Scrivo da una cantina. A parte il freddo, non si sta poi così male. Racconto cose belle e meno belle. p.s. nome falso
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Nell'infinita complessità di momenti di cui è formata la vita di ognuno di noi, esistono scelte facili e scelte difficili. Le scelte facili sono quelle che meno devono cambiare noi, le scelte difficili sono le imprese interiori che ci fanno crescere.
Sono piccoli e costanti atti rivoluzionari, faticosi, mossi dall'interno da una grande motivazione: voler essere Felici.
Lasciarsi andare ai dubbi è una scelta facile. Avere fede e fiducia nella Felicità, è una scelta difficile.
La prima non costa nulla. Basta abbandonarsi alla propria pancia, cercando di cambiare gli altri. Basta vedere nel mondo la causa dei propri mali, carnefice sanguinario contro di noi, vittime immacolate. Basta distogliere lo sguardo, non pensarci. O basta incolparsi di tutto, per non sforzarsi di rafforzarsi, per non investire energie, per non uscire dal torpore dell'anima.
Le scelte facili non costano molto, vengono d'istinto, sono naturalmente, purtroppo, parte di noi.
Una scelta difficile è una lotta quotidiana. Fatta di istanti. Duri. Lunghi. Ma sostenuti dalla grande forza che è la determinazione di voler essere felici.
La Felicità in sé e per sé è un atto rivoluzionario, che va ad abbattere gli stereotipi e le ricette omogeneizzate per l'appagamento che in troppi vogliono imporre.
La Felicità combatte per gli altri. Dà voce a chi non ne ha. Illumina tutto. Rende possibile l'impossibile.
La Felicità insegna a chi ci circonda che un altro mondo è possibile, dentro e fuori di noi.
La Felicità insegna ad Amare.
Voler essere felici è una scelta difficile.
Saprai fare le scelte difficili.
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La memoria dei grandi eventi ogni tanto è straordinariamente simile per chiunque, e ogni tanto cambia radicalmente. L'11 settembre 2001 metà delle persone della mia età erano davanti alla Melevisione, ad esempio. In questa pandemia, tante cose possono cambiare come ce ne ricorderemo in futuro. Aver perso o meno il lavoro, aver o meno avuto il Covid, aver o meno subito dei lutti cambia radicalmente la nostra memoria. Se il range delle possibilità va comunque da una bestemmia a mezza voce ad un urlo di guerra, ognuno di noi si posiziona in maniera diversa.
Anche la solitudine. A tutte e tutti sono mancate le persone. Non potersi più vedere dal vivo per molti molti mesi è pesato tanto. Però con alcune differenze sostanziali. Per chi vive da solo, passare mesi e mesi e mesi chiuso in casa e l'unica forma di vita che incontri è il cassiere una volta a settimana, beh. Poveri cassieri che si sono dovuti sorbire l'ansia sociale di mezzo paese. E poveri i gerani che sono diventati le uniche cose vive (insieme allo yogurt ammuffito dietro ai sottaceti) a condividere le gioie e i dolori della solitudine umana.
Oppure la solitudine può diventare la speranza, l'Eden a cui giungere con sotterfugi più o meno legali. Innumerevoli riunioni, sedute psicologiche, anche esami, si sono tenuti in macchina, unico luogo di pace. E il limite "un familiare a settimana" per l'accesso ai supermercati secondo me serviva anche a questo. Un'ora d'aria dal caos casalingo.
Nella gestione degli spazi casalinghi, a mia madre era toccato il salotto e la cucina, a mio fratello la camera e a me la cantina. Mio padre se ne scappava in ufficio, godendosi la libertà di una primavera assolata. Poi okay, la domenica il livello di entropia a cui si arrivava con tutti e quattro con relativamente poco da fare e sempre in giro a cercare di sfuggire la noia credo ci abbia insegnato molto sulla comunicazione non ostile , se si eccettua una litigata furiosa tra me e mio fratello su cosa fosse la storia sociale, a cui i miei genitori assistettero ridacchiando nel vedere a quanta follia eravamo arrivati.
Se per un po' può funzionare, dopo ti rompi il cazzo. Sempre persone intorno. In casa, persone. Code per il bagno, code per il frigorifero, code per andare in giardino a coccolare il coniglio. E se volevi andare tra i campi, c'era mezza città in passeggiata. In un momento in cui paradossalmente le persone non si dovevano vedere, proprio quando non volevi te ne trovavi circondato.
Arrivò l'estate, i miei e mio fratello se ne andarono in vacanza. Una settimana da solo a casa. Il silenzio. L'assenza di sveglie altrui. La pace. Il cibo mangiato in mutande davanti a Teen Wolf. L'Eden. Io e il mio coniglietto soli e felici a prendere il sole - il coniglio - studiando poesia del Novecento -io-. Che poi, casa libera una settimana, chissà che feste. L'unica persona che è entrata in casa è stato un mio amico etero a cui ho offerto un bicchiere d'acqua. Proprio sprecato. Buttato nel cesso. Per di più accorciando il felice isolamento andando a un seminario intensivo di storia oltre provincia. Dividersi una bozza di prosecco con uno dei maestri della disciplina non era nel depliant informativo, va bene, ma comunque ho apprezzato.
Eppure quel periodo, nella sua strana felicità, è stato bellissimo. Quattro giorni andando a trovare nonna mattina e sera per vedere come stava, per cui "solitudine" per modo di dire. E con un coniglio che dimostrava tutto il suo affetto fuggendo di corsa ogni volta che tentavo di riportalo dentro la sera, o guardandomi particolarmente torvo quando mi svegliavo tardi e non l'avevo ancora messo a pascolare.
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Un tratto di penna
Ministro Speranza e Presidente Zaia. Due persone diversissime. Un lucano albino ma rosso di stirpe, e un veneto la cui tessera di partito verde nasconde male il bianco da cui viene. Nelle biografie delle personalità politiche c'è sempre la Via di Damasco, la vocazione che chiama. Una delle più tragicomiche è quella dell'assessore veneta -nera fino al midollo- Elena Donazzan, presa a uova marce da militanti di sinistra (e da lei con commozione ricordato nel suo sito personale). Ma mi chiedo se in quel momento, probabilmente in una fumosa sede di partito per il nostro lucano o tra i filari delle vite per il doge, guardando verso l'orizzonte lontano, avessero mai pensato di quanto potere ora hanno. I colori rispondo sì a statistiche, numeri che mal rappresentano le speranze, i pianti e i lutti di milioni di persone. Ma è con un loro tratto di penna che tutto cambia. Un documento preparato arriva sulla loro scrivania. Una firma. Cose che si possono fare, cose che non si possono nemmeno immaginare e scappatoie più o meno comode. Nei grandi drammi della storia c'è sempre la nota dolce, quasi comica, come le coppie che non sanno ancora cosa sono perché un colore le separa. Diciamocelo, in lockdown erano più gli amori che scoppiavano di quelli che nascevano. Stacci tu in casa con una persona 24 ore al giorno, solo voi due e le piantine. Nel migliore dei casi, finisci ad avvelenare il ficus come vendetta per la scelta della serie da vedere. Ma se allora il futuro non si capiva - e credevamo che alla scadenza del DPCM la libertà sarebbe stata annunciata da un Conte bello soddisfatto - ora lo sappiamo. I numeretti scendono e i colori cambiano. In breve, se c'è il giallo, forse posso capire se quella persona lì è la mia dolce metà o meno. Nella noia, ci si iscrive a Tinder o a Grindr, si parla, c'è interesse, dopo un po' ci si scambia il numero, si continua. E si arriva a quel momento imbarazzante. Okay, sono due mesi che ci scriviamo. E ora? Belle le parole, belle le chiamate, belle anche le videozozzate. Bellissime eh, solo che due coglioni. Che profumo ha l'altra persona? Di cosa sa un suo abbraccio? Come se la cava con i grattini? Di notte ruba la coperta? Russa? Come bacia sto stronzo o sta stronza? Quanta lingua mette? E quello che vedo dalle foto è davvero quello che sta là sotto? No perché siam tutti bravi a rendere anche la più timida cinciallegra un rapace struzzo -giusta dose di luce e tecniche di inquadratura-, ma nella vita reale, com'è? E come lo usa? Poi, stai a Milano? A Roma? O hai la sfiga che l'unico essere che un minimo ti piace sta a Rho o a Tivoli, oppure sei a posto, in zona arancione ovviamente. Se stai nella terra del doge, eh. 'Speta e spera. E quindi coppie che aspettano. Un tratto di penna che stabilisce il loro futuro. Ai loro figli chissà cosa racconteranno. "Eh sai, ho conosciuto mamma/papà in pandemia, ci siamo scritti un bel po', ho capito che l'amavo a un aperitivo su Zoom, poi ci siamo visti, la passione era tanta e sei nato tu". Dopo i bambini del lockdown, quelli dell'astinenza forzata. Che poi, al netto di tutto, il Ministro Speranza e il Presidente Zaia ci credono davvero. Va loro riconosciuto l'avere un'ideologia un po' novecentesca, va bene, ma ce l'hanno. Poi Speranza l'ho pure votato, e ad ogni firma che fa mi sento un po' responsabile. Se prendi il 3,39%, cioè, ogni voto vale triplo. Zaia vabbè, da scrutatore ho personalmente contato lo sfracelo di voti che ha ricevuto. Come consigliere magari ti mettevano pure qualcosa con la falce e il martello, però il voto al Doge non si toglie. Quindi ve lo chiedo per piacere Lucano Albino Rosso e Doge Bianco Verde. Un tratto di penna. Perché poi ste coppie-non-ancora-coppie-aspettiamo-la-zona-gialla-e-vediamo-come-va si vengono a lamentare da me. E io, che già prima della pandemia stavo per diventare il protagonista di uno spot contro gli abbandoni di cani in autostrada (bello Zampa che elemosina del cibo all'Autogrill, ma secondo i Social Media Manager animalisti la mia faccia triste rende di più), non è che ora sia proprio sto gran corteggiamento alla Bridgerton, con sti bellocci che ti vengono a suonare a casa carichi di fiori e regali. L'unico che mi ha suonato a casa negli ultimi tre mesi è stato il vicino ottantenne con un vasetto di funghi sottolio, ringraziamento per i chili cubici di neve spalati nelle settimane prima. O forse questo è quello che vogliamo tutte e tutti credere. Che un tratto di penna, uno sgorbietto cambierà tutto. La distanza tra di noi e la pace arriverà così, in una bozza di DPCM trapelata dalle sedi istituzionali. Che sia quel minimo di inchiostro su toner su A4 su scanner regalatoci da un qualche impiegato sconosciuto che cambierà tutto, e darà agli amori non ancora nati il modo di vedere la luce.
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Inizio di racconto
Un buco di culo. Anzi, il buco di culo del buco di culo del mondo. Il nulla. Un insulto allo stesso nulla. Guardò dalla barca il triste ammasso di case, una chiesa, un campanile, un faro, un porto. Un tempo la odiava. Paesino minuscolo, nulla da fare. Bere. Bere in piazza. Bere al bar. Andare per i campi e bere. Fino a che non diventavi troppo vecchio e bevevi in casa. "Ma cossa situ drio vardar?" "Un cazzo"
Si girò. Un ragazzo biondo, che era già magro da prima della Catastrofe remava poco convinto. Tra di loro, due grosse borse di viveri, un fucile mezzo rotto, un machete che rivelava nelle crepe rossastre del filo il suo uso. Il sole stava tramontando dietro il campanile. Aveva un'aria quasi bella, poetica. Fanculo. Riprese a remare. Erano partiti il giorno prima, verso una città più grande. Da alcune voci, era deserta. L'esplosione di un grosso deposito di gas avrebbe allontanato i selvarech di alcuni chilometri, attirati dal rumore. Per pochissimi giorni, viveri e attrezzi prima impossibili da raggiungere sarebbero stati accessibili. Non avevano trovato molto, se non selvarech e cadaveri. Vari chili di pelati, qualche cioccolata, tonno, pasta, riso. Il resto era ormai marcio, o semplicemente mancava. Arrivarono. Due guardie sorvegliavano il porticciolo. Erano due uomini, sulla trentina, mal vestiti e armati di pistole che avevano visto giorni migliori. Ma avevano il petto bello infuori, belli carichi, come se fossero due militari ormai in carriera a sorvegliare un deposito di armi nucleari. "Chi va là!" "Siamo noi, coglione" Il biondo tirò in barca i remi, salì sul porticciolo e legò le cime. "Avete portato solo questo?" chiese il più altro tra le guardie. "Non c'era altro" "E le voci sul supermercato abbandonato?" "Voci vecchie. Era stato già svuotato, dentro c'erano solo due selvarech morti" Presero i borsoni, risalirono il molo e si dirisero verso la vecchia scuola elementare. Attraversarono la piccola piazza del paesino. La chiesa a destra, il vecchio municipio a sinistra. Un alimentari polveroso, un bar con scritte in cinese. La scuola lì davanti. "E ME TARI E. S I" spiccava sopra il muro. Vento e salsedine si erano portati via le lettere molto prima. Un gruppo di uomini e di donne era dentro la vecchia palestra. Nessuno di loro aveva fatto un pasto decente da settimane. Chi parlava, chi riparava reti. Si girarono a guardarli. Un sospiro triste. Le poche provviste vennero subito divise. Nessuno chiese loro nulla. Né i due parlarono. Così andavano le cose. La cioccolata venne subito data ad una delle ragazze, il cui pancione risaltava sul corpo magro. Una vecchia li prese da parte. Non avrà avuto più di 65 anni, ma la salsedine e i dolori della vita l'avevano fatta invecchiare prima. I capelli biondi erano raccolti da una treccia bassa. Il vecchio camicione che indossava era ricoperto di macchie scure. "Quanti selvarech?" La voce era scura, quasi maschile. Il timbro gracchiante di chi ha a lungo fumato non nascondeva, oltre a una sincera preoccupazione, anche il sollievo di aver visto tornare i ragazzi. "Pochi, erano ancora lontani" ripose il biondo. "Nel supermercato non c'era altro?" "Il cibo era scomparso. Le voci erano vecchie" Stettero in silenzio. Poi un sorriso, che diede un po' di luce alla ragnatela di precoci rughe che le copriva il volto. "Mi avete fatto quel piccolo favore?" L'altro ragazzo annuì, e tirò fuori dallo zaino un sacchetto pieno di piccole scatole. La donna le prese di fretta. Smise di sorridere. "Queste sigarette fanno schifo" "Gli altri raccoglitori avranno avuto i tuoi stessi gusti" Sbuffò. "Grazie ragazzi" Diede una carezza veloce al biondo, un moto di ruvido affetto. I due si allontanarono. Le sere si stavano allungando, c'era ancora un po' di luce. Uno pensa che dopo l'apocalisse i villoni con piscina siano tutti liberi, con letti appena rifatti pronti ad accoglierti e tante provviste. No, nel migliore dei casi, ci sono almeno tre selvarech dentro pronti ad aspettare i cretini che si rifugiano lì. E i topi hanno già mangiato il cibo, per cui non hai nemmeno il lusso di morire con la pancia piena. Se sei fortunato, ti ritrovi in un piccolo paese con massimo massimo altri trenta sopravvissuti. Ti proteggi a vicenda, ti aiuti, raccogli e dividi le provviste. Costruisci un muro che offre una dubbia protezione, ma nessuno si cagava quei luoghi prima e nessuno se li cagherà nemmeno adesso. Finisci così in vecchie case, a cagare in un vaso da svuotare ogni volta che lo usi in mare. E se mangi cibo scaduto da un po', beh, questo capita molto più spesso di quanto immagini. Non si conoscevano molto prima. O meglio, sì. Conoscevano i loro nomi, avevano un paio di amici in comune. Forse erano pure cugini, alla lontana. Errera, il biondo, aveva lasciato la scuola, portava i turisti in giro per il Delta su una piccola barca d'estate. Conoscere molto bene quel gigantesco acquitrino può salvarti la vita in un apocalisse. L'altro, Zorli, era scappato dal paese. Essere per anni chiamato "La Donzella del Po" non lo metti nelle brochure turistiche per attirare persone. Certo, se fosse rimasto a Padova a quest'ora sarebbe morto, ma sono fortune passeggere. E ormai a nessuno gliene fregava più nulla del fatto che fosse gay. Il mondo cade a pezzi, strani esseri si aggirano per le strade e la carta igienica è finita da mesi. Abbiamo ben altri problemi. Salirono in quella che era la vecchia casa di Errera. Un appartamento tranquillo, due camere, un bagno ormai inutilizzabile, un salotto. Dopo un mese di lavoro, erano riusciti a installare una stufa a legna per il prossimo inverno, che serviva anche da cucina. Il legno, per ora, non mancava. E chi lo sapeva che i mobili Ikea non bruciano poi così male. Si fecero un uovo in due. La prima volta che Zorli era entrato lì, Errera non c'era. Su quello stesso divano dove ora masticava piano l'uovo, lui e il fratello del biondo avevano passato il pomeriggio. Una canna, biscotti, birrette. Qualcosa di più di un abbraccio. Era stato il suo primo morto. Zorli era scappato da casa, quella che era sua madre stava cercando di ucciderlo. In mezzo alla strada lo vide. Corse più forte, felice, voleva abbracciarlo. Vide occhi iniettati di sangue. La bocca aperta in un lamento continuo d'odio. Uccidere è difficile. La maggior parte dei soldati spara in aria in battaglia. Quando tua madre ha appena cercato di toglierti la vita e l'unico ragazzo per cui hai mai provato qualcosa vuole mangiarti il cervello, non vai tanto per il sottile. Gli animali hanno tre modi di difendersi. Attacca, scappa, fingiti morto. Scappare non puoi. Fingerti morto non serve. Attacchi. Non c'è il ragazzo che amavi. C'è una bestia che vuole ucciderti. Corri. Vedi un sasso. Lo afferri. Spacchi un cranio. Il rantolo si ferma. Colpisci di nuovo. Una lacrima. Corri. Abbandoni dietro di te quel corpo amato. Cerchi di dimenticarlo. Nelle mani hai ancora il suo sangue e i suoi capelli. Aveva incontrato così Errera piccolo. Stava scappando anche lui. Vedendo il cadavere del fratello capì. I genitori lo stavano seguendo, le stesse bocche aperte in urla d'odio. Scapparono insieme, arrivarono al molo, presero la barca e andarono a largo. Trovarono altre imbarcazioni di sopravvissuti. Tornarono in paese insieme. Lavò i due piatti nella poca acqua del secchiaio. Errer�� tirò fuori della vodka, il premio per la loro impresa. Finì presto. Solo il mare da fuori faceva sentire le sue onde.
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Il mondo fuori
Vivere tra i monti ogni tanto fa dimenticare che esiste l'orizzonte. Ti svegli la mattina e hai il rosa delle Dolomiti a rallegrarti la giornata. Cammini e i tramonti dietro le cime innevate o le foreste che si colorano d'autunno ti fanno sentire in un dipinto. Però, tra quella bellissima muraglia rocciosa e l'oggettiva difficoltà di superare i valichi, eh, un po' ti adagi. Sei nato qui, sei sempre vissuto qui, ci stai pure bene. Arrivi a un punto in cui lo odi, spesso, e hai bisogno di scappare, di vedere l'orizzonte che c'è dietro quel gigante di roccia e ghiaccio che con benevolente indifferenza ti vede tentare di dare un senso alla vita.
E vai, scopri, vivi. E' bello il mondo fuori eh, bellissimo. Un po' strano non sapere sempre dov'è il Nord, e l'aria in pianura non è certo la brezza che scende dalle alte vette. L'acqua poi sa più di cloro che di allegra merda di stambecco, ma ci sta.
Più identità, più persone, un cambiamento continuo, un costante fiume di cose persone idee emozioni che stona un po' con la chiusa valle, così immobile, così ferma, così piccola. I fiumi di cose ci sono, ma sanno di torrente. Arriva a una certa, si gonfia, esonda, fa danni, sta un po' lì tranquillo senza rompere il cazzo ad anima viva, poi pian piano si secca. Se è un fiume-fiume, grosso, continuo, ci hanno già messo una diga a fine anni '50, quindi poco ti tange. E se già andava a due velocità il mondo, monte - ma che qui sta per piccolo, per paesino, provincia - immobile, e città, veloce, iper-veloce, ora lo sembra di più. All'inizio era quasi bello. Okay, tutto chiuso, ma i campi stanno qui. Dal piccolo giardino in cui io e il mio coniglietto pascolavamo durante la strana e assolata primavera, ho visto passare metà della mia cittadina, che da un parcheggio vicino mi passava davanti per poi nascondersi in piccole stradine verso una montagnola poco lontana. Se pensavo ad amici o parenti chiusi in appartamenti di città, con poco verde intorno e le brevi speranze di uscita dovute alle pisciate del cane, mi ritenevo quasi fortunato. In 184 metri arrivavo comodamente in un angolo nascosto di verde, in cui prendere un po' d'aria ammirando le montagne primaverili. Ora? Eh. A colori variabili la vita va avanti. E a zone variabili. Là il mondo continua, le cose succedono, le persone cambiano, la nuova normalità sembra avere senso, profondità, portare a qualcosa. Il fiume sta ricominciando a scorrere, un po' scosso, un po' timoroso, riempiendo gli argini feriti. Dalle brevi finestre sul mondo di là, oltre il gigante di ghiaccio e roccia, si vede il mondo andare avanti. E qui? Non c'è risposta. Prendi, mezzo incazzato, vai, cammini, ritrovi le orme sulla neve che già hai scavato nei giorni prima, le riscopri, ti agevolano il cammino che è sempre più veloce. Arrivi in un angolo, non c'è nulla. Guardi in alto. Il cielo e le Vette. Non trovi una risposta. Non c'è. Forse non è questione di alto e basso, di colori variabili. Il mondo ovunque va avanti. Più o meno. Le Vette sono lì. E saranno sempre lì. Le guardi. Le giornate si saranno sì allungate, ma non troppo. Già il rosso le prende, le avvolge. E senti che anche tu sei avvolto da qualcosa. E forse lì c'è qualcosa. Nel tuo sguardo, in quel rosso e ghiaccio riflesso negli occhi. Forse c'è una risposta.
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L'autonomia è una cosa bellissima. Il poter decidere cosa mangiare, quando, come, dove. Lavare le proprie cose, i propri spazi, poter riflettere tranquillamente sul senso della vita mentre si fa la polvere in giro.
Non sono un maniaco della pulizia e dell'ordine, e spesso durante le sessioni l'appartamento diventava un letamaio. E giù di litigate tra coinquilini, fino a che le pause post esame diventavano grandi pulizie in cui ringraziavi gli inventori della candeggina. Poi tutti saltavamo i turni, c'era caos, altre litigate. L'edificio del 1947 e i mobili della nonna del nostro affittuario non aiutavano certo a mantenere alti standard igienico sanitari. Eppure, in quella battaglia tra pigrizia e volontà, si stava bene.
Viene Febbraio, e il mondo è a capo chino. Per tre volte, con valigia, borsone della spesa e zaino, stavo per andare in stazione. Per tre volte, mi sono fermato alla porta di casa.
Alla fine le scatole di pelati, la pasta, le fette biscottate hanno trovato posto nella dispensa di casa. La Nutella da mezzo chilo e i sacchettini di ragù surgelato (il personalissimo "pacco dai monti" gentilmente fornito da mia nonna), che avrebbero dovuto dare conforto nei lunghi giorni in città, sono diventati bene comune della famiglia.
Negli strani giorni tra la fine di febbraio e la fine di marzo, però, non volevo arrendermi. Dopo due anni e mezzo di piatti improbabili, intossicazioni da Vetril e vestiti scoloriti (tutt'ora non credo nel dividere bianchi da colorati, lo so è un errore ma non ci credo), volevo continuare la mia vita come prima. Ma con dei problemi. Mi addormentavo sul divano mezzo morto la sera? La sveglia arrivava alle sei del mattino con mio padre che mi sgridava. Volevo rimanere a dormire in camera? Alle sette venivo cacciato da mio fratello che aveva le videolezioni. Sì, perché l'unico stronzo diciannovenne che ha lezione alle 8:30 e si sveglia alle 6:50 per prepararsi ce l'ho io in camera. Mi ri-trasferisco sul divano a dormire? Eh no, mamma si è svegliata e deve fare lezione ai suoi studenti. Alle 8, con un caffè e tante bestemmie, in cantina davanti al PC. L'unico semestre della mia vita con tutte le lezioni dalle 12:30 in poi sprecato così, con la copertina a vagare per casa. Mangiare da solo quello che volevo? No. Pranzare e cenare insieme hanno valore sacrale nella mia famiglia. Guai a saltarli. Anche perché è l'unico momento in cui siamo tutti insieme. E ormai che fai da mangiare, fallo per tutti. Quindi addio strani pastrocchi immangiabili che però mi rendevano felice davanti a Netflix.
Arreso su quello, e trovato un patto con i miei sul pulire ("va bene, userò meno candeggina, madre e padre, avete ragione"), rimaneva la lavatrice.
C'è chi dirà: "beh, ma la magia di trovare i vestiti belli puliti e stirati in un cassetto già per te?". Un cazzo. E' una questione di principio. Le mie mutande le lavo io. Mesi e mesi di battaglia. I miei genitori sono finiti a rubarmi i vestiti sporchi dalla sacca -ben nascosta- in cui li tenevo. In un'occasione, stavo per mandare la lavatrice, c'era ancora posto, vado di là a prendere un paio di pantaloni, torno. Metà vestiti a terra, lavatrice mandata con altre cose, mia madre che con sguardo colpevole mi fissa. Ad agosto mi sono arreso. Hanno vinto.
Ad aprile ne ho parlato a lungo con alcuni amici. Studenti fuorisede, pendolari, o anche padovani doc che però ora erano sempre fuori casa. C'è stato per tutte e tutti questo lento e prolungato shock, questa perdita di autonomie e libertà anche un po' stupide, che a pensarci sono fin strane. Però avevano un senso. Farsi catturare dagli sconti inutili della Pam. Non dover negoziare col proprio padre la quantità di peperoncino ammessa in un piatto. Ritrovarsi alle 22 senza un cazzo in frigo, e affamati rivolgersi ai vicini - ricordando loro i due chili di caffè che nel corso degli anni erano stati prestati -, o cercare su Gloovo un qualcosa da mangiare che faccia comunque quadrare i conti. Poter fumare sul proprio divano, litigando con i coinquilini per questo sacrosanto diritto (a seguito di lunghe discussioni, la mediazione trovata era: "in estate, va bene. In inverno, andate in cucina"). Trovarsi alle 4 a guardare una serie stupida tutti insieme perché ormai va finita. O passare un intero pomeriggio a sbrinare il freezer. Le stesse litigate per i turni di pulizia saltati.
Non le cose più grandi, ora inimmaginabili, come tornare dopo lavoro alle 2 del mattino, bussare ai propri vicini per l'ultima sigaretta, ritrovarsi in una festa con 30 persone di cui ne conosci 2 e ritrovarsi tre ore dopo con mezza bozza di vino in mano a mediare con il vecchio del piano di sotto, giustamente incazzato. Ma le cose stupide, ingenue, infantili nel loro destreggiarsi in una strana libertà.
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Patel et al., "Beauty and the Mask"
Capita spesso che in coda alle casse ci si perda un po' via. La musichetta indistinta che fa da sottofondo alla ricerca degli sconti, le liste semi-infinite da cui scappano sempre beni fondamentali, il tripudio di prodotti di pulizia che mi lasciano sempre perplesso. Se poi, come spesso capita, la lista è fatta da altri familiari, Google deve correre in aiuto. Per capire cosa fossero "le svizzere", o strane marche che hanno smesso di essere prodotte nel '95, spesso nemmeno Google basta, e la solenne massima "chiedi e ti sarà dato" diventa la maledizione dei commessi e delle commesse. Così, alla fine delle capitalistiche fatiche di destreggiarsi tra sconti-non-così-sconti e la tentazione di nascondere un amaro per le lunghe sere d'inverno nelle altrettanto lunghe pieghe dello scontrino, la mente placidamente vaga nei pensieri più stupidi, e capita di soffermarsi ad ascoltare le conversazioni tra chi sta in cassa e i clienti. La cosa bella di un piccolo paese è che, conoscendosi un po' tutti, si può tranquillamente indugiare in chiacchere e racconti anche imbustando con cura le uova. Di solito si parlava del più o del meno, del tempo, delle offerte a punti, della presunta bontà della zucca in offerta. Da marzo scorso, vuoi perché l'unico luogo di socialità a lungo concesso è stato appunto la corsia del supermercato, vuoi perché dopo quaranta anni che fai la spesa nello stesso posto di che cazzo vuoi parlare ancora e la zucca ti fa pure un po' cagare, la pandemia è entrata di rigore nelle brevi ciacole tra le zucchine pesate male e i surgelati di cui non si legge il codice a barre. Una volta, mentre vagavo pensando alla situazione geopolitica della mensole (o meglio, il livello di entropia che potevo permettermi prima che "Una democrazia possibile" mi cadesse in testa), la discussione cominciò a vertere sui "vantaggi delle mascherine".
Poter sbadigliare in pubblico, facile, veloce, senza l'imbarazzo di mostrare le vergogne che solo un gastroenterologo o un dentista dovrebbero vedere. Poter combattere la brevità della pausa pranzo continuando a masticare con lieve pudore mentre si rientra a lavoro. Un buon modo per proteggersi dal freddo senza sembrare un ladro in passamontagna o un motocilista fallito. Un notevole risparmio in rossetto, lucidalabbra e burro cacao. Mentre tornavo a casa, carico di borse e già pentendomi dell'amaro alla liquirizia in offerta, ci riflettei meglio. Da marzo, tra social distancing e mascherine, addio all'alito cattivo altrui e all'ansia repressa del "forse ho sbagliato a mangiare aglio olio e peperoncino prima di uscire". O arrivederci alla fatica di dover decifrare i segni imbarazzati che altri ti fanno per segnalare la scomoda presenza di un pezzettino di prezzemolo tra i tuoi denti. Ma soprattutto, addio alla fatica di perfezionare i sorrisi finti incontrando persone. Basta un ghigno alla Joker che in qualche modo arrivi fino agli occhi e hai vinto. Tu gli auguri la morte e lui non se ne accorgerà nemmeno. Oppure il poter, con un labiale degno dei migliori film muti, insultare Sant'Ableberto, vescovo di Cambrai e Arras, senza che l'eventuale interlocutore se ne accorga, soprattutto se ti sta chiedendo per la decima volta "Scusami, sai per caso dov'è il LavaInCera leggero al Cedro?". O il poter canticchiare per strada senza che un seriamente preoccupato automobilista si fermi ad accertare le tue condizioni psicofisiche, soprattutto dal momento in cui l'ala di psichiatria fa da sfondo alle tue perfomance canore. Poi, sì, sono scomode come la merda e chi porta gli occhiali credo passi metà del suo tempo a insultare lo sventurato che, mangiando un pangolino, ci ha condannati a tutto questo. Però dai, alle volte sono anche belline. Da quelle un po' imbarazzanti col Leone di San Marco (di cui una è da me gelosamente conservata come prova del nazional-provincialismo veneto) ci siamo evoluti. Paiette e macchie di leopardo per le signore che non temono la propria età, squadre del cuore per vecchi aficionados, loghi aziendali per i dipendenti modello, personaggi dei cartoni animati per i bambini. Ogni tanto capita che ti dimentichi pure di averla addosso, e finisci a tentare di riscaldarti le mani con il fiato, ritrovandoti pieno di vergogna e ringraziando il cielo che solo la tua mascherina e le brutte azalee che ci sono ritratte sopra ti hanno visto. E ha pure reso felici i chirurghi estetici. Uno potrebbe pensare che le operazioni alla parte bassa del volto siano aumentate. Nelle settimane dopo un'iniezione di botox, di solito, le labbra non sembrano belle e levigate canoe venezuelane, ma petroliere texane che si sono un po' lasciate andare. Prima, indossare una mascherina così a caso per strada ti faceva sembrare un igienista dentale uscito di fretta da lavoro. Ora, con il botox ben nascosto dal Leone di San Marco, sei solo un bravo cittadino che rispetta i DPCM. E dopo la pandemia potrai dare il merito a impacchi di zenzero o ad altre cure naturali miracolose. E invece no. Essendo gli occhi l'unica parte visibile agli estranei, è proprio lì che si stanno concentrando le operazioni. C'è un altro vantaggio mascherato. Molto tempo fa, nel breve periodo in cui le biblioteche sono tornate aperte, stavo facendo pausa con un altro studente, in un momento di comune disperazione. Commentando la nuova bibliotecaria, se da parte mia il "è un sacco carina" stava a significare, da bravo omosessuale che alle volte si dimentica che per un etero le parole hanno altri significati, la sua disponibilità, la gentilezza, la simpatia, per l'altro "carina" era nel suo vero significato etimologico. "Si ma no". Nel senso, con la mascherina, era figa, senza, no. E mi raccontò di quante altre volte questa stessa situazione si era presentata. E a quanto pare, è vero. Accompagnato dal liquore alla liquirizia (fa schifo, ma piace), ho scovato questa ricerca in cui dimostrano che, con mezza faccia coperta, siamo tutti più fighi.
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La sindrome della stradina
In alcuni periodi, per i motivi più vari, può succedere che la nostra vita si riduca ad alcune specifiche cose, ad un piccolissimo spazio (geografico e/o mentale). Un micro universo. Una stradina. L'espressione la copio da mia nonna, che a 88 anni mezza cieca e mezza sorda, non è che si faccia proprio 'sti gran interrail per il mondo. Eppure ha una vita sociale attivissima. Lei e le vicine, quasi tutte ormai vecchiette, si trovano sempre, a parlare, a giocare a carte, a commentare i grandi avvenimenti del loro piccolo e personalissimo mondo: la stradina. Ogni cosa, ogni cambiamento per quanto minimo, è analizzato, studiato, disinnescato nel suo potenziale rivoluzionario. E, se ci penso, ha pure senso. Una volta che il tuo intero universo si riduce a 100 metri, anche la minima fioriera che cambia è un avvenimento epocale. Per non parlare poi della geopolitica delle tende, o delle negoziazioni diplomatiche sui parcheggi. Ci possono essere anche risvolti che fanno un po' sorridere nella loro dolcezza: il gatto di mia nonna che viene trattato come una star, coccolato e viziato da tutte. Prima della pandemia, alle 20 aveva l'appuntamento fisso con una delle vicine: veniva preso in braccio, portato in casa, una sardina per farlo stare buono e mezz'ora abbondante di gioco. Non serve essere obbligatoriamente una 88enne per avere la "sindrome della stradina". Può succedere a chiunque. Basta che l'intero mondo rimpicciolisca, per i motivi più vari.
Per lavoro, e quindi la "stradina" assume le forme di un ufficio, di una linea, di un negozio. Per studio, e quindi "la stradina" si dematerializza e diventa la sessione, l'esame, la tesi, le lezioni. Oppure una relazione, un gruppo di amici, uno sport, una gara in arrivo. Il minimo comune denominatore è che il mondo si riduce tantissimo, e ogni piccola cosa che succede è considerata immensamente più grande. Può avere risvolti immensamente positivi, una grandissima attenzione ai dettagli ad esempio. O rivelarsi molto dannosa, con il minimo errore che diventa una catastrofe che porrà fine alla vita umana, canina, bovina e felina. Rimarranno solo conigli e tartarughe sulla terra, a fare gare di corsa tra di loro. Col tempo, ho iniziato a raccogliere esempi di "stradine" nelle persone. Dal proprio cane ai propri figli, al proprio giardino o al pianerottolo comune in condominio. O anche un negozio di articoli sportivi, assunto a riferimento geografico principale per la somma di passione sportiva più gruppo di amici più luogo in cui in effetti la persona che me ne ha raccontato passava un sacco di tempo, pur non lavorandoci. La "sindrome della stradina" è simile al provincialismo in alcuni tratti, pur soffrendone anche persone di grandi città. Una certa ingenuità di fondo mista a diffidenza per il mondo esterno. Un'estrema attenzione e partecipazione emotiva a cose che chi viene dal fuori della stradina riterrebbe se non stupide, quanto meno non degne di tale importanza. O forse, analizzando meglio, il provincialismo non è altro che una "sindrome della stradina" allargata. Forse una "sindrome della statale", ecco. E anche un certo tipo di "globalismo", di ricerca spasmodica del mondo, può forse nascere dal rifiuto di quanto è piccolo, paesano. Una "sindrome della stradina" anche questa, ma al contrario. Che poi, aggiungo io, tutto il mondo è paese. E ogni paese è fatto di stradine. Scappa scappa ma sempre in una stradina ti ritrovi, che sia "via Giovanni Prati" di Buco di Culo sul Fiume del Cazzo o "Mediterranean Avenue" di Big City in a Big Continent. Adesso però, non devo essere così cattivo. Potrebbe essere la soluzione a tutti i nostri mali. Se "la stradina" diventasse il mondo intero, avremmo vinto. Se lo stesso engagement emotivo che ho visto applicarsi a "quello è il mio posto auto!" o ai diritti di precedenza sulle stampanti o sulle macchinette del caffè si applicasse al riscaldamento globale, in cinque giorni avremmo risolto tutto, e al posto del litigio sul posto auto sentiremo tante urla sul posto bici. Chi scrive non è affatto estraneo alla sindrome. Ne sono un cultore, un ammiratore. E spesso ne ho sofferto. Oggi ad esempio volevo del te. In casa era finito, e, dovendo già andare a fare due commissioni per mia nonna, avevo l'occasione per uscire e comprarlo. Fatte le commissioni, mi dirigo nel classico negozietto biologico fancy liberal che tanto piace agli snob di provincia come me. Una parete intera di te mi si para davanti, da cose impronunciabili e credo pure di dubbia bevibilità a rivisitazioni di tisane tradizionali di montagna. Ne prendo alcuni di classici e poi lui, proprio lui. Arriva in tutto il suo splendore. Te bianco. La giusta dose di tradizionalità: è un Te, di un colore che appartiene allo spettro visibile, so pronunciarne il nome tutto sommato bene. Ma ha questa cosa strana. È bianco. Mai visto e sentito. Lo prendo e felicissimo mi dirigo alla cassa. Corro a casa, mangio di fretta, già pregustando la straordinarietà di questa strana cosa, vecchia ma al contempo nuova. Scaldo l'acqua e aspetto felicissimo. Assaggio. Fa cagare. Bene. Sono caduto anche io nella stradina.
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Cronòtopi e Musica
Noi italiani abbiamo un modo strano di pensare lo spazio. Da qui alla stazione? 20 minuti. Non chilometri, miglia, leghe, piedi. Minuti. Sempre multipli di 5. Spesso arrotondati belli tondi. Per andare in centro? 15 minuti. Da qui all'ospedale? 5 minuti massimo massimo massimo.
Vorrei proporre un altro modo per misurare lo spazio e il tempo. Le canzoni. Ogni canzone dura circa 3 minuti (più o meno eh, poi variano ma va bene così). Quindi 3 minuti (o 200 metri) = una canzone.
E non è troppo difficile farne i multipli. Il metro ha i chilometri, la canzone può avere LP (5 canzoni) e l'album (10). Poi più o meno, mica ci dobbiamo costruire ponti o case.
Quindi, semplificando di nuovo, una canzone sono tre minuti.
Prima scandivo così la mia vita. Cuffiette e via. Appartamento-Facoltà, a piedi 4 canzoni in bici 2, 1.5 senza traffico e con la giusta combinazione di semafori. Aula studio preferita? Eh, 7 canzoni, un LP e qualcosa, ma dai, c'è sempre posto ed è comodissima. Aula studio - Supermercato - Appartamento? Allora, 5 canzoni prima, poi, se mi sono fatto la lista, me la cavo con, si dai, con 4 canzoni, casa in 2, metto a posto la spesa in altre 2, e facendo da mangiare mi ascolto quel podcast lì, di cui mi hanno parlato bene. Appartamento - Bar. Eh, fa freddo, vado di corsa, boh, sí in 4 canzoni a farla lunga ci sono. Tornare a casa casa tra i miei monti? Beh, 5 canzoni fino alla stazione, due album in treno, altre 8 canzoni se me la faccio a piedi. Se mi vengono a prendere in macchina, dalla radio altre 2.
Che poi, non tutti i luoghi avevano la stessa melodia. In aula studio o in biblioteca, musica classica. Che poi non so un cazzo di musica classica e finivo ad ascoltare sempre le stesse 8 canzoni, che diventavano un tutt'uno con quanto studiavo. Braudel? Chitarra Andalusa. Il pensiero storico religioso? Ibsen. Storia della Filosofia? Scarlatti.
Prima di un esame, Levante. Camminando, indie a caso. A letto la sera, cantautori di anni passati.
Ora è un casino. Che faccio? L'unico tragitto è letto - bagno - cucina - bagno - cantina. Davvero. Che poi si riduce alle scale. Potrei ascoltare musica facendo colazione, ma la mattina la mia anima snob si sveglia prima di me. E giù di podcast del New York Times o della BBC per fare il poser. Da un po' anche Tienimi Bordone, perché il Post è una figata. Tanto ci capisco una parola su tre (di quelli in inglese, ma non è che Bordone sia più comprensibile), se anche i miei familiari mi parlano sotto, non è che perdo molto. Quindi ho le scale. E qui entrano i sottomultipli della canzone, e di musica ne so troppo poco per averne di veri e sensati. Mezzo ritornello? Due versi? Una strofa se odio particolarmente la vita e non ho voglia di studiare? Beh ci sta.
Non so. Forse è anche comodo così. Su una sedia, ho tutto. Lezione, aula studio, biblioteca, bar con amici, tavolo di lavoro. E se proprio voglio farmi una pausa, si va per campi a fare due passi. Senza musica però, che tanto ci sono gli uccellini, il venticello, gli asinelli che ragliano come disgraziati e ti fanno rimpiangere il 42 che passava solo la domenica perché era un autobus troppo straccione per girare gli altri giorni e anche BusItalia ne aveva pietà.
Boh adesso è tardi, risalgo le scale. Forse sono stato troppo cattivo con il ritornello. In fondo è comodo, le parole si sanno, è facile da canticchiare. Solo che poi, con le cuffiette, anche se è notte non mi accorgo che forse il volume di voce è un po' alto, e forse mio fratello si è appena messo a dormire, e forse mi manderà a fanculo da sotto le coperte con minacce e bestemmie indistinte.
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Pace
A volte si riesce ad essere felici. Si scopre una tranquillità, una sorta di strano e piacevole torpore nell’animo. C’è forse anche un po’ di imbarazzo, scegliere come comportarsi, cosa fare per non intaccare questa cosa così fragile.
Arrendersi alla pace è rischioso. Appendi la spada, ti togli l'armatura, ti sdrai bello tranquillo sul divano. In guerra non hai avuto molte occasioni di pulire. Farà tutto un po' schifo, le lenzuola vanno cambiate, le tende pulite, i piatti si saranno accumulati, il frigo sarò vuoto. Decidi di ordinarti qualcosa, passi mezz'ora a deciderti sulla pizza, aspetti davanti al catalogo di Netflix cercando quel film che sono mesi che vuoi guardare. Arriva il fattorino, campanello, coperta giù, mascherina su (la guerra sarà anche finita, la pandemia no), soldi, mancia, mascherina giù (dannato vaccino che tarda ad arrivare), coperta su, pizza, birretta (ogni bravo guerriero ne ha una scorta fidata). Ti ritrovi a ridere, felice. Se sei una di quelle persone che non mangia le croste, queste si accumuleranno. Poi ti ricorderai dell'altra scorta, quella non alcolica, quella ben nascosta in un vasetto dietro il tonno in dispensa, quella che nascondi meglio quando i tuoi vengono a trovarti, sperando non si mettano a cercare tra le conserve scadute che tieni apposta per fare da muro ai loro occhi.
Metti in pausa, ti alzi, recuperi il vasetto e gli strumenti, e mentre il film ricomincia accendi. Se sei quindi una di quelle persone che non mangia le croste, questi tuoi resti si dimostreranno utilissimi. Se invece le hai mangiate prima, allora ti dovrai alzare di nuovo, dimenticandoti di mettere in pausa il film, e sperare che i biscotti in fondo, nonostante la polvere, siano ancora buoni. C'è scritto solo "preferibilmente entro", mica "non mangiarli dopo sta data, coglione, che poi caghi sassi e dai la colpa a noi". Torni sul divano, mandi indietro il film. La scena è lenta, e lì fai l'errore supremo. L'unica cazzata da cui tutta la situazione voleva proteggerti. Dai. Hai pure dato fondo alle scorte nascoste, non farlo. E invece, da scemo, ti metti lì, a controllare le storie. E vai, e vai. E sai quello che vuoi cercare, che hai bisogno di un motivo per smettere di essere così felice, e sai che lo stai per trovare, che l'algoritmo dannato te lo porterà, e che quella sera di pace che ti sei ritagliato sta per scomparire.
Appaiono i volti che cercavi. La rabbia sale. I ricordi pure. E in 15 secondi, fine. Li hai visti, hai rotto la tua pace. E' finita. Spada e corazza su, mascherina sotto l'elmo (i DPCM sono chiari, non importa la guerra, metti sta cazzo di mascherina). E ti scopri, ti ritrovi a seguirli solo per questo, per provare rabbia e dolore, per distruggerti la pace. Il film nemmeno lo finisci, tanto avrà un finale del cazzo in cui tutto sono “felici e contenti”, ma vaffanculo. I biscotti non li vuoi più. La fumera di cui sei circondato ti serve solo ad anestetizzare l'odio.
E bene, è finita. Domani ti sveglierai di merda, cagherai sassi, e comincerai a pulire. Forse però, passando il mocio, un messaggio arriverà. E forse, sempre forse, al quinto caffè e alla sesta pausa in bagno, prenderai il tuo cazzo di cellulare e schiaccerai "non seguire più". E vaffanculo. E magari, quella sera per festeggiare, oltre all'insalata salutare, un nuovo attacco alle scorte, quelle lì, quelle che non hai ancora messo a posto. E da guardare, per conciliare il sonno, il sequel del film. O forse un buon libro. E lì, nel tuo lettino, prima di addormentarti, forse allora la troverai di nuovo, arriverà a cullarti il sonno. E con un sorriso dormirai, di nuovo in pace.
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“Dio mio, non sono certo un pozzo di scienza; ma sento di poter dire con una certa tranquillità che a infestare ogni uomo sulla faccia della terra siano nient'altro che le sue paure.”
— Le stanze dei fantasmi.
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A tempo determinato
Un volto, reso azzurro dal telefono, apparì nella sera di un febbraio.
Una notifica lo colpì come una spina. Rispose a chi lo aspettava dentro, a metà fra il distratto e lo scazzato.
Stavano per iniziare, così gli dicevano. Ci sarebbe stato il tempo per una sigaretta?
Sorrise. Da quando la puntualità lo interessava?
Sentì dei passi avvicinarsi nel buio, non ci prestò attenzione.
“Ehi, non è che avresti da accendere?”
Si voltò. Un viso sorridente era davanti a lui. Capelli corti, metà di quel candore lucido della neve la notte, metà l’indefinibile grigio della cenere, quando piove bagnata. Gli occhi luccicavano, le labbra erano ancora aperte per le parole appena pronunciate. L’espressione era tranquilla, forse giocosa. A un occhio più attento, però, c’era un che di nascosto. Come una ferita non del tutto guarita, che faceva ancora triste dono di fitte nascoste.
“Certo” rispose sorridente.
La fiamma pallida dell’accendino riempì di luce e suono il freddo e vuoto piazzale.
Cominciarono a parlare, di cose sceme in realtà. Le classiche ciacole del più e del meno, spesso più vere di tanti dialoghi fra persone care.
A sigaretta finita, la salutò. Ma poi, si girò un momento. “E buon San Valentino”
“E’ davvero San Valentino? Non me n’ero accorta” sorrise stupita.
“Nessuno ti ha ancora fatto gli auguri?”
“Eh… no”
“Non ancora allora. Aspettami qui un secondo”
Corse. Dall’altra parte della strada c’era un ragazzo bengalese, con un mazzo di rose. Ne prese una velocemente, e tornò tra le sue risate divertite. Un paio di passanti, una coppia giovane e alcune ragazze si erano fermati a fissare la strana scena.
“Facciamo le cose fatte bene” disse col fiatone. “Siamo qui, da soli, a San Valentino. E tutti ci meritiamo un po’ di felicità”
Si mise in ginocchio.
“Vuoi essere la mia fidanzata, almeno per questa serata?”
Sorrise divertita. “Va bene, ma niente sesso prima del matrimonio”
“Per chi mi hai preso? Vivo d’amore platonico e di tramonti di luna”
“Dai su, alzati”
“E’ un sì?”
“Eh.. sì”
I passanti applaudirono, pensando ad una felice proposta di matrimonio. Lei, come fosse un bouquet, lanciò la rosa al loro “pubblico”. Una donna la afferrò e baciò la sua ragazza nel darle il fiore.
I due fidanzati a tempo determinato si guardarono ridendo.
“Abbiamo fatto la buona azione quotidiana?”
“Si, ci meritiamo un premio”
“Che ne diresti di aperitivo con musica e poesie?”
“Ci sto”
“Però ognuno paga per sé. Siamo una coppia moderna, contro retaggi patriarcali come il fare il cavaliere.”
“Allora quando avremo i nostri quattro figli, tu rimarrai a casa a fare il casalingo”
“Non chiedo altro”, rispose ridendo.
Entrarono e si sedettero su uno dei pochi tavoli rimasti liberi. Lì, mentre la musica andava e qualche poesia, come respiri durante una nuotata, faceva provare a tutto il pubblico lo stesso amore che animava gli autori, si scoprirono pian piano. Fra un bicchiere e un altro, lei parlò dell’università, della sessione difficile appena superata, della passione mai dichiarata per la musica e la poesia.
“E’ la serata perfetta per te allora!”
“In realtà dovevo venire qui con delle mie amiche, quelle che ci stanno guardando male da mezz’ora”
“Ah si? Quali?”
“A sinistra, quelle vicine alla ragazza dal cappotto rosa”
Diede un’occhiata furtiva. Gli sguardi erano mezzo fra il furente e l’invidioso.
“Vogliamo farle arrabbiare ancora di più?”
“Beh, perchè no?” sorrise, piena di malizia.“Mi concedi questo ballo?”
Per tutta risposta, lei si alzò e gli prese la mano. Si misero vicini, quasi abbracciati, coccolati dalla musica.
Continuarono a parlottare sottovoce, l’uno nell’orecchio dell’altra. Qualche risata li metteva in imbarazzo, fra la folla sciolta nell’alcol e nell’amore. Ma ormai, a chi importava?
Intorno a loro, i pochi assaggini e il tanto bere avevano liberato dalle inibizioni anche molte coppie, che azzardavano balli romantici.
Anche il cantante si era sciolto, stringendo la mano al compagno che lo seguiva nelle poesie.
Fuggirono dal locale e si rifugiarono sulle mura. Ma prima, dal chiosco di un pakistano, il simpatico e stanco Ghulam, presero una bottiglia di vino. Con questa fidata compagna, un po’ di musica da cellulare, parlarono e ballarono sotto la luna, accompagnati dai passanti e da qualche crocchia di ragazzi e ragazze, stretti intorno a una canna accesa.
Ormai pieni di alcol e di follia, si diedero alle parole vere, il cui imbarazzo si era ormai sciolto.
“Cioè, cosa vorresti dalla vita? Stiamo diventando grandi e stronzi, adulti cazzo. E perchè? Solo per rimpiangere momenti come questi e vietarli ai nostri figli?”
“Intanto” rispose prendendogli la bottiglia di mano “coi nostri figli, verso i 17, 18 anni, ci andrei per bar”.
“Direi anche prima, verso i 16”
“Mmm, a 16 anni le canne, così imparano a preferirle all’alcol”
Si vide un po’ di agitazione nella crocchia vicina.
“No seriamente” anche se l’idea non gli pareva così male “cosa vorresti da grande?”
Lei ci pensò su. Prese una sigaretta.
“Vorrei proprio l’essere grande”
Fece un tiro. Buttò fuori il fumo. Si fermò pensosa.
“Per metterla in culo a tutti quelli che mi sottovalutano” un altro tiro.
“Una cosa simile, credo”
Lui la guardò sorridendo, accendendosi una sigaretta.
Da lontano, si sarebbero visti solo le due braci pulsanti, forse qualche ombra.
“Anzi no. Ne sono sicura” e bevve un lungo sorso per celebrare il momento.
Rimasero in silenzio.
“Hai ragione” riuscì soltanto a dire. E sorrisero, un po’ ubriachi.
Intanto, era cambiata canzone. Il dolce ritmo riempì i loro silenzi, lasciando spazio solo a quello strano sguardo fra sconosciuti. Se ne andarono nella notte, ognuno per la propria strada. Non iniziò nulla, o forse così niente terminò mai. Rimase loro la strofa di una canzone, una piazza deserta, una bottiglia vuota.
I used to know a little square
So long ago, when I was small
All summer long it had a fair
Wonderful fair with swings and all
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Bellissimo
Birthday thoughts
On the doorstep of my 24th year of life I stand, with a mirror in my hand. In the mirror, waiting, all my past selves, all those selves that I will eventually have to face and look in the eyes, in front of whom I will have to be accountable. Maybe this is the reason why every year the mirror is heavier and heavier: more and more selves, more and more expectations, shattered, achieved, to be created. Lifting the mirror and looking at myself in the eyes is getting heavier. Is this the tragedy of doorsteps, the pain of which Janus was god? Two faces of the same entity forever looking in different directions without ever meeting each other’s gazes. Is this what awaits me if I fail in lifting the mirror? Perhaps I can just lay it down there for a while…
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Treno
Perché l'ho fatto. Appoggio la testa allo schienale, il ritmo delle rotaie pressava la nuca. Caldo e sete. Mascherina troppo stretta. Piano piano sul naso si scavava il reticolo unico del ferretto. Povere donne che questo provavano in ben altri luoghi. Era carino. Accompagnato da sole ragazze. L'aveva visto in quel poco di viso risparmiato dalla chirurgica. Barba leggerissima, ricci. Al cambio di treno l'aveva guardato, camminando avanti indietro sulla banchina, con la città vietata alla vista da un provvidenziale treno. Era salito dietro di lui, sedendosi nello stesso scomparto. Avrebbe voluto parlarci. Girò la testa un poco, solo per vederlo meglio. Un qualcosa lo fermò. Joe Goldberg. Guardò intensamente fuori dal finestrino. Cornuda scompariva alla sua vista. Era attaccato al cellulare, non parlava con le amiche. Perché. Perché si era fissato. Così. Non se ne ricordava nemmeno i pochi tratti. Era già scomparso dalla sua mente. Era lì. Non esisteva. Era una possibilità. Ebbe un colpo. Un lieve scivolare di amaro nel torace. Si depositò poco sotto lo sterno. Quel ragazzo non esisteva. Non era nulla. Non era importante. Poteva anche tornare a fissare pigramente Scrubs al cellulare, invece di fare l'intellettuale fallito con "Letteratura come storiografia?" inutilmente fra le mani. Scemo Lo leggeva fra le righe. La poesia storica. L'officina. Il Menabò. Scemo Pasolini, Zinato, Guarnieri Scemo La narrazione quale ambito concorrente fra letteratura e storia. Carlo. Lo storico come giudice Ruth Bader. La poesia come giustizia. Allen. La letteratura come vita. Natalia. Perché sognare. Farsi del male per un sogno. Leone. Il ragazzo era sceso. Nemmeno se n'era accorto. E la pagine era ferma. Aveva finito i Ginzburg/Ginsburg/Ginsberg su cui perdersi. Il professore a un incontro aveva detto: "il problema degli storici è che leggono troppi libri di storia". Chissà perché se lo ricordava con la voce di Barbero. Non voleva ancora annichilirsi con una serie TV. Il cullare del treno gli piaceva. Il campari di prima aiutava. Era un rumore bellissimo, dolce nella sua meccanica. Perché aveva voluto sognare. Oggi, prima. Quel ragazzo. Non quello sceso. Un altro. L'aveva conosciuto tempo fa. Un appuntamento a quattro. Poco senso. Ragazzo ragazza fidanzati. I due omosessuali di provincia no. Un tempo odiava bollare le persone. Farne una diagnosi superficiale. Ne aveva imparato l'utilità. Pochi minuti erano bastati. Caso umano, no grazie. Anche lui era un caso umano. Ne era consapevole, fin orgoglioso. Almeno così poteva vivere bene. Odiava chi caso umano era ma lo negava. Così fai del male alle persone. Se lo sai, puoi evitarlo. Tenere dei pensieri in testa, liberarti. Liberare gli altri da un peso. Tutti i sedili attorno a lui erano vuoti. Treno vecchio, ancora i posaceneri estraibili. Aveva ancora una cuffietta addosso, straordinariamente silente. L'aveva rivisto, il caso umano. Occhi molto belli. Specchio di un'anima rotta. C'era dell'intrigo sotto, forse sarebbe stato bello scoprirlo. "The eyes, chico. They never lie". La storia di un amico. Un occhio rosso d'erba e di adolescenziale ribellione. L'amica di Padova "c'è anche matte domani" Beh perfetto. Matte era simpatico. "Aspetta che ci raggiunge Alessandro" Grazie mascherine che coprite le bestemmie silenziose. Si studiarono nel corso dell'aperitivo. Fu nel panico quando rimasero solo loro due. Per qualche minuto. Perse forza. Perse pubblico. Si ritrovò triste, ammettendo a se stesso di essere tornato quattordicenne. Ogni possibilità è una promessa. Il treno chiamava. Ritornò al classico disincanto. Un messaggio. Un gruppo. "[...] vi è un proverbio che dice: «se desideri conquistare il mondo, conquista le tue sofferenze prima di tutto». Non saremo mai capaci di vincere le nostre sofferenze attraverso la volontà, ma potremo sicuramente farlo con la pratica della fede. Non vi è dubbio in proposito." (Tratto da "La rivoluzione umana" di D. Ikeda, Ed. Esperia - rist. gennaio 2012, vol. 10, pag. 229) La volontà senza speranza è inutile. Un moto a senza luogo. Faceva più freddo. Dieci minuti e sarebbe arrivato. Al solito posto. All'unico luogo.
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