubblica Amministrazione, ed è da qualche mese che ho terminato il mio ciclo lavorativo. Da dove vieni? Da Carbonia, dove peraltro sono nato, una piccola cittadina nel sud della Sardegna. Come, quando e perché è iniziato il tuo amore per l'arte? Ho sempre vissuto fra pennelli, pennini e inchiostri di china colorati. Nonostante siano passati diversi lustri, sento ancora l'odore forte, acre, ma piacevole, della china sulle mie narici. Mio padre era un insegnante di scuola elementare; a quei tempi, parlo degli anni a cavallo fra la fine degli anni “50 ed inizio anni “60, i mezzi di sussidio, anche per le sole immagini, erano molto pochi e tutto era lasciato all’inventiva e alla creatività del “Maestro”. Vedevo spesso mio padre creare i ��cartelloni” illustrati per le lezioni dell’indomani. Di volta in volta potevo osservarlo disegnare con le chine colorate il cartellone con la scoperta del fuoco o ancora descrivere la vita degli uomini primitivi e le loro abitazioni, altre volte erano cartelloni che indicavano le lettere dell'alfabeto e le immagini che meglio le potessero illustrare. Tutto ciò mi affascinava e vedere che con un po’ d’inchiostro colorato e dei pennini si creavano e si materializzavano quei racconti fantastici, mi faceva sognare, ed è in quei momenti che ho deciso che avrei fatto di tutto per diventare un pittore. Quando è cominciata quest’avventura nell’arte? La mia avventura nel campo dell'arte ma diciamo pure infatuazione è iniziata sin da bambino. Quando dipingo, ed ho una tela sul cavalletto, la pittura è l'ostacolo più felice fra me e il mondo. Cosa hai studiato e dove? Dopo le scuole dell'obbligo, ho conseguito la maturità Scientifica e poi all'università mi sono iscritto, dando anche un bel po' di esami, in Economia e Commercio; facoltà che ho poi abbandonato in quanto erano senz'altro gli studi più lontani rispetto alla mia inclinazione e personalità oltre che formazione.
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Cosa ti ha spinto ad entrare nel mondo dell'arte e a seguire studi artistici? I miei studi artistici, sono stati essenzialmente da autodidatta. Tuttavia ho avuto il grande privilegio di respirare i primi rudimenti artistici proprio a casa mia, attraverso mio padre. In seguito sono stato fortunato, durante le fasi di crescita artistica, ad essere circondato da amici pittori molto più anziani di me che mi hanno di fatto spronato ed aiutato a crescere stimolando in me creatività e passione. Ma uno degli aspetti più determinanti è stato il confronto sincero, diretto e costruttivo con questi amici pittori che nessuna scuola d'arte può insegnarti.
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Come studente, qual è stata la lezione più importante che hai imparato? Da un punto di vista tecnico ed emotivo è il capire ciò che si fa, osservare ed ancora osservare, essere umili ma non modesti. Tutto ciò ti permette di migliorare e correggere continuamente la tua esperienza artistica. Come artista, cosa vuoi condividere con il mondo? Attraverso la mia pittura mi basterebbe far innamorare chi osserva i miei dipinti e convincerli che oltre, il business, la TV, i cellulari c'è una una Città d'arte da scoprire, un Museo da visitare, una Galleria o Atelier d'arte da vivere con nuovi ed interessanti incontri a parlare sino a sera, della vita, dei quadri, della fascinazione dell'arte con un bicchiere di rosso fra le mani. Questo è il mondo che vorrei, molto più appagante dell'effimero. Bisogna solo scoprirlo e questo messaggio vorrei indirizzarlo sopratutto alle nuove generazioni. Secondo te, da dove viene l'ispirazione? Non credo eccessivamente all'ispirazione, viceversa credo molto nel lavoro, nella fatica del quotidiano e nel pensiero. Tantissimi sanno dipingere in maniera fantastica ma solo alcuni riescono a diventare artisti, la differenza sta nel cervello non nelle mani per quanto queste tecnicamente preziose possano essere. Qual è l’elemento iniziale che innesca il processo creativo? E cosa ritieni sia più importante? Il concetto, l’idea espressa, o il risultato estetico e percettivo dell’opera? L'innesco creativo è la voglia di raccontare, il sogno del bambino che con pennelli e colori inizia a dar vita alla sua favola. Fisiologicamente il risultato estetico e percettivo dell’opera, a mio avviso, è il tramite per significare il messaggio artistico che si vuole evidenziare quindi lo ritengo fra i più importanti rispetto a quelli elencati nella domanda di cui sopra. Quale fase dell'arte / creazione ti colpisce di più? La fase che più mi affascina nella creatività di un lavoro ovviamente è l'idea, il pensiero, la progettualità iniziale e il grande entusiasmo che fa da propulsore per domare la tela bianca. Detto questo, un'altra fase molto appagante, la ritrovo ai due terzi del lavoro; infatti qui si incomincia ad intravedere il risultato finale ma c'è il pathos che un movimento sbagliato, una scelta errata possa modificare ed annullare il sogno intravisto. Questa incertezza è vita, è adrenalina di cui un pittore si deve nutrire. Cosa si prova a manipolare la materia per creare un’opera pittorica? Forse la manipolazione, come la fase orale del bambino, è fra quelle più appaganti. Sin da ragazzino, vuoi per i mezzi limitati vuoi per gli insegnamenti ereditati dagli amici pittori più anziani di me, mi facevano partecipe delle varie ricette per fare i colori con le terre ed i pigmenti, per fare il medium migliore senza spendere cifre folli, come costruirsi un cavalletto da studio o ancora come tirare i fondi delle tele a base di olio di lino cotto e cementite; e ancora di come costruire un telaio e fare il tiraggio delle tele senza pieghe. Da sempre mi sono ingegnato a costruire e/o modificare, là dove fosse possibile, le varie attrezzature da utilizzare per la pittura. Ricordo che andavo nei negozietti chiamati di “roba americana” dove compravo la tela di cotone al metro, quella di lino neanche a pensarci, poi passavo alla bottega del falegname dove mi facevo tagliare dei tavoloni di abete a listelli e qui s'iniziava il lavoro propedeutico al dipingere. Nonostante sia passato diverso tempo, continuo con grande piacere a “fare”, trovo l'aspetto manuale del fare tanto gratificante quanto l'approccio stesso alla pittura. Per me sarebbe impossibile pensare ad una espressione artistica senza la manipolazione degli elementi e i mezzi che sono propri della pittura ad olio. Non potrei mai farne a meno. Cosa pensi del mercato dell'Arte? Questo è un argomento che mi è assai caro. La Tecnologia e la globalizzazione oltre all'aumento della popolazione mondiale ha creato una pletora di cosiddetti “Artisti” che per avere il famoso quarto d'ora di celebrità cit. di Andy Warhol, e pur di non sottrarcisi si rivolge al famoso mercato dell“arte, per avere un diploma di Maestro d'arte, una coppa o medaglia da mettere nella vetrina del salotto buono e assurgere così al riconoscimento ufficiale di Artista che non si accorge di bere il veleno dell'apparente legittimazione. Altro aspetto che non condivido è l'affitto del famoso “chiodo” o affittacamere per fare in modo che tutti possano ammirare le proprie “Opere”. Gallerie a pagamento e targhe taroccate per dare patenti artistiche false come i soldi del Monopoli. Naturalmente tutto a pagamento; a pagamento puoi costruirti una carriera artistica senza mai aver preso in mano un pennello, questo mi far star male ecco perché è un argomento che voglio mettere in risalto. A tal proposito posso portare la mia esperienza di cinquant'anni di esposizioni in Personali sia in Italia che all'estero senza aver mai avuto bisogno di pagare né una lira né un euro. Le opportunità ci sono, bisogna saper pensare, essere onesti con se stessi, non prendere scorciatoie e stare col sedere sullo sgabello e lavorare al cavalletto. Se ci sono riuscito io a non pagare alcunché, possono riuscirci anche gli altri perché non sono né uno scienziato e né Picasso.
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Perché pittura ad olio? Cosa rende speciale questo mezzo per te? La pittura ad olio è il mezzo espressivo per antonomasia, è la regina del mezzo pittorico, è la storia dell'arte ed anche la mia storia, la storia con cui ho cominciato sin da ragazzino a costruire i miei sogni. È difficile discorrere d’arte senza parlare di sé. Quanto c’è della tua storia, dei tuoi ricordi, della tua vita intima, nelle opere che realizzi? Negli anni, i miei lavori si sono sempre articolati secondo sequenze narrative: talvolta sono “Le Finestre”, nature morte che si affacciano sempre oltre, altre volte sono le figure, altre ancora le Archeologie Industriali. Negli ultimi dieci quindici anni è il ciclo delle Agavi il progetto che mi affascina totalmente ed è dalle “mie” agavi che mi piace pensare di essere stato scelto. Secondo te qual è la funzione sociale dell'Arte? L'arte è un mistero che coinvolge tutto il genere umano, è luce; ed anche chi non ne condivide la scintilla ne resta comunque fascinato ed intrigato. Oltre l'amore, nella vita, non vi è altra cosa che catalizzi quanto l'arte stessa. Cosa dicono le tue opere? Quali messaggi vogliono comunicare? Più che Opere, mi piace chiamarli lavori ... lavori che ho realizzato durante una fase matura della mia vita artistica. Il tema che accomuna i dipinti sono le agavi rappresentate nei diversi momenti della loro vita, candelabri scolpiti dalla luce, foglie turchesi e rami secchi intersecati come reticoli infiniti, memorie di vita, allucinazioni del reale e pretesti per incidere nella tela gli aspetti del percettibile. Il significato originario del nome di questa pianta deriva da una parola greca che significa “nobile, rispettabile” e questa espressione è particolarmente appropriata alla sua vita, infatti, si adatta a terreni arsi dal sole eppure produce foglie carnose e maestose e infine fiorisce dopo circa venticinque anni terminando il proprio ciclo vitale con la morte, come naturale metafora della vita dell'uomo. In esse vedo forza, attaccamento alla vita e bellezza. Se “La bellezza salverà il mondo - Dostoevskij” voglio avere occhi capaci di coglierla ed è questo che vedo. Le forme dell'agave sono quelle sviluppate all'aria aperta, in piena luce e di essa si nutrono. Ho raccontato i toni e i mezzi toni che si confondono, i tagli netti scolpiti nella luce, le velature….. e poi dall'analisi del reale, nella mia narrazione, l'oggetto scompare e lascia il posto al mezzo pittorico in spazi imbevuti di luci e restano solo colore e forma.
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Quali sono i suoi progetti futuri? Sempre e solo agavi. Agavi sempre uguali e sempre diverse a volte create attraverso lo sguardo sognante di un bambino a volte attraverso lo sguardo visionario del folle ed è così che nascono agavi figurate, distorte, linee di solo colore o cascate carnose di verdi turchesi deformi. Il mio progetto futuro è solo adesso e in questo momento vorrei dedicarmi ad un progetto espositivo in Spagna, ma i tempi non sono così imminenti, con una personale dove possa portare, dopo Germania, Francia ed Inghilterra la mia fabbrica d'immagini. Grazie Stefano https://www.stefanomasili.it/ Read the full article
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acuorleggero · 5 years ago
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“Le prospettive a giro coi ragazzi” -cit.-
Aversa, notte di Sabato. Seduti ad un tavolo del Lelena in attesa di un panino, con un po' di pollo fritto davanti e un umore nero per il Napoli dentro, si parla del più e del meno. Nel locale un gran vociare, un mulinare di bicchieri di Coca e una riproduzione da Spotify a fare da colonna sonora. All'improvviso salto dalla sedia e mi alzo, senza dire nulla ad A. che resta un po’ così nonostante queste cose con me non siano poi così rare. Mi dirigo verso uno dei ragazzi che lavora nel locale, è in un angolo che aspetta ordinazioni. Mi vede arrivare: "Ciao, ti serve qualcosa?", io: "Sì, mi devi dire il nome di questo pezzo che sta passando ora, per piacere". Mi fissa per un attimo. La richiesta è insolita ma la soddisfa: abbandona la sua postazione, si avvicina alla cassa e me lo dice. Lo ringrazio, torno al tavolo con il sorriso. Spiego ad A. il motivo. A. mi guarda comprensiva e torna ad infilzare il suo bocconcino di pollo. Con me ci vuole pazienza e sopportazione. 
Da ragazzini io, Adriano, Elisabetta, Marco e Mauro avevamo la passione/distrazione per il Rap e sovente la sfogavamo usando beats già pronti per farci le rime sopra. Un produttore di questo tipo di basi era Ice One, pioniere dell’italico Hip Hop. Su uno dei suoi vinili ve ne era una fatta solo con un break di batteria e un giro di note, messi a loop. Base scarna ma bellissima, perché le note erano quasi ipnotiche. Credo che Mauro avesse preso il vinile da Juke-box, a Caserta. Ogni volta che ci si vedeva pregavo Mauro di mettere su questa base e di farla andare così, anche senza un motivo preciso. Ero (e sono) un gran rompicoglioni. Non ho mai saputo da dove Ice One avesse campionato il sample. Almeno fino a ieri sera. È bastato ascoltare il pezzo per tornare immediatamente all’inizio del Duemila. 
Ho pensato a tutti, ho pensato a Mauro. Un anno fa avrei immediatamente mandato un messaggio per comunicargli la “scoperta” fatta.
Oggi non posso più farlo.
Ovunque tu sia, amico mio, con la musica che ci permette ancora di scambiarci emozioni e di (fingere di) colmare il vuoto.
DeLorean emozionale.
ps: Il pezzo era Mysterious Vibes dei Blackbyrds, i primi dieci secondi sono tutto.
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cuorerock · 6 years ago
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Si dicono tante cose degli uomini quarantenni e molte di queste corrispondono a verità.
Si dice che, rispetto a un ragazzino, un quarantenne è preda appetibile perché ha più esperienza, può facilmente capitare che sia stato sposato, potrebbe anche avere figli, e di sicuro qualche relazione seria alle spalle ce l’ha già e quindi, anche se a prima occhiata tutto questo potrebbe sembrare negativo, in realtà offre innumerevoli vantaggi perché dall’esperienza si impara.
Si dice che un uomo di quarant’anni in teoria ha già dovuto confrontarsi con tutta una serie di responsabilità. Questa esperienza si riflette nel suo modo di stare al mondo e di rapportarsi all’altro sesso. Saprà di certo che la storia dei due cuori e una capanna lascia il tempo che trova.
Si dice che gli anni, se portati bene, conferiscono fascino e il quarantenne pur non essendo ancora attempato, si distingue rispetto ai giovanissimi per la sua esperienza che gli dona un aspetto più maturo.
Si dice che un uomo di 40 anni si è già innamorato almeno una volta nella vita, avrà quindi commesso errori, si sarà confrontato con gli alti e bassi dell’amore, conoscerà il trambusto emotivo dovuto alla passione ed ha anche imparato a distinguerlo da un altro genere di sentimento.
Si dice che la pazienza non è amica della giovane età quando si tende a volere tutto e subito. Ma quando l’amore arriva con un quarantenne abituato alla vita, in teoria da questo punto di vista non ci sono grossi problemi. Il quarantenne ha già avuto relazioni importanti, sa quanto questa qualità sia importante nella coppia.
Si dice che gli uomini di una volta di tenerezze non ne volevano sentir parlare, che quelli giovanissimi hanno altro a cui pensare e che i quarantenni sono bisognosi d’affetto più di altri, consapevoli di quanto la tenerezza sia importante.
Si dice che innamorarsi a 40 anni è diverso e un quarantenne con tutta l’esperienza che si porta alle spalle, quando decide di impegnarsi in una nuova relazione, è più consapevole di altri che le premure verso la donna amata sono importanti.
Si dice che il quarantenne di solito non ha più voglia di avventure fini a se stesse, preferisce impegnarsi in relazioni a lungo termine e non solo per divertirsi ma per qualcosa di più stabile, che presuppone la fedeltà.
Si dice che non ha bisogno di farsi belloccio per dimostrare a se stesso e a chi lo circonda di essere migliore, non ha nemmeno necessità di sentirsi giovane perché di fatto lo è. La sua è un’età di mezzo che lo rende equilibrato.
Si dice che il quarantenne sappia già cosa vuole perché più consapevole di se stesso e delle proprie ambizioni e capacità, questa caratteristica lo rende ideale e anche costruttivo rispetto a un compagno giovanissimo.
Si dice che i giovanissimi sono gelosi per insicurezza, i più anziani perché magari non si sentono all’altezza ma il quarantenne è nel pieno delle sue forze e delle sue facoltà, la gelosia non lo spaventa. La vita di coppia è fatta di piccoli compromessi e un quarantenne con l’esperienza che si ritrova sulle spalle, sa di dover stare in silenzio in alcuni momenti delicati, perché a volte è meglio lasciar perdere.
Si dice che un quarantenne, rispetto a un giovanissimo, è meno protagonista perché più sicuro di se e che, rispetto a un uomo anziano, si sente ancora giovane e aitante. Riesce così a contenere il desiderio di mettersi sempre in primo piano, risultando decisamente più piacevole.
Della solitudine, dei sogni, della difficoltà di innamorarsi non si dice niente.
(cit.)
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stabiae58 · 7 years ago
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Pagamenti elettronici online e uso del contante ormai sono da tempo entrati nel dibattito pubblico. Da un lato la sicurezza della transazioni. Le preoccupazioni sono infondate o reali? E’ molto più sicuro pagare online che lasciare la propria carta di credito al benzinaio o al ristoratore di turno? Dall’altro un’abitudine consolidata nell’uso del contante. Se ne potrebbe fare a meno? Non ci sono anche qui ragioni di sicurezza da considerare?
Dieci anni fa l’evoluzione dell’economia digitale ha introdotto una nuova branca di attività che ha preso il nome di FinTech. Né più, né meno l’acronimo di Finance-Tecnology. Oggi le società FinTech, che in italiano potremmo chiamare tecno-finanza, sono quelle lavorano alla digitalizzazione del sistema bancario e finanziario per renderlo più efficiente e sicuro. L’attività tecnologica è parte fondamentale per tutto il comparto finanziario, in particolare quello bancario che, da sempre, è percepito come lento, burocratico e inutilmente complesso.
UN MERCATO IN ESPANSIONE. La tecnofinanza viaggia nel mondo a ritmi di crescita del 300% all’anno, mentre in Europa arriva al 400% (quasi 800 milioni di euro investiti in UK – il 40% delle FinTech operano sulla piazza londinese). Secondo PWC nel 2016 le start-up dell’area Fintech avevano raccolto quasi 12 miliardi di dollari di finanziamenti. Un anno prima era la metà.
La tecnofinanza è una rivoluzione anche per i consumatori che possono finalmente beneficiare di maggiore trasparenza nel loro rapporto con il mondo bancario. Le soluzioni tecnologiche permettono sia analisi più accurate e innovativi sistemi di accesso al credito sia semplicità di fruizione, velocità e sicurezza nei servizi.
La tecnologia finanziaria si articola in una vasta gamma di soluzioni tech applicate alla finanza personale e commerciale. Le aziende e le società che si occupano di Fintech propongono una vasta gamma di servizi, soluzioni e applicazioni per le attività commerciali e per quelle private e personali: dal crowfunding al peer-to-peer lending, gestione dei pagamenti all’asset management, fino al credit scoring alle criptovalute.
Mondi nuovi e totalmente sconosciuti ai più. Eppure anche nel nostro paese ci sono competenze e capacità che su questo terreno stanno costruendo un caso di successo dopo l’altro. Nel corso della cerimonia di premiazione del Premio Marzotto ho avuto modo di conoscere una di queste realtà. Si tratta di DOMEC SpA e ho cercato di capirne di più chiacchierando con Antonio Sorrentino, CEO e fondatore.
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Antonio Sorrentino sul palco dell’UniCredit Pavilion insieme con Matteo Marzotto mentre riceve il riconoscimento per le attività di DOMEC
Sorrentino è uno splendido quarantenne (cit.), napoletano di origine, di studi e nei modi di fare, formatosi nel mondo delle tecnologie e, dopo una quindicina d’anni trascorsa a lavorare per gli altri, decide che deve fare qualcosa per se stesso. Non solo, la sua idea è “che i nostri tecnici e ingegneri, specialmente quelli del sud, hanno tutte le carte in regola, competenze, saper fare e creatività, per essere numeri uno”.
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Da questi presupposti nasce DOMEC, la prima fintech totalmente italiana che porta nel mondo della tecnofinanza una visione innovativa. Sì, è vero che nulla si crea e tutto si trasforma, come dice il vecchio adagio illuminista, però Sorrentino con il suo team, ispirandosi a modelli di business di oltreoceano, ridisegna un suo modello “made in Italy”: realizzare sistemi di pagamento (payment) e di fedeltà (loyalty) grazie ai quali le aziende clienti possono acquisire e ingaggiare clientela in modo semplice, immediato e, perché no? anche divertente.
Posso dire che ci vuole una buona dose di coraggio per mettersi in gioco in una sfida del genere?
Come tutte le scelte imprenditoriali una base di intraprendenza e coraggio sono fondamentali. Però insieme ai miei soci quando abbiamo cominciato, tre anni fa, non siamo stati a farci troppe domande. Il mercato lo avevamo studiato bene. La precedente attività professionale ci aveva consentito di costruire per ciascuno di noi una rete di rapporti e relazioni di fiducia e credibilità. Da questo siamo partiti.
Ma qualche soldo l’avete messo o avete subito trovato gli investitori che ci hanno creduto?
Per partire abbiamo messo i nostri soldi, più o meno mezzo milione di euro e nel primo esercizio due terzi li abbiamo avuti di perdita. Poi dall’anno successivo abbiamo cominciato a fare profitti ed è così che si sono accorti di noi anche gli investitori.
La scelta della Basilicata come è nata? Di solito questo tipo di attività sono collocate nel Regno Unito o in Irlanda, voi siete andati contro corrente e per di più nel sud dell’Italia…
Anche a me avevano proposto Dublino e a dire il vero un pensiero lo avevo pure fatto. Cinque anni senza tasse, agevolazioni a tutto spiano, zero burocrazia. Ma poi da uomo del sud ho sentito il richiamo e l’amore per la mia terra. Perché devo andare all’estero. Resto in Italia, investo nel mio paese che ha talenti e competenze di valore. Da noi non è come la Silicon Valley, dove si decide da un giorno all’altro di andare altrove. Noi mettiamo radici e quando ci crediamo andiamo fino in fondo. Portiamo a casa il risultato.
Però diciamoci la verità intraprendere in Italia, specia al sud è complicato…
Guarda la scelta di Potenza come sede di DOMEC è stato per noi un moto di orgoglio, ma anche dovuta al fatto che lì il cosiddetto territorio ha scommesso su di noi. Sviluppo Basilicata e il suo fondo di Venture Capital ha investito su di noi per oltre 1,6 milioni di euro. Se lo ha fatto è perché noi con le nostre forze e le nostre energia abbiamo dimostrato, nei fatti, che clienti importanti come Autogrill, Eataly, Italo Treno, e altri ci avevano già scelto. Quando non eravamo conosciuti, ma ci avevano voluti perché le nostre soluzioni erano valide e di qualità. Inoltre creare posti di lavoro veri, di qualità e di valore a Potenza è stato l’altro elemento importante.
Adesso anche un importante riconoscimento nell’ambito del Premio Marzotto
Sì, questo è un altro passaggio che ci rende orgogliosi di quello che in soli tre anni di vita abbiamo fatto. Noi siamo la testimonianza vivente che una start-up innovativa che ha buone idee, spirito di sacrificio, voglia di fare e di lavorare può andare lontano.
Quanto conta la squadra in una start-up innovativa come DOMEC?
Potrei rispondere che è tutto. Siamo cresciuti insieme, giorno dopo giorno, difficoltà dopo difficoltà, nessuna distinzione di ruoli. Processi decisionali condivisi e piramide appiattita. Tutti devono fare e saper fare tutto. Flessibilità, spirito di adattamento, condivisione di una visione e della strategia. Adesso è il momento di crescere ancora. Nuovi clienti arrivano, nuove competenze si aggregano. La presenza a Milano e l’ufficio anche a Roma. Insomma stiamo diventando una realtà importante.
Un’altra storia di straordinaria maestrìa che sa coniugare oltre al saper fare anche l’amore per il proprio paese. Un tratto distintivo dell’Italia che quando riscopre i suoi valori, il territorio e le persone di talento non è seconda a nessuno. Bravo! Antonio Sorrentino che invece di fare il cervello in fuga è rimasto qui a giocarsi il suo futuro insieme ai suoi giovani ingegneri. A loro questo paese deve dire grazie.
Standing ovation!
FinTech made in Italy? #Domec dice sì. Un sfida vincente per il sud. @domecsolutions @sellalab Pagamenti elettronici online e uso del contante ormai sono da tempo entrati nel dibattito pubblico. Da un lato la sicurezza della transazioni.
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praticalarte · 5 years ago
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Stefano Masili
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Chi è Stefano Masili? Stefano Masili è un fabbricante d’immagini, un fabbricante di sogni, questa è l'immagine che più mi affascina. Attraverso la mia personale fabbrica cerco di comunicare e sedurre attraverso le immagini che costruisco. Che mestiere fai? Ho sempre lavorato come Assistente Amministrativo nella Pubblica Amministrazione, ed è da qualche mese che ho terminato il mio ciclo lavorativo. Da dove vieni? Da Carbonia, dove peraltro sono nato, una piccola cittadina nel sud della Sardegna. Come, quando e perché è iniziato il tuo amore per l'arte? Ho sempre vissuto fra pennelli, pennini e inchiostri di china colorati. Nonostante siano passati diversi lustri, sento ancora l'odore forte, acre, ma piacevole, della china sulle mie narici. Mio padre era un insegnante di scuola elementare; a quei tempi, parlo degli anni a cavallo fra la fine degli anni “50 ed inizio anni “60, i mezzi di sussidio, anche per le sole immagini, erano molto pochi e tutto era lasciato all’inventiva e alla creatività del “Maestro”. Vedevo spesso mio padre creare i “cartelloni” illustrati per le lezioni dell’indomani. Di volta in volta potevo osservarlo disegnare con le chine colorate il cartellone con la scoperta del fuoco o ancora descrivere la vita degli uomini primitivi e le loro abitazioni, altre volte erano cartelloni che indicavano le lettere dell'alfabeto e le immagini che meglio le potessero illustrare. Tutto ciò mi affascinava e vedere che con un po’ d’inchiostro colorato e dei pennini si creavano e si materializzavano quei racconti fantastici, mi faceva sognare, ed è in quei momenti che ho deciso che avrei fatto di tutto per diventare un pittore. Quando è cominciata quest’avventura nell’arte? La mia avventura nel campo dell'arte ma diciamo pure infatuazione è iniziata sin da bambino. Quando dipingo, ed ho una tela sul cavalletto, la pittura è l'ostacolo più felice fra me e il mondo. Cosa hai studiato e dove? Dopo le scuole dell'obbligo, ho conseguito la maturità Scientifica e poi all'università mi sono iscritto, dando anche un bel po' di esami, in Economia e Commercio; facoltà che ho poi abbandonato in quanto erano senz'altro gli studi più lontani rispetto alla mia inclinazione e personalità oltre che formazione.
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Cosa ti ha spinto ad entrare nel mondo dell'arte e a seguire studi artistici? I miei studi artistici, sono stati essenzialmente da autodidatta. Tuttavia ho avuto il grande privilegio di respirare i primi rudimenti artistici proprio a casa mia, attraverso mio padre. In seguito sono stato fortunato, durante le fasi di crescita artistica, ad essere circondato da amici pittori molto più anziani di me che mi hanno di fatto spronato ed aiutato a crescere stimolando in me creatività e passione. Ma uno degli aspetti più determinanti è stato il confronto sincero, diretto e costruttivo con questi amici pittori che nessuna scuola d'arte può insegnarti.
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Come studente, qual è stata la lezione più importante che hai imparato? Da un punto di vista tecnico ed emotivo è il capire ciò che si fa, osservare ed ancora osservare, essere umili ma non modesti. Tutto ciò ti permette di migliorare e correggere continuamente la tua esperienza artistica. Come artista, cosa vuoi condividere con il mondo? Attraverso la mia pittura mi basterebbe far innamorare chi osserva i miei dipinti e convincerli che oltre, il business, la TV, i cellulari c'è una una Città d'arte da scoprire, un Museo da visitare, una Galleria o Atelier d'arte da vivere con nuovi ed interessanti incontri a parlare sino a sera, della vita, dei quadri, della fascinazione dell'arte con un bicchiere di rosso fra le mani. Questo è il mondo che vorrei, molto più appagante dell'effimero. Bisogna solo scoprirlo e questo messaggio vorrei indirizzarlo sopratutto alle nuove generazioni. Secondo te, da dove viene l'ispirazione? Non credo eccessivamente all'ispirazione, viceversa credo molto nel lavoro, nella fatica del quotidiano e nel pensiero. Tantissimi sanno dipingere in maniera fantastica ma solo alcuni riescono a diventare artisti, la differenza sta nel cervello non nelle mani per quanto queste tecnicamente preziose possano essere. Qual è l’elemento iniziale che innesca il processo creativo? E cosa ritieni sia più importante? Il concetto, l’idea espressa, o il risultato estetico e percettivo dell’opera? L'innesco creativo è la voglia di raccontare, il sogno del bambino che con pennelli e colori inizia a dar vita alla sua favola. Fisiologicamente il risultato estetico e percettivo dell’opera, a mio avviso, è il tramite per significare il messaggio artistico che si vuole evidenziare quindi lo ritengo fra i più importanti rispetto a quelli elencati nella domanda di cui sopra. Quale fase dell'arte / creazione ti colpisce di più? La fase che più mi affascina nella creatività di un lavoro ovviamente è l'idea, il pensiero, la progettualità iniziale e il grande entusiasmo che fa da propulsore per domare la tela bianca. Detto questo, un'altra fase molto appagante, la ritrovo ai due terzi del lavoro; infatti qui si incomincia ad intravedere il risultato finale ma c'è il pathos che un movimento sbagliato, una scelta errata possa modificare ed annullare il sogno intravisto. Questa incertezza è vita, è adrenalina di cui un pittore si deve nutrire. Cosa si prova a manipolare la materia per creare un’opera pittorica? Forse la manipolazione, come la fase orale del bambino, è fra quelle più appaganti. Sin da ragazzino, vuoi per i mezzi limitati vuoi per gli insegnamenti ereditati dagli amici pittori più anziani di me, mi facevano partecipe delle varie ricette per fare i colori con le terre ed i pigmenti, per fare il medium migliore senza spendere cifre folli, come costruirsi un cavalletto da studio o ancora come tirare i fondi delle tele a base di olio di lino cotto e cementite; e ancora di come costruire un telaio e fare il tiraggio delle tele senza pieghe. Da sempre mi sono ingegnato a costruire e/o modificare, là dove fosse possibile, le varie attrezzature da utilizzare per la pittura. Ricordo che andavo nei negozietti chiamati di “roba americana” dove compravo la tela di cotone al metro, quella di lino neanche a pensarci, poi passavo alla bottega del falegname dove mi facevo tagliare dei tavoloni di abete a listelli e qui s'iniziava il lavoro propedeutico al dipingere. Nonostante sia passato diverso tempo, continuo con grande piacere a “fare”, trovo l'aspetto manuale del fare tanto gratificante quanto l'approccio stesso alla pittura. Per me sarebbe impossibile pensare ad una espressione artistica senza la manipolazione degli elementi e i mezzi che sono propri della pittura ad olio. Non potrei mai farne a meno. Cosa pensi del mercato dell'Arte? Questo è un argomento che mi è assai caro. La Tecnologia e la globalizzazione oltre all'aumento della popolazione mondiale ha creato una pletora di cosiddetti “Artisti” che per avere il famoso quarto d'ora di celebrità cit. di Andy Warhol, e pur di non sottrarcisi si rivolge al famoso mercato dell“arte, per avere un diploma di Maestro d'arte, una coppa o medaglia da mettere nella vetrina del salotto buono e assurgere così al riconoscimento ufficiale di Artista che non si accorge di bere il veleno dell'apparente legittimazione. Altro aspetto che non condivido è l'affitto del famoso “chiodo” o affittacamere per fare in modo che tutti possano ammirare le proprie “Opere”. Gallerie a pagamento e targhe taroccate per dare patenti artistiche false come i soldi del Monopoli. Naturalmente tutto a pagamento; a pagamento puoi costruirti una carriera artistica senza mai aver preso in mano un pennello, questo mi far star male ecco perché è un argomento che voglio mettere in risalto. A tal proposito posso portare la mia esperienza di cinquant'anni di esposizioni in Personali sia in Italia che all'estero senza aver mai avuto bisogno di pagare né una lira né un euro. Le opportunità ci sono, bisogna saper pensare, essere onesti con se stessi, non prendere scorciatoie e stare col sedere sullo sgabello e lavorare al cavalletto. Se ci sono riuscito io a non pagare alcunché, possono riuscirci anche gli altri perché non sono né uno scienziato e né Picasso.
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Perché pittura ad olio? Cosa rende speciale questo mezzo per te? La pittura ad olio è il mezzo espressivo per antonomasia, è la regina del mezzo pittorico, è la storia dell'arte ed anche la mia storia, la storia con cui ho cominciato sin da ragazzino a costruire i miei sogni. È difficile discorrere d’arte senza parlare di sé. Quanto c’è della tua storia, dei tuoi ricordi, della tua vita intima, nelle opere che realizzi? Negli anni, i miei lavori si sono sempre articolati secondo sequenze narrative: talvolta sono “Le Finestre”, nature morte che si affacciano sempre oltre, altre volte sono le figure, altre ancora le Archeologie Industriali. Negli ultimi dieci quindici anni è il ciclo delle Agavi il progetto che mi affascina totalmente ed è dalle “mie” agavi che mi piace pensare di essere stato scelto. Secondo te qual è la funzione sociale dell'Arte? L'arte è un mistero che coinvolge tutto il genere umano, è luce; ed anche chi non ne condivide la scintilla ne resta comunque fascinato ed intrigato. Oltre l'amore, nella vita, non vi è altra cosa che catalizzi quanto l'arte stessa. Cosa dicono le tue opere? Quali messaggi vogliono comunicare? Più che Opere, mi piace chiamarli lavori ... lavori che ho realizzato durante una fase matura della mia vita artistica. Il tema che accomuna i dipinti sono le agavi rappresentate nei diversi momenti della loro vita, candelabri scolpiti dalla luce, foglie turchesi e rami secchi intersecati come reticoli infiniti, memorie di vita, allucinazioni del reale e pretesti per incidere nella tela gli aspetti del percettibile. Il significato originario del nome di questa pianta deriva da una parola greca che significa “nobile, rispettabile” e questa espressione è particolarmente appropriata alla sua vita, infatti, si adatta a terreni arsi dal sole eppure produce foglie carnose e maestose e infine fiorisce dopo circa venticinque anni terminando il proprio ciclo vitale con la morte, come naturale metafora della vita dell'uomo. In esse vedo forza, attaccamento alla vita e bellezza. Se “La bellezza salverà il mondo - Dostoevskij” voglio avere occhi capaci di coglierla ed è questo che vedo. Le forme dell'agave sono quelle sviluppate all'aria aperta, in piena luce e di essa si nutrono. Ho raccontato i toni e i mezzi toni che si confondono, i tagli netti scolpiti nella luce, le velature….. e poi dall'analisi del reale, nella mia narrazione, l'oggetto scompare e lascia il posto al mezzo pittorico in spazi imbevuti di luci e restano solo colore e forma.
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Quali sono i suoi progetti futuri? Sempre e solo agavi. Agavi sempre uguali e sempre diverse a volte create attraverso lo sguardo sognante di un bambino a volte attraverso lo sguardo visionario del folle ed è così che nascono agavi figurate, distorte, linee di solo colore o cascate carnose di verdi turchesi deformi. Il mio progetto futuro è solo adesso e in questo momento vorrei dedicarmi ad un progetto espositivo in Spagna, ma i tempi non sono così imminenti, con una personale dove possa portare, dopo Germania, Francia ed Inghilterra la mia fabbrica d'immagini. Grazie Stefano https://www.stefanomasili.it/ Read the full article
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praticalarte · 5 years ago
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Chi è Stefano Masili?
Stefano Masili è un fabbricante d’immagini, un fabbricante di sogni, questo è l’immagine che più mi affascina. Attraverso la mia personale fabbrica cerco di comunicare e sedurre attraverso le immagini che costruisco.
Che mestiere fai?
Ho sempre lavorato come Assistente Amministrativo nella Pubblica Amministrazione, ed è da qualche mese che ho terminato il mio ciclo lavorativo.
Da dove vieni?
Da Carbonia, dove peraltro sono nato, una piccola cittadina nel sud della Sardegna.
Come, quando e perché è iniziato il tuo amore per l’arte?
Ho sempre vissuto fra pennelli, pennini e inchiostri di china colorati. Nonostante siano passati diversi lustri, sento ancora l’odore forte, acre, ma piacevole, della china sulle mie narici.
Mio padre era un insegnante di scuola elementare; a quei tempi, parlo degli anni a cavallo fra la fine degli anni “50 ed inizio anni “60, i mezzi di sussidio, anche per le sole immagini, erano molto pochi e tutto era lasciato all’inventiva e alla creatività del “Maestro”.
Vedevo spesso mio padre creare i “cartelloni” illustrati per le lezioni dell’indomani.
Di volta in volta potevo osservarlo disegnare con le chine colorate il cartellone con la scoperta del fuoco o ancora descrivere la vita degli uomini primitivi e le loro abitazioni, altre volte erano cartelloni che indicavano le lettere dell’alfabeto e le immagini che meglio le potessero illustrare.
Tutto ciò mi affascinava e vedere che con un po’ d’inchiostro colorato e dei pennini si creavano e si materializzavano quei racconti fantastici, mi faceva sognare, ed è in quei momenti che ho deciso che avrei fatto di tutto per diventare un pittore.
Quando è cominciata quest’avventura nell’arte?
La mia avventura nel campo dell’arte ma diciamo pure infatuazione è iniziata sin da bambino. Quando dipingo, ed ho una tela sul cavalletto, la pittura è l’ostacolo più felice fra me e il mondo.
Cosa hai studiato e dove?
Dopo le scuole dell’obbligo, ho conseguito la maturità Scientifica e poi all’università mi sono iscritto, dando anche un bel po’ di esami, in Economia e Commercio; facoltà che ho poi abbandonato in quanto erano senz’altro gli studi più lontani rispetto alla mia inclinazione e personalità oltre che formazione.
Cosa ti ha spinto ad entrare nel mondo dell’arte e a seguire studi artistici?
I miei studi artistici, sono stati essenzialmente da autodidatta. Tuttavia ho avuto il grande privilegio di respirare i primi rudimenti artistici proprio a casa mia, attraverso mio padre. In seguito sono stato fortunato, durante le fasi di crescita artistica, ad essere circondato da amici pittori molto più anziani di me che mi hanno di fatto spronato ed aiutato a crescere stimolando in me creatività e passione. Ma uno degli aspetti più determinanti è stato il confronto sincero, diretto e costruttivo con questi amici pittori che nessuna scuola d’arte può insegnarti.
Come studente, qual è stata la lezione più importante che hai imparato?
Da un punto di vista tecnico ed emotivo è il capire ciò che si fa, osservare ed ancora osservare, essere umili ma non modesti. Tutto ciò ti permette di migliorare e correggere continuamente la tua esperienza artistica.
Come artista, cosa vuoi condividere con il mondo?
Attraverso la mia pittura mi basterebbe far innamorare chi osserva i miei dipinti e convincerli che oltre, il business, la TV, i cellulari c’è una una Città d’arte da scoprire, un Museo da visitare, una Galleria o Atelier d’arte da vivere con nuovi ed interessanti incontri a parlare sino a sera, della vita, dei quadri, della fascinazione dell’arte con un bicchiere di rosso fra le mani. Questo è il mondo che vorrei, molto più appagante dell’effimero. Bisogna solo scoprirlo e questo messaggio vorrei indirizzarlo sopratutto alle nuove generazioni.
Secondo te, da dove viene l’ispirazione?
Non credo eccessivamente all’ispirazione, viceversa credo molto nel lavoro, nella fatica del quotidiano e nel pensiero. Tantissimi sanno dipingere in maniera fantastica ma solo alcuni riescono a diventare artisti, la differenza sta nel cervello non nelle mani per quanto queste tecnicamente preziose possano essere.
Qual è l’elemento iniziale che innesca il processo creativo? E cosa ritieni sia più importante? Il concetto, l’idea espressa, o il risultato estetico e percettivo dell’opera?
L’innesco creativo è la voglia di raccontare, il sogno del bambino che con pennelli e colori inizia a dar vita alla sua favola. Fisiologicamente il risultato estetico e percettivo dell’opera, a mio avviso, è il tramite per significare il messaggio artistico che si vuole evidenziare quindi lo ritengo fra i più importanti rispetto a quelli elencati nella domanda di cui sopra.
Quale fase dell’arte / creazione ti colpisce di più?
La fase che più mi affascina nella creatività di un lavoro ovviamente è l’idea, il pensiero, la progettualità iniziale e il grande entusiasmo che fa da propulsore per domare la tela bianca. Detto questo, un’altra fase molto appagante, la ritrovo ai due terzi del lavoro; infatti qui si incomincia ad intravedere il risultato finale ma c’è il pathos che un movimento sbagliato, una scelta errata possa modificare ed annullare il sogno intravisto. Questa incertezza è vita, è adrenalina di cui un pittore si deve nutrire.
Cosa si prova a manipolare la materia per creare un’opera pittorica?
Forse la manipolazione, come la fase orale del bambino, è fra quelle più appaganti.
Sin da ragazzino, vuoi per i mezzi limitati vuoi per gli insegnamenti ereditati dagli amici pittori più anziani di me, mi facevano partecipe delle varie ricette per fare i colori con le terre ed i pigmenti, per fare il medium migliore senza spendere cifre folli, come costruirsi un cavalletto da studio o ancora come tirare i fondi delle tele a base di olio di lino cotto e cementite; e ancora di come costruire un telaio e fare il tiraggio delle tele senza pieghe.
Da sempre mi sono ingegnato a costruire e/o modificare, là dove fosse possibile, le varie attrezzature da utilizzare per la pittura.
Ricordo che andavo nei negozietti chiamati di “roba americana” dove compravo la tela di cotone al metro, quella di lino neanche a pensarci, poi passavo alla bottega del falegname dove mi facevo tagliare dei tavoloni di abete a listelli e qui s’iniziava il lavoro propedeutico al dipingere.
Nonostante sia passato diverso tempo, continuo con grande piacere a “fare”, trovo l’aspetto manuale del fare tanto gratificante quanto l’approccio stesso alla pittura.
Per me sarebbe impossibile pensare ad una espressione artistica senza la manipolazione degli elementi e i mezzi che sono propri della pittura ad olio. Non potrei mai farne a meno.
Cosa pensi del mercato dell’Arte?
Questo è un argomento che mi è assai caro. La Tecnologia e la globalizzazione oltre all’aumento della popolazione mondiale ha creato una pletora di cosiddetti “Artisti” che per avere il famoso quarto d’ora di celebrità cit. di Andy Warhol, e pur di non sottrarcisi si rivolge al famoso mercato dell“arte, per avere un diploma di Maestro d’arte, una coppa o medaglia da mettere nella vetrina del salotto buono e assurgere così al riconoscimento ufficiale di Artista che non si accorge di bere il veleno dell’apparente legittimazione.
Altro aspetto che non condivido è l’affitto del famoso “chiodo” o affittacamere per fare in modo che tutti possano ammirare le proprie “Opere”. Gallerie a pagamento e targhe taroccate per dare patenti artistiche false come i soldi del Monopoli.
Naturalmente tutto a pagamento; a pagamento puoi costruirti una carriera artistica senza mai aver preso in mano un pennello, questo mi far star male ecco perché è un argomento che voglio mettere in risalto.
A tal proposito posso portare la mia esperienza di cinquant’anni di esposizioni in Personali sia in Italia che all’estero senza aver mai avuto bisogno di pagare né una lira né un euro.
Le opportunità ci sono, bisogna saper pensare, essere onesti con se stessi, non prendere scorciatoie e stare col sedere sullo sgabello e lavorare al cavalletto.
Se ci sono riuscito io a non pagare alcunché, possono riuscirci anche gli altri perché non sono né uno scienziato e né Picasso.
Perché pittura ad olio? Cosa rende speciale questo mezzo per te?
La pittura ad olio è il mezzo espressivo per antonomasia, è la regina del mezzo pittorico, è la storia dell’arte ed anche la mia storia, la storia con cui ho cominciato sin da ragazzino a costruire i miei sogni.
È difficile discorrere d’arte senza parlare di sé. Quanto c’è della tua storia, dei tuoi ricordi, della tua vita intima, nelle opere che realizzi?
Negli anni, i miei lavori si sono sempre articolati secondo sequenze narrative: talvolta sono “Le Finestre”, nature morte che si affacciano sempre oltre, altre volte sono le figure, altre ancora le Archeologie Industriali.
Negli ultimi dieci quindici anni è il ciclo delle Agavi il progetto che mi affascina totalmente ed è dalle “mie” agavi che mi piace pensare di essere stato scelto.
Secondo te qual è la funzione sociale dell’Arte?
L’arte è un mistero che coinvolge tutto il genere umano, è luce; ed anche chi non ne condivide la scintilla ne resta comunque fascinato ed intrigato. Oltre l’amore, nella vita, non vi è altra cosa che catalizzi quanto l’arte stessa.
Cosa dicono le tue opere? Quali messaggi vogliono comunicare?
Più che Opere, mi piace chiamarli lavori … lavori che ho realizzato durante una fase matura della mia vita artistica. Il tema che accomuna i dipinti sono le agavi rappresentate nei diversi momenti della loro vita, candelabri scolpiti dalla luce, foglie turchesi e rami secchi intersecati come reticoli infiniti, memorie di vita, allucinazioni del reale e pretesti per incidere nella tela gli aspetti del percettibile.
Il significato originario del nome di questa pianta deriva da una parola greca che significa “nobile, rispettabile” e questa espressione è particolarmente appropriata alla sua vita, infatti, si adatta a terreni arsi dal sole eppure produce foglie carnose e maestose e infine fiorisce dopo circa venticinque anni terminando il proprio ciclo vitale con la morte, come naturale metafora della vita dell’uomo. In esse vedo forza, attaccamento alla vita e bellezza.
Se “La bellezza salverà il mondo – Dostoevskij” voglio avere occhi capaci di coglierla ed è questo che vedo.
Le forme dell’agave sono quelle sviluppate all’aria aperta, in piena luce e di essa si nutrono. Ho raccontato i toni e i mezzi toni che si confondono, i tagli netti scolpiti nella luce, le velature….. e poi dall’analisi del reale, nella mia narrazione, l’oggetto scompare e lascia il posto al mezzo pittorico in spazi imbevuti di luci e restano solo colore e forma.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Sempre e solo agavi.
Agavi sempre uguali e sempre diverse a volte create attraverso lo sguardo sognante di un bambino a volte attraverso lo sguardo visionario del folle ed è così che nascono agavi figurate, distorte, linee di solo colore o cascate carnose di verdi turchesi deformi.
Il mio progetto futuro è solo adesso e in questo momento vorrei dedicarmi ad un progetto espositivo in Spagna, ma i tempi non sono così imminenti, con una personale dove possa portare, dopo Germania, Francia ed Inghilterra la mia fabbrica d’immagini.
Grazie Stefano
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Stefano Masili Chi è Stefano Masili? Stefano Masili è un fabbricante d’immagini, un fabbricante di sogni, questo è l'immagine che più mi affascina.
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