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Reahu
snark ha ricevuto una condanna a morte il giorno 12 maggio 2018, nel corso dell'ordinaria e annuale assemblea dei soci. La decisione è stata presa all’unanimità. La morte, prevista per il giorno in cui il minimo di luce coincide con la rinascita, il 21 dicembre, è slittata poi a fine gennaio 2019. Il funerale ha avuto la forma di una festa, un momento di passaggio e di celebrazione. Come nel Reahu, abbiamo consumato insieme le ceneri di quella che è stata per più di dieci anni un'associazione e un gruppo di lavoro. L’associazione concluderà il suo percorso formale a giugno 2019, come si confà a uno slualo dal basso profilo. Di seguito trovate alcune foto di Lorenzo e Elena, vi ringraziamo per i messaggi di affetto Gaspare e Michele











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DOM - appartamenti quotidiani
Esplorare la creatività e le competenze individuali come risorse trasversali per persone richiedenti asilo con un vissuto di fragilità. Era questo l’obiettivo di DOM - appartamenti quotidiani, una serie di laboratori che abbiamo curato negli appartamenti gestiti a Bologna dalla cooperativa sociale CIDAS nell’ambito del progetto di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati con disagio mentale o sanitario SPRAR DM/DS.

Il percorso, curato da Filippo Fabbrica e Michele Restuccia per Artway of Thinking e in collaborazione con snark - space making, ha coinvolto gli abitanti degli appartamenti tra novembre e dicembre del 2018, con almeno cinque incontri in ognuno di questi.
Il progetto SPRAR DM/DS ha tra gli obiettivi lo sviluppo di forme di autonomia nel percorso di vita delle persone ospitate, coerentemente con questa esigenza abbiamo usato la creatività come strumento trasversale per lavorare su tre piani: bisogni e aspirazioni individuali, rapporti tra inquilini e territorio. Portavamo con noi l’esperienza maturata con Artway of Thinking, Love difference e snark - space making, e la volontà di far emergere la complessità dell’esperienza quotidiana e del sè, per abilitare atti di trasformazione creativa. L’invito era rivolto a tutti gli abitanti di ogni appartamento, che solitamente hanno poche occasioni di pratica collettiva: ognuno ha i propri corsi, attività e turni di pulizia. Partendo da un programma generale di pratiche esperienziali e creative, in ogni appartamento si sono poi seguiti necessità e tempi di chi partecipava: solo in due case il percorso è stato completo, riuscendo a lavorare sulla città, sul sè e poi sull'appartamento.

La città parla di te e tu parli attraverso la città
Ogni pratica si avviava con il nostro esempio: un racconto, una foto, un video o un disegno ci aiutavano a introdurre concetti di difficile traduzione (linguistica, esperienziale e culturale): le parti del sè, la qualità degli ambienti, obiettivi di vita, competenze, talenti, etc. Abbiamo iniziato visualizzando la complessità dell’esperienza di ciascuno disegnando su una mappa della città i percorsi e i luoghi preferiti, quelli evitati o sconosciuti. In questo modo si è iniziato a costruire una relazione di fiducia tra chi partecipava e noi, e delicatamente sono anche emerse esigenze e opportunità che solitamente faticano a essere condivise.

Dal sé alla co-creazione Visualizzare la ricchezza di esperienze ed esigenze di ciascuno ha reso più facile introdurre, attraverso i nostri esempi di vita, il concetto di complessità della personalità. I partecipanti più costanti sono riusciti a sperimentare pratiche di esplorazione della personalità quali il ritratto delle quattro parti del sè e il dialogo interno. Grazie a un esercizio di collage di fotografie abbiamo avviato una conversazione sulla casa ideale, che ci ha permesso di iniziare a esplorare ogni appartamento usando le metodologie emerse in precedenza.

In questo modo è stato possibile individuare gli spazi che avevano bisogno di cura, e progettare e realizzare un intervento di co-creazione: un abbellimento che permettesse anche a ciascuno di lasciare una traccia del proprio passaggio, come per le fotografie di Vaccari, ma usando le foglie di un albero o altri segni. In un appartamento i partecipanti hanno infatti identificato un albero di baobab quale simbolo di crescita e ospitalità, e si è deciso che foglie siano in futuro disegnate dagli abitanti della casa, dai loro amici e da chiunque venga in visita. Il disegno dell’albero ha consentito di creare bellezza sulle pareti spoglie della sala da pranzo, con pochi tocchi personali, dandogli una polarità e un’energia prima assenti.

La relazione tra gli spazi
In un altro caso si è individuato nella cucina lo spazio con maggior bisogno di cura, ma non avendo l'opportunità di risolvere le problematiche evidenziate in un arco di tempo limitato è stato deciso di portare l'intervento sull'adiacente terrazza. I partecipanti hanno scelto di pulirla e trasformarla per migliorare il panorama di chi sta ai fornelli a cucinare. Su una parete si è disegnato un baobab, su un’altra parete è stato abbozzato un mobile-ripostiglio, e infine una pianta di ciclamino è stata appesa in bella vista grazie a uno supporto realizzato da uno dei partecipanti usando la parte nobile di un secchio per pavimenti (un intervento degno di finire su Low Cost Design).

Si è trattato di una trasformazione dall’esterno, permessa dalla comprensione che gli spazi, come le parti del sè, stanno in dialogo. Grazie alla creatività collettiva il terrazzo è stato così trasformato da problema di cui nessuno riusciva a prendersi cura a risorsa per tutti.
Regali
In due case non siamo riusciti a coinvolgere i partecipanti per tutta la durata del percorso, sia per mancanza di tempo (concentrato su scuola, accesso a servizi, accompagnamento e burocrazia) che per comprensibile reticenza. Allora abbiamo fatto dei regali: interventi di trasformazione a partire dai bisogni emersi nelle conversazioni.

Un esempio è utile: in un appartamento l’unico spazio comune è una sala da pranzo con dispense individuali chiuse da lucchetti e contrassegnate da post-it con i nomi dei proprietari. Le ragioni dei lucchetti sono antiche e radicate, per cui abbiamo proposto di trasformare l’oggetto personale, la dispensa, in decorazione che abbellisse lo spazio comune: usando dei semplici stencil abbiamo realizzato per le dispense delle targhe con il nome del proprietario, decorandole anche con pittogrammi e frasi di canzoni ascoltate in precedenza. Sono piaciute al punto che sono rimasti affissi sia i bozzetti-prototipo che le versioni definitive, e alcune targhe sono state invece affisse nelle camere da letto.
Un secondo esempio è ancora più utile. In ogni appartamento le conversazioni ci hanno portato naturalmente a parlare di oggetti desiderati (fioriere, tavolini, tappeti, lampade, etc.) per abbellire gli spazi comuni e individuali. Facendo girare un invito, secondo il modello di crowdfurnituring di IMaCo, abbiamo trovato dei donatori di oggetti, in particolare l’associazione Serendippo: abbiamo così potuto consegnare, raccontandoli uno a uno, i tappeti, lampade, una libreria, un paravento, etc. Alcuni hanno trovato posto negli spazi comuni, altri invece sono stati orgogliosamente esposti nelle stanze accanto a letti e armadi.

Cosa resta?
Questa esplorazione in casa d’altri ci ha fatto scoprire alcune cose. È necessario più tempo per introdurre e consolidare queste pratiche, ma l’attenzione e la cura manifestatesi attorno agli interventi indicano che qualcosa si è già trasformato. Valorizzare la creatività e i talenti di ciascuno può essere propedeutico al percorso di accoglienza, facilitando le scelte successive da parte delle persone accolte.
Le pratiche di co-creazione sono preziose in questo contesto per ri-costruire fiducia verso l’altro e imparare, facendolo, che si può fare insieme.
Usare spazi e formati ad hoc per avvisi e messaggi negli spazi comuni, anche impiegando icone e disegni, aiuta a rendere l’appartamento più casa e meno ufficio.
Michele Restuccia e Filippo Fabbrica per artway of thinking e snark - space making
info: michele.restuccia chez gmail.com
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Vediamoli a casa loro!
(english svp at the bottom of the post) Ci sentiamo a disagio in questo momento in cui il discorso di odio e paura degli altri (che momento a pensarci non è) risuona così forte e attecchisce così bene. Continuiamo a cercare occasioni di conoscenza con gli altri da noi, che siamo madrelingua e nativi. Ora lo facciamo usando le storie del cinema e delle tv, intromettendoci, andando a guardarle a casa degli altri, una casa che è qui, parlandone con i migranti e le migranti che incrociamo in giro per le città. Le storie sono una piattaforma, un'opportunità di relazioni da (de)costruire. Vediamoli a casa loro! è un audiodoc sull’uso di film e serie tv nelle comunità migranti a Bologna, curato da Michele Restuccia per snark, che da ascoltare alle Serre dei Giardini Margherita nell'ambito di Immaginarti: Visioni Meticce, una rassegna di film di genere provenienti dai paesi d’origine delle comunità di migranti a Bologna A series of audio documentaries on film consumption in migrants communities. For a few months Michele Restuccia met strangers in parks and shops, while they were busy chatting or scrolling their phones. He started asking about the last movie they had seen. Conversations followed, unfolding stories of monuments, censorship, love, heroes, ignorance and entertainment. The audio docs have been played before the Immaginarti screenings in Bologna, a festival of indipendent movies from the countries of origin of the migrants living in Bologna. info: michele.restuccia chez gmail.com
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Le Meraviglie del Possibile

(scatenare) Immaginari per cambiare e scoprire
Dopo il percorso fatto insieme nel 2016 su spazi, saperi ed emozioni, snark e Baumhaus stanno lavorando insieme per costruire scenari con cui coinvolgere nuove comunità intorno al progetto, che ha trovato da poco una casa nel parco del Dopo Lavoro Ferroviario di Bologna.


In occasione del festival Baum 2018 siamo partiti da ciò che c’è già nel parco, usando elementi trascurati e brutti per trovare nuove narrazioni su quello che viviamo e che abbiamo attorno. La fantascienza ha sempre affascinato snark per la forte relazione tra finzione e saperi, tra politica e sogno.
Le meraviglie del possibile è quindi un’antologia di interventi per esplorare ciò che abbiamo intorno, partendo dal parco del DLF e da Baumhaus. Uno strumento per guardare in modo diverso e non funzionale a ciò che siamo e che viviamo. Perchè prima di risolvere e cucire è importante guardare e dire quello in cui siamo immersi, che siano confini, ingiustizie, assenze o cose ignorate. Il racconto della seconda parte del percorso è on-line sul sito. michele restuccia x snark x baum 2018


Ispirazioni Sergio Solmi e Carlo Fruttero (a cura di) - Le meraviglie del possibile Teresa Rampazzi - Musica Endoscopica Valerio Evangelisti - Metallo Urlante Jon Hassell - Earthquake Island Carlo Fruttero e Franco Lucentini - L'Italia sotto il tallone di F&L Keri Smith / Risveglia la città! Mohsin Hamid / Exit West Nicholas Forker + Clint Spaulding
info michele.restuccia chez gmail.com
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Gastrofonia
Un percorso multisensoriale x bambin*, in cui scoprire le infinite possibilità di gustare suoni e sapori. Dal 18 ottobre, per dieci mercoledì dalle 17.00 alle 18.30 al Mercato Sonato (Via Tartini 3, Bologna). Gli incontri sono aperti ai bambin* dai 6 ai 13 anni \ GRATUITO ! per info [email protected] Il laboratorio rientra nel Dopo Scuola Senza Spine. Il laboratorio è a cura di Rachele Lapponi in collaborazione con Gaspare Caliri e Michele Restuccia per snark. Udito (a noi piace chiamarlo ascolto) e gusto sono due sensi che spesso pratichiamo senza troppa attenzione. Vogliamo da una parte stimolare i partecipanti a trovare modi e ragioni personali per praticarli. Dall’altra parte vogliamo sperimentare nuove possibilità laboratoriali e di creazione collettiva. Per snark questo laboratorio sta dentro al progetto di ricerca Ascolti. Ci siamo fatti ispirare da? John Cage Come diventare un esploratore del mondo di Keri Smith Walking from scores
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Walking from scores
Una collezione di partiture grafiche e verbali che vertono sulle relazioni fra cammino, ascolto e produzione sonora nello spazio urbano. Il progetto nasce da un interesse più ampio per l’ascolto nella sfera quotidiana e si concentra sulla notazione, intesa come invito all’azione, in rapporto al cammino e al movimento, pensati come modalità privilegiata di interagire col contesto.
Un laboratorio di due giorni (2 e 3 settembre) aperto ad artisti, musicisti, performer e studenti interessati a esplorare in chiave post-disciplinare le relazioni fra suono, ascolto e sfera quotidiana, la dimensione del cammino e del percorso nello spazio urbano e un’interpretazione espansa della partitura e della notazione in rapporto a queste dinamiche.
Porti limitati. Il laboratorio durerà dal sabato mattina alla domenica pomeriggio. Costo dell’iscrizione: 35€.
ISCRIZIONE OBBLIGATORIA ENTRO IL 25 AGOSTO. Per informazioni e per iscriversi: [email protected]
Scores e istruzioni di: G. Douglas Barrett, George Brecht, Cornelius Cardew, Stephen Chase, Giuspette Chiari, Seth Cluett, Philip Corner, Bill Dietz, David Dunn, Francesco Gagliardi, David Helbich, Dick Higgins, Christopher Hobbs, Jerome Joy, James Klopfleisch, Milan Knizak, Alison Knowles, Takehisa Kosugi, Alvin Lucier, Walter Marchetti, Larry Miller, Tim Mitchell, Max Neuhaus, Pauline Oliveros, Yoko Ono, Open City [Andrew Brown, Katie Doubleday and Simone Kenyon] & Emma Cocker, Michael Parsons, Ben Patterson, Paul Sharits, Hugh Shrapnel, Mark So, Davide Tidoni, Ultra-red, Ben Vautier, Manfred Werder, La Monte Young.
****** Walking from scores è il primo appuntamento di Ascolti Verticali, palinsesto di incontri sulla consapevolezza dell’ascolto, a cura di Gaspare Caliri, Associazione MU e Snark – space making.
****** Elena Biserna è ricercatrice a Locus Sonus, École Supérieure d’Art d’Aix-en-Provence e docente a contratto all’Aix-Marseille Université. I suoi interessi vertono sulle aree interdisciplinari della ricerca estetica concentrandosi, in particolare, sull’ascolto e sulle pratiche contestuali, time-based e partecipative nelle loro intersezioni con le dinamiche urbane, i processi socio-culturali e la sfera quotidiana. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Bologna e tenuto conferenze o seminari in diverse istituzioni fra cui De Montfort University, Leicester; Gaite Lyrique, Parigi; Palais de Tokyo, Parigi; EHESS, Parigi; HEAR-Mulhouse; Wake Forest University, Venezia; O ‘Artoteca, Milano; Université Paris 8; ENSA Bourges; Centro di Cultura Contemporanea, Perugia; University of London; Università IUAV, Venezia. Suoi saggi e interviste sono stati pubblicati in riviste, cataloghi e libri (Les presses du réel, Ed. Esba Talm, Le Mot et le reste, Errant Bodies Press, Mimesis). Come curatrice occasionale ha collaborato con diverse organizzazioni indipendenti fra cui Sant’Andrea degli Amplificatori (Bologna), Cona Zavod (Lubiana), Saout Radio, Xing (Bologna), Sound Threshold (Londra) e Diffusing Digital Art (Marsiglia). Tra i suoi progetti: bip bop (Radio Città Fujiko, Bologna 2013), Mobile Audio Fest (Fondation Vasarely, ESAAix, Friche la Belle de Mai, Aix-en-Provence-Marsiglia 2015), Dreamscapes and other (un)conscious explorations (Cona Zavod, Lubiana 2017) e Walking from Scores.
Evento Facebook.
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showparty
(scroll down for the english version, our final report & a video)
Una festa in un centro di accoglienza può essere un’occasione di autodeterminazione e di sperimentazione culturale?
Nel 2015 abbiamo curato un paio di laboratori insieme a Baumhaus per la co-progettazione di una festa in un centro di accoglienza per richiedenti asilo a Bologna. Abbiamo riflettuto molto sui risultati e sulle domande emerse in quella occasione. Questa riflessione è cresciuta dentro ad Ascolti, nuovo progetto di pratica e ricerca di snark.
Ne abbiamo parlato con diverse realtà e a inizio 2017 anche con un’antropologa del Centro di studi Modi dell’Università Bologna. Con lei, che è impegnata in un progetto di ricerca su pratiche di solidarietà e opposizione rispetto ai centri di accoglienza, abbiamo deciso di avviare un laboratorio per la co-creazione di una festa presso il centro di accoglienza di Villa Aldini, in collaborazione con la cooperativa Arca di Noé che ha accettato di accompagnare i nostri percorsi.
Insieme ai partner di progetto abbiamo invitato tutte le persone che vivono nel centro a partecipare agli incontri, annunciati come una serie di laboratori per organizzare una festa presso lo stesso centro. Per evitare di farci condizionare dalle nostre aspettative e pre-giudizi, abbiamo dedicato i primi laboratori (luglio 2017) ad ascoltare musica, ballare e conoscerci. In tutti i laboratori abbiamo usato pochi strumenti testuali, ricorrendo di più a video, foto, diagrammi e occasioni di dialogo collettivo e individuale. Questa fase ci ha permesso di poter in seguito condividere le esperienze e le capacità di ciascuno, e discutere di diverse pratiche di celebrazione e linguaggi, ma anche di obiettivi generali e curiosità individuali (‘che cosa festeggeremo e perchè?’). L’abbiamo fatto per arrivare a creare una festa che fosse, per premesse e attività, la rappresentazione degli individui coinvolti nella sua organizzazione. Dopo questa fase abbiamo avviato (agosto / settembre 2017) la fase di organizzazione vera e propria, coordinando i gruppi di lavoro, nati dalle capacità individuali di chi stava partecipando, dedicati alla selezione musicale, al rap, al racconto orale, al teatro e alla comunicazione, confrontandoci su altre pratiche simili e sul contesto locale. Per arrivare alla festa, sabato 21 ottobre, abbiamo curato (e stiamo continuando in questi giorni) più di venti incontri, prove e workshop. Abbiamo cercato di costruire le condizioni per un percorso di autodeterminazione e per sperimentare nuovi formati di fruizione culturale.
Per farlo abbiamo abbiamo cercato soluzioni concrete e realizzabili ‘in casa’, per fare una festa che fosse un’occasione di crescita, di incontro e di sperimentazione.
A livello personale, questo interesse nasce dalla curiosità di un paio di persone (Michele Restuccia e Stefano Filipponio), che da tempo stanno lavorando sull’interazione tra musiche e socialità. Essendo anche impegnati a far ballare la gente dietro una consolle (come Mescla!) ci siamo spesso accorti di quanto queste occasioni siano segregate e poco innovative. Vogliamo imparare qualcosa in più su come organizzare e vivere momenti di celebrazione di questo tipo. Vogliamo far ballare persone che si sarebbero difficilmente incontrate prima. Vogliamo sudare, per continuare a trasformarci.
Ecco il resoconto di quanto è successo e abbiamo imparato.
info: michele.restuccia chez gmail.com . . . .
Questo progetto deve molto a: / This project owes a lot to: Baumhaus - La Clique Uproot - Travels in 21st century music and digital culture (trad. Remixing) / Jace Clayton Dancing in the streets / Barbara Eirenreich Places for People / Caramel Architekten + EOOS + the next ENTERprise-architects Rebel Music: Race, Empire and the New Muslim Youth Culture / Hisham D. Aidi Mainstreaming sociale / Artway of Thinking Punkurica 2016 Common Party Rules 10 things you need to consider if you are an artist not of the refugee and asylum seeker community looking to work with our community / Rise Refugee VIA INTOLLERANZA II / Christoph Schlingensief
youtube
ENGLISH SVP
Could a party in an asylum seekers’ centre be a chance for self-determination and for cultural experimentation?
In 2015 we curated two workshops along with Baumhaus to organize a party in an asylum seekers’ centre in Bologna, Italy. We’ve reflected a lot on the insights and the questions that emerged from that experience. This reflection has blossomed within Ascolti, a new research and practice project by snark.
We’ve discussed them with many and finally in early 2017 we managed to deepen them with an anthropologist at the Mobility, Diversity, Social Inclusion Center of the University of Bologna. As she is working on practices of opposition and solidarity related to asylum seekers’ centres, we agreed on developing a series of workshops aimed at the co-creation of a party within a centre, named Villa Aldini, benefiting of the support from Arca di Noé, the cooperative running it.
Along with the partners involved, we first invited all the persons living in the centre to attend the meetings, announced as a series of workshops to organize a party at the centre itself. In order to avoid to get misled by our own expectations and biases we spent the first workshops (july 2017) listening to music, dancing and trying to get to know each other. For the whole series of workshops we used little textual tools and a lot of videos and music clips, some diagrams and a lot of collective and one-to-one conversations. Then we began to discuss celebration’s practices and experiences, personal skills, roles, features and tools. This permitted to keep on focusing either on the individual dimension and the general one (‘what are we going to celebrate together and why?’). This has been done in order to create a party at the centre that both in its premises and features could represent the individuals involved in the organizing process. After that stage we actually began the proper organizing phase, through working groups made of those attending the workshops, dedicated to djing, rap, theater, narration and communication, also researching on similar practices and the local context. So far we have curated more than twenty meetings, rehearsals and workshops, and we will keep on until the day of the party, october 2017, 21st. We have dedicated a constant effort to make the process a chance of self-determination and cultural experimentation. This required us to find solutions to organize the party with our own resources, having also an opportunity to learn new skills and to foster networks within the neighborhood, the city and the other relevant communities.
On a personal level this interest sparked from two association’s members, Michele Restuccia e Stefano Filipponio, who are also busy as djs (Mescla!) playing music from different communities and ages. Michele and Stefano are also very curious about the interaction between listening practices and socialization, also because they noticed how segregated are social events in the city where they live and work. We want to learn something more about how to spark such processes We want to make people dancing, people that barely would have the chance to meet each other. We want to sweat, to keep on transforming ourselves.
Here's the report
info: michele.restuccia chez gmail.com
Guardatevi il video di seguito / Check out the following video
youtube
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Ascolti
(scroll down for the english version)
that’s us, wild combination Un giorno Gaspare si è reso conto di ascoltare meno dischi e più l’ambiente circostante. Che cosa possiamo scoprire pensando all’ascolto come gesto consapevole? Michele stava bevendo un caffè in un bar quando si è invaghito di una canzone cantata in arabo. L’ha cercata su Shazam, ma lì non c’era, allora ha chiesto alla ragazza al bancone. Lei gli ha mostrato lo schermo del suo smartphone, su cui andava il video della canzone, e poi gli ha chiesto ‘Tu di dove sei?’.
L’ascolto e non solo
Crediamo che riflettere su come ascoltiamo la musica sia un’occasione di conoscenza di ciò che ci circonda, in termini di spazi e relazioni. L’ascolto non è isolato, si accompagna alla danza, allo sguardo e alla riflessione. È una pratica individuale che, se condivisa con altri, acquisisce un potenziale di trasformazione del sé e di ciò che abbiamo attorno. Negli ultimi anni ce ne siamo accorti tramite feste, laboratori e ascolti.
Cosa vogliamo fare
I modi in cui usiamo la musica stanno evolvendo in un modo molto affascinante e sfidante, vogliamo indagarli con laboratori, ricerche ed eventi, parlandone insieme alle persone che abbiamo incrociato in questi anni di ricerca. Nel 2017 inizieremo un percorso fatto di laboratori e ricerche che hanno l’obiettivo di riflettere su come ascoltiamo e di testare nuove modalità per farlo. Faremo il possibile per raccontarveli strada facendo sia sul sito che tramite i nostri social media!
Ora!
Ora stiamo curando: _ showparty (2017): un percorso su co-creazione, feste e l’esperienza delle persone in attesa di asilo. _ Now Playing (2017): un percorso tra gli streaming musicali online per sonorizzare le Serre dei Giardini Margherita, a Bologna. _ Ascolti Verticali / Deep Listening (episodio uno) _ Vediamoli a casa loro! (2018): audiodocs sull’uso di film e serie tv nelle comunità migranti
Poi? Nei prossimi mesi emergeranno altre intersezioni tra luoghi e ascolti.
(ENGLISH SVP)
Nos otros, una mezcla salvaje
Ultimately Gaspare realized that he used to listen to immediate surroundings more than records. What can we discover by perceiving the practice of listening as a conscious act? Michele was having a coffee in a bar when he fell for a song sung in Arabic. He scanned it using the Shazam app but nothing came up, so he asked the girl at the counter about it. She showed him the video that was playing on her smartphone, and then she asked him ‘Where are you from?’.
Listening and more We believe that reflecting on how we listen to music is an opportunity to know what’s around us, both space and relationships. Listening is not an isolated practice, it goes along with dancing, observing and reflecting. Actually it’s an individual act, but if you share it with other folks it assumes a potential for transforming your self or what’s around you. We’ve realized it trough parties, workshops and listening.
What we want to do The ways we use music are evolving in very challenging and charming ways: we want to investigate them with events, researching and workshops, along with the individuals we've met during the last few years. In 2017 we are going to curate workshops and actions aimed at reflecting on listening possibilities as well as testing new ways to share music with our peers. We will work hard in order to report about them through our website and socialmedia!
Now! These days we are busy with: _ showparty (2017): a research about co-creation, parties and the asylum seeking experience _ Now Playing (2017): a path trough streaming music to create a daily soundtrack for Serre dei Giardini Margherita in Bologna _ Ascolti Verticali / Deep Listening (2017) (episode one) _ Vediamoli a casa loro! (2018): audio documentaries on film consumption in migrant communities
Then? Within the next few months further intersections between music and public spaces will emerge.
#ascoltisnark
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Famiglie e tribù
Una lettura semiotica del mondo dell’incubazione d’impresa, verso un modello di incubazione collaborativa di piccoli ecosistemi
di Gaspare Caliri - pubblicato su Doppiozero
Da qualche anno si osserva un fatto interessante attorno alla parola “incubazione”. Gli studiosi di metaforologia la chiamano catacresi. Come accade (accadde) alla locuzione “la gamba del tavolo”, si tratta di quel fenomeno attraverso cui una metafora si fissa nel linguaggio, passando da tropo a linguaggio proprio, ossia da figura retorica a voce autonoma del dizionario e dell’enciclopedia, che non ha più bisogno di far comunicare mondi diversi (obiettivo e compito delle metafore). Nessuno, quando dice “gamba del tavolo”, ha più l’impressione di usare una metafora. (Quasi) nessuno, quando parla di “incubazione”, sta più mettendo in contatto il mondo della neonatologia con i servizi di accompagnamento all’avvio di impresa.
La parola “incubazione” ha il potere di creare narrazioni molto immaginifiche e molto rilevanti, oggi però in fase di saturazione. C’è spazio per una nuova modalità di incubazione di impresa (di imprese!) che possa colmare un vuoto di senso e di attività nel mondo del sostegno alle imprese e proseguire oltre per aprire nuove generazioni di metafore modellizzanti.
Cos’è un incubatore? Per la Commissione Europea, negli anni novanta, un incubatore era uno spazio dove concentrare servizi e supporto all’avvio di impresa. Successivamente, siamo all’inizio del decennio successivo, la definizione si è già trasformata. Non più uno spazio ma un’organizzazione, un soggetto attuatore, acceleratore, che eroga servizi tra cui uno spazio-incubatrice, servizi di supporto all’idea di business, creazioni di network e opportunità. La definizione ci dice anche che fare una tipologia di incubatori è possibile a fronte del controllo di alcune variabili, tutte a maglie molto larghe per la verità: regole di ingaggio e di ammissione, funzioni e servizi, intensità del supporto. Nello stesso report compare anche un diagramma che tenta una rappresentazione topologica (oltre che tipologica) degli incubatori:
Le due dimensioni su cui è orientata la mappa sono il livello tecnologico e l’assistenza alla gestione. Vale a dire che i tratti rilevanti dell’incubazione portati alla luce da questa fonte sono il supporto finanziario e il tipo di attività della o delle start-up supportate. Tiene il passo la dimensione fisica, di “luogo”, dell’incubatore, sia esso “parco” o “centro”. Negli anni a seguire, la parola “incubatore” è diventata un termine-ombrello: si è svincolata dalla singola occorrenza per abbracciare un ventaglio di attività molto ampio, che va dalla formazione, alla fornitura di servizi, assistenza, ricerca finanziatori.
Tornando in un ambito narrativo, il luogo si porta appresso una oscillazione interessante, mai portata alla superficie. Parliamo sempre di incubatore e mai di incubatrice, quasi la radice metaforica femminile fosse stata sostituita da una narrazione maschile. Eppure l’insistenza sul luogo non può che attivare una funzione di accoglienza “materna”, partecipe di attributi più femminili che maschili. Questa banale intuizione apre a una prima importante mappatura delle esperienze di incubazione degli ultimi anni.
Il marketing strategico è fatto di narrazioni dominanti: storie “astratte” e generali, che chiamano in causa sistemi di valori. Un esempio di narrazione dominante: il mito. È generale e peculiare contemporaneamente, ci si riconosce in esso eppure è ecumenico. Il mito, così come tutte le narrazioni dominanti, funziona perché attiva valori molto radicati nella società. I miti sono semplificazioni, ma ricche di significato. La narrazione che ha dominato gli ultimi anni di rapida crescita del sostegno all’idea d’impresa si basa su una relazione familiare, del tipo “genitore-figlio”, dove il sostegno genera un rapporto “paterno” o “materno”. Nel primo caso, che consideriamo generativamente precedente al secondo, il sostegno si realizza tramite la logica del premio in denaro; nel secondo, dell’accudimento fisico, tradotto: spazi di lavoro e fornitura di altri asset fisici per la maturazione dell’idea di impresa. Come se dicessimo (è una semplificazione, una narrazione dominante, appunto): il padre dà una paga mensile, la madre tiene a sé, accudisce. Entrambi creano una forma di sussistenza, di dipendenza; entrambi danno forma a una relazione uno-a-uno. Come si vede qui sotto, nel quadrato semiotico dell’incubazione tradizionale, ciò che sta sull’asse superiore racconta le due logiche (paterna e materna, quella che elargisce un premio e quella che porta a sé, che incuba fisicamente) più forti, quello inferiore le logiche della formazione (più paterna, ma non completamente tale) e dell’accelerazione (più materna, ma non completamente tale.
Quando posizioniamo sul quadrato le varie esperienze di incubazione “tradizionale”, le espressioni di quella tensione valoriale, ci accorgiamo delle sezioni più affollate e di quelle meno frequentate, pertanto disponibili per nuovi player nel mercato di riferimento.
In tutte le esperienze presenti nel quadrato, viene attivata una relazione gerarchica tra soggetto incubatore (o acceleratore, o formatore) e soggetto incubato. Mancano le relazioni orizzontali. Nel mondo dell’open innovation, ma anche della collaborazione in generale, è possibile esplorare una narrazione maggiormente “collaborativa”, aperta. Per fare questo, serve una nuova narrazione dominante, che non sia ancora una volta “genitoriale”. Dentro la narrazione dominante dell’incubazione tradizionale, infatti, la logica collaborativa porta a “competizione” non produttiva (come tra fratelli). Quello che cerchiamo è una logica diversa, che abbiamo trovato studiando le comunità scientifiche, dove sono in atto piattaforme collaborative per fare innovazione aperta (nella ricerca), ma soprattutto in due anni di riflessioni (condivise tra Kilowatt e SocialLab) maturate grazie all’esperienza di CoopUp Bologna.
Nella nostra esperienza (CoopUp Bologna come primo esperimento di incubazione di community di imprese, ossia di incubazione di ecosistema - la nostra tribù) abbiamo notato una logica diversa: più “tribale”, basata sulla costruzione di una community di pratiche e conoscenze, di un network collaborativo, di strumenti di creazione e distribuzione del valore, di opportunità di scambio, relazione e confronto, in ottica di crescita comune. A questa vogliamo dedicare la proposta di un’incubazione collaborativa, dedicata non alla singola start-up ma a ecosistemi di nuove imprese che crescono insieme (anche insieme a imprese già esistenti e strutturate). Non è forse una proposta adatta a tutte le nuove imprese. La nostra esperienza mira in particolare alle cosiddette imprese coesive, come le hanno definite Domenico Sturabotti e Paolo Venturi, e in generale quelle start-up a "vocazione sociale", attente al proprio impatto e di conseguenza non sempre a proprio agio in una forma di supporto che promuove un modello di sviluppo molto diverso da quello per cui loro - le nuove imprese - hanno deciso, in prima istanza, di avviare un’attività.
È possibile e forse necessario spostarsi dalla logica familiare verso una logica collaborativa: dal concetto di famiglia – dipendenza a quello di tribù, dove non c’è un genitore, ma un capotribù – o uno sciamano – che coordina tutti (la community, la filiera, ecc.) e ha bisogno che ogni soggetto sia autonomo ma collaborativo (e consapevole), affinché tutta la comunità funzioni. Il capotribù deve conquistarsi la fiducia della comunità, cosa che il genitore non è tenuto a fare.
È necessario provare a esplorare una nuova narrazione dell’incubazione, partendo da un nuovo modello di ecosistema basato sulla relazione, sulla fiducia e sulla comunità. Ci siamo troppo abituati (ci siamo catacresizzati) a importare in maniera irriflessa i modelli dall’esterno “nella periferia dell’impero”, come si diceva qualche decennio fa. Il magnetismo economico e soprattutto finanziario della Silicon Valley è diventato magnetismo culturale, valoriale, imprenditoriale. L’impegno di tutti dovrebbe essere di recuperare un approccio europeo, cooperativo, al sostegno all’impresa. La tribù ci sembra una narrazione tutta da esplorare anzitutto per questo motivo.
Il quadrato dell’incubazione di ecosistema fa tesoro delle esperienze degli ultimi anni nell’open innovation. Esso “contiene” il quadrato dell’incubazione tradizionale, posizionato in alto a sinistra, visualizza l’open innovation in basso a sinistra, le esperienze di community di ricerca e sviluppo peer-to-peer in basso a destra, ma ancora lascia aperto uno spazio quasi-liscio in alto a destra. Detto altrimenti: sta raggiungendo una sua maturazione.
Nel quadrato dell’incubazione di community, nel sostegno collaborativo e mutualistico di ecosistemi, servono nuove figure. La prima è un capo-tribù, che mette a sistema le competenze morbide e relazionali e gli strumenti del community organizing. È per certi versi sciamanico: basa la propria relazione su un canale di fiducia, deve saper leggere la “salute” di un’intera comunità, ha bisogno di sapere come gestire dinamiche community-driven. Sa andare oltre il settore singolo e soprattutto sa gestire in maniera partecipata le dinamiche di community engagement. Infine, sa come non creare dipendenza dalla propria presenza.
Non c’è solo il capo-tribù, lo sciamano che sa avere una visione sistemica, il community manager dell’ecosistema. Ci sono anche i “community leader”, leader situazionali che si attivano in base ai propri talenti e in base alle proprie competenze: coloro che a seconda dell’obiettivo specifico attivano una responsabilizzazione utile a tutto l’ecosistema. Nell’open innovation ci possono essere grandi organizzazioni che lavorano come volano di partenza, che manifestano un bisogno di innovazione che può attivare diverse esperienze di crescita collettiva. Ma anche comunità e gruppi informali, con un portato intenso di motivazione, di competenza, di talento.
La tribù funziona come un sistema in cui la collaborazione prevale sulla competizione. Il capo-tribù mantiene la visione ed è in grado di dosare i ruoli dei partecipanti alla comunità. Nel quadrato semiotico dell’incubazione collaborativa serve popolare anzitutto la rosa di interlocutori che accettino la sfida di co-gestire il proprio ruolo di leader di comunità. Siamo in uno spazio quasi-liscio, più rizomatico che gerarchico, dove bisogna saper gestire le relazioni molto più che difendere le posizioni. “Nel liscio [...] i punti sono subordinati al tragitto”, si diceva in Mille plateaux di Deleuze e Guattari. Un tragitto comune.
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Segni per una pratica che abilita
Posso scrivere quello che voglio?
Un’occasione di libertà, prima di tutto, prima di parlare di educazione o inclusione. Baumhaus è nato dietro la stazione centrale di Bologna, in Bolognina, una zona in cui negli anni hanno organizzato eventi e iniziative che davano un senso immediato (e diverso dai canoni) allo sport, all’hip-hop e ad altri linguaggi e arti urbane, pensate come occasione di aggregazione e condivisione di saperi. Una casa sull’albero, Baumhaus parte dalla conoscenza dell’esperienza di ragazze e ragazzi che non si trovano in pieno nei percorsi ufficiali, nella scuola o negli spazi di socializzazione ufficiale. E nasce sapendo di stare, e voler stare, in un territorio. Ci siamo conosciuti nel 2015, in occasione di CoopUp e di ZacBaum. Li abbiamo trovati in un momento in cui stavano cercando un posto in cui portare laboratori e opportunità di aggregazione e lavoro, secondo un approccio di capacitazione e orizzontalità su cui stavano ancora sperimentando. Discutendo di quello che ci piaceva fare e che ci incuriosiva, abbiamo deciso di lavorare insieme sugli strumenti e sugli approcci di coprogettazione, per sviluppare alcune questioni fondamentali (i bisogni di ragazze e ragazzi, gli usi e le funzioni dello spazio, il rapporto tra regole e appropriazione, etc.). A noi interessava un’occasione per sperimentare strumenti di codesign in ambito sociale: a che condizioni possono includere? Cosa dicono del progetto a cui sono dedicati? Abbiamo iniziato con una domanda semplice e corta: perchè coprogettare? Le risposte ci hanno subito portato sulla strada dell’appropriazione e della conoscenza dei bisogni: lo facciamo per conoscere il bisogno di saperi e di relazioni, per aggregare e generare passioni. Colori, parole e segni Nel corso del 2016 abbiamo realizzato quattro sessioni, tra laboratori ed eventi pubblici, mischiando strumenti di arte pubblica, co-design e pratiche di narrazione, coinvolgendo adolescenti, musicisti ed operatori dei servizi sociali. Abbiamo iniziato con un incontro di autocoscienza, insieme alla crew di On the Move, nata dal laboratorio hip hop che è una delle prime tappe di Baumhaus. Condividere le esperienze e le emozioni di ciascuno è servito a definire le ragioni per cui il collettivo è nato e si è consolidato, tanto per aspetti personali che artistici. In altre due occasioni, a Bologna per Baum (sui pannelli che trovate in via di Vincenzo) e al teatro dell’Elfo a Milano per il festival LAIV ACTION, abbiamo creato due lavagne collettive, per permettere a tutte e tutti di raccontare cosa volessero imparare e di che spazi avessero bisogno: hanno partecipato complessivamente più di duecento persone di tutte le età, facendo emergere temi e dimensioni che sono trasversali rispetto all’età in termini di bisogni. C’è molta voglia di realizzarsi vestiti e di spazi belli e curati, ma soprattutto di pace e di libertà, sono queste due le parole che abbiamo trovato più volte, in colori e lingue diverse. Un ultimo laboratorio è stato organizzato con gli operatori dei servizi sociali ed educativi del quartiere, per creare un’opportunità di condivisione di esperienze e strumenti in merito agli spazi e ai percorsi contro la dispersione scolastica. Oltre a trovare nuove prospettive e piccole pratiche per leggere i bisogni delle famiglie e delle ragazze e dei ragazzi, abbiamo discusso di mutualità, supporto e coordinamento tra chi lavora nelle rete di centri sul territorio, i cui bisogni sono importanti tanto quelli di chi li frequenta.
Voglio un posto in cui c’è pace Voglio imparare da chi ho accanto e da gente capace E quindi cosa fare di ciò che resta sui fogli e sulle lavagne? Dal nostro punto di vista, leggermente spostato di lato seppur vicino, questo processo è servito per comprendere sia su cosa concentrasi (i bisogni) che come farlo (insieme ai ragazzi e alle ragazze). Ora, nel definire interventi su spazi o laboratori, il gruppo di Baumhaus sta già lavorando su entrambe le dimensioni, nonostante le complessità della progettazione di oggetti così ibridi, lavorando tanto sui bisogni emotivi e relazionali delle persone coinvolte che sulla sostenibilità, senza rinunciare alla bellezza e alle complessità delle cose che accadono nel territorio. Gli spazi devono essere attrattivi, con poche regole, condivise e incrementabili. Serve un ambiente in cui poter prendersi cura del prossimo, partendo da un ascolto alla pari, spazi che possano essere adattati e incrementati. I saperi e le competenze che ragazze e ragazzi vogliono fare proprie, oltre alla musica e ai linguaggi contemporanei, sono quelli legati alla cura del sé e del prossimo. Non si sa se dentro alla casa sull’albero ci saranno telai per la serigrafia gestiti secondo un modello di banca del tempo o rampe da skateboard. Nè se assomiglierà più a co-working o uno spazio autogestito. Abbiamo però capito che dovrà rispondere a bisogni emotivi e relazionali di chi sta immerso in una quotidianità fatta troppo spesso di conflitti e disuguaglianze sociali ed economiche: la parola ‘pace’ è comparsa inaspettata ed è tornata più volte nei laboratori. Il bisogno di protezione non sta solamente nelle caratteristiche dello spazio ma nelle sue regole, nel fatto che i ragazzi e le ragazze ci si possano ritrovare sapendo che possono prendersi cura gli uni degli altri. Poter esprimere ciò che si sente o si sta vivendo senza temere conseguenze: si ha quasi vergogna di chiedere se si può, ma è un bisogno forte e Bauhmhaus può usarla come opportunità. Un luogo che esprima pace: i conflitti stanno in casa e per strada, non si ignorano, devono emergere ma (perché possano emergere) serve un’alternativa alle logiche oppositive e prestazionali che tengono su narrative e istituzioni dominanti. Dovrà far sentire le persone al centro di percorsi di crescita seri, non laboratori semplificati per utenti a rischio, e orizzontali, in cui poter mettere in discussione strumenti e obiettivi degli stessi percorsi. Le ragazze e i ragazzi che abbiamo incontrato vogliono imparare quello che gli può effettivamente servire. Che sia hip-hop, grafica, cucina, serigrafia o arte pubblica, c’è voglia di stare dove le cose accadono per davvero, nei laboratori, nelle redazioni e nelle cucine. On The Move è nato così: un gruppo di ragazze e ragazzi che si ritrovavano per rappare a XM24, imparando insieme, prendendosi cura dello spazio e degli altri, e costruendosi credibilità e un percorso artistico. Prima di tutto servono occasioni di cura e affetto, spazi in cui tutte e tutti possano sentirsi accolti e rispettati.
(un paio di pagine da un numero di ID magazine dell'anno scorso)
Co-progettare = abilitare? Co-progettare ha tante accezioni e si porta appresso anche degli assunti, alcuni dei quali imperfetti e pericolosi. Veniamo al dunque: per noi non è di per sé un processo democratico né abilitante. Questo può essere garantito dalla relazione tra il processo e la natura di ciò che sarà sviluppato (uno spazio, un’impresa, una narrazione, un social network, etc.). Il coinvolgimento delle persone può essere funzionale a una progettazione più efficace ed efficiente, ci crediamo da parecchio, ma può soprattutto essere la premessa per un’opportunità di gestione aperta, co-gestione o autogestione (questo è poi un punto ulteriore, anche se molto prossimo e urgente). Baumhaus è nata come comunità che condivide cura, socialità e saperi, basata su principi di equità e accesso alle pratiche. Sia che diventi uno spazio o una rete di azioni diffuse, dovrà continuare a essere co-progettata e trovare una relazione, non solo un equilibrio, tra le dimensioni, tra l’aggregazione e le pratiche artistiche, sociali ed economiche che ha attorno. Uno spazio per condividere relazioni, cura e saperi, può essere co-progettato a condizione di continuare a farlo, tutti i giorni. È questa la seconda (bella) rivelazione del percorso, che è emersa netta solo a inizio 2017. Usare la coprogettazione come strumento di analisi, di coinvolgimento e di azione, in una relazione viva e quotidiana con la visione politica del progetto. aprile 2017 Michele x snark
info: michele.restuccia chez gmail.com
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Ripercussioni
Da sempre la musica segue le esperienze che facciamo, in giro per il mondo, attraverso ciò che attraversiamo. La usiamo per raccontare l’allontanamento da ciò che chiamiamo casa, come cura e come denuncia.
In occasione del Black History Month abbiamo messo insieme un percorso che è un invito alla scoperta di alcune esperienze di allontanamento e di diaspora, tra l’oceano Atlantico e il Mediterraneo, per invitarvi a scoprire che siamo tutti dentro alla diaspora, in modi diversi ma prossimi.
È un percorso tra canzoni di migrazione, resistenza e amore. Le mappe ospitano alcune canzoni e alcune storie da portare con voi. Nell'installazione trovate altri post it per aggiungere le vostre canzoni, collegare storie e luoghi.
canzoni (in progress): Aquele Abraço Partir Loin Lampedusa
dove: Numero 0 --> 25 febbraio 2017 Kilowatt Bologna per Black History Month Florence @ Kilowatt A marzo le trovate sulle pareti di Camera a Sud, in via Valdonica 5, sempre a Bologna
per approfondire: Fortress Europe Rebecca Solnit / The Future needs us Lamin Fofana, Drexciya and the migrant crisis I have left you the mountain
info: michele.restuccia chez gmail.com
english brevitas: Music always follows our experiences, around the world, through the things we go through. we use it to tell the displacement from what we call home, either as an act of care and a statement. This is a short path made of songs of migration, resistance and love. if you like add yours!
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Le frontiere del community management (2017.02) (dal vivo, con responsabilità e creatività)
fare in modo che altri si diano visioni e pratiche condivise Negli anni abbiamo affiancato diverse comunità impegnate su temi e spazi di interesse collettivo. Siamo stati con loro ascoltando e rielaborando narrazioni, facilitando la definizione di obiettivi e strumenti, disegnando risorse e bisogni. Lo abbiamo fatto sia di persona, faccia a faccia, che da lontano, usando il web e i social media. Questo ci permette di portarci appresso strumenti e metafore, e una certa forma di cura e di attenzione, che alle volte diventava empatia.
le reti civiche Negli anni scorsi abbiamo seguito da vicino il percorso dell’agenda digitale di Bologna. Una città in cui civismo e attivismo sono portate avanti tanto con curiosità quanto con tattica. A fine 2014 all’interno della Rete civica Iperbole, il portale web cittadino, è stata messa on-line Comunità, una piattaforma per condividere progetti e bisogni di ambito civico, e insieme (in parallelo) uno strumento per la partecipazione a iniziative promosse dell’amministrazione comunale. Per tutto il 2015 ne abbiamo supportato le attività di community management, andando in giro per la città a raccontarla e discuterla con le persone impegnate a prendersi cura di ciò che hanno attorno: spazio pubblico, relazioni, memoria, ambiente e diritti. L’obiettivo nostro era scoprire come porla in relazione ai loro bisogni e coinvolgerli nella gestione della piattaforma: come accogliere pratiche e sviluppare nuovi strumenti digitali di cittadinanza secondo un approccio orizzontale?
on-line, perchè? Abbiamo anzitutto aiutato le persone a portare on-line quello che stavano facendo, i loro progetti e le loro risorse. Pubblicare (rendere pubblico) ha scopi diversi: per alcuni serve a esporre la propria storia e le proprie pratiche, a prendere posizione in uno spazio on-line cittadino, per altri serve ad attivare collaborazioni, sviluppare nuovi progetti, e condividere risorse. Da una parte c’è un’attenzione alla proprietà di un’idea o di una pratica, e dall’altra la volontà di aprirsi per cercare nuove occasioni di azione e di crescita. La collaborazione presuppone alcuni passaggi, tra i quali la narrazione dei motivi (perché collaboro) e la condivisione di risorse (cosa metto in gioco); mettendoli in fila siamo riusciti a sperimentare forme di facilitazione e supporto ibride, che accadevano tanto on-line quanto nello spazio fisico.
on-line, e poi? Abbiamo presto realizzato che per dare una risposta immediata alla volontà di contaminarsi e collaborare, mancando specifiche funzioni e strumenti, era necessario portare la progettazione dal vivo. Sono nate così riunioni, iniziative pubbliche, workshop e attività quotidiane, anzitutto creando spazi e opportunità di conoscenza alla pari, in contesti non formali e dove le cose stavano effettivamente succedendo. L’esperienza on-line, se può scatenare l’intuizione, offrire l’incrocio tra i processi, non ha la ricchezza e la serendipità che possiamo vivere dal vivo. Combinando i vari strumenti a disposizione, nei casi di successo siamo riusciti a creare delle occasioni di negoziazione e lavoro collaborativo, in cui proposte, istanze e bisogni potessero emergere in forma libera e sperimentale. È stato fondamentale assistere, poter osservare le persone provare ad appropriarsi degli strumenti e scoprire i limiti dei flussi di informazione e della user-experience progettata per / intorno a loro (le personas sono uno strumento utilissimo ma hanno bisogno di visione e iterazione!).
per strada, osservar facendo Il nostro approccio è stato tanto quello di osservatori che di partecipanti, con un equilibrio variabile: alle volte è stato più utile osservare, alle volte è stato prezioso dare consigli e strumenti di progettazione e di organizzazione. In questo modo abbiamo potuto scoprire spazi misti, riunioni trasformate in cene, officine condivise e distribuite, centri di riuso a mo’ di boutique, imprese sociali che sperimentano in pubblico e pratiche di civismo espanso. Non puoi prevederlo, né puoi esagerare con la classificazione a priori, perchè la diversità continuerà a sorprenderti, e devi accoglierla. Di più, devi fare in modo che ciascuno possa, con strumenti flessibili, produrre la propria narrazione e proposte di azione basate su bisogni precisi, come la creazione di un calendario condiviso tra più associazioni, o la raccolta di proposte per la trasformazione di uno spazio comune. A te che fai community management in un ambito che è soprattutto digitale, è richiesto di trovare la risposta con gli strumenti a disposizione (oltre a mappare e disegnare i processi per raccontarli a chi programma e sviluppa). E per farlo devi esserci soprattutto dal vivo, per strada, non solamente online, come abbiamo discusso in occasione della nostra presentazione del convegno IASC – The City as Commons del 2015. Qui con altri ricercatori e attivisti che partecipavano al panel sulle piattaforme collaborative abbiamo condiviso che non solo quello che succede nell’interazione dal vivo è complementare a quello che succede on-line, ma che parlare di attività off-line le definisce in negativo, per cui abbiamo fatto un’operazione di revisione lessicale radicale, raccontando questa azione di community management come un’azione sia dal vivo che on-line, in una modalità che è stata preziosa per definire la duplice dimensione di questa pratica.
Paula Segal & amy Laura Cahn taught us to remix the online/offline dicothomy: we, as community manager, go onland to make
#commons visible
— snark space making (@snarkive) 6 novembre 2015
osservare tutto Il bilancio ci ha fatto realizzare che attraversando una fase di avvio, abbiamo dedicato molto tempo ad aspetti di user-experience, monitorando problemi tecnici e difficoltà di comprensione e d’uso della piattaforma. Farlo dal vivo, se da un lato è particolarmente impegnativo in termini di tempi e processo, resta la pratica più efficace e ricca di opportunità per discutere bisogni e proposte. L’azione sul campo avrebbe meritato ancora più tempo, in condizioni ottimali si dovrebbe riuscire a osservare le persone all'opera, mentre organizzano corsi, discutono della gestione di uno spazio, si auto-organizzano per interventi di cura di beni comuni, osservando, entrando in empatia ma mantenendo una distanza etnografica. Spesso invece l’azione era, per ragioni di tempo, focalizzata sulla riflessione in merito a bisogni di comunicazione e di progettazione.
officine di comunità, digitali ma semplici Se l’attività di relazione e co-progettazione sul campo ha funzionato, nonostante il tempo limitato a disposizione, non siamo riusciti a fare in modo che i processi di discussione e co-progettazione entrassero in maniera significativa nella piattaforma. Per farlo ci sarebbe voluto sia più tempo che la disponibilità di alcuni strumenti che rispondessero ai bisogni che raccoglievamo in quei mesi: i gruppi e le pagine Facebook da una parte e la bacheca di strada rappresentano ancora le alternative più usate. Attivare una comunità rispetto a un bene comune, a una risorsa collettiva, richiede anche che questa sia aperta a forme di cura e gestione distribuita. Il fatto che questo sia (rimasto) nelle premesse più che negli strumenti pratici, ha rappresentato un freno alla creazione di pratiche di comunità on-line: è una delle ragioni per cui le comunità non hanno risposto all'opportunità di contribuire alla cura della piattaforma (sviluppando nuove funzioni, monitorandone funzionamento e contenuti, etc.). Ascoltare e dare risposte ai bisogni degli utenti più attivi non deve tralasciare le persone che hanno meno capacità di comprensione e di uso degli strumenti. Con queste ultime abbiamo lavorato molto per capire quali metafore, messaggi e strumenti potessero essere effettivamente di impatto, dalle bacheche di strada ai social-network. È lì che si capisce che la conoscenza dei linguaggi e dei dispositivi è un elemento di cittadinanza, che non si risolve con moduli intuitivi, ma con azioni (politiche) di capacitazione e responsabilizzazione delle persone. In occasione della presentazione al convegno di IASC ci è servita molto l’analisi di Mayo Fuster Morell, sulle condizioni di sviluppo di comunità on-line, in cui le persone possano attivarsi per la creazione di contenuti: queste ultime devono avere a disposizione strumenti di azione e forme condivise di governance (autogestione). Aprire gli strumenti e la governance sono anche tra le richieste che da subito sono emerse riguardo a Comunità. La nostra presentazione aveva un punto: se è nei fatti un social network con finalità civiche, non rappresenta ancora un bene comune digitale. Ma valgono per qualsiasi comunità cui ti rivolgi in una pratica a sua volta relazionale quale il community management: aprire spazi di azione e forme di autogestione. Senza queste la comunità si sposta dove può farlo.
ieri, oggi e domani Il nostro percorso è finito nel 2015, e le considerazioni fatte in occasione del convegno sono ancora valide a osservare la realtà cittadina e la piattaforma. I bisogni di condivisione e collaborazione orizzontale continuano a trovare spazio soprattutto sui social-network, e la piattaforma sembra tenere come spazio di partecipazione. Questo articolo è rimasto ad aspettare per tutto il 2016. L’anno di Cambridge Analytics e dell’emersione di molti limiti (della retorica) sui social network.
streaming e/o autogestione Discutendo di Comunità, di ciò che poteva offrire e di come era stata concepita, abbiamo spesso giocato con una citazione da Il cerchio (The Circle) di Dave Eggers, ‘Tutto ciò che succede deve essere conosciuto’ (‘All That Happens Must Be Known’). Perché anche Comunità è basata su un assunto simile: tutto ciò che è rilevante per l’impegno nella tua comunità deve essere conosciuto. La frase è uno dei principi del social network al centro del romanzo di Eggers, una piattaforma che mette la trasparenza totale prima di tutto, e ci costruisce sopra norme e ricavi. Questo principio da solo non basta per sostenere una piattaforma che cresca come bene comune digitale. Servono strumenti per usare le informazioni e produrre impatto, e serve un’opportunità di autogestione. michele restuccia x snark febbraio 2017
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Tubi di carico / commutazioni di un tratto distintivo. Piccola panoramica sui tubi di scarico come “particolari apparenti” nell’automotiv
di Gaspare Caliri
È necessario aggiungere soltanto che gradi o movimenti diversi d’intensità o tono, segni diacritici, ecc., sono linguisticamente pertinenti se la sostituzione di uno fra questi simboli con un altro può portare a un cambiamento nel contenuto (un mutamento di significato). Questa prova, che precedentemente ho descritto come prova di commutazione, sarà sufficiente in ogni caso a mostrare se una lingua possegga o meno accenti e, se ne possiede, a mostrare quanti accenti possegga. [da L. Hjelmslev, Saggi linguistici, Edizioni Unicopli, p. 234]
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Il capitalismo sopravvive costringendo la maggioranza, che esso sfrutta, a definire i propri interessi entro margini quanto più ristretti possibile. Un tempo lo si otteneva con le forti privazioni. Oggi nei paesi sviluppati lo si ottiene imponendo un falso standard di ciò che è e ciò che non è desiderabile [da J. Berger, Questione di sguardi, Il Saggiatore, p. 156]
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Non avrò benefit Pur se li cercherò nelle condizioni di assunzione.
So già bene cosa vorrò. So già dove sta il mio bene
non nei benefici ma nel cuore abitativo delle frequentazioni. Ma nel caso contrario
lo dimenticherò in cambio di scelte meccaniche.
Ovviamente turbodiesel
Che cos’è un’automobile? Credo sia un mito stabile, di ieri e sempre più d’oggi. Il mito è ciò che “trasforma la storia in natura”, ciò che fa ci fa vedere “una contingenza come eternità”, scriveva Roland Barthes in Miti d’oggi; il mito “non nasconde niente e non dichiara niente; il mito deforma; non è né una menzogna né una confessione: è un’inflessione” [p. 210].
La tesi di questo articolo non è tanto che il carattere di “oggetto perfettamente magico” e di immagine di consumo sia restato intatto nei decenni, dopo sessant’anni dalla leggendaria analisi di Barthes della “nuova Citroën” DS19. Questa è la pre-condizione. Dopo la quale, si intende piuttosto sostenere che oggi come non mai la materia magico simbolica dell’automobile non stia nella forma, nella funzione, nella categoria o classe, non si annidi nel prezzo: bensì nell’apparato semiotico di simulazione permesso dai dettagli. Uno su tutti: i tubi di scarico.
Il particolare, dell’automobile, può arrivare a trasmettere un messaggio strategico per il generale. Ciò che chiamo particolari apparenti sono quei dettagli dell’automobile che stanno (stavano? Come vedremo) per denotazione di una qualità ma anche per qualche cosa di più, in termini di carica narrativa. Sono quei particolari che sottendono una strategia retorica, che sfruttano un effetto di realtà per creare isotopie, ossia accumulazioni di coerenza semiotica che giustificano un’accumulazione valoriale e, in definitiva, un posizionamento identitario.
Già lo stesso Barthes sottolineava come con la Déesse si passasse a una nuova “fenomenologia della connessione” automobilistica, dove gli elementi, dopo l’esser stati saldati, diventarono giustapposti, trovando così una nuova rilevanza nella sinergia stabilita assieme. La nuova Citroën degli anni cinquanta parlava attraverso la concatenazione dei propri elementi. Sperimentava con successo il carattere identitario dato dal concerto delle parti che parlano la stessa lingua, che attivano tutte contemporaneamente lo stesso universo semantico. Quest’automobile aurorale introduceva per Barthes a un’arte della segmentazione che superava il sogno della fusione, della forma pura artigianalmente permessa dalla saldatura.
Per noi, la segmentazione è ciò che rende possibile la scomposizione del discorso dell’automobile, ma anche il taglio fenomenologico di un’automobile in parti che significano, ciascuna con il proprio peso narrativo, l’identità globale. La segmentazione permette dunque la prova di commutazione, resa possibile dalla solidarietà tra i due piani semiotici dell’espressione e del contenuto. “Nella teoria linguistica di L. Hjelmslev, [la prova di commutazione è quella] prova tendente a verificare se la sostituzione di un elemento sul piano dell’espressione comporta una differenza sul piano del contenuto, o viceversa. Per es., se nella parola pane, si sostituisce p con t, o con r, si ottengono le parole tane, rane; ciò dimostra che in italiano t, r, sono portatori di una differenziazione del significato oltre che del significante e sono quindi da considerare fonemi. [da http://www.treccani.it/enciclopedia/commutazione/].
La prova di commutazione serve a capire in quali particolari apparenti dell’espressione si annida la possibilità di determinare in maniera globale il contenuto. Nel caso della DS19 descritta da Barthes, le giunture fungono da particolari dell’espressione che “salda” un significato globale. Se quelle vengono meno, così funziona la prova di commutazione, il significato cambia radicalmente. Detto altrimenti, ci sono piccole sostituzioni del piano dell’espressione a cui corrispondono piccoli cambiamenti del piano del contenuto. Nella parola “stella”, se metto una “e” al posto della “a” finale cambia tutto sommato poco (da
singolare a plurale). Viceversa, se metto una “a” al posto della “e” si passa proverbialmente dalla “stella” alla “stalla”. Una piccola sostituzione sul piano dell’espressione che genera uno stravolgimento sul piano del contenuto.
Se pensiamo al tuning automobilistico, o meglio, al tuning estetico, capiamo come dietro ci sia il tentativo di trovare un particolare rilevante che cambi l’allure dell’automobile in questione. “Il tuning estetico degli esterni nelle automobili si realizza, nella maggioranza dei casi, con l'aggiunta di elementi della carrozzeria quali "minigonne", alettoni posteriori, spoiler, appendici sottoparaurti anteriori o posteriori e, nei casi più estremi, la sostituzione completa dei paraurti con altri del design più sportivo, l'applicazione di prese d'aria sul cofano e/o sul tettuccio, l'allargamento dei parafanghi o il rimodellamento della carrozzeria al fine di modificare la linea originale del veicolo. Interventi meno invasivi comprendono la riverniciatura parziale o totale del veicolo, l'oscuramento dei cristalli e la sostituzione dei gruppi ottici anteriori e posteriori.” [da https://it.wikipedia.org/wiki/Tuning]
Cosa determina la scelta dell’aggettivo “estremo” da parte di chi ha stilato la voce “tuning” di Wikipedia? Qual è la soglia oltre la quale il particolare sostituito (materialmente) diventa non marginale? Di certo c’è un tema di elaborazione che catastroficamente diventa caricaturale. C’è una simulazione di sportività che perde il contatto con l’effetto di realtà che cerca. Eppure dietro c’è una meccanica semiotica che accomuna i tuner DIY con i designer delle grandi case automobilistiche. Per capirlo bisogna risalire all’archeologia di alcuni di questi particolari apparenti.
In un mercato dell’automotiv dominato da un’omologazione del disegno, da un appiattimento delle linee delle diverse categorie e classe di auto, è in atto una valorizzazione diffusa di alcuni dettagli, che al di là dal dichiarare la propria funzione “forzano” narrazioni per diventare discorso dominante. Ossia, creano abitudini di mercato che poi rendono alcune scelte obbligate per stare nel mercato stesso. Il caso dei tubi di scarico (ma è un discorso generalizzabile ad altri particolari apparenti: i fari, i cerchi, le calandre) rende particolarmente evidente la possibilità di lavorare su un effetto di simulazione funzionale. L’effetto di senso dei tubi di scarico è eclatante proprio per l’accrescimento del peso narrativo che è stato loro assegnato negli ultimi vent’anni, ossia da quando, nel mercato delle berline (specialmente tedesche), si è deciso di aumentare la fetta dedicata alle automobili con motore turbodiesel: da qui la necessità di cambiare narrazione delle stesse.
Il punto di partenza era certamente l’esigenza di coordinare l’immagine dell’automobile a gasolio – apparentata con il trasporto pesante – con una dimensione narrativa diversa, che fosse coerente con la maggiore pulizia degli scarichi richiesta dalle normative. L’opzione diesel del mercato era infatti a metà degli anni novanta in apparente contraddizione con i maggiori controlli sulla tossicità dei fumi. Il coup de théâtre fu scegliere una valorizzazione sportiva per le vetture diesel, anzi, turbodiesel, per superare a destra la questione ambientale e trovare una narrazione dominante e sufficientemente forte da contrastare un discorso potenzialmente incisivo sul mercato (quello della sostenibilità). Il tuning del resto funziona su un principio molto semplice. Essendo la caratteristica di sportività principalmente “sotto pelle” (ossia legata al motore), servono marche linguistiche sulla pelle dell’auto per dichiarare cosa si nasconde sotto. I tubi “di scappamento” sono la via di fuga, l’affioramento oltre la pelle (che fa loro spazio quando serve) di ciò che ribolle sotto pelle. La narrazione è di compulsività liberatoria per cui i tubi sono necessari a liberare quella energia che sta sotto.
La marca linguistica che venne scelta per dichiarare dalle grandi case automobilistiche europee (principalmente tedesche) la sportività delle vetture turbodiesel fu appunto il tubo di scarico (accanto al meno efficace uso della sigla che denota la motorizzazione, sul baule). Guardando l’evoluzione dello scappamento di una vettura Audi a gasolio da metà degli anni novanta a metà degli anni dieci, si può apprezzare il passaggio da un tratto disegnato perché il fumo sia proiettato verso il basso (un tratto di timidezza) a un tratto in cui il diffusore diventa frontale, massiccio, ovoidale, ovviamente doppio (un tratto di arroganza: l’espulsione compulsiva si trasforma da debolezza in forza).
Sarebbe possibile a questo proposito fare un’analisi semiotica più approfondita della plasticità chiamata in causa dalle forme del tubo di scarico. Qui preme però soprattutto sottolineare una strategia di dissimulazione, in due direzioni. Da un lato il tubo non dice più cosa c’è sotto. Non è più un dettaglio funzionale alla meccanica e alla sua narrazione compulsiva, ma una dichiarazione di intenti. Non è doppio perché serve che sia doppio, non è sui due lati del paraurti perché è necessario che sia così (per esempio quando ci sono due fili di cilindri a V), ma perché si va (si andava: il processo è ormai compiuto) nella direzione di appianare la distanza tra la potenza del motore a gasolio e di quello a benzina. Una dichiarazione di intenti. D’altra parte, lo scarico del motore a benzina viene ridimensionato, torna “singolo”, ovoidale ma sobrio. La sobrietà diventa un tratto del motore a benzina; la sportività (l’arroganza) di quello a gasolio (sovralimentato). Oltre a questo, basta guardare come i tubi di scarico siano scomparsi completamente dalle auto ibride (che in realtà hanno motore a carburazione). Sempre per seguire il caso Audi, serva a dimostrazione notare il tratto liscio con cui prima il modello A2 (lanciata come l’auto – non ancora ibrida - che avrebbe dovuto fare cento chilometri con tre litri di carburante) e poi le motorizzazioni G-Tron (queste sì, ibride) decidano di nascondere lo scarico. Che torna a essere timido come nei diesel di un tempo. Talmente timido da non affiorare più dalla pelle, con un effetto di senso di totale assenza.
Di fatto nell’automotiv i tubi di scarico come altri particolari apparenti nascono per motivi funzionali e acquistano il potere semiotico di asserire la funzione di per se stessi. La prova di commutazione è schiacciante. Accanto a essa, lavora altrettanto bene un meccanismo metaforico “catacresizzante”. La catacresi – quel fenomeno per cui una metafora diventa stabile nel linguaggio e finisce per nominare un oggetto fuori di tropo (vedi: la “gamba del tavolo”) – si realizza nel momento in cui la citazione dello scarico sportivo diventa tratto essenziale, condizione sine qua non del motore turbodiesel.
La meccanica dominante prevede dunque che, pur venendo sempre meno i motivi di differenziazione tra disegni complessivi diversi (i cicli di innovazione portano nell’automotiv a omologazione immediata: si pensi alle “monovolume” negli anni novanta; ai “SUV” in tempi più recenti), aumenta la rilevanza e il peso narrativo (e di marketing) dato ai dettagli che raccontano la necessità meccanica, trasfigurabile però a piacimento per dare un effetto di realtà credibile. In più, la credibilità, all’opposto del tuning, è data dal fatto che sia la stessa casa automobilistica a fornire “di serie” questa scelta: l’effetto di realtà, di identità, è massimo.
Massimo l’effetto di realtà, massima la disinvoltura con cui si gioca con essa con la capacità di cambiare la realtà. I tubi di scarico sono tubi di carico valoriale e narrativo davvero rilevanti. Grazie alla catacresi, la commutazione si stabilizza e ciò che prima è effetto di una dissimulazione, di una citazione, di una metafora (quest’auto è come se...)
diventa ciò che dice, perché il mercato diventa in quel modo (quest’auto è così). A noi non resta che guardare sempre il dettaglio, di abituare lo sguardo a decostruire i particolari apparenti, a non restare indifferenti. Sperando in un’innovazione di progetto e non di marketing.
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Dentro il versus. Un Manuale di sintesi nella disgiunzione prodotto vs processo
di Gaspare Caliri - apparso in versione rimaneggiata su Artribune.
Viviamo nella dialettica tra prodotto e processo. Viviamo tifando per il processo, optando per una scelta non sempre meditata ma a volte presa a partito. Il prodotto è superato, ci hanno detto, perché dietro c’è sempre un processo, ciò che più conta. Il prodotto è mercificato, fa astrazione di ciò che ci ha portato ad averlo davanti a noi, diventando qualcosa da venerare.
In effetti il prodotto – di certo anche quello artistico – è esposto alle osservazioni che Ludwig Feuerbach faceva su dio e sulla religione. Feuerbach sosteneva che dietro all’invenzione di dio c’è un’alienazione da parte delle persone, che proiettano le qualità potenzialmente migliori di sé – o meglio, più notevoli – su un prodotto della propria immaginazione e così facendo si negano la possibilità di poterle assumere – le qualità – appieno. Di conseguenza, questa proiezione/alienazione è una perdita che sussiste e sopravvive negli effetti solo se si dimentica il processo da cui deriva.
Proiezione e alienazione sono meccanismi che determinano l’effetto semiotico di “notevolezza” del prodotto. Quella reverenza che è pre-condizione di tanti prodotti artistici. L’oggetto è fuori da noi e da un punto di vista narrativo / narratologico se così non fosse non ci potrebbe essere quella “appropriazione” del prodotto che comporta l’unione tra soggetto e oggetto. Il meccanismo narratologico di “prensione”, di “fruizione” di un oggetto / prodotto è basato infatti sul passaggio di stato per cui, a partire da una situazione in cui il Soggetto è disgiunto dall’Oggetto-di-Valore (e anela a esso), si arriva a una situazione in cui il Soggetto è congiunto (ha assimilato, integrato, “preso” per qualche verso) all’Oggetto-di-Valore.
In tutto questo stare invece in mezzo ai processi, con i nostri mestieri e discorsi fortemente processuali, fortemente costruttivisti di situazioni, pone domande di affidabilità semiotica: quanto impattano da un punto di vista simbolico i processi, dato che non rispondono alle condizioni di possibilità (e tensione fenomenologica) che abbiamo appena esposto? Come fa un processo a darci quell’effetto di “notevolezza”, se non c’è distanza iniziale?
Ci sono poi le forme ibride. Che mescolano linguaggi, registri, condizioni di possibilità. Spesso sono artifici retorici brillanti ma non vere e proprie vie di fuga tra due o più polarità. In questo restano forme ibride dove non c’è sintesi ma accostamento – c’è détournement ma non la creazione di una nuova situazione. Assistendo al Manuale della figura umana, azione teatrale di Marta Dell’Angelo e Fiorenza Menni, ho avuto un’impressione diversa.
C’era di certo un’interazione che ha creato un varco. Il soliloquio allestitivo di Marta Dell’Angelo con il contrappunto degli allestitori dell’opera a muro, in tutta la sua complessità. La nascita di due performer e dei correlati stati di agitazione e l’effetto di trasparenza dei pensieri della performer di grande esperienza. Si era in mezzo al processo e alla fine ci siamo trovati di fronte al prodotto. A fine “spettacolo”, una voce sussurrava nelle orecchie “vi potete avvicinare a vedere l’opera”. (Leggi: potete uscire dal processo).
Cosa mette insieme questo Manuale? Non solo teatro e opera d’arte visiva, ma prodotto e processo. Fa un’operazione di “sintesi disgiuntiva” (come avrebbe detto Deleuze) e una sottrazione delle condizioni di possibilità di cui sopra encomiabile, perché si espone al rischio di essere un processo de-semantizzato rispetto all’effetto di “notevolezza” dell’opera finita. Lavora scavando l’indistinto creativo. Ma soprattutto ci fa capire che la disgiunzione tra prodotto e processo è una forzatura retorica di cui ci siamo convinti con le nostre stesse argomentazioni. Che non ci sia prodotto senza processo lo sapevamo, ma nessuno ha deciso per noi che il prodotto di un processo cristallino non potesse avere la stessa forza di un oggetto feuerbachiano.
Lo abbiamo deciso noi, forse per non avere l’obbligo di dare al processo quell’intensità e quella responsabilità enorme di “produrre” un oggetto “notevole”. Abbiamo deciso di lasciare all’artista la responsabilità indistinta di alienarci dalle qualità che ritroviamo nell’opera d’arte. Il Manuale è invece uno di quegli Oggetti di cui il Soggetto si appropria in molti e diversi modi. Anche attraverso la sintesi tra due differenze fittizie.
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Paesaggio. ìMaCo_Immaginario Materiale Collettivo. Un progetto per la Caffetteria del Sì
di Gaspare Caliri ed Elisa Del Prete - pubblicato su Roots Routes
Da alcuni anni sto lavorando a Bologna con un gruppo di persone. Ci siamo dati un nome, Re:Habitat e ci siamo costituiti anche in associazione nell’intento di sviluppare riflessioni, sperimentare idee e metodologie, e soprattutto alimentare tra di noi un continuo confronto sull’abitare i luoghi. Abbiamo anche un sito, www.re-habitat.org. Con queste persone si sono tessute relazioni di densità diversa, di frequentazione del tutto irregolare, di lavoro intenso e magari poco dopo di allontanamento. Perché ve ne parlo. Perché con alcune di queste persone quando è in cantiere qualcosa di importante nasce immediatamente un allineamento più o meno esplicitato che ci fa trovare tutti in viaggio sulla stessa orbita. Così è stato per la nascita del Sì. O meglio, la rinascita del Sì. Perché il Sì, formalmente detto Atelier Sì, è uno spazio culturale che ha riaperto i battenti in centro a Bologna dopo oltre un anno di chiusura al pubblico per ristrutturazione, fisica e, a mio parere, anche strutturale e mentale (www.ateliersi.it). Se prima il Sì era uno spazio teatrale, sede di una compagnia teatrale, che ospitava spettacoli, concerti, feste oltre al lavoro stesso della compagnia, ora è un luogo gestito da un collettivo artistico con progetti, residenze, mostre, workshop, collaborazioni, scambi e condivisioni, e certo ancora spettacoli, feste e concerti, che generano però prima di tutto un vissuto. Riaprire un luogo della città con tale approccio, interdisciplinare ed esperienziale, dato in convenzione dalla Pubblica Amministrazione, prevede certe responsabilità, ma necessita probabilmente anche di certe leggerezze o, meglio, di momenti di decompressione e spazi di adattamento, per chi entra da fuori e per chi vive da dentro. Per garantire tale margine di flessibilità, probabilmente, è nata La Caffetteria del Sì, al primo piano, uno spazio del convivio, del chiacchiericcio, del silenzio e dell’ascolto, della degustazione, della scoperta. Qui, prima ancora delle persone hanno trovato casa i numerosi oggetti che oggi la compongono, raccolti grazie al progetto ìMaCo, Immaginario Materiale Collettivo, proposto da Ateliersi e da snark – space making.

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Caffetteria del Sì
Un giovedì sera, la scorsa estate, io e alcune di quelle persone, sempre in rotta sulla stessa orbita, siamo state invitate negli spazi di una ex villa bolognese di campagna a condividere un oggetto. Gaspare Caliri, tra quelle persone, era l’artefice di questo invito mentre Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, anime fondanti del Sì ci aspettavano, insieme a Diego Segatto, che si sarebbe occupato di parte della restituzione di questo processo che eravamo chiamati ad avviare. A noi si erano aggiunte diverse altre persone tra amici e colleghi e ad ognuno, ognuno di questo primo gruppo di scambio era stato chiesto di portare un oggetto da donare alla Caffetteria, e con esso una ragione che ne motivasse la scelta… «ìMaCo è un esperimento di crowdfurnituring, ossia un crowdfunding di oggetti donati da una comunità di persone, per avere l’occorrente (stoviglie, sedie, tavolini, lampadari, poltrone, apparecchiature, ecc.) che serve ad aprire una caffetteria speciale: quella del Sì, che sarà avviata a fine settembre. ìMaCo è anche un esperimento di narrazione di una comunità. Sarà un paesaggio di oggetti funzionali e di storie: di oggetti che prima sono di una persona sola, e poi diventano di tutti – e non di nessuno. Tutti possono farne parte. Basta portare un oggetto che si pensa possa vivere nella futura caffetteria del Sì. Vi chiederemo di raccontarci la storia dell’oggetto. La prima parte della sua storia: la seconda parte, la potrete vivere ogni giorno, insieme agli altri oggetti, al Sì». Con queste parole è stato descritto il progetto sul gruppo Facebook dedicato, quasi un anno fa. Oggi la caffetteria è uno dei luoghi più riconoscibili della città, grazie anche all’accostamento di oggetti alimentato durante la raccolta di ìMaCo. Il periodo della raccolta è durato tre mesi – fino alla riapertura del Sì, a settembre 2014. A ogni “donatore” veniva richiesto di compilare una scheda, per alimentare il nostro archivio di storie di oggetti, consultabile online e visitabile direttamente in caffetteria. Salendo al primo piano del Sì, in via San Vitale a Bologna, si ha subito l’impressione di un “paesaggio di oggetti funzionali”. Si coglie quella serena tensione che contraddistingue ogni paesaggio, fin dalla sua nascita (come termine e come concetto): quando cioè Von Humboldt, in Sud America, si portava appresso illustratori e ritrattisti per “apparecchiare” le rappresentazioni del “tipico”. Ogni paesaggio è una composizione, un accostamento controllato per dare conto di tante storie che si incrociano. In caffetteria si coglie la tipicità di un immaginario, che è costruito da un punto di vista, o meglio: ricostruito. Per ìMaCo, infatti, abbiamo dato nuovo valore a oggetti un tempo altrimenti appartenenti a paesaggi standard quotidiani. Nessuno degli oggetti donati ha una storia più rilevante delle altre, nessuno di essi spicca sopra al paesaggio di cui è parte. È come se, cambiando “proprietario”, gli oggetti si fossero egualmente “ricaricati”, da un punto di vista narrativo. La proprietà, in questo caso, non è solo intesa dal punto di vista di “possedimento materiale”, ma anche di dominio dello sguardo: una tazzina è di chi la guarda, di chi la consuma giorno dopo giorno, scaricando narrativamente la relazione tra sé e la tazzina stessa. Oggi quella tazzina, in caffetteria può ricaricarsi grazie allo sguardo altrui.

ÌMaCo paralume di Eva
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Dunque le cose ci sopravvivono. Continuiamo a liberarcene ma poi ritornano, altrimenti non avremmo problemi di spazio, discariche, inquinamento e riciclo. E quelle vecchie sembra ci sopravvivano ancora di più, ce le ritroviamo sempre lì, sotto una forma o un’altra, non smettono mai di circolare. Quando è morta mia nonna mi sono tolta un anello dal dito e gliel’ho regalato. Sì, gliel’ho regalato, le piaceva e mi sembrava importante, chissà perché, in quel momento lasciarlo a lei. Dopo ho capito che l’avevo fatto sì perché volevo che si ricordasse di me (capito? che lei grazie a quell’anello si ricordasse di me…!), ma soprattutto perché mi sembrava così brutale che il suo corpo, nel tempo, si decomponesse, si disintegrasse senza lasciare niente, senza che di lei rimanesse niente a parte stracci di vestiti diventati brandelli insignificanti. Sì, volevo che qualcosa le sopravvivesse. Immaginavo che un giorno, scavando, qualcuno si imbattesse in questo anello, grosso, meticcio, con una grande pietra violacea ovale. Di quelli che trovavo ai mercatini dell’usato, di quei vecchi oggetti che ritornano, di cui mi disfavo e riapproriavo ciclicamente. Immaginavo che quell’anello, per il fatto di accompagnare la morte, avrebbe potuto varcare il mondo, portandosi dietro un po’ di me, un po’ di lei. Mia nonna lo ammirava perché per lei era una pietra di valore semplicemente per la magnificenza e importanza che assumeva al mio dito. Mia nonna credeva, credeva a tutto il valore che un oggetto poteva incorporare. Credeva che il manifesto di Picasso sulla testata del suo letto in montagna fosse un vero Picasso. Credeva ai videogiochi. Credeva che nella scatola che mi ha lasciato dove aveva conservato tutti gli spartiti e i libretti di mio zio, suo fratello musicista, ci fosse la “sua” musica. Credeva, di certo inconsciamente, nel portato narrativo e simbolico delle cose. Immaginava. Era felice di credere che in un oggetto si nascondesse un tesoro. Che differenza faceva se era la “sua” musica o no, visto che lei non la sapeva leggere. Che differenza faceva se la pietra del mio anello era “buona” o “matta” una volta indossata se tanto non doveva essere venduta. Le relazioni narrative sono oggetto di analisi della semiotica, che è appunto la scienza della narratività. È con essa che abbiamo approcciato una descrizione di quello che è successo a questi oggetti, grazie a ìMaCo. L’oggetto vero della semiotica è la relazione tra soggetto e un oggetto di valore – ossia ciò che succede prima, quando un soggetto è distante dal proprio oggetto di valore, e dopo, quando si sono congiunti. Tutto quello che accade in questo passaggio è animato, messo in moto, da valori. La semiotica permette di trovare, dietro ai passaggi narrativi, quali valori emergono e di organizzarli e rappresentarli attraverso uno strumento, il cosiddetto “quadrato semiotico”. Il quadrato semiotico, come tutta la semiotica, è uno strumento di descrizione. È un modo per rappresentare la dinamica fenomenologica attraverso la quale i valori trovano posto nel mondo, nel nostro modo di raccontare storie, comunicare in generale o partecipare a una situazione. Nel caso di ìMaCo ci serve a entrare con maggior complessità nel merito dell’opposizione tra privato e pubblico, uno dei temi principali messi in gioco dalla serena tensione creata dall’Immaginario Materiale Collettivo. Normalmente si dice che il pubblico è la negazione del privato. Come se il “privato”, cioè soggetto a proprietà privata, avesse una polarità positiva e il “pubblico” una negativa, opposta. Il rischio di questa banalizzazione è che se neghiamo il privato neghiamo una “proprietà” privata. Quindi, se il privato ha un proprietario, il pubblico non è di nessuno. Questo gioco delle parti e delle relazioni non fa bene a uno spazio pubblico come la Caffetteria del Sì, e non fa bene in generale al “public”, come dicono bene gli anglosassoni, ossia al dominio pubblico in senso ampio. La Caffetteria del Sì è un luogo che ha accumulato punti di vista privati e ne ha creato uno pubblico, che non nega quelli di partenza ma li riassume, dando loro nuova linfa narrativa. E qui torna il quadrato semiotico. Come funziona un quadrato semiotico? Il quadrato semiotico ha un’opposizione su un asse superiore, e un’altra su quello inferiore. Sopra si mette l’opposizione di valori da cui si inizia, come bene VS male. Sotto, si mettono i rispettivi “subcontrari”, ossia la coppia delle negazioni dei valori di cui sopra (es. non male VS non bene). I valori “sopra” sono assertivi, quelli sotto sono “partitivi”, ossia un po’ più vaghi. Per tornare al nostro esempio: “non male” non vuol dire necessariamente “bene”, ma è un insieme di cui il “bene” è parte. Per fare entrare in moto il quadrato semiotico serve un motore e il carburante. Il motore è la circolazione dei valori. Il carburante è la narratività, ossia la tensione del passaggio da uno stato a un altro stato, attraverso un movimento. Detto altrimenti, il quadrato non è statico. Si è detto narratività e non narrazione: la narrazione è una storia singola, la narratività il movimento profondo che spiega come quelle storie significano. La direzione narrativa non va da un valore direttamente al suo opposto, ma attraversa una “negoziazione” tra valori subcontrari, più generici. Per andare dal “bene” al “male” si passa dal “non bene”. Si passa da un momento di attrito, più vago e per questo più aperto alla trasformazione. Nel nostro caso, per passare da oggetto “privato” a oggetto “pubblico” (l’asse superiore, dei contrari), si passa necessariamente sull’asse inferiore dei subcontrari dove l’oggetto “privato” diventa anche oggetto “non pubblico” e quello “pubblico” diventa anche oggetto “non privato”.

Per passare da oggetto “di una persona sola” a oggetto “di tutti”, l’oggetto ìMaCo dovrà dunque passare grazie al movimento dettato dalla narratività, dallo status di oggetto “di qualcuno”. In altre parole: se non vogliamo che lo spazio pubblico non sia di nessuno ma sia di tutti, bisogna negare la singola “proprietà” e andare verso una trasformazione di proprietà. Ossia, prima di diventare di tutti, la tazzina passa dalla comunità di appartenenza del primo proprietario, a cui l’oggetto viene raccontato. Si tratta dunque di un dispositivo fortemente inclusivo, che fa cambiare status agli oggetti e permette loro di abilitare una dimensione pubblica più “affermativa” – e non “privativa” come sarebbe se fosse stato collocato nello spazio pubblico di nessuno. Chi entra a far parte di questo “circolo ìMaCo” fa a meno di qualcosa per avere per sé qualcosa di più, da un punto di vista narrativo, e così facendo entra a far parte di una “comunità”. Questo passaggio dall’appartenere a un privato all’appartenere ad una comunità che è tale per le storie che condivide, diventa metafora della visione stessa di Atelier Sì, che si propone come luogo inclusivo e non si presta alla fruizione di soli “spettatori” passivi, ma si alimenta di co-creazione con la propria comunità di frequentatori. Grazie a ìMaCo la Caffetteria del Sì oggi ha tavoli, sedie, bancone, bicchieri, tazze e posate…una comunità di oggetti parlanti funzionale alla sua attività. La ragione per cui, quel giovedì sera ho donato quel tavolino giallo e verde ce l’ho ben chiara. Non amavo quell’oggetto se non per il fatto di essermi stato regalato da certe persone. L’idea di disfarmene mi faceva stare male, l’occasione di condividerlo mi sollevava dalla sua presenza, dalla necessità di occuparmi del suo destino. Come me probabilmente molti altri si sono disfatti di oggetti di pesante presenza, oggetti cari, affettuosi, magari un po’ goffi, mal riusciti, ad oggi inappropriati, oggetti che sappiamo ci sopravviveranno, che non si esauriranno mai, che sono destinati a rimanere, oggetti che insieme raccontano in uno spazio pubblico la storia materiale di case private, di una comunità che ha scelto di condividere lo spirito di una circolazione. .
youtube
Disegni: Eva Geatti Montaggio: Kabu www.ateliersi.it/si/imaco La Lampadona, visualizzazione per ìMaCo di Eva Geatti, artista e performer. Animazione in stop motion che racconta veloce veloce la storia di un oggetto, o anche sequenza di disegni eseguiti uno a uno e scannerizzati, metafora della cura che si può avere verso le cose vecchie e un loro scambio.
. . Elisa Del Prete è storica dell’arte e lavora come curatrice. Dal 2007 è fondatrice e direttrice di Nosadella.due (www.nosadelladue.com), programma di residenza per artisti e curatori focalizzato su progetti di public art su cui sviluppa la sua attuale ricerca. Scrive per “doppiozero.com”.
Gaspare Caliri è semiologo di formazione e lavora come service designer. Sviluppa percorsi di co-progettazione, community engagement. E’ presidente di snark – space making, socio di Kilowatt, co-fondatore di CUBE (Centro Universitario Bolognese di Etnosemiotica) e coordinatore di SentireAscoltare, rivista di critica musicale.
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Come costruire un dj-set inclusivo?
Insieme a Mescla! e Map / Baumhaus abbiamo curato due workshop con gli ospiti del centro Zaccarelli per capire che cosa ballano e come fanno festa. Abbiamo capito molte cose sui limiti dei cultural probes, sulle loro implicazioni culturali e sull'importanza di costruire relazioni sulla cui base sviluppare prassi di co-progettazione puntuali.
(scroll down for the english version)
Questa estate i dj del collettivo Mescla! hanno saputo che i ragazzi di Map avrebbero organizzato BaumBonsai, una festa al Centro per richiedenti asilo Zaccarelli di Bologna, e hanno proposto di fare un dj-set usando anche le canzoni ascoltate dagli ospiti del centro. Ci siamo inseriti con gioia nel progetto per aiutarli a conoscere gusti e preferenze degli ospiti tramite un paio di micro-workshop / incontri con loro.
Dopo aver sentito la cooperativa che gestisce il centro e gli insegnanti di italiano, si è deciso di andare al centro per far compilare agli ospiti delle schede cartacee, in cui oltre a indicare le canzoni potessero anche esprimersi sulla propria idea di festa e di danza.
Su consiglio degli insegnanti abbiamo fatto la scheda in italiano, in una forma semplice, perchè alcuni avevano iniziato a studiarlo da poco tempo.
Nei due workshop siamo stati affiancati dagli insegnanti Angela e Marco e dalla coordinatrice del centro Maddalena, che ci hanno presentati e hanno aiutato i ragazzi del centro a lavorare sulle schede, che in molti casi sono state tenute e compilate anche nei giorni successivi.
Se alcuni avevano già un po’ di conoscenza dell’italiano e quindi hanno capito subito lo scopo della scheda, con gli ospiti meno familiari con la lingua ci siamo aiutati con i telefoni per ascoltare insieme i video e gli mp3 delle canzoni, usando anche Shazaam per trovare i brani anonimi (capita spesso nei passaggi di musica tra chiavette usb, memorie esterne, etc.) o indicati in caratteri non occidentali (non ci avevamo pensato, è stato un bel modo di scoprire un’ennesima forma del nostro eurocentrismo!). È stata un'ennesima dimostrazione di quanto siano cruciali i dispositivi e le memorie digitali nell’esperienza quotidiana di migranti e rifugiati.
L’idea di poter scegliere una parte della musica della festa è piaciuta, e la reazione di chi era presente lo ha confermato. Ma ci ha fatto capire anche altre cose.
Nonostante avessimo spiegato che non tutti i pezzi sarebbero stati trovati o selezionati, in molti si aspettavano di ascoltare tutte le canzoni o gli artisti che avevano indicato. Avremmo dovuto dare più attenzione alla presentazione del progetto, magari impiegando anche degli strumenti visivi, come foto e storyboard.
Oltre alla forma linguistica avremmo dovuto considerare maggiormente la dimensione culturale e quindi trovare percorsi specifici per ogni domanda o elemento che volevamo affrontare: alcune cose le puoi chiedere direttamente, per altre devi entrare in relazione con le persone, e a un certo punto potrai chiederle oppure dovrai limitarti a comprenderle. In particolare fare direttamente la domanda sulla danza è stato un azzardo, per tutto ciò che implica spiegare cosa si prova muovendosi al ritmo della musica. Avremmo dovuto arrivarci tramite un percorso graduale di avvicinamento ai temi del corpo, del movimento e del piacere: porla in maniera diretta non è servito allo scopo e infatti la maggior parte delle risposte riportavano canzoni o preferenze sulla festa in generale.
La scheda cartacea è troppo ingombrante e avremmo dovuto farla di un formato più piccolo, affinchè potessero anche essere portate con sé e compilate in un secondo momento.
In contesti così delicati inoltre è meglio togliere la richiesta di informazioni personali (c’era un campo in cui si poteva mettere il proprio nome). Se uno vuole può comunque segnare il nome sulla scheda, ma è meglio evitare la domanda, perchè da una parte può mettere in difficoltà chi ha l'esigenza di tutelare la propria identità per ragioni di sicurezza, e dall'altra può responsabilizzare troppo rispetto a una richiesta che vuole invece restare molto informale. Insomma siamo ancora convinti che sia un buon strumento, ma andava maggiormente adattato al contesto e impiegato insieme ad altri strumenti e modalità, ancora più relazionali.
È una considerazione che vale per questa occasione ma non solo: oltre alla scheda, che abilita sì il dialogo ma lo inserisce in un formato definito ed 'europeo', per quanto aperto e orizzontale, è necessario avere più tempo per conoscersi e discutere (di musica, feste e danza). Così darsi il tempo di esprimere e di comprendere meglio tutte le dimensioni su cui costruire una narrazione comune. In questa occasione il tempo è stato poco, ma alla prossima occasione ne prenderemo e ne daremo di più.
Questa nostra riflessione sta dentro, all'interno, insieme, alle considerazioni sui formati e le relazioni che trovate nel blog di Mescla!.
novembre 2015 Michele x snark
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Recently we’ve curated – along with Mescla! dj’s and Map association – two workshops aimed at the asylum seekers living in the Zaccarelli Centre to understand what they like to dance to and how they party. We’ve understand many things about the limits of cultural probes and codesign approach, about their cultural features and how crucial is to previously build a simple human relationship upon which using specific codesign practices. Last summer Map association and Mescla dj’s got us into a BaumBonsai, a party within the centre for asylum seekers ‘Zaccarelli’ in the Lazzaretto neighbourhood of Bologna. They asked us to join them to help engaging the persons living them in developing a playlist for the party. We happily decided to host a couple of workshops with a group of asylum seekers to learn more about musical preferences and party-habits . After a previous check with the cooperative (Arca di Noè) running the centre and the Italian language teachers we decided to use simple paper s, asking the group to indicate the songs the like to dance and to express their taste in terms of dance and parties. Under the suggestions of the teachers we decided to use Italian language in a simple form / structure as many of the centre guests just started to study it.
During the workshops we’ve been supported by the teachers Angela and Marco as well as by the centre coordinator Maddalena, that introduced us and supported the participants to work on the worksheets, that have been compiled either right away and during the next few days.
Some of them were already familiar with Italian language and immediately got the purpose of the worksheets. But for those less fluent we employed smartphones to browse together their favourite videos and songs, also relying on Shazaam to check for files and contents that were either anonymous (it happens frequently due to transconding actions or data transferring via external memories and devices) or typed with non western characters (actually we didn’t think about it in advance, its been a very effective way to discover a form of our euro-centric perspective). For us it has been another chance to understand how mobile devices and digital memories grew crucial within the current experience of migrants. The idea of having the chance to contribute to some of the party’s music has been appreciated by many and the reaction of those attending the party confirmed it. Despite having announced that not all of the songs indicated would have been either found or played during the party, many of those living in the centre were expecting to listen to all the songs or artists that they had indicated. We should have better explained the project, employing more visual tools perhaps, as pictures and storyboard. A part from the language dimension (and the language structure) we should have been more aware of the cultural dimension and then looking for more specific ways to face every single question and feature we wanted to discuss: there are things that you can ask directly but for other things you have to first get fully in touch with the persons you are working with, developing trust and then opening the space for a relationship, and at a certain point you will know if such things can be asked or if you would better try to simply understand them. Particularly asking directly about their experience of dancing it’s been an hazard beacuse of all the stuff implied in the act of expressing what you feel when dancing. We should have get at the point following a step-by-step path of focusing on subjects as body, pleasure and physical movement. Putting the question that straight didn’t work for the objective and in fact many of the answers were focused on music and on party in general. Paper worksheets are too cumbersome (both physically and culturally) and we should have designed a smaller one, more visual-like, to be easily carried away and compiled later. Whithin such delicate contexts it’s also preferable to skip the request for personal informations (the worksheet had a field within which you could write you first name). If somebody wants to write his/her name on it it’s for sure free to do that but is preferrable to avoid the straight question, because on one hand can be troublesome for individuals that have to protect their own identity for security matters and on the other hand it could hold too much responsible towards a request that should be very informal. Hence we are still convinced that the worksheet would be an effective tool but it would have been more tailored to the context and matched with more relational tools and approaches. It’s an evaluation that works for this specific case but not only to this: in addition to the worksheet, that do generate the space for a conversation but framing it within a precise and western format, despite the fact that it works as an open and horizontal tool, it is necessary to have more time to get to know each other and to discuss (in this specific case about music, parties and dance). Thus you can get the time to better express and understand all the relevant dimensions that concur to build a common narrative. In this occasion such time has been very little but next we will either take and give more time for that. Our thoughts are connected to what’s been shared by Mescla! dj’s in their blog about formats and relationships.
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Perché per riqualificare sono importanti le persone e non solo le idee
2015.03 di Gaspare Caliri - pubblicato su Che Futuro
qualche anno fa ero a Maratea, ospite come relatore a un convegno. La cornice era splendida: una villa a picco su un Tirreno capriccioso, all’inizio della primavera. Ero lì a raccontare l’esperienza di Co/Auletta, un progetto di riqualificazione che avevo seguito, nei mesi precedenti, con snark e grazie all’impegno e alla capacità di generazione di cambiamento di Rena. Un progetto importante che oggi mi permette di parlare con maggiore cognizione di causa di Next Snia Viscosa, call per progettisti, ricercatori e professionisti interessati a partecipare alla costruzione di una visione di cambiamento per l’ex stabilimento Snia Viscosa di Rieti. Un concorso organizzato insieme al Comune di Rieti e a Monte dei Paschi di Siena, proprietaria di buona parte dell’area interessata dal processo di rigenerazione.
UN NUOVO MODO DI INTENDERE GLI APPALTI PUBBLICI
Oggi si parla di rivoluzionare la gestione degli appalti pubblici, allora si facevano piccoli passi nella direzione di un cambio di paradigma. A partire da un concorso di idee, Co/Auletta per l’appunto, in cui si cercavano dei contributi per cambiare la sorte di un borgo in provincia di Salerno rimasto distrutto dal terremoto del 1980. Un “parco a ruderi” era la suggestione di partenza. Per dettagliare la proposta, cercavamo figure professionali in grado di coprire tutta la filiera della progettazione e della gestione di un asset turistico riqualificato. Dall’architetto alla struttura ricettiva. Per farlo, abbiamo tolto qualsiasi vincolo di riservatezza.
I partecipanti al bando non solo erano tenuti a dichiarare la propria identità, ma anche a contribuire a una mappatura condivisa di casi studio, benchmark e buone pratiche in tutto il mondo.
Tutto questo non a porte chiuse, senza sigle su buste sigillate, ma online, su una mappa aperta, durante il periodo di apertura della call.
IL METODO DEL CONFLITTO
Torniamo a Maratea. La giornata fu burrascosa come il mare che si agitava cento metri sotto i nostri piedi. Il direttore della scuola che ci ospitava ci chiese di raccontare il percorso di Auletta. Una manciata di minuti dopo aver iniziato la nostra relazione, ci iniziò a interrompere con (poco argomentate) perplessità e gesti di fastidio. Più tardi ci spiegarono il trick: è il suo metodo di gestione della multidisciplinarità e della co-progettazione, ci dissero gli alunni della scuola, attraverso il conflitto. Il conflitto che genera guizzo creativo.
Noi contro voi. Il nostro approccio contro il vostro. Così siamo spinti a dare il meglio.
Ci misi un po’ ad accettare che davvero non si trattasse semplicemente di antipatia.
A ripensarci oggi, al netto del prurito, mi sembra ci siano indicazioni interessanti dietro quella storia, così come dietro il modo in cui abbiamo gestito Auletta. Un paio di cose non le abbiamo molto azzeccate. Per esempio, abbiamo chiesto delle bozze di progetto come materiale da presentare per un concorso di idee. È una cosa abbastanza normale, penserete voi.
Eppure, se ci pensiamo, abbiamo buttato via delle idee, praticamente tutte.
Il gruppo di lavoro selezionato si è trovato ad Auletta e ha lavorato su un “terreno comune” stravolgendo i propri propositi di partenza. Detto questo, quei propositi – quelli delle cinque application selezionate e quelli delle altre cinquanta abbondanti – sono stati prodotti – con sforzo di lavoro e di intelligenza – e poi cestinati. Se lavoriamo sull’intelligenza collettiva non possiamo fare così.
A RIETI UN ESPERIMENTO DI RIGENERAZIONE URBANA
Per questo adesso, a Rieti, abbiamo impostato un bando particolare. Next Snia Viscosa è un esperimento di rigenerazione urbana, la cui prima fase è una open call– aperta fino al 31 marzo 2015 – che non cerca idee ma persone. L’obiettivo è costruire un gruppo di lavoro interdisciplinare che definisca e promuova una visione di sviluppo innovativa e sostenibile, internazionale e radicata nel territorio per riqualificare il complesso dell’ex Snia Viscosa, a Rieti, un’area fortemente identitaria per la città.
Cosa succede a queste persone? I candidati selezionati verranno invitati a partecipare a un periodo di residenza, a Rieti, nel maggio di quest’anno, per progettare insieme il futuro della Snia Viscosa e della città. Qui veniamo al punto, anzi torniamo con il pensiero a Maratea e ad Auletta. I progettisti del parco a ruderi furono accompagnati durante un weekend di workshop intensivi dove si annusarono e iniziarono a lavorare insieme. Una volta costruito un “terreno comune” di progettazione, non furono più assistiti da noi. E quello fu un problema.
Lo diceva anche Peter Galison, in Image and Logic, quando si è trovato a capire il caso della Room 4-133, una stanza del Red Lab dell’MIT creata nel 1940 dove per la prima volta si trovarono insieme la comunità scientifica di fisica sperimentale e quella di fisica teorica. Non esiste, secondo Galison, una “soglia” di traduzione tra le prime due comunità, ma un “territorio di attrito”, una Trading Zone, in cui la compresenza, la prossimità spaziale, le pratiche implicate consentono la nascita di una zona neutra, di una comunità “creola”, di un “pidgin”. “I fisici e gli ingegneri della Room 4-133, quando montano insieme un nuovo circuito, non sono impegnati in processi di traduzione, né producono commenti “neutrali”: stanno semplicemente lavorando a un nuovo, potente linguaggio, valido localmente, che possa coordinare le loro azioni.” – dice Galison.
È la potenza di un luogo. Di uno spazio da pensare insieme come luogo.
Altro che conflitto: lì c’è un terreno dove smaterializzare e riterritorializzare la propria disciplina, per il bene comune di un territorio.
Ci auguriamo che Rieti sia quella “trading zone” che alimenti cambiamento, sostenibilità, e che soprattutto dia il la a nuove visioni di sviluppo per i nostri territori de-qualificati.
GASPARE CALIRI* 26 marzo 2015
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