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Lo metto qui, anche se non c'entra molto con la fabbrica ma il periodo è proprio quello di quando avevo appena cominciato a lavorare, subito dopo aver smesso ignominiosamente con il professionale a Castel San Pietro.
A Castello invece di andare a scuola andavo al bar biliardi e quindi dopo qualche mese di continue assenze avevo smesso e i miei mi avevano mandato a lavorare in fabbrica.
Nel frattempo non avevo smesso di andare al bar biliardi anche se si trattava di un altro bar situato sotto casa.
E qui mi è tornato alla mente stasera, ascoltando della gente che chiedeva notizie di una persona in sala operatoria col suo stesso cognome.
Era grande, molto grande e grosso e sarà stato alto almeno 1,90 se non di più e appunto siccome era grosso metteva paura solo a vederlo anche se in realtà era un bonaccione e mi pare fosse di famiglia originaria del Ferrarese.
E si sa che fine fanno i bonaccioni quando hanno un fisico alla Frankenstein e uno sguardo non particolarmente intelligente anche se dolce.
Come minimo vengono presi per il culo e se non si ribellano e spaccano qualche testa, la presa per il culo è continua.
Lui si chiamava Romanelli di cognome, come la persona di cui ho sentito chiedere poco fa dai parenti che lo aspettavano fuori dalla sala operatoria.
Solo che noi altri bastardi lo chiamavamo Ormonelli.
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Crossover NicolaCava/LaFabbrica
NC: Arrivo al Seventyfive Cafè già pieno di gente verso le otto aemme e dietro il bancone c'è la Giuliana molto impegnata. Aspetto che mi prepari il caffè, mentre cerco di ignorare i discorsi di quelli che stanno lì intorno, specie del tipo che sta raccontando di aver pagato una serie di bollette di Equitalia. Il caffè arriva e va giù, quindi mi sposto verso la cassa e aspetto che la Giuliana abbia il tempo di farmi pagare. Pago anche il caffè di Calice e la Giuliana mi comunica che farà un solo scontrino per un solo caffè perché fuori c'è la finanza. Di solito quando fanno lo scontrino (e lo fanno sempre) lo butto subito nel rusco ma non stamattina. Esco, salgo sul Fiorino a nafta e nello specchietto vedo che il finanziere, un ragazzo alto un metro e un tappo, si avvicina e mi fa segno di abbassare il vetro, mostrandomi il tesserino. Mi chiede cosa ho preso e io rispondo - un caffè - e naturalmente vuole vedere lo scontrino che tiro fuori dalla tasca. Gli fa una foto, mi saluta e io riparto per il Piccolo H.
E da questo ripartono i ricordi.
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LF: anche forzando la memoria fino all'ultimo neurone, riesco a ricordare solamente che si chiamava Lorenzo. Il cognome non ce la faccio proprio a farmelo tornare in mente. Dato che alla fabbrica si producevano alcolici, c'era in pianta stabile la presenza di un buon numero di finanzieri inteso come Guardia di Finanza. La GDF. Lorenzo era appunto uno di loro.
Fu lui a spiegarmi cosa significasse realmente l'acronimo. Il vero significato di quelle tre iniziali era niente meno che Guastatori di Fica. Niente di strano considerato che quelli della GDF sono dei militari e per contratto credo che debbano essere obbligati a utilizzare un linguaggio di questo tipo anche dopo i venticinque anni. Di età anagrafica e non di lavoro, si intende.
Lorenzo era di Palo Del Colle e per poter trovare un lavoro si era sradicato dalla sua terra d'origine ed era salito a Bologna e dopo aver abitato per un po' nella caserma di viale Masini, si era sposato e mi pare che avesse una figlia o due ed era andato ad abitare non so dove con la famiglia.
Era ovviamente molto simpatico e per il linguaggio e il modo di fare, avrei detto non solo che non era della Guardia di Finanza ma che fosse del tipo di quelli che di solito la Guardia di Finanza va a cercare per metterli in galera. Naturalmente era solo un atteggiamento, proprio come quello del maschio guastatore di fica.
In effetti Lorenzo era molto amico di Luigi B che si era trasformato, nel giro di qualche anno da quando l'avevo conosciuto, dal più bel ragazzo della Sala Confezioni, concupito dalla maggior parte delle operaie e anche da qualche impiegata, in una specie di macchietta gayosissima.
Collego questa sua trasformazione all'arrivo alla fabbrica di Gino G che fin da subito aveva fatto capire a tutti di essere gay ma in maniera piuttosto timida. E se dopo il loro incontro Luigi B si era trasformato da etero a gay, il buon Gino G si era trasformato da gay timido a gay orgoglioso senza paura di esserlo.
Sto parlando degli anni ottanta e novanta e non è che essere o dirsi gay allora fosse facile, dato che non lo è nemmeno oggi. Infatti in fabbrica lo pigliavamo tutti per il culo, metaforicamente parlando, tranne appunto Luigi B.
Penso che sia stato il loro rapporto di amicizia a farmi capire che testa di cazzo che fossi, e a maturare un diverso atteggiamento verso l'omosessualità.
All'improvviso in fabbrica c'erano due persone che non avevano nessun problema ad atteggiarsi e a dirsi gay.
E poi c'era questo rapporto di amicizia strettissima tra Luigi B e Lorenzo che ne ribaltava gli atteggiamenti maschilisti da GDF.
C'era poi un altro collega di Lorenzo, un ragazzo napoletano di corporatura molto robusta al punto che lo si poteva definire obeso senza offesa per nessuno, che aveva un hobby molto particolare al di fuori delle ore di lavoro nella GDF.
Lui aveva una vecchia Uno bianca come quelli della banda della Uno Bianca, ma non la usava per rapinare o per ammazzare.
Si limitava a percorre la grande velocità i viali di Bologna, e arrivato nei pressi di un semaforo verde, dopo essersi assicurato di avere un cogliene dietro attaccato al paraurti, inchiodava improvvisamente e senza nessun motivo che non fosse quello di truffare l'assicurazione.
Naturalmente il coglione attaccato dietro lo tamponava più o meno pesantemente e lui in ogni caso si comportava come se lo avessero asfaltato con un autotreno.
Immagino che così, oltre a far su un po' di soldi all'assicurazione del coglione attaccato dietro, ne approfittasse per mettersi in malattia ed evitarsi qualche giorno di lavoro.
D'altra parte, ognuno si sceglie i modi per passare il tempo che preferisce.
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A proposito
di Marcinelle. Lo Zio Michelino non U'Ladro ma quell'altro, ha lavorato tanti anni in miniera ma essendo un grandissimo stronzo non è rimasto sepolto in qualche cunicolo. E ancora oggi vegeta alla casa di riposo.
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Qualche tempo dopo essere stato licenziato dalla Fabbrica, mi trovavo in giro con quella grandissima testa di cazzo (tdc da classificare in maniera altamente offensiva) di Giosuè DP.
Non ricordo nemmeno il perché finimmo verso (mi pare) Russi (RA). Ci fermammo davanti a una banca perché Giosuè (quella grandissima tdc, doveva prelevare al bancomat.
Eravamo vestiti pressoché uguali, jeans e piumino ed entrambi con occhiali neri tipo rayban. Si potrebbe dire che sembravamo i Blues Brothers dal collo in su ma senza il cappello.
Guidavo allora un Ford Galaxy color azzurrino metallizzato, un'auto si potrebbe definire buona per tutto, tranne che essere adatta a una rapina.
Effettuato il prelievo ripartimmo ma appena fuori dal paese (che vi ricordo è Russi in provincia di Ravenna, dato che a mio parere, arrivati a questo punto della lettura ve ne siete sicuramente dimenticati), fummo inseguiti e fermati da una pattuglia di Carabinieri.
Spento il motore del Galaxy, restammo in macchina ad attendere gli eventi. Un Carabiniere venne dal mio lato e un altro da quello della tdc di Giosuè. Nello specchietto dalla parte della tdc, vidi che il Carabiniere teneva in mano la Beretta d'ordinanza, canna rivolta a terra.
Il Carabiniere dal mio lato mi chiese i documenti, idem a Giosuè. Glieli fornimmo e una volta verificato che non eravamo dei ricercati, me li restituì e mi chiese cosa facessimo da quelle parti. Gli dissi la verità, eravamo in giro e basta.
Poi gli chiesi come mai ci avevano fermati e la verità era molto semplice, anzi sempliciotta.
Qualcuno dalla banca aveva chiamato i CC perché due tipi con gli occhiali neri erano passati da quelle parti. E da quelle parti avevano i nervi un po' tesi, a causa di alcune rapine subite di recente.
Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. Ricordo però che Giosuè non sembrò molto felice quando gli dissi del Carabiniere armato dalla sua parte.
Magari prima o poi mi toccherà spiegare perché Giosuè era e immagino sia ancora, una grandissima testa di cazzo, nel senso offensivo del termine.
La versione di Bakayoko: «Nelle immagini della perquisizione non si vede tutto. Gli agenti ci hanno messi in pericolo».
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La sigla è Beta 3. Mariacchione. Detto "Fiato di Avellino", incrociando la provenienza Irpina e l'alito viperino, AKA "Al Zien" (Lo Zio) in quanto nella Cooperativa è presente "Il Niputein", il suo amato nipote cosiddetto.
Uno dei migliori nel fottere il prossimo, che in una cooperativa significa fottere il tuo socio, il tuo collega, praticamente il prossimo, secondo gli insegnamenti del miglior catechismo.
Sposato con una brava donna armata di pazienza infinita, due figli sicuramente bravi, studiosi o lavoratori o tutto e due, a dispetto delle attitudini paterne.
Che c'entra Fiato di Avellino con la foto? Ce lo spiega un altro collega: "Calice". Non sto nemmeno a spiegare il perché del soprannome ma se qualcuno non l'avesse capito, può contattarmi in privato.
Calice e Fiato Di Avellino anni e anni fa lavoravano insieme da un corriere. Vita grama, tanto lavoro e poco incasso. E siccome l'incasso era sempre quello, a prescindere dal lavoro svolto, Mariacchione aveva escogitato un ottimo sistema per auto ridursi la fatica e finire prima degli altri.
Caricava il furgone lasciando vuota la parte anteriore del cassone e riempendolo solo in quella posteriore da terra a cielo, in modo che aprendo le porte, sembrasse di aver caricato al massimo della capienza.
Esattamente come nella foto che ho trovato stamattina e che ha risvegliato questi ricordi ancestrali che sono degni della pubblicazione in questo spazio. A eterno memento.
Peccato, a eterno memento mi pareva la giusta conclusione di un racconto del cazzo come questo. E invece la conclusione è diversa: siccome Calice non era totalmente scemo, si accorse della furbata.
Un giorno, davanti al titolare della ditta e agli altri colleghi, Calice chiese a Mariacchione di aprire i portelli posteriori. Gli bastò dare un colpetto ai pacchi per farli cadere nello spazio vuoto in avanti e sbugiardare il fedifrago.
In ogni caso, a eterno memento.
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Il cugino T
T è il primo figlio di tre.
Ha due sorelle che i genitori prediligono.
A 17 anni lo spediscono in Belgio. La madre tenta di opporsi ma il padre lo obbliga.
È un vecchio cazzone egoista destinato a morire avvelenato da cibo e vino, di una ignoranza spaventosa e di nessuna umanità.
Del padre resterà il ricordo dei necrofori che non riuscivano a chiudere la bara a causa di quanto fosse gonfio prima e dopo la morte.
In Belgio T non conosce nessuno, a parte il suo lavoro di garzone in pizzeria e un cugino che di li a poco muore con moglie e figli in un incidente stradale sulla tangenziale di Foggia.
T rimane da solo.
Finisce per diventare un tossico. Non si sa come, riesce a sopravvivere all'eroina ma incredibilmente ce la fa.
Trova pure una compagna belga con cui si mette insieme e con cui genera due figli dell'età dei miei.
Da garzone di pizzeria ne diventa proprietario.
I figli crescono e T riesce a contenere l'eroina, probabilmente con l'aiuto dell'alcool.
Ormai grandi i figli, T li avvia sulla strada delle pizzerie.
Una per figlio.
La ragazza grande si sposa e gli regala due nipoti.
T diventa nonno a 49 anni e poi a 52.
Ora è nonno e dipendente nella pizzeria di proprietà della figlia.
Aspetta la pensione.
Quella belga.
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Lo Zio Carlone
abitava al virgolone di Ozzano. I suoi erano immigrati dalla Calabria da tempo immemore e lui aveva una calata che più bulgneis non si poteva. Aveva due fratelli più piccoli e una J nel cognome. Per non parlare della 127 giallo ocra a metano. Malgrado fosse sempre in sovrappeso, giocava a baseball ed era pure bravo. Era anche un buon giocatore di biliardo a stecca, gioco in cui mi stracciava sempre ma d'altra parte ci sarebbe riuscito chiunque avesse almeno una mano. Avevo qualche anno meno di lui e qualche soldo in più in tasca, ma soltanto perché non ero spendaccione come lui. Mentre io lavoravo alla Fabbrica, lui si era messo in proprio con una officina di tornitura a controllo numerico. Per me, la sua attività era una roba fantascientifica, con la differenza che la fantascienza mi piaceva e mi piace tuttora. Grazie a lui la mia vita ha avuto una svolta e non sono rimasto a vivere da zitello a casa dei miei. Dopo la 127 a metano, prese una Alfetta 2000 con la quale fece da autista al mio matrimonio. E quello fu l'inizio della fine di una amicizia. L'impegno con moglie e poi i figli ci allontanò. Lui continuò la sua vita da scapolone ed ebbe dei guai con l'officina che non era una attività sicura dal punto di vista economico. Una sera, qualche anno dopo, suonarono alla porta. Era lo Zio Carlone. Entrò, parlammo un po' di quello che ci era successo da quando avevamo smesso di frequentarci, poi mi chiese trentamila lire in prestito. Le ottenne e se me andò. Non rividi mai né lui né le trentamila.
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Potrei averlo già scritto da qualche parte, o forse no. Tra i tanti dipendenti della Fabbrica, ne ricordo due a causa di un episodio che ogni tanto rivango quando ho voglia di annoiare i miei. Protagonisti due operai del confezionamento: Giuseppe Gentilezza (Siculo di Trinacria) e Aniello Autorino (Campano di non ricordo più dove).
In realtà il protagonista è solo Gentilezza perché era lui, mentre lavorava a una linea manuale di imbottigliamento che rispondeva a una domanda sulla salute di Autorino.
Qualcuna delle operaie presenti deve avergli chiesto dove mai fosse finito Autorino e Gentilezza rispose che era a casa in malattia, in quanto "l'hanno operato all'utere".
Per quanto Gentilezza non fosse sicuramente un esperto di anatomia, sono quasi sicuro che abbia scherzato. O no ?
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A proposito di corpo umano, Gentilezza è anche il ribaldo che diceva a voce alta alla collega Franca : Francaaaaaa ma quanto sei bella, hai sedici anni !
Poi si girava verso di me e sussurrando aggiungeva (per ogni dente che hai in bocca). Ma la povera Franca i denti li aveva tutti.
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Il cugino T2
In realtà il capitolo dovrebbe intitolarsi Cugino A. Perché T è un diminutivo di A.
La sua storia è a lieto inizio e fine. Seppure anche lui deve essersi preso la sua razione di sberle, almeno non è stato abbandonato dai genitori.
I quali erano una coppia piuttosto eterogenea e incazzosa. Sia il padre che la madre. Vivevano un una casetta a forma triangolare a picco su un dirupo.
A differenza delle donne del Sud, la madre non sapeva e non ha ancora imparato a cucinare. Parlo per esperienza diretta.
Il cugino T2 aveva una sorella di cui forse parlerò a parte o forse no. I ragazzi rimasero orfani di padre molto presto. Una malattia del cazzo glielo portò via che erano piccolini.
A onore della madre, occorre dire che li crebbe da sola, malgrado non sapesse cucinare, o cucinasse molto male.
Per farlo si trasferì poco a sud di Milano, al seguito di altri parenti che l'avevano preceduta e che li aiutarono inizialmente.
Il cugino T2 era un tipo estroso fin da piccolo e tale rimase anche da adulto. Si sposò, ebbe una figlia, divorziò e trovò un'altra donna.
Il fatto che lei fosse sieropositiva non aggiunge molto alla loro storia. Che non ricordo mica tanto bene per la mia innata tendenza a fottermi di questo tipo di problemi.
Dopo quella donna ne ebbe altre per poi tornare da lei. E fare il becchino. Ecco le principali caratteristiche, la Figa e le bare.
Eros e Thanatos nel suo DNA. Scritto e riletto, mi pare che la storia del cugino T2 sia poco interessante e come minimo un po' stiracchiata.
Perché finisce qui senza un vero finale. Egli vive e lavora e probabilmente tromba ancora e forse per questo non riesco a interessarmi realmente e a scrivere qualcosa di interessante su di lui.
Quindi basta.
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Tergiversando e
ripensando al capitolo in cui descrivo il Signor Bidè. Ruggero B.
Laddove afferma che le Donne Venete fanno i pompini col rosario in mano. Ecco, mi pare una affermazione piuttosto importante.
E anche, al giorno d'oggi, molto datata. Secondo il mio modesto parere, una cosa del genere, attualmente sarebbe impossibile.
Perché altrimenti le Donne Venete dovrebbero avere minimo tre mani. Una per il rosario, una per il ehm pene e una per lo smartphone.
Altrimenti come potrebbero farsi i selfie in quegli amorosi istanti?
Ora, è possibile che a breve qualcuna possa confutare quanto sopra affermato.
O forse no. Vedremo.
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Se ho lavorato alla Fabbrica dal 79 al 96, questa cosa deve essere avvenuta circa trent'anni fa. Non i primi tempi ma negli ultimi anni. Quando ero in Magazzino al ricevimento merci. Ma chi ne è più sicuro? Poi spiegherò il perché. Procediamo: oltre a produrre alcolici, la Fabbrica ne importava e distribuiva in Italia. Dall'estero arrivava il whisky, marchi non molto conosciuti o rinomati come il W5 e il Saltyre che la caposquadra Isolina, pronunciava Saltrè ma d'altronde lei era Romagnola puro sangue. Durante un fine settimana arrivó un carico dall'Irlanda. Forse o forse no ma sempre da quelle terre Albioniche. Però chi guidava il Tir, era Irlandese, di questo sono certo. E io fino ad allora non avevo mai visto un Irlandese, anche se sapevo che esistevano. Quella volta vidi una (una) Irlandese. Irlandese camionistA, non un camionistO come si dice oggi. Ricordo solo che era una bella donna sotto il borsalino, inteso il berretto, camicia a quadri, con un fisico asciutto, a differenza dei camionisti che venivano a consegnare alla Fabbrica. Bella davvero e come parlava bene la sua lingua, inglese o irlandese che fosse. Solo che non sapendo io nulla o quasi di inglese, era impossibile comunicare se non a gesti e parolacce, intese come storpiature di parole italiche declinate in un improbabile inglese. In ogni caso, anche a saperci comunicare, ci sarebbe stato ben poco da fare. Come arrivò, scaricò il whisky e ripartì, dopo aver spezzato alcuni Quori, tra cui il mio, quello di Mario Masetti e di alcuni altri carrellisti. Quori che il lunedì successivo erano già riparati e pronti a battere colpi semmai fossero passate altre camionistE. La cosa strana è che io lavoravo al ricevimento materie prime, mentre il whisky veniva scaricato in un altro reparto. Quindi mi resta e mi resterà la curiosità (che come ben si sa, è femmina) di sapere come feci a sapere che era arrivata una Lei camionista. Mah, mistero.
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Non so, non ricordo più bene.
Ricordo solo che era tutto buio. Ti svegli in un letto d'ospedale ma non sai di essere steso in un letto d'ospedale. Non vedi, respiri e pensi ma non vedi nulla. Ascolti soprattutto, per capire. In realtà non vuoi capire ma solo essere rassicurato e cosa c'è di meglio, per un cinno di tredici anni che essere rassicurato dalla voce della propria madre. Buio quindi e voci rassicuranti. Mica poco. Lentamente il buio schiarisce. E con la luce inizi a capire. Anche se non ricordi cosa è successo. O forse preferisci tentare di dimenticarlo. Qualche giorno dopo hai ripreso a vedere, continui a respirare e a pensare, vorresti dimenticare. Invece no, è domenica, nella vecchia casa in disfacimento dietro il bar, vicina alla scuola elementare. Suonano alla porta ed è un amico di tuo padre. Uno che conosci e che ti conosce e questo non è positivo ma non puoi farci nulla. Ha in mano un mazzo di fiori e tu non sai nemmeno da parte di chi ma sai il perché e quei fiori vorresti bruciarli e sai che odierai il tipo che li ha portati anche se non ha colpa di nulla. Quindi lo consideri colpevole di tutto. Non ricordo più bene, se è successo appena prima o dopo il tredicesimo compleanno ma quel numero mi è rimasto in testa, erano sicuramente tredici in un mare di ricordi svaniti. E vorresti sempre dimenticare tutto. Sai che non puoi fare in modo che non sia successo nulla. Per quello è tardi. Poi il tempo passa e con lui gli anni. Ce ne vogliono tanti per crescere e maturare per un ometto, meno per dimenticare. Se non tutto, almeno la parte peggiore. Tanti quanti? Facciamo ventitré. O ventiquattro, non cambia di molto. Meglio tardi che mai, capisci e ti rendi conto che non c'è più chi ti ha fatto un regalo molto importante. Ovviamente è troppo tardi per i ringraziamenti. Lui non può più ascoltarti, anche se ti avrebbe detto che i ringraziamenti non sono necessari. Passano altri vent'anni circa e ti dimentichi del giorno. Ma sai di averlo dimenticato da tempo. Quel giorno in particolare è come i giorni dei compleanni che non ti piacciono, anzi lo odi. Però una volta l'anno sarebbe il caso di ricordarlo. Anche se in ritardo.
Per @finestradifronte
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Il cugino T.
venne praticamente cacciato di casa dal padre. Più che un padre, un animale. Torna alla memoria la sua storia, mentre in TV c'è un documentario sugli italiani in Belgio e a Marcinelle. Il cugino T. ha avuto maggior fortuna dei minatori. Ma non è stato facile. Per lui niente miniera, per lui la pizzeria. Fu il padre a spedirlo a Liegi quando aveva quindici o sedici anni. Da solo, un ragazzo schiavo al lavoro in un ristorante o in una pizzeria e che riusciva a mandare un po' di soldi a casa, a quegli stessi genitori che lo avevano allontanato. Non c'è da sorprendersi che sia diventato un tossico. Eppure, malgrado la dipendenza da eroina, da schiavo col tempo è diventato proprietario di una pizzeria, anzi due. In collaborazione coi figli avuti da una moglie che a un certo punto lo ha lasciato, sempre a causa dei problemi di droga. Una mano gliel'ha data un cugino arrivato in Belgio prima di lui. Lo stesso che anni fa perí in un incidente sulla tangenziale di Foggia, insieme alla moglie e ai due figli piccoli. Il cugino T. non ha avuto una vita facile. Ma tiene botta.
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La Fabbrica 11
Con questo continuo stuzzicare la memoria, tornano a roteare i neuronzi o i protonzi o quel che sono. E nel loro roteare, ogni tanto spu(n)tano fuori un nome o un episodio. Ora è il turno di boh, come cazzo si chiamava? Non riesco proprio a ricordarlo ma. Era un piccolino, alto forse uno e cinquanta e affilato, magro cioè. Piccolino di statura ma non di età. Come Carlino della Sala Confezioni, un bambino rinchiuso nel corpo di un uomo. Ogni mattina prendeva il pullman alle 7.00 in viale Masini e scendeva a San Lazzaro. Lavorava in mensa. La mensa era un grande spazio nel quale, entrando, trovavi a sinistra le cucine e la zona in cui si faceva la fila col vassoio. Di fronte alla zona della fila c'erano i tavoli a cui sedevano, ben divisi, impiegati e operai. Entrando a destra, invece, c'era il bar. Si, c'era proprio il Bar, e che Bar, col pavimento di legno sopraelevato, un bancone di forma ovale all'interno del quale stavano la macchina per il caffè, le attrezzature varie da bar e i baristi. Che erano due uomini. Uno appunto il Piccolino. Che aveva una caratteristica particolare, era indistruttibile, pur essendo epilettico. Ogni tanto aveva delle crisi e cadeva a terra. E siccome lavorava sul pavimento rialzato in legno del bar, quando atterrava, faceva dei botti pazzeschi. Il mio posto in mensa era con le spalle al Bar e ogni tanto mi cagavo (per fortuna solo metaforicamente) addosso. Ero lì, forchetta in mano per addentare i maccheroni, e BOOM, il Piccolino andava a terra. E sistematicamente non si faceva nulla. Tutti accorrevano e lui si risvegliava, disteso in terra che non aveva capito cosa gli era successo. Illeso. L'altro barista era Giancarlo M, detto Celentano. Il soprannome gli venne dato senza alcun motivo legato al cantante, forse solo perché suonava bene. Era un leccapiedi ma atipico, non come Otello V, infatti quando il Bar venne smantellato, finì a fare il Carrellista nel Magazzino Generale e da Carrellista si dimostrò umano e simpatico. Inoltre raccontava delle storie molto carine, per quanto inverosimili. A ridosso del Bar, c'era poi il tavolo da ping-pong, teatro di sfide epiche con il Carrellista Pazzo, Ivano detto 'Vano e Franco B. Con l'arrivo in Fabbrica di noi zuvan (giovani, dicesi anche zuvnaster, ovvero giovinastri), il ping-pong aveva sostituito il biliardo tra gli sport preferiti da operai e impiegati. Ecco, al tavolo da ping-pong si azzeravano quelle differenze presenti invece ai tavoli della mensa, la racchetta vinceva sulla forchetta. Organizzavamo tornei a cui partecipavano tutti, comprese le ragazze, e molte di loro erano difficili da battere. Come la Franchina e la Patty. La Franchina era di Budrio, magrissima e timidissima, amica del cuore della Patty che era invece esattamente all'opposto, bella tonda ed espansiva. Una cosa tipo Stanlio e Ollio declinata al femminile. Però a ping-pong erano piuttosto brave e molte volte era davvero difficile vincere contro di loro. Sarà per questo che il Carrellista Pazzo affibbiò alla Patty un soprannome rimasto nella storia: Sunzona o Sunzauna a seconda se pronunciato a est o a ovest del Sillaro. Il Sunzone è lo strutto, il grasso che si ricava dalla lavorazione del maiale. E si, era davvero un soprannome cattivo, sessista, sciovinista e bodiscemo o come si dice al giorno d'oggi. Però era azzeccato. E poi come fai a fare le crescentine senza il Sunzone ?
Personaggi
Il Piccolino, di cui non ricordo il nome, barista e persona gentile, malgrado la sua patologia, se si può definire così l'epilessia.
Giancarlo M, detto Celentano chissà perché, barista e autista tuttofare, di Monghidoro, Paraculo Supremo. Uno che quando aveva mal di testa, invece che l'aspirina, contava una mazzetta di banconote da mille. E subito gli passava. Sposato con prole e con i vicini esuberanti. Una notte fu svegliato dalla moglie, allarmata perché sentiva grida altissime provenienti dall'appartamento della giovane coppietta appena venuta ad abitare. Celentano dopo essersi messo in ascolto, tranquillizzò la consorte dicendole: tranquilla che non è nulla di grave, è solo che la sposina di fianco non è come te che quando chiaviamo fai "La Motta" (la muta ndr).
Franchina di Budrio e Patty di Bologna, operaie del Confezionamento e amiche del cu...ore. Dimostrazione che non solo gli opposti si attraggono ma alle volte anche le opposte.
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La Fabbrica 10 - Gli Amori, gli Amanti.
Esiste qualcosa di più importante dell'Amore? Penso di no. Escludendo i Tortellini in Brodo o il Pistacchio di Bronte della Gelateria Il Gusto Antico di Castel San Pietro, l'Amore è la cosa più importante nella nostra vita. Ed era così anche alla Fabbrica, in cui l'Amore si esibiva nelle più diverse forme. Inizio dal Reparto Confezioni, allora il centro del (mio) mondo. E dire Amore nel Reparto Confezioni, era dire Ugo F il Caporeparto, principale dispensatore d'Amore. Fa nulla che per distribuire l'Amore che aveva dentro, egli approfittasse del potere derivato dalla sua posizione dominante. Le donne della Fabbrica cadevano come mosche, tranne alcune eccezioni. Almeno una delle tre Caposquadra, la Luisa R, aveva ricevuto il suo Amore. E poi la Maria C che lavorava come operatrice di macchina alla etichettatrice o all'imbottigliatrice. Macchine che avevano il difetto di bloccarsi spesso, causando l'intervento del Caporeparto. Penso che non ci fosse operaia del Confezionamento che non avesse sentito il suo fiato sul c....ulo, tranne quelle che non gli erano gradite esteticamente. Ma oltre alla Sala Confezioni, Ugo F aveva la responsabilità del controllo qualità dei materiali, dalle bottiglie agli imballi, dai tappi alle etichette. Il controllo materiali avveniva in un ufficio distaccato nel Magazzino Generale ed era eseguito da due operaie scelte da Ugo F. Nel tempo si alternarono in quell'ufficio diverse donne, quasi tutte colpite se non affondate. Come la Moglie del Pittore, che andava fiera delle qualità artistiche del marito, del quale mi regalò una stampa con un Einstein in carta rosa. Andava fiera anche della predisposizione all'igiene del consorte, il quale, ella raccontava, in estate si cambiava le mutande anche tre o quattro volte al giorno. Ci fu poi la Marisa, moglie di Agostino di Imola, pure lei colpita e affondata. Ma non tutte le donne della Fabbrica, bramavano l'Amore di Ugo F. Alcune non ne volevano sapere e tra queste, degna di nota era l'Albertina Migliori. L'Albertina era alta, slanciata, con le meches, bellissima. Tutti ne avrebbero voluto un po' ma lei era di altra categoria. Diceva Luigi B che avrebbe fatto volentieri un Pompino al marito dell' Albertina, dopo che questi l'avesse chiavata, solo per assaggiare il sapore della sua passera. Insomma, un po' lirico ma comprensibile. O forse no. Perché Luigi, si era costruito una fama di Gay e faceva coppia con Gino G che invece era davvero Gayosissimo. E innamorato di Luigi che non glielo dava. Perché fosse o non fosse Gay, Luigi faceva una corte spietata al Sig Gaspari, il baffone della manutenzione, a cui diceva che avrebbe dato tutto. Altra coppia "famosa" era quella composta da Otello V e dalla Giovanna muta. Passato da Carrellista a impiegato del Magazzino Generale grazie alle sua abilità da leccapiedi, nel cassetto della sua scrivania, una volta trovai una bottiglia di Olio Baby Johnson. Giovanna la muta invece parlava, anche se non si capiva un cazzo di quello che diceva. E con un volume da amplificatore Marshall. Solo Otello V la capiva benissimo e correva voce che se la inculasse pure, perché la Giovanna muta diceva che le piaceva solo da dietro. Lubrificando col Baby Johnson.
Personaggi
Maria C, operaia macchinista della Sala Confezioni, Siciliana tutto pepe, bionda tinta e labbra rosso fuoco, gelosa all'inverosimile.
Moglie del Pittore, di cui non ricordo il nome, ma che avesse delle tette coi capezzoli perennemente appuntiti, lo ricordo benissimo.
Albertina M, operaia, Ferrarese e Dea della Fabbrica. Pare che la tenesse in serbo solo per il marito che amava alla follia.
Luigi B, operaio, bel ragazzo, concupito da molte Signore in Fabbrica, forse per questo si atteggiava a Gay. Inventore dello "Scodellino" (***) insieme al suo grande amico Gino G, lui davvero Gay. Gino era un operaio di Castel Guelfo. Democristiano e antiquario.
Sig. Gaspari, Tecnico responsabile della manutenzione. Baffoni nerissimi, concupito da Luigi B.
Otello V, Ferrarese di Voghiera. Una lunga carriera da leccaculo lo aveva portato dal carrello elevatore alla sedia di caporeparto. L'uomo della Giovanna Muta.
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Note in peritonite (solo per operati di appendice)
(***) Lo Scodellino, pratica sessuale inventata da Luigi B in collaborazione con Gino G. Si effettua mettendosi al cavalcioni del partner che deve essere per forza di cose di sesso maschile. Dopo avergli praticato un Pompino con ingoio, non si inserisce ma si sputa tutto nel suo ombelico. Si mescola col dito e si risucchia, stavolta ingerendo la mistura. Prosit !
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La Fabbrica 9
Non è possibile non ricordare (cioè è possibile quando si ha una memoria bucata come la mia) i Direttori della Fabbrica. In ordine più o meno cronologico, dal momento in cui fui assunto. I Direttori erano prima di tutto degli esperti del settore e quindi Enologi. Un enologo che si chiamava Giacomo, addetto soltanto al laboratorio chimico della Fabbrica, mi spiegò che (allora, oggi chissà) esistono in Italia due Scuole di Enologia. Una in Veneto a Conegliano e una in Piemonte, ad Alba. Quando queste persone, questi Direttori, arrivavano alla Fabbrica, si sentivano probabilmente sole, non essendo, tranne una sola eccezione, accompagnati dalla famiglia. A lenire le loro solitudini, pensava l'Assistente Sociale, la Signorina S, nome omen, potrei dire, se fossi un maschio-sciovinista. E invece, essendo solo una testa di cazzo, dirò che la Signorina S era molto rinomata per i Pompini. Mi sembra più corretto e più asciutto. Ma era solo per Cazzi altolocati, dal Direttore in su.
Dr. Vittorio M, Piemontese, scuola di Alba. Un Ducetto negli atteggiamenti e nello spirito. Però quella volta che andammo a visitare gli Stabilimenti Cinzano ad Alba, dove lui era diventato Direttore, dopo essersene andato dalla Fabbrica, ci accolse cordialmente. O almeno, cortese lo fu, poi chissà, mica uno è Piemontese per l'anima del cazzo (amici Piemontesi in ascolto, non vogliatemene, sto solo celiando).
Dr. Ruggero B, Veneto, scuola di Conegliano, detto Dr. Bidè. Fu lui a insegnarci, a proposito di Pompini, che le donne Venete li praticano solo se hanno il rosario in mano. Una mano, che l'altra serve ad altro scopo. Baffetti alla Adolf, pare che fosse uno sciupafemmine. Non saprei dire se o chi abbia sciupato, a parte la bocca e la lingua della Signorina S.
Sig. Frederick, l'unico a distinguersi tra i Direttori. Francese e quindi di Scuola di Oltralpe, parlava un italiano bellissimo, strascicando decine di consonanti. Un vero Signore (ma non nel portafoglio), con cui andammo anche a cena alla Trattoria Lucana alla Campana, appena fuori San Lazzaro, ma non ricordo chi pagò. L'unico Direttore con la moglie al seguito e non era ricorso alle terapie orali della Signorina S. Gli fregai dal cassetto della scrivania il levatappi in foto. Esproprio Proletario.
Artemio M, il peggiore, come capacità e umanità, l'unico Direttore non Enologo, probabilmente aveva studiato alla Scuola Radio Enologa. Se avessi detto che era una merda sarebbe stato più preciso ma vabbè. Forse Veneto, forse boh, l'unico che andò ad abitare nella casetta che i padroni avevano fatto costruire per i Direttori, all'interno del recinto della Fabbrica. Aveva una figlia che i Pompini li faceva senza rosario, ma a due mani, parola di Paolino B, Carrellista e Pompiere. Ops, dimenticavo, anche lui si sottopose, e più di tutti, alle terapie fellatorie della Signorina S.
Altri Personaggi
Signorina S, Assistente Sociale, nostrana e artista della Pompa, sia detto con la massima ammirazione. Astenersi poverelli.
Paolino B, operaio in Sala Confezioni, di Castel De Britti (Casteldibrecch). Classe 64 come me ma più ricco e meno alto. Non ho mai capito perché sia venuto a lavorare alla fabbrica. Famiglia molto più che benestante, qualcuno diceva fosse miliardario (e in effetti, allora non si vedevano molti operai girare in Mercedes ultimo modello), mentre io stavo in Artiglieria Controaerei Leggera, lui era Vigile Del Fuoco. Finì nelle liste per diventare Pompiere ma dovette attendere molto tempo. Tempo che passò in Fabbrica. Finì nella Caserma di Budrio.
Giacomo, giovane virgulto Veneto, Enologo, scuola di Conegliano, si era dovuto accontentare di un posto nel laboratorio chimico alla Fabbrica. L'ultimo posto. Peccato. Era colto, intelligente, biondo e bello. Gli piaceva la Figa, più di quanto lui stesso piaceva alla Figa. Compagno di gite in Veneto e in Spagna.
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