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Sulla finestra dei vent'anni
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Una generazione arrivata impreparata alla soglia dell'età adulta, come a un'interrogazione, paralizzata fra la paura di fare scena muta e l'incapacità di improvvisare quando non sa cosa dire. Storie sull'avere vent'anni, fra canzoni e università, feste di laurea e matrimoni, concerti e rimpatriate. Facendo i conti con l'infrangersi delle mille promesse che ci avevano fatto.
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Non un ghepardo
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Chiudi il libro per la terza volta, sbattendo la mano sulla copertina, accompagnandola con un suono a metà fra uno sbuffo e un grugnito. Stavolta, invece di riaprirlo rassegnata, lo spingi via, con tanta forza da far traballare il tavolino di plastica. Ti alzi di scatto, spingendo all’indietro la sedia coordinata che stride sul cotto del terrazzo e s’inclina contro il muro per mezzo secondo, per poi ricadere sul posto che tu hai appena lasciato a grandi passi.
Entri in casa. Lanci un’occhiata tutt’intorno al salotto vuoto. Entri in cucina. Prendi un bicchiere e lo riempi d’acqua. Prendi un sorso e versi il resto nel lavandino. Apri il frigo, sbuffi, lo richiudi. Torni in salotto, un’altra occhiata, cercando qualcosa che non trovi, che neanche sai cos’è.
Ti ricordi di un documentario ascoltato distrattamente più che visto, un giorno che non avevi voglia di alzarti a prendere il telecomando, che tanto stavi giocando al telefono. Ti senti un ghepardo che difende il suo territorio troppo vasto da nemici che non riesce a vedere. In ogni momento, qualcuno potrebbe starti rubando terreno, mangiando le tue prede, minacciando i tuoi cuccioli. Saliresti su un albero, se ti fosse possibile, stendendoti sui rami per far scorrere i tuoi occhi gialli sulla savana, aggraziata e potente.
Ma non sei un ghepardo.
Non hai artigli, zanne, una pelliccia fantastica, occhi che vedono al buio e gambe che corrono a 120 kilometri orari.
L’unica cosa in comune fra te e un ghepardo sono l’ansia e la tendenza naturale all’isolamento. Hai letto una volta che i ghepardi a volte neanche si accoppiano da quanto gli fa schifo stare con i loro simili. Negli zoo in America, da cuccioli, li mettono insieme a dei golden retriever per farli diventare più estroversi.
Vorresti davvero essere un ghepardo, pensi, sedendoti sul bracciolo del divano. O forse vorresti solo avere un migliore amico che ti curi dalla tua stupida timidezza e introversione, che ti spinga fra le braccia di un altro ghepardo per, finalmente, essere utile alla tua cazzo di specie.
Ti lasci cadere all’indietro, ti metti le mani sul viso, strofinandoti gli occhi finché non sai se lacrimano per il bruciore o per la tua malinconia fuori stagione.
Non sei un ghepardo, non hai un golden retriever come migliore amico, nessuna ragione per procreare e portare avanti la tua specie inutile. E, pensi, anche se fosse, con la tua fortuna, probabilmente ti innamoreresti del cane, invece di un altro ghepardo.
Ti fermi a immaginarti quanto carini sarebbero dei cuccioli di cane maculati, con gli occhi gialli a mandorla e il pelo lungo sulla coda, sempre a scodinzolare. Scuoti la testa. Poverini, per quando adorabili, sarebbero probabilmente sterili e pieni di malattie dovute all’incompatibilità genetica dei genitori.
“Che palle,” dici ad alta voce, aspettandoti quasi un ruggito.
Non sei un cazzo di ghepardo. I ghepardi non vanno all’università, non hanno dieci giorni per preparare un esame che avresti dovuto cominciare almeno un mese fa, un migliaio di pagine totali da riassumere e studiare. I ghepardi non hanno una compagnia di amici tutti in sessione, tutti a studiare, tutti senza macchina, senza soldi, senza voglia di vivere, neanche per prendersi un gelato in una splendida giornata di maggio. I ghepardi, soprattutto, probabilmente non se la vivono così male, la loro ansia e solitudine, troppo preoccupati a trovare una gazzella per pensare alla laurea, ai master che non ti puoi permettere, al lavoro che tanto non si trova e al ragazzo con cui hai matchato ieri che ha già smesso di risponderti.
Cerchi il telefono in tasca e dopo una frazione di panico ti ricordi di averlo lasciato in terrazza. Tiri una bestemmia sottovoce, provi a fare forza sugli addominali che non hai per alzarti e fallisci, ovviamente. Sospiri, bestemmi di nuovo, contenta che non ci sia tua madre in casa a farti la predica, e ci riprovi, aggrappandoti allo schienale per aiutarti, ritrovandoti seduta sul bracciolo di nuovo.
E di nuovo di nuovo di nuovo sospiri e ti alzi, sospiri e cammini, sospiri e vai in bagno e ti guardi allo specchio e sospiri. Ti passi una mano fra i capelli, o almeno ci provi, perché si incastra nei tuoi riccioli disordinati, e devi sfilarla dai nodi. Sospiri, ti guardi, ti tocchi la faccia come a controllare che sia davvero lì, sia davvero la tua, quella faccia di merda che ricambia accigliata il tuo disprezzo dal vetro sporco di dentifricio.
Scopri i denti, che non ti sembrano mai bianchi abbastanza, e vorresti fossero lunghi e affilati, come quel cazzo di ghepardo, per mordere, azzannare, strapparti via la tua apatia e incompetenza e inappetenza per la vita, spolparla e poi lasciarla in mezzo alla savana, a marcire sotto il sole, beccata da avvoltoi e coperta di mosche, ma lontana da te.
Sospiri per l’ennesima volta, e non sai se è una tua impressione ma ti sembra ti giri la testa, per il troppo esalare, forse, o magari perché hai mangiato un’insalata pronta e una banana in tutto il giorno. Non proprio la dieta di un ghepardo, anche se non sai quanto ti farebbe bene una gazzella al momento.
Afferri un vecchio elastico per i capelli e ti fai una crocchia, arruffata e mezza storta, chiedendoti distrattamente perché non assomigli minimamente a quelle stragnocche su Instagram, che con gli stessi capelli e stessi pantaloni della tuta fanno migliaia di likes. Magari i loro pantaloni non hanno macchie di roba rappresa da chissà quando, o forse è la maglietta del campo estivo di sei o sette anni fa, bucata sotto le ascelle, che non capisci come faccia a starti ancora e che ringrazi sia almeno un po’ stretta sulle tette.
In ogni caso, una foto in questo stato, te, su Instagram, non ce la metteresti mai, anche solo per evitarti i commenti di tua zia che ti mente in modo palese dicendoti “ma quanto ti sei fatta bella”.
Torni in corridoio, salotto, cucina. Un altro sorso d’acqua del rubinetto. Torni in terrazza, ti risiedi sulla tua seggiola di plastica, sul cuscino che ha preso la forma del tuo culo, al tavolino coperto di libri e appunti ed evidenziatori mezzi scarichi.
Per un attimo sogni che il vento ti porti via gli appunti, facendoli arrivare in strada, dritti sulla faccia di uno gnocco premuroso che li raccolga senza incazzarsi e voglia salire a riportarteli.
Ma non c’è vento, solo afa che ti si appiccica alla pelle, e per strada giusto un gruppetto di cinesi a fumare fuori dal parrucchiere, e una vecchia che borbotta bestemmie e insulti razzisti mentre attraversa la strada per evitarle.
Sospiri.
Fanculo.
Riapri il libro. Concentrati.
Fanculo.
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