Se non l'ho detto, l'ho scritto. Forse l'ho fotografato.
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Vorrei portermi
Lasciar andare
Ad una felicità
Che non so cercare
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Fuori luogo ovunque.
È il titolo di una canzone - neppure troppo profonda - che mi porto dietro dal momento in cui l'ho incrociato diversi anni fa. Ci ripenso sempre, balza da solo alla mente come un suggerimento quasi automatico, come quando per mangiare porti la forchetta alla bocca, o per starnutire la mano al naso, così "Fuori luogo ovunque", mi suggerisce dove mi trovo in quel momento esatto, senza neppure chiedermi perché.
Mi son sempre raggomitolata nella più dolce e ingenua delle bugie: un giorno andrà meglio. Come il titolo di quella canzone, ho trovato per tanto tempo un rifugio sicuro nel pensiero che un giorno non troppo lontano, tutto avrebbe avuto finalmente senso, che i pezzetti sparsi in strade che neanche ricordo di aver percorso, si sarebbero ricomposti come un puzzle, che avrei smesso di soffrire e di colmare questa solitudine con un'idea, che la felicità sarebbe arrivata anche per me. Una felicità irreversibile, nel senso che quando arriva poi non va più via. Che avrei trovato il mio posto nel mondo ed avrei smesso di sentirmi così, fuori - luogo - ovunque.
Ho capito poi, fin da quasi subito, che il mio posto non sarebbe stato un luogo, un nome di una città, tanto meno di quelle straniere, ma piuttosto un nome e basta, o più di uno. Lasciavo andare la solitudine provando a sostituirla, più e più volte con nomi diversi, trovandomi invece poi sempre più verso il fondo di un enorme castello di carte in cui ho confinato la mia esistenza. Un castello fragile, senza pareti e finestre, pronto a venir giù. Poi la sterzata, l'idea che sì, un giorno andrà meglio, ma che su quella solitudine e su di me, avrei dovuto lavorarci. Così dicono, che bisogna conoscere ed amare se stessi, e l'ho fatto.
Conosco ed amo me stessa, conosco ed ho imparato ad amare la mia solitudine, ed i miei rifugi. Ma non è mai arrivato il momento di ricevere quella felicità tanto desiderata. Ancora non ho pareti e finestre, ma solo carte ed il timore che un forte vento le faccia crollare.
Adesso mi raggomitolo, dopo aver perso tutto, nell'idea più dolorosa che una persona possa affrontare: forse meglio non andrà mai, forse la solitudine è tutto ciò che resta da vivere e con essa morire.
Ho visto andar via tutti, amicizie durate più di dieci anni finire nel tempo necessario per buttar giù un sorso di caffè, o che iniziano a franare sotto il duro asfalto della distanza che ci separa. Ho amato, con la paura pura di mostrare me stessa, di avvicinarmi troppo, ma concedendomi a quell'amore che sento. Ed ora invece, guardo di nascosto i lineamenti di un viso a me caro con una paura diversa, quella di non poterli più scorrere, un giorno, con le dita, di non essere più necessaria per una carezza sulla schiena, di diventare invisibile ai suoi occhi. E ancora, ho lasciato che uno sconosciuto spegnesse il mio più fedele amico e compagno di avventure, un paio di siringhe sono bastate per costringerlo a smettere di respirare, per non sentire più il calore di un cuore che batte.
Mi chiedo se sia questo il destino a me riservato, che in fin dei conti male non l'ho mai fatto a nessuno, che amo incondizionatamente, che provo a ricucire le ferite di chiunque ne abbia bisogno. Mi chiedo quale sia la soluzione al non essere abbastanza, ammesso c'è ne sia una, e che ne sia all'altezza.
Mi raggomitolo, ancora una volta, nella notte, quando tutto tace, e col silenzio ed il buio anche i miei pensieri, la mia solitudine, tirano un sospiro di sollievo. Io sono fuori luogo ovunque. E ovunque possa andare, non troverei nessuno ad aspettarmi. Sono il buio che si porta la luna, ma se domani non aprissi gli occhi, qualcuno verrebbe a svegliarmi?
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Cycle
When I was just a child I found out my dad's affair was real in a click I realized what it was written with a young woman from the other side of her computer my dad's affair was real but I didn't cry or scream or laugh I just didn't and my inner self became empty it was the last time I lived for real. I was just a child when I last felt something eating me up alive like every other guy I tried or they tried and never stayed like the first one I met at 15s he was a dj but too out-of-noise or the one playing basketball or the one that almost raped me under a bridge but I was dead already and I just didn't as the one loving me at 18s but he punched his mother and I was the next one as the one I loved at my 21s. I became a young woman as my dad's affair too early still now I do not know what being a twelve years old girl does it mean. I gave my twelve years old heart to people I forgot to people trying to help like my first therapist or my last one like the meds an old woman gave me to make my heart sleep and my mind relax and my inner self feel again and my skin reborn from tears and my dreams to appear and my cries to disappear and my crisis to stop and my self-harm to finish and my wish to die and my questions and my prays and my nightmares and my fear and my anxiety and my loneliness and my panic and my anguish and my sadness and my breaks and my screams and my emptiness and my blackouts now they are what my inner self is made up and made up for. But wars continue to exist people still die from banalities and terrorists want to win and politicians to will women are still afraid as I am to walk alone across nightly streets and girls to talk about their periods with their hairs covered by veils of ignorance and forces and the rain still pours too heavy forests and giant elephants fall summer and winter no longer exist as separate entities no longer humans can distinguish between what is to be done and what is to be avoided but for who? none of us is going to benefit from battles for soil and ivory from trains crashing and cars hitting from children living their worst existence none of us should ask to him or her inner self if this is what god meant when it gave the possibility to choose and we choose to preserve hard feelings to run as we are ready to die to naturalize sufferance to take meds to make our voice quiet after all of what our eyes are forced to see everyday day after day we choose to let everyone fall like the Berlin's wall when it was already too late.
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Febbraio 2020
Ore 17:18, un minuto di ritardo per allinearmi con gli astri.
Altro giro, altra corsa. In bus seduti davanti alla mia non più così ingenua coscienza, due signori - due di un gruppo più numeroso, penso lavorino tutti insieme e così si riuniscono, dopo la pausa pranzo anche per il ritorno verso casa - che parlano di un nuovo televisore, un nuovo materasso, ed il più grasso dei due esclama "ora manca solo una bambola gonfiabile!", e scoppiano in una risata, in realtà non troppo convinta. Da qualche sediolino più avanti una voce femminile esclama: "Salvatore" - allungando la e finale - "fa il bravo, fa il bravo", allungando di nuovo le O. Salvatore, con la sua voce calda, toracica, oserei dire quasi rassicurante, se non fosse per certe battute discutibili, risponde: "A noi piace l'odore della plastica..". Una breve pausa, ci ripensa, e inspiegabilmente continua con: "Poi la bruciamo!", la bambola. Forse un riferimento al Coronavirus, ho pensato. Risaputo che le bambole gonfiabili in alcuni paesi asiatici sono un bene all'ordine del giorno, o della notte.
Altro giro, altra corsa, altre risate di uomini apparentemente contenti della loro giornata, seppur di rientro in una casa vuota ed un letto freddo.
Seduto al suo solito posto, un altro signore, taciturno. Dico "il solito posto", perché non è la prima volta che anche lui, assieme al gruppo di lavoro, torna a casa col bus delle 17:15 verso Caserta. Il suo "solito posto" è ovunque nelle mie vicinanze. Sempre la fila accanto alla mia. A volte un seggiolino più avanti, altre, per sua sola fortuna, esattamente accanto a me, come oggi. All'inizio notavo i suoi sguardi, di certo non desiderati, di quest'uomo sulla fine dei 40 anni, portati male, vestito peggio, ed un espressione a tratti inquietante ed a tratti dissolta nel vuoto. Gli piace osservarmi dal vetro, quasi come se fosse uno specchio, quando sono più indietro rispetto la sua visuale. Mi giro, e quando fuori il cielo ha dimenticato la luce, la luna riflette i suoi occhi che scrutano il mio profilo. Che poi vorrei dirgli "Guarda che di profilo sembro chiatta!". Ma col tempo, bus dopo bus, ritorno dopo ritorno, ho notato che rispetto a tutti gli altri suoi colleghi, lui è un po' come quei bambini che all'asilo non riescono a fare amicizia, e così rimangono in silenzio in un angolino. Anche Mister X è così. Mentre loro parlano, lui appoggia una mano sulla gamba e l'altra sulla soglia dei finestroni, e sta in silenzio. Un lungo silenzio di circa quaranta, cinquanta minuti, in base al traffico. Muove solo le mani, e gli occhi. Così, da quel volto inquietante e scomodo, ho provato a ricavarne qualcosa di meno fastidioso. "Forse si sente rassicurato, in un certo senso, a suo agio, se mi sta vicino", ho pensato. In fin dei conti non siamo così diversi. Entrambi ce ne stiamo in disparte, io occupo sempre due posti, uno per il mio sedere ingrassato, ed uno per le borse ed il cappotto. Metto su le cuffie, cambio canzone prima che finisca, e guardo fuori, alternando la mia attenzione tra le sagome che sfrecciano veloci alla mia destra, ed il riflesso di Mister X.
La parte migliore di questi viaggi verso casa è la salita della doganella. C'è sempre qualcosa di magico in quei 4-5 secondi di tragitto, quando le luci del centro direzionale si lanciano su tutta la città, con il mare in lontananza e tutte le chiesette che si salgono sulle spalle, una ad una, tra palazzi, antenne ed alberi altissimi. Considero questa salita, questo magnifico panorama, come un regalo di fine giornata. Come se Napoli mi dicesse: "Tieni, tutta questa bellezza è per te. Puoi ammirarla, farla tua, immaginati felice e spensierata tra i vicoletti e l'odore di pizza ad ogni angolo, anche solo per un attimo, concediti una boccata di libertà dai tuoi pensieri". Ed io accetto l'offerta, questo dono, come un suggerimento sussurrato da una città che non sta mai in silenzio, al contrario del quarantenne ed io. Forse è proprio per questo che amo Napoli, che se dovessi prendere un bus di ritorno, vorrei fosse per Piazza Municipio. Lei parla sempre, accoglie tutti, turisti provenienti da qualsiasi parte del mondo, italiani del nord e di un sud ancora più sud, e li mette tutti d'accordo all'entrata del negozietto di pizze fritte da Zia Esterina. Tutti sono contenti, o quanto meno, se hanno un motivo per lamentarsi o star male, lo interpretano in modo teatrale, i toni di voce salgono, sempre più in alto, per poi culminare con un soddisfatto "E JAMM!", seguito dall'apertura alare delle braccia e dei palmi rivolto verso l'alto, quasi ad invocare Dio.
Tutto qui strappa un sorriso, e quel tutto non lascia spazio ai pensieri che flagellano la mia ancora troppo giovane mente stanca.
Di solito, quando finisce un amore, un'amicizia, pensiamo di soffrire la mancanza della persona che ci ha abbandonato. In realtà, penso che a mandarci sia l'idea, quello che ci è stato dato, tutte le cose belle a cui eravamo ormai abituati. A me capita con Napoli, quando il pullman attraversa in gran velocità il casello autostradale di Caserta, sento la mancanza di tutte le emozioni provate appena a 30 chilometri di distanza. La mancanza del cielo sempre azzurro ed il sole ovunque, delle persone che camminano veloci e quelle che si salutano in un lento, lungo abbraccio, della possibilità di bere un buon caffè ad ogni passo, dei modi di dire e dei detti antichi che a noi giovani fanno ridere, di quelle anime semplici, che ti sorridono e salutano anche se li conosci appena, dell'opportunità di conoscere giorno dopo giorno volti nuovi da salvare in rubrica, della vita che c'è qui, lì, qui, lì.
D'un tratto mi accorgo di essere alla stazione di Caserta. Infilo il cappotto velocemente, mi preparo una sigaretta e scendo di fretta le scale al di sotto dei binari, sperando di non dover correre ancora più veloce alla presenza dell'ennesimo ubriacone.
Poi di nuovo pensieri, dolori, preoccupazioni, ansia, vuoto, ed il cielo diventa nero. Non ci sono più nuvole bianche e luminose, non c'è più il sole, non ci sono più le voci né le risate. Mi resta solo la rincorsa verso l'unica e sola idea rassicurante: le quattro mura della mia stanza.
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