"Eva odiava sentirsi sospesa a metri e metri da terra; la straziavano i dubbi, le incertezze, gli spasmi al cuore e tutto quello che riusciva a rendere instabile la sua emotività."
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Ho pregato con tutta me stessa contro me stessa, affinché ottenessi quella felicità per cui ho sempre combattuto con tutta me stessa, anche contro me stessa.
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“Succede. Uno si fa dei sogni, roba sua, intima, e poi la vita non ci sta a giocarci insieme, e te li smonta, un attimo, una frase, e tutto si disfa. Succede. Mica per altro che vivere è un mestiere gramo. Tocca rassegnarsi. Non ha gratitudine, la vita, se capite cosa voglio dire.”
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Clementine von Radics, Mouthful of Forevers
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“can we see the magic in the moment, the explosion in the minor details, the spectacular in the everyday?”
— Black Beans Poetry (via shareaquote)
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“Tu vai pazza per le parole, vero?” – Guardò Lenore. – “Vero che vai pazza per le parole?” “Cioè? Che significa?” “Significa che mi dài l’idea di una che va pazza per le parole. O forse pensi che siano loro a essere pazze.” “In che senso?” Lang guardò nel tavolino di vetro, poi si toccò distrattamente il labbro superiore, con un dito. “Nel senso che le prendi terribilmente sul serio”, – disse. – “Tipo come se fossero un bisturi, o una motosega che rischia di tagliarti con la stessa facilità con cui taglia gli alberi.””
—
David Foster Wallace. (via sheismusic)
ops, sono io
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Tu guarda che creatura sei
Quegli zigomi, quei nei
Quei fantasmi come miei
Tu mi mischi i sentimenti
Come i dischi
Sei un dj
Sembri lei, sai, me ne avevano parlato
Quella che quando la incontri sei fottuto,
E così è stato
Willie Pooh, Willie Peyote
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Grandi speranze Occhi aperti, cuore socchiuso Seguimi, non so dove sono Su un prato, su un campo minato.
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Non sempre riuscivi a capirmi, ma eri l'unico che ci provava.
Isabel Celima
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A(n)sia
Io credo che chiunque, almeno una dozzina di volte nella vita, si sia trovato a fare i conti con il mostro che tutti chiamano ansia.
Questo perché, sempre io, faccio parte di quelli che spesso l’hanno incontrato, il mostro, e ancor più spesso non l’hanno riconosciuto, l’hanno scambiato per qualcun altro.
Avevo forse 13, o 14 anni, non ricordo bene, so solo che facevo ancora le scuole medie, e fu lì che lo conobbi.
Non è che ci fu molto tempo per le presentazioni, semplicemente mi colse all’improvviso, come un treno in mezzo al petto, mi spezzò il fiato, e poi si mise a sedere accanto a me.
La sua mano sulla mia spalla, come per dirmi che non mi avrebbe lasciata sola, mai.
Ero piccola in quei giorni, niente di più che un’adolescente spaventa, e pensai che era normale, che non c’era niente di male, niente di cui uno si dovesse preoccupare.
Così continuai con la mia vita, accanto a quella che poi sarebbe diventata la mia più grande amica, ma io ancora mica lo sapevo.
Ansia.
Gli anni passavano ed io crescevo, ero un pochino diversa dagli altri, di questo me ne accorgevo, però non me ne curavo più di tanto.
Probabilmente il problema stava solo nella mia malinconia, che non era mica l’effetto di niente, anzi per me è sempre stata la causa di tutto.
O sicuramente di tutti i mali, i miei.
Quindi se mi mancava il respiro così a lungo da non riuscire a digerire un boccone, se mi trovavo spesso a piangere sulla stessa canzone, se non riuscivo a muovere un passo, e restavo bloccata nelle mie paure, non c’era niente che non andava, faceva tutto parte della mia natura.
Ero solo una di quelle tristi dal giorno in cui è nata, e come giustificazione questa mi è sempre bastata.
Anche perchè mi avevano insegnato che non si può restare a lungo angosciati, sta male nei confronti della società.
Bisogna mettersi dritti sulle gambe, che quelli ammaccati non piacciono nessuno, e vengono scartati.
Poi però arrivai ai 17 di anni, e quelli me li ricordo bene, perchè fu lì che mi spezzai.
Per la prima volta mi fermai a guardare indietro tutto quello che negli anni avevo faticosamente trascinato, come fosse un bagaglio necessario, non qualcosa da lasciar andare.
E fu lì che la riconobbi: in tutti quegli anni c’era sempre stata lei, l’ansia.
In ogni decisione presa, ma ancor di più in quelle su cui mi ero bloccata, quando per ore la testa andava e costruiva scenari di guerra dove gli spari sembravano così reali che arrivavo perfino a toccarmi cicatrici di ferite immaginarie.
Rimanevo incastrata nel mio inferno personale per quelle che a me sembravano interminabili ore, finché non arrivava una mano amica a tirarmi fuori da tutta quella melma, a dirmi di tornare sulla terra ferma.
Così capii che l’unico modo che avevo per sfuggire dalla mia prigione di sbarre fatte non di ferro, ma in paranoia, era quello di chiedere aiuto agli altri.
Fu lì che iniziai a parlarne, e sempre lì che iniziai a vergognarmene.
Perchè “sei abbastanza carina, piuttosto intelligente, cioè alla fine non ti manca quasi niente”, e con che diritto quindi io andavo da loro a parlare dell’ansia, che giustificazione avevo?
Nessuna.
Così iniziai a sentirmi in colpa.
Guardavo gli altri annegare nei loro problemi sempre più grossi dei miei, e correvo a tendergli la mano per cercare di far restare i corpi a galla.
Perchè io non avevo niente per cui affogare, non avevo motivo di lasciarmi andare.
Però poi la tempesta finiva, ed io invece mi sentivo sempre sballottata come fossimo ancora in alto mare.
Così la testa salpava: e se un’onda alta un metro mi dovesse colpire?
Se improvvisamente non sapessi più nuotare?
Metti che cado e le mie gambe smettono di funzionare, oppure batto i piedi ma non sono così veloce per potermi salvare.
E se poi gli altri cadono con me?
O metti che invece si salvano tutti e si dimenticano di venirmi a cercare?
Sicuramente sto per annegare, me lo sento, è così.
Passa un’ora, ne passano due, e sono ancora qui.
Forse non succede niente, forse era tutto solo nella mia mente.
Così piano piano riprendo il controllo, i pensieri tornano lucidi e smettono di esplodermi come mine antiuomo nella testa.
Ed è nel preciso istante in cui tiro il primo, pulito respiro che mi do della cretina.
Perchè io non avevo nessun motivo per affogare, nessun diritto di poterlo fare, non ci dovevo neanche pensare.
È così che ho smesso di chiedere aiuto agli altri, di chiamarli quando le sabbie mobili iniziavano a tirarmi giù.
Perchè arrivavano, e le sabbie mobili non c’erano, loro non le vedevano, non le potevano vedere.
Ero io la morsa di me stessa, e come lo spieghi a qualcuno che è da te che ti deve liberare?
Come può qualcuno venirti a cercare fra le mura del castello in aria che hai tirato su, mattone dopo mattone, paura dopo paura, nel giro di un solo pensiero?
Non può.
Ed io non ho nessun diritto di chiedergli di venirmi a salvare, perchè se la guerra è solo mia devo imparare da sola a farmela scivolare di dosso, che sui muri esterni della mia casa splende il sole.
Ho continuato a raccoglierli in alto mare, perchè non so come, ma so che di ansia si muore, ed ogni tanto mi sono trovata in un faro buio e stretto che sembrava volermi far soffocare, ma poi mi sono calmata e sono tornata a navigare.
Pensavo che in un mondo dove gli altri provavano così tanto dolore il mio stare male fosse solo uno stupido e infantile modo di sentirmi un pochino speciale.
Qualcosa di cui dovermi vergognare, un bisogno egoista: mi agitavo per cose che nemmeno esistevano, perchè probabilmente non avevo niente di meglio di cui potermi preoccupare.
Per questo motivo mi sono costruita una trincea, scavandomi la fossa con le mani, e mi ci sono barricata dietro.
Da lì potevo sentire in lontananza le raffiche di proiettili arrivare: erano sempre più rumorosi, e sempre più prepotenti, ma fortunatamente mai letali.
L’unica cosa da fare era stare ferme, rannicchiate, con la testa fra le mani ad aspettare che tutto quello schifo passasse.
In silenzio.
Senza disturbare.
Implodendo.
Senza sporcare.
Però poi un giorno sono stata colpita, una coltellata ha squarciato il velo mentre io iniziavo a sanguinare, ed è lì che ho capito che anche quello che non esiste può arrivare a fare male se in quel momento per te è qualcosa di reale.
Così ho imparato a prestarmi attenzione, a scavare dentro me per estirpare la radice del mio male.
Alla fine, l’ho trovata, ma era più radicata di quanto immaginassi - tanto da essere ancora lì.
Basta un pensiero, una sola parola, una situazione che non so controllare, e la mia testa parte, la paura mi paralizza.
Un puntino diventa una macchia, la macchia potrebbe anche allargarsi, magari è una macchia d’inchiostro, e se si spande su tutto il foglio?
Ma se invece fosse nera perchè è petrolio ed arrivasse al mare?
Sicuramente è tossica, potremmo anche morire.
Ecco il flusso che ci sta dietro.
E la cosa brutta è che può essere applicato a tutto, ad ogni puntino che compone la lunga riga della mia vita, ad ogni cosa.
Perchè è vero: io non ho problemi, o almeno, non grandi e importanti problemi.
Ma ne ho uno piuttosto fastidioso.
Adesso sono sicura si chiami ansia.
È così che ho scoperto che ognuno ha diritto alla sua guerra personale, che si può essere soldati anche se agli occhi degli altri si è seduti in territorio di pace; ma qui non è sempre tutto nero, qui il sole scalda le guance e abbronza le cicatrici.
È pieno di cose belle se conosci i posti giusti in cui andarle a cercare.
Fra tutte queste, la prima è stata senza dubbio sapermi accettare, mentre la seconda avere la fortuna di trovare qualcuno che sapesse dove guardare.
Qualcuno che in silenzio mi sorvegliasse dall’orlo dei pozzi in cui ogni tanto cado, che in punta di piedi facesse luce aprendo le finestre del mio castello insano.
Non avevo bisogno che capisse, e molto spesso succedeva appunto questo, che stesse lì a guardarmi incredulo inciampare sul niente, e cadere a pezzi.
Però avevo bisogno di qualcuno che restasse, qualcuno che vedesse quello che nemmeno io potevo spiegare, che mi facesse sentire il mare calmo quando la mia barca cominciava sussultare.
“Si capisce dal tono della voce”, per me è stata la più bella dichiarazione d’amore.
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Abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci ami per quello che siamo - che ami anche i mostri di cui non parliamo.
Eva Prima
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Mi piaci quando dici sciocchezze, quando fai una fesseria, quando menti, quando te ne vai in giro con tua madre, quando arrivo in ritardo al cinema per colpa tua. Mi piaci ancor di più quando è il mio compleanno e mi ricopri di baci e di torte, o quando sei felice e ti si nota, o quando sei geniale in una frase che riassume ogni cosa, o quando ridi (il tuo riso è una doccia nell’inferno), o quando mi perdoni una mancanza. Ma mi piaci ancor di più, tanto che quasi non riesco a resistere da tanto che mi piaci, quando, piena di vita, ti risvegli e la prima cosa che fai è dirmi: “Ho una fame feroce questa mattina. Comincerò da te la colazione”
Luis Alberto de Cuenca y Prado
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Quote
Sarà che io vivo su un altro pianeta che qui l’atmosfera è più rarefatta e il letto in cui dormo non sembra poter ospitare la vita ma quando io sono lontana anni luce da quella che è la tua base spaziale i miei pensieri perdono la loro orbita e io mi ritrovo senz’aria e senza stelle da poter contare. Sotto quelle lenzuola dorme con te la mia stella polare.
Eva Prima.
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