I read the news today, oh boy. 4000 holes in Blackburn Lancashire.
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La macchina del tempo.
(Ovvero: impressioni sparse, forse inutili e assolutamente non richieste sull’ennesimo argomento del giorno dei social)
All’età di 10 anni possedevo tutte le cassette dei Beatles.
Mi ero innamorato della band verso i 6/7, influenzato (come quasi tutto, in tenera età), da quello che ascoltava mia sorella, di 6 anni più vecchia. Credo di aver scoperto i Beatles nell’ordine cronologico in cui hanno pubblicato i loro album, collego alcuni ricordi della mia infanzia a Please Please me, Love Me Do e ai loro remake dei classici dell’r’n’b e del rock’n’roll. Li ascoltavo ogni giorno per ore, col volume sparatissimo, sui miei ridicoli registratori a cassette. Sono cresciuto con loro, letteralmente. I ricordi dei miei 10/11/12 anni corrispondono ad Abbey Road e Let it Be. Ricordo ancora il giorno che andai in un negozio di dischi alla ricerca ossessiva della cassetta nera del doppio White Album, che i distributori italiani dell’epoca avevano diviso in 2 (una bianca e una nera, appunto), per favorirne le vendite. Scrivo questo lungo preambolo per far comprendere quanto per me i Beatles fossero nati come una religione, abbracciata in modo totalmente autonomo. Una religione della quale, col passare del tempo, le esperienze e la crescita umana di un individuo nella media, ho riconosciuto genialità, creatività artistica e anche limiti. Ritengo quello in cui mi sono innamorato perdutamente dei Beatles il mio periodo formativo, quello in cui sono riuscito a commuovermi per Here, There and Everywhere, a sballarmi con Helter Skelter, a ballare con Got to Get You Into My Life, a perdermi con Tomorrow Never Knows o a meravigliarmi con A Day In the Life. E comunque ero pur sempre un pre adolescente. Ero pronto ad allargare i miei orizzonti musicali, grazie ai Beatles, ok. Ma sempre un pre adolescente (in quel periodo ascoltavo di tutto da Zappa a Bowie, ai Clash a Marvin Gaye, molti generi, tanto funk, compreso quello che passavano le radio più giuste, senza preclusioni). Basta preamboli, che già mi sento come quel tizio che parla solo di sé quanto scrive i coccodrilli.
Quindi.
Vedere il processo creativo dei Beatles è qualcosa di trascendentale. Durante The Beatles Get Back mi sono meravigliato più volte nel constatare quanto fossero inconsapevoli di quello che sarebbero riusciti a estrapolare dalle loro improvvisazioni, spesso da accordi basici e di come riuscissero a sfruttare degli stimoli all’apparenza insignificanti. Anche perché, come gruppo, erano a fine carriera e qualcuno dice fossero un po’ spompati. Durante tutto il documentario ho pensato a quanto fosse la percentuale verità/finzione (avevano comunque le telecamere puntate sempre addosso), a quanto sia importante capirlo o meno, a quanto possa cambiare la percezione di quello che realmente succedesse tra loro e a quanto copione ci fosse (dal percorso dall’idea iniziale dello show a quella del rooftop live). Delle loro personalità poi, avevo un’idea di base abbastanza diversa. Ho sempre pensato a un John meno clownesco e gigione e più riflessivo, uno dal quale partivano spunti interessanti, lettore impegnato, fondamentalmente riservato e schivo, un po’ come quello che le riprese nel viaggio in India mi avevano restituito (scoprendo invece in Get Back che là erano tutti piuttosto ingessati, nonostante gli intenti liberatori dell’esperienza). Meno musicista ammerigano rock, sempre in tour, sempre fuori, super blem blem e dall’igiene personale approssimativa. La stessa cosa che pensavo anche degli altri Beatles. Avevano molti più atteggiamenti tipici da rock band di quanto mi aspettassi, seppur se con quel guizzo creativo in più. Negli ultimi anni ho visto alcuni documentari sugli Stones che me li hanno fatti apprezzare più di quanto facessi a quei tempi e di loro ho ed avevo un’immagine abbastanza simile a quella che mi era stata restituita dalle riprese. I Beatles, invece, ho scoperto che avevano un atteggiamento molto più Stones (col guizzo, interpretatelo pure come la semplice preferenza di un fan, anche se sarebbe un po’ riduttivo, suvvia..) Dal Paul di quel periodo mi aspettavo in linea di massima quello che si vede. Forse pensavo fosse un po’ meno consapevole del suo ruolo, che immaginavo dividesse equamente con John e che me lo ha reso meno simpatico ma più necessario. Mi aspettavo anche meno genio creativo puro e semplice e più focus organizzativo sugli obiettivi della band. Invece l’ingegnosità c’era eccome e non era poi tutto ‘sto cerbero che avevo percepito negli anni (impressione che avevo già avuto in McCartney 1,2,3). Il George di Get Back è tutto nei suoi sguardi, nel suo essere defilato, nelle frecciatine, in quella pentola a pressione che scoppia giusto quando deve scoppiare, tipica di chi è cosciente di essere nel giusto e di avere argomenti forti, che capisce che riuscirà ad essere accondiscendente solo fino a un certo punto e che prima o poi avrà il suo momento di affermazione. Mi è piaciuto anche riscoprire quanta pazienza e quanto talento e abnegazione ci volessero ad essere un perfetto ‘George dei Beatles’, in costante equilibrio tra 2 personalità strabordanti come quelle di John e Paul. Ringo è quello che avevo inquadrato di più. In passato diversi batteristi (che reputavo tecnicamente migliori di lui), hanno provato a spiegarmi la sua essenza, a farmi capire la sua importanza. Ironia, sbuffi e sberleffi a parte, In The Beatles Get Back ci sono molte sue parti al servizio degli altri e alcune brevi parti in cui suona da solo. Ebbene: il groove, i fill, le note fantasma e altri particolari ci rivelano un batterista estremamente preciso, versatile e evidentemente indispensabile alla band. Il loro ensemble poi, non ha fatto altro che confermarmi quanto fosse alto il loro livello e universale il loro talento.
Il concerto sul tetto della Apple, alla fine, è stato un lungo momento Yin e Yang. L’effetto sorpresa, la gente in strada che si ferma, quelli sui tetti, i bacchettoni del volume troppo alto, i testimoni inconsapevoli di un momento eccezionale (senza neanche uno smartphone, che tempi bui), i poliziotti inebetiti, impreparati e quasi impotenti, l’interruzione prima del tempo e (comunque), il successo del piano.
Vederli tornare a suonare è stato bellissimo, tanto quanto è stato terribile tornare a realizzare che fosse l’ultima volta. Soprattutto perché, da lì in poi, non avrebbero mai raggiunto vette tanto alte come quando suonavano insieme.
Tristezza.
Buio.
Sipario.

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Ricordo che stavo scherzando con Raffaele.
A un certo punto alzai gli occhi verso lo schermo della tv, perennemente bloccata sul televideo Rai e notai una breve ultim’ora che mostrava, quasi in tempo reale, le prime informazioni su ciò che stava succedendo.
Sottovalutando la situazione, feci una battuta semiseria sul fatto che Paola fosse appena rientrata dagli Stati Uniti e avesse visitato il World Trade Center.
“Meno male che è tornata in tempo”.
Intanto in onda continuava Veronica Dance.
Salendo le scale incrociai Luigi, Beppe e chi c’era in radio e iniziammo a confrontarci e ad avere una prima sensazione che fossimo di fronte a qualcosa di estremamente grave e inaspettato.
Di quella giornata poi, ricordo che successivamente fu deciso di interrompere la normale programmazione.
Fermammo tutto, compresa la pubblicità e iniziammo una lunga diretta senza musica con interventi continui dei giornalisti della redazione che raccontavano la situazione in divenire.
Situazione che appariva sempre più grave e che ci descriveva, grazie ai lanci di agenzia e alle immagini tv di volta in volta più strazianti e dettagliate, quanto, in un breve lasso di tempo , potesse diventare terribilmente brutto il mondo.
Per la prima volta, soprattutto, in diretta in tempo reale.
Non ho mai scritto nulla di ciò che ricordo dell’11 settembre 2001, l’ho sempre trovato fuori luogo, abbastanza inutile e poco interessante.
Una manifestazione del proprio ego retorica e fine a sé stessa, insomma.
Una riflessione, però, oggi mi sento di farla.
Anche se sembra ieri, 20 anni sono tanti.
Anche alla luce di quanto il mondo è (o non è) effettivamente cambiato da allora.
Nel mio di mondo e alla luce di ciò che faccio oggi, era decisamente tutto molto diverso.
Più djing, più disco, più notti insonni.
Negli ultimi 20 anni ne ho viste tante, ho fatto cose delle quali sono orgoglioso e altre di cui lo sono meno, ho incontrato persone splendide, altre un po’ meno, altre che avrei voluto capire prima e con le quali avrei dovuto comportarmi diversamente.
Ho imparato a selezionare di più.
E credo che quell’esperienza sia stata una specie di giro di boa, una di quelle che devi fare per renderti conto di come vanno le cose e dopo le quali niente è più come prima.
Anche le persone importanti sono così.
Prima e dopo.
Oggi conduco come allora un programma alla radio (sempre orgogliosamente, questo settembre sono 35 anni), ho gli stessi capelli, qualche chilo in meno e continuo a girare come una trottola alla ricerca di me stesso.
E come allora, quando me ne vado, mi capita spesso di augurare un po’ di pace e amore.
Chissà che sia la volta buona.
☮️&❤️
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San Rocco
Oggi pomeriggio ho fatto il mio breve giro annuale al paesello, in macchina ai 2 all'ora. Mi ha sempre fatto sorridere che il santo patrono di un paese che si chiama Santo Stefano fosse San Rocco, ma tant'è. In questo periodo ci sono le giostre, la festa patronale appunto. Da queste parti ha sempre avuto una certa importanza, anche se negli anni si è notevolmente ridimensionata, soprattutto nella durata. Ho incrociato persone che conoscevo, come al solito. Tutte prese nel loro quotidiano. Non molte in realtà, è pur sempre ferragosto. Mi sono ricordato che alcune di loro credevo si sarebbero date alla macchia e avrebbero abbandonato la terra natia, raggiungendo chissà quali obiettivi e varcando un traguardo dopo l'altro. Come quella ragazza dall'espressione intensa, a tratti dolce a tratti gelida, con la quale non ho mai avuto molto a che fare che ho rivisto dopo decenni all'angolo della piazza col suo cane al guinzaglio. Stessa espressione, un po' meno ragazza e un po' meno dolce. Pensavo che il paesello non fosse proprio fatto per lei. Invece me ne sono andato io.
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Twin Peaks
Di seguito, in ordine sparso, alcune delle cose che succedevano nella mia vita nel breve periodo della messa in onda del primo Twin Peaks e che dopo 25 anni mi ha riportato in mente il suo reboot. La mia prima macchina, una Y10 bianca che un pieno durava una settimana, i viaggi verso i negozi di dischi tra Piemonte e Lombardia per raccattare buona musica e un sacco di autovelox, la casa quasi in campagna dei miei che se mi ci sforzassi un po' quasi potrei descriverne perfettamente tutti particolari e la nostra famiglia felina molto allargata, la mia tamarrissima e fedelissima morosa di allora che avevo più corna di un muflone, la mia fantastica zazzera spettinata che comunque sarebbe stata misteriosamente destinata a scomparire nel giro di pochi anni, le serate in giro per la Pianura Padana spargendo musica tunz tunz alle feste dei neo diciottenni e alle varie sagre paesane, da quella del bollito misto a quella del peperone quadrato, il mio meccanico fuori mano e i suoi pipponi infiniti sul senso della vita, il paesello apatico e la voglia di lasciarsi alle spalle la provincia smorta e inerte alla ricerca di nuove opportunità. Caspita, che ricordi.. Twin Peaks! (Come avrebbe detto Ezio Greggio manifestando stupore durante una gag del Drive In, convinto di sprigionare simpatia..)
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Comunque a me piacciono le persone. Dallo sguardo sospettoso figlio di qualche brutta esperienza fino al primo sorriso complice. Dal momento preciso in cui superi i tuoi stupidi preconcetti alla pacca sulla spalla prima di andartene. Da quando le affinità ti mettono sulla stessa strada a quando la timidezza la smette di suggerirti la mossa sbagliata. Mi piace ascoltare le storie, stupirmi delle somiglianze, delle differenze, farmi incuriosire dai percorsi di vita, dalle passioni. Mi piacciono gli occhi delle persone. Quelli di chi ami ma anche quelli di chi più distante da te non potrebbe essere. Scoprire e apprezzare tutte le singole caratteristiche dell'espressività di ogni viso, dei gesti, della prossemica. Mi piace leggere le storie delle persone, dalla biografia della rockstar a quella dell'inventore di favole per bambini, dall'evoluzione del protagonista immaginario di un romanzo alle teorie fantascientifiche del fisico da Nobel. Entrarci in simbiosi. E immedesimarmi. E gioire. E dispiacermi. E ogni volta che sento quella frase sugli animali meglio delle persone, sorrido. E mi dispiace un po' per chi l'ha pronunciata.
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Tante scuse
Poi capita che ti specchi dopo una doccia e vai oltre alla tua solita faccia di bronzo che non invecchia a parte i peli della barba e inizi a capire che il numero di persone con le quali ti sei comportato male e alle quali dovresti chiedere scusa è decisamente troppo alto. In realtà hai iniziato a rendertene conto da un po' anche se poco a poco e lo specchio non è che la conferma finale, tipo quando da bimbo smetti pian piano di credere a Babbo Natale e a un certo punto ti rivolgi direttamente a mamma e papà. Che a qualcuno in passato hai fatto tutt'altro che bene, lo capisci in un lasso di tempo mediamente lungo. O perlomeno è quello che è successo a me. Perché mi sono sempre raccontato che non si può andare d'accordo con tutti oppure che a volte le differenze sono inconciliabili e bla bla bla. Invece succede che a volte non sei preparato e non sai come gestire una situazione. E sbagli. E la tua corazza respinge. E nel descriverlo non riesci nemmeno a usare la prima persona, quasi stessi parlando di qualcun altro. La verità è che le persone a cui dovrei chiedere scusa le ho amate o stavo per farlo. Di certo non ho dato la possibilità di capire quanto dietro a un atteggiamento insopportabile in realtà ci fossero stupore, incredulità e paura. Maledetto specchio.
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Il finale telefonato
Antonio aveva imparato a dormire col mattarello ai piedi del letto. D'altronde il mattarello era l'unica arma di cui disponeva, eredità della precedente inquilina del suo appartamento fuggita troppo in fretta da un ex fidanzato manesco per ricordarsi di portarselo appresso. Probabilmente sarebbe stato più utile a lei nel caso il bastardo l'avesse rintracciata, ma questa era un'altra storia e Antonio di lei aveva perso le tracce. Un corpo contundente ai piedi del letto in realtà era più una precauzione dettata dal vivere praticamente a piano terra, in un quartiere malfamato e durante l'agosto più afoso che la meteorologia annoverasse nelle sue rilevazioni. Quindi finestre spalancate. Primo errore. Al rientro dalla festa a notte inoltrata, Antonio era collassato sul letto, ebbro di fumo e alcool, incapace di intendere e di volere. Questo era il motivo per cui il cancelletto sul retro per far rientrare Ettore, il corgi sanguemisto prelevato dal canile poco più di un anno prima e diventato in breve una delle sue ragioni di vita, era rimasto pericolosamente accostato. Secondo errore. Ettore era rientrato da alcune ore e sonnecchiava pigro sullo scendiletto. Qualche tempo prima, la padrona di casa, spaventata dall'ex della precedente inquilina, aveva ossessivamente insistito per sostituire la porta d'ingresso con una blindata. Il fastidio consisteva più che altro nel prendersi un paio di mattinate di permesso al lavoro per consentire agli operai di effettuare le misurazioni e installarne una adatta e alla fine Antonio aveva ceduto. A lavori ultimati Antonio aveva offerto a Gigi e Mario un caffè e chiacchierando del più e del meno aveva loro confidato delle finestre spalancate tutta la notte, visto che la porta blindata sì ma l'aria condizionata no, e aveva scoperto la passione di Mario per i cani di piccola taglia tralasciando di notare l'insistenza di Luigi sugli aspetti logistici del vai e vieni di Ettore, compreso il cancelletto spesso lasciato accostato. Errore madornale. Mezzogiorno di domenica 15 agosto. Antonio, decisamente più rincoglionito di un post sbornia qualunque, apre gli occhi e scende barcollando dal letto con le tempie che pulsano e il peggiore di tutti i mal di testa. La casa è mezza vuota. Le finestre sono chiuse.
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Asso di picche.
Eccomi qui. Ancora una volta nel posto più brutto del mondo. Due anni dopo l'ultima. Il posto più brutto del mondo è quel posto dove rischi di perdere qualcuno che ami e non puoi farci niente. In realtà mi è successo alcune volte nella vita. Ma ci sono cose a cui non ci si abitua mai. Per la verità due anni fa non era andata malissimo, almeno non in modo definitivo. Era andata male al mio ritorno, senza esserne un minimo preparato tra l'altro. In un modo definitivo si, ma di un altro tipo. Perché ci sono persone che si perdono proprio perché non realizzi di amarle fino a quando non le perdi, come nella più banale delle canzonette da spiaggia. E vabbè (o sticazzi), aggiungo adesso. Ma ci sono anche persone che perdi senza averci potuto fare un bel niente. Perché nonostante ti siano indispensabili, anzi forse proprio perché lo sono, succede qualcosa che te le porta via che ti è totalmente estraneo. Cioé che non immagineresti mai possa accadere. Senza spiegazione. Non è influenzabile dalle tue scelte. Ma succede, prima o poi. Succede a tutti, porca miseria. E nemmeno la superbia di esserne la causa o il rimpianto da canzonetta di prima ti possono (un minimo) salvare. Perché è così e basta. Ed è in base a quando ti succede che le cose cambiano. Che poi tutto si divide in prima e dopo. E non ti passa mai definitivamente. Dicono che il dolore ti cresce, ti fortifica, ti prepara al peggio. Quante cazzate. Il dolore ti lascia esanime, ti svuota, ti prosciuga. E non vedi l'ora che finisca e non si presenti più. Questo tipo di dolore poi, ti uccide senza sfiorarti. Ne esiste uno peggiore? Comunque sono qui. E ogni volta che ci capito, vado in tilt. E non lo sopporto. Perché non sono abbastanza forte. Perché non esiste nessuno abbastanza forte. E anche stavolta ho paura.
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Wonderful 1980s Style VHS Cover Art for Modern Television Shows and Movies
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These Flower Lamps Bloom When People Stand Under Them
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