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In fondo al pozzo
Zerocalcare - Via: Internazionale
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Tra i beni inestimabili che abbiamo barattato irreversibilmente con il presunto progresso ce n’è uno in particolare: il poter stare sotto a una campana di vetro, l’ibernazione dal mondo. Ovviamente, con questo, non mi riferisco a condizioni più o meno permanenti o patologiche, ma a misure momentanee di isolamento (moderato) che sarebbero una panacea per la psiche e per la salute tutta. Isolamento non necessariamente materiale, ma anche solo dai social, per dire. Passare tre anni senza averne alcuno, nemmeno Tumblr. Nulla di nulla. In riferimento a questo penso sempre al fatto che quando mi sono ammalata, otto anni fa, questa fosse fortunatamente un’opzione ancora disponibile. Se non l’avessi avuta, ai tempi, non sarei riuscita, combattendo contro problemi giganteschi, a ricalibrarmi sulle giuste frequenze, su di uno stile di vita inevitabilmente stravolto e imperniato su nuovi parametri. Non avrei avuto la lucidità necessaria per reinventare il mio quotidiano! Sarei stata costantemente influenzata dal confronto, dalla pressione dei pari, dalla spinta alla vetrinizzazione cui tutti siamo attualmente sottoposti. Mi sarei depressa mortalmente in una fase in cui non potevo assolutamente permettermi cedimenti. Ci sarebbero state serissime conseguenze se fosse andata così. Invece otto anni fa (mica 1000) questa era ancora una realtà in nuce. E mi fa terrore pensare che manchi a pochi, che tutti sembrino contenti così, che non un solo gruppo sociale sembri andare in controtendenza ma che serva invece andare a recuperare quell’anima su un milione che la pensi come te. Non sopporto tutto questo rumore, anche quando si parli di argomenti sacrosanti. Il silenzio non esiste più, sembra sia stato tabuizzato, che quasi rasenti l’offensivo. Gli stimoli che riceviamo sono troppi, stordenti, intaccano l’equilibrio psicofisico del più sano degli individui- oltre a ottenebrare le coscienze.
E vorrei fossero frasi fatte, ma la verità è che questa contemporaneità, essendo ben memore di come stessero le cose prima, mi ammazza.
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Per la rubrica da vera boomer "Odio il gergo dei social": ma cosa mi significa 'sta moda di deffinire PROBLEMATICI film, libri o altro - nell'accezione di: potenzialmente offensivi, controversi, di dubbio gusto?
Lo vado ad aggiungere ai vari Normalizzare, Validazione, Narrazione tossica.
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psicologo: le segno il prossimo appuntamento su un foglietto o...
io: sì grazie
psicologo: non se lo segna sul ce...
io: sul cellulare come fa la gen.Z? No, non ho mai preso l'abitudine.
psicologo: veramente lo fanno tutti.
io (con un certo sgomento dovuto alla presa di coscienza): ... è vero. Conduco una resistenza non violenta, come Gandhi.
#comunque boomer è una parola di cui solo gli idioti sentirebbero la mancanza#anche se ho appena usato gen. Z
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Signore e signori, visto che c’è interesse sull’argomento avrei intenzione di creare un sideblog basato esclusivamente su argomenti di linguistica e filologia in modo tale da dedicare uno spazio apposito e più approfondito a questi temi. A cose fatte rebloggherò questo post lasciandone l’URL. Ci vediamo di là!
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Rifletto su come molte persone prendano la morte altrui, senza esserne non dico trafitte, ma neppure vagamente sfiorate (un concetto che non li riguarderà mai, alieno.)
Potrei andarmene, portarmi via tutta la mia vita e per tanta gente sarebbe solo una notizia ricevuta senza troppo peso durante una giornata al mare, da dimenticare in fretta per andare a fare un bagno.
Forse è "normale", finché non capita a te.
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Negli ultimi 10.000 anni la musica è andata a puttane
https://twitter.com/archeometrie/status/1170031822614474752?s=12
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Quando uno sconosciuto mi ferma per strada (o mi telefona)
Maicol & Mirco
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Questa e altre mille stronzate dell'era social non risultano affatto neutre a chi non ci è nato e si ferma a pensarci, ma lo fanno in pochi. Per ragioni difficili da sintetizzare, l'individuo preferisce, in genere, non andare contro tendenze che percepisce più grandi di lui, anche se questo significa limitarsi a usare una memoria da pesce rosso, dimenticare ciò che dava per scontato vent'anni fa.
Fino a vent'anni fa -grossomodo-, nessuno credeva realizzabili distopie come la pubblicità mirata a ciò che hai appena googlato, avere gli ogm tranquillamente a tavola, l'utero in affitto, la libertà di espressione martoriata in occidente.
Almeno, fino a vent’anni fa -grossomodo-, quando la vita andava in vacca, uno non era costretto a sorbirsi inerme le gioie (spesso senza merito) e in generale le cronache esistenziali di tutto il resto del globo.
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IL MIO RAPPORTO COL CALDO
Io non dico a te che ami il caldo che non devi amarlo. I nostri corpi sono diversi e reagiscono in modo diverso. Ami il caldo e va benissimo. Io invece odio il caldo e mi dispero.
C'è chi dice che non dovrei lamentarmi e fa questa intelligentissima battuta: «Fa caldo. È una cosa normale. Vi svelo un segreto: si chiama estate». Ma il fatto che il caldo sia normale in estate non rende migliore la mia percezione delle temperature. Non mi porta a dire: «Ah, ok. Si chiama estate. Hai perfettamente ragione. Sono stato uno stupido a soffrire per il caldo. Sto già meglio».
Forse vi stupirò, ma dopo aver letto questa cosa continuo a soffrire il caldo. E soffro anche per altri motivi.
PS Se abiti in un grazioso e fresco borgo sulle alpi svizzere, oppure nelle vicinanze di una spiaggia oceanica, e mi dici sorridendo "tranqui, bro, si chiama estate", non posso fare a meno di odiarti e augurarti ogni male. Sto in pianura padana. Qui la situazione è leggermente diversa, più simile all'inferno dantesco.
PPS Ci sarebbe anche la questione del surriscaldamento globale. Non è solo "normalità estiva", eh... [L'Ideota]
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N.1. Sala d'attesa.
La sala d'attesa del medico è fuori dal mondo, credo su un altro pianeta.
Non serve una navicella per raggiungerla ma solo un passo strascicato, un mezzo “che palle” tirato giù perché non si ha voglia di fare due ore di coda per una ricetta.
Quando entri avverti l'aria rarefatta di un posto che non è sulla Terra, non può essere umano, non può essere di questo mondo. Non può perché è diverso dal resto, a parte, a sè stante.
A volte ho l'impressione che le sue pareti siano state costruite intorno a un gruppo di persone che discorre tra di loro. Un giorno, mentre parlavano del più e del meno, qualcuno è arrivato e gli ha costruito intorno delle pareti, ha attaccato gli avvisi sulle esenzioni e messo una segretaria scorbutica e lenta a smaltire il traffico di pazienti e finti malati. Deve essere andata così.
Deve essere andata così perché nelle sale d'attesa ci sono sempre le stesse tipologie di persone e, una volta dentro, si comportano tutte nello stesso modo. Ognuno hai suoi pensieri, le proprie storie. Tutti con occhi che scrutano gli altri alla ricerca di un dettaglio, di uno spiraglio di vita in comune, di un respiro che somigli un po’ al nostro.
Nessuno racconta davvero, qualcuno parla ma le orecchie di tutti sono tese a udire il non detto, il nascosto, il celato.
La signora del piano di sopra racconta di quella del piano di sotto, i ladri in casa e gli acciacchi dell'età, le liti e le raccolte di pomodori, il caldo e le mezze stagioni che non ci sono più, come non c'è più religione con questo governo ladro.
Discorsi sentiti migliaia di volte, usati da sempre per cacciare via il silenzio. Qualcuno racconta delle abitudini del marito, uguali a quelle del padre di un'altra, simili al fratello della moglie di uno seduto vicino alla porta per prendere un po’ d'aria.
“Sa, dal caldo che fa in questi giorni! Non faceva così caldo da un bel po’, vero?”
“Però in fondo è meglio dell'inverno, o no?”
“No, d'inverno fa troppo freddo per noi anziani però i giovani si divertono, eh!”
“Ah, i giovani! Un giovane ieri non mi ha fatto sedere, che roba!”
“Bisognerebbe togliere un po’ di televisione a questi qui, togliere un po’ di vizi”
“Eh, lo so, signora, ha ragione”
“Lo diceva sempre mia madre .. scusate la lacrima, ancora un po’ mi manca”.
“No, ma di che si scusa? Capita a tutti, sa..”
E’ un po’ come quando in ascensore guardi in alto: che cazzo c'è di interessante nel soffitto di un ascensore? Niente, probabilmente, però rimane il fatto che guardare l'altro fa sentire tutti un po’ maniaci e un po’ in imbarazzo. Scappiamo dagli sguardi che in realtà cerchiamo, tacciamo le domande che vorremmo fare e che soprattutto vorremmo ci fossero fatte.
E’ così: aspettiamo che passi il momento di imbarazzo e lasciamo un pezzetto di noi, fino al prossimo giro, prossimo turno, prossimo racconto.
Appena ci passa il tempo, però, rivogliamo solo il nostro silenzio e usciti da quella stanzetta piccola, afosa e soffocante, ci chiudiamo di nuovo nel silenzio stantio delle nostre vite, aggrappati ai nostri segreti. Qualcuno lo racconteremo mentre siamo in coda alla posta, altri mentre aspettiamo il bus o siamo in attesa per la metropolitana.
Qualcuno, invece, lo portiamo a casa con noi e lo confidiamo a chi rimane sotto le lenzuola con noi la domenica mattina.
E poi ce n'è sempre qualcuno che invece non raccontiamo, non lo diciamo mai. Magari lo sussurriamo mentre l'altro dorme, lo focalizziamo sotto la doccia o seduti sul cesso, lo ricordiamo mentre aspettiamo che il semaforo diventi verde o mentre quello dietro ci suona il clacson perché abbiamo fatto ridiventare il semaforo rosso a forza di pensarci. Quello lo teniamo da parte, chissà per chi, chissà perché.
E’ il pezzo d'oro della collezione, quello che viene con noi dall'altra parte o che più facilmente ci scappa da ubriachi. In vino veritas.
Quando finiremo le parole, useremo quelle degli altri ma quel segreto no, mai.
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