Tesi su Pier Paolo Pasolini di Ester Aureliano, studentessa del terzo anno di filmmaking in NABA Roma. Docente Antonello Faretta
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Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo del 1922 a Bologna. Primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. Il padre, di vecchia famiglia ravennate, sposa Susanna nel dicembre del 1921 a Casarsa. Dopodiche' gli sposi si trasferiscono a Bologna.
Lo stesso Pasolini dirà di se stesso: "Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della societa' italiana: un vero prodotto dell'incrocio... Un prodotto dell'unita' d'Italia. Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, cio' non le impedi' affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma".
Nel 1925, a Belluno, nasce il secondogenito, Guido. Visti i numerosi spostamenti, l'unico punto di riferimento della famiglia Pasolini rimane Casarsa. Pier Paolo vive con la madre un rapporto di simbiosi, mentre si accentuano i contrasti col padre.
Nel 1928 è l'esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. Il quadernetto, a cui ne seguirono altri, andrà perduto nel periodo bellico.
Ottiene il passaggio dalle elementari al ginnasio che frequenta a Conegliano. Negli anni del liceo dà vita, insieme a Luciano Serra, Franco Farolfi, Ermes Parini e Fabio Mauri, ad un gruppo letterario per la discussione di poesie.
Conclude gli studi liceali e, a soli 17 anni si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Collabora a "Il Setaccio", il periodico del GIL bolognese e in questo periodo scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, "Poesie a Casarsa".
Partecipa inoltre alla realizzazione di un'altra rivista, "Stroligut", con altri amici letterati friulani, con i quali crea l' "Academiuta di lenga frulana".
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Scoppia la seconda guerra mondiale, periodo estremamente difficile per lui, come si intuisce dalle sue lettere. Viene arruolato sotto le armi a Livorno, nel 1943 ma, all'indomani dell'8 settembre disobbedisce all'ordine di consegnare le armi ai tedeschi e fugge. Dopo vari spostamenti in Italia torna a Casarsa. La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versuta, al di là del Tagliamento, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio. Ma l'avvenimento che segnerà quegli anni e' la morte del fratello Guido, aggregatosi alla divisione partigiana "Osoppo".
Nel febbraio del 1945 Guido venne massacrato, insieme al comando della divisione osavana presso le malghe di Porzus: un centinaio di garibaldini si era avvicinata fingendosi degli sbandati, catturando in seguito quelli della Osoppo e passandoli per le armi. Guido, seppure ferito, riesce a fuggire e viene ospitato da una contadina. Viene trovato dai garibaldini, trascinato fuori e massacrato. La famiglia Pasolini saprà della morte e delle circostanze solo a conflitto terminato. La morte di Guido avrà effetti devastanti per la famiglia Pasolini, soprattutto per la madre, distrutta dal dolore. Il rapporto tra Pier Paolo e la madre diviene così ancora più stretto, anche a causa del ritorno del padre dalla prigionia in Kenia.
Nel 1945 Pasolini si laurea discutendo una tesi intitolata "Antologia della lirica pascoliniana (introduzione e commenti)" e si stabilisce definitivamente in Friuli. Qui trova lavoro come insegnante in una scuola media di Valvassone, in provincia di Udine.
In questi anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 si avvicina al PCI, cominciando la collaborazione al settimanale del partito "Lotta e lavoro". Diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio nel partito e, soprattutto, dagli intellettuali comunisti friulani. Le ragioni del contrasto sono linguistiche. Gli intellettuali "organici" scrivono servendosi della lingua del novecento, mentre Pasolini scrive con la lingua del popolo senza fra l'altro cimentarsi per forza in soggetti politici. Agli occhi di molti tutto ciò risulta inammisibile: molti comunisti vedono in lui un sospetto disinteresse per il realismo socialista, un certo cosmopolitismo, e un'eccessiva attenzione per la cultura borghese.
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Questo, di fatto, è l'unico periodo in cui Pasolini si sia impegnato attivamente nella lotta politica, anni in cui scriveva e disegnava manifesti di denuncia contro il costituito potere demoscristiano.
Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai Carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne: è l'inizio di una delicata ed umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Dopo questo processo molti altri ne seguirono.
E' un periodo di contrapposizioni molto aspre tra la sinistra e la DC, e Pasolini, per la sua posizione di intellettuale comunista e anticlericale rappresenta un bersaglio ideale. La denuncia per i fatti di Ramuscello viene ripresa sia dalla destra che dalla sinistra: prima ancora che si svolga il processo, il 26 ottobre 1949.
Pasolini si trova proiettato nel giro di qualche giorno in un baratro apparentemente senza uscita. La risonanza a Casarsa dei fatti di Ramuscello avra' un vasta eco. Davanti ai carabinieri cerca di giustificare quei fatti, intrinsecamente confermando le accuse, come un'esperienza eccezionale, una sorta di sbandamento intellettuale: ciò non fa che peggiorare la sua posizione. Espulso dal PCI, perde il posto di insegnante, e si incrina momentaneamente il rapporto con la madre. Decide allora di fuggire da Casarsa, dal suo Friuli spesso mitizzato e insieme alla madre si trasferisce a Roma.
I primi anni romani sono dificilissimi, proiettato in una realtà del tutto nuova e inedita quale quella delle borgate romane. Sono tempi d'insicurezza, di povertà, di solitudine.
Pasolini, piuttosto che chiedere aiuto ai letterati che conosce, cerca di trovarsi un lavoro da solo. Tenta la strada del cinema, ottenendo la parte di generico a Cinecittà, fa il correttore di bozze e vende i suoi libri nelle bancarelle rionali.
Finalmente, grazie al poeta in lingua abbruzzese Vittori Clemente trova lavoro come insegnante in una scuola di Ciampino.
Sono gli anni in cui, nelle sue opere letterarie, trasferisce la mitizzazione delle campagne friulane nella cornice disordinata della borgate romane, viste come centro della storia, da cui prende spunto un doloroso processo di crescita. Nasce, il mito del sottoproletariato romano.
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La critica della modernità di Pier Paolo Pasolini, la sua visione di una società omologata dal consumismo, continua ad essere sempre più drammaticamente attuale. La televisione, secondo Pasolini, “non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere”.
È “un medium di massa” che si asserve alla massa dei telespettatori “per asservirli”, ossia per imporre loro “la leggerezza, la superficialità, l’ignoranza, la vanità”, quali modelli di “una condizione umana obbligatoria”. Soprattutto negli ultimi anni di vita, Pasolini sviscerò le forme di condizionamento esercitate dalla “stupidità delittuosa della televisione” nel linguaggio e nelle forme di comunicazione adottate dagli italiani, scoprendo le forme di un processo di profonda e irreversibile trasformazione della cultura e della società dove le diversità venivano cancellate e sostituite da “valori falsi e alienanti”.
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Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l'adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L'abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la "tolleranza" della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all'organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d'informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente incurante di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane. L'antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l'unico fenomeno culturale che "omologava" gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c'è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s'intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria).
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Il 9 Dicembre 1973 sul Corriere della Sera compare un articolo dal titolo Sfida ai dirigenti della televisione. L’autore è Pier Paolo Pasolini, e lo scritto sarà inserito nella raccolta Scritti corsari del 1975; si tratta di una delle più importanti testimonianze del pensiero e dell’idea di società dell’intellettuale bolognese.
Nella prima parte dell’articolo Pasolini riflette su ciò che è diventata la società italiana negli anni settanta. A questo proposito la parola chiave “Centro” rappresenta quel modello consumistico che pian piano ha allargato il proprio raggio d’azione, fino ad inglobare la stragrande maggioranza degli italiani.
"Il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza".
L’autore individua giustamente nella religione e nel cattolicesimo gli unici fenomeni culturali comuni agli italiani di un tempo, ma adesso questo nuovo fenomeno “omologatore” si prepara a spazzare via anche quel briciolo di spiritualità che caratterizzava la vita di un cittadino. A questo proposito, l’espressione individuata da PPP per identificare il “Giovane Uomo” e la “Giovane Donna” imposti dalla televisione («vanno ancora a messa la domenica: in macchina») è davvero geniale.
Già, perché la televisione in tutto questo ha un ruolo cruciale. All’interno dell’articolo, ma anche in tante altre occasioni (ad esempio il famoso confronto con Enzo Biagi in una intervista Rai del 1971), Pasolini si scaglia violentemente contro il mezzo televisivo. L’autore ne ravvisa lo strumento che, più di altri, ha permesso alla nuova società dei consumi di omologare a sé l’intero Paese. La televisione ha stabilito un modo di pensare unico per tutti, ecco perché Pasolini apre il suo articolo affermando:
"Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi".
L’autore non pensa solamente alla gravità e al pericolo dello strumento televisione, ma anche alle gravi conseguenze che questo sistema mediatico comporta nell’anima degli italiani, «lacerata, violata, bruttata». A parte, infatti, i sentimenti frequenti e comuni di frustrazione e ansia continua, sono riscontrabili atteggiamenti differenti da parte di due categorie sociali: il ragazzo sottoproletario e il ragazzo piccolo borghese. A malincuore Pasolini afferma che il primo, all’inizio così spontaneo e genuino nei modi, si ingentilisce e inizia a vergognarsi della propria ignoranza; il secondo, sotto l’effetto televisivo, perde la sua eleganza e si inselvatichisce.
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In questo articolo Pasolini prende una posizione netta, anticonformista e provocatoria contro la televisione in quanto strumento autoritario di trasmissione di idee. Il discorso è di impronta sociologica, ma presenta risvolti politici significativi. Come Montale, Pasolini parla dell’ Italia post-bellica come di un Italia sottomessa da una dittatura più perversa della precedente. Infatti, mentre la dittatura fascista era stata dichiaratamente tale, la dittatura post-bellica si nasconde dietro una democrazia.
Inoltre, Pasolini afferma che la televisione ha fatto ciò che il fascismo non era riuscito a fare, ha cioè distrutto l’anima degli italiani. La televisione è attaccata in quanto emblema della civiltà dei consumi, una civiltà che sta allontanando il popolo italiano dalle sue origini culturali, che sono contadine, e lo sta privando della sua umanità. Infatti, la televisione ha reso possibile la distruzione di ogni forma di cultura autentica e alternativa, imponendo a tutti un unico modo di pensare, un unico sistema di valori e un unico modello non rifiutabile. L’ideologia dominante nella società italiana attuale, un’ideologia edonistica, cioè basata sulla ricerca e sul soddisfacimento dei propri piaceri individuali, è caratterizzata da una “tolleranza” apparente; in realtà, essa costituisce la peggior forma di repressione delle libertà individuali. Pasolini sottolinea due cambiamenti che hanno portato alla “mutazione antropologica”: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Unite, esse hanno abolito la distanza concreta e quella simbolica e culturale tra i centri del potere borghese e la periferia, distruggendo le culture particolari e imponendo il modello del consumo.
Pasolini conclude affermando che, rispetto al fascismo, il “nuovo fascismo”, ovvero il sistema neocapitalistico, si serve di uno strumento più veloce ma anche più repressivo per manipolare le coscienze e non solo toccare, ma attaccare e distruggere l’anima del popolo italiano: la televisione.
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Pier Paolo Pasolini, oltre che ad utilizzare la televisione, ha usato altri media per comunicare con il mondo. La scrittura, la poesia, la scrittura, la musica. Definendo così la sua figura, un corpo multimediale.
"Ho ricominciato proprio ieri 19 marzo a dipingere, dopo (tranne qualche eccezione) una trentina d’anni. Non ho potuto far niente né con matita, né coi pastelli, né con la china. Ho preso un barattolo di colla ho disegnato e dipinto insieme, rovesciando direttamente il liquido sul foglio. Ci sarà una ragione per cui non mi è venuta mai l’idea di frequentare qualche liceo artistico o qualche accademia. Solo all’idea di fare qualcosa di tradizionale mi dà la nausea, mi fa stare letteralmente male. Anche trent’anni fa mi creavo delle difficoltà materiali. Per la maggior parte i disegni di quel periodo li ho fatti col polpastrello sporcato di colore direttamente dal tubetto, sul cellophan; oppure disegnavo direttamente col tubetto, spremendolo. Quanto ai quadri veri e propri, li dipingevo su tela di sacco, lasciata il più possibile ruvida e piena di buchi, con della collaccia e del gesso passati malamente sopra. Eppure non si può dire che fossi (e eventualmente sia) un pittore materico. Mi interessa più la «composizione» - coi suoi contorni - che la materia. Ma riesco a fare le forme che voglio io, coi contorni che voglio io, solo se la materia è difficile, impossibile; e soprattutto se, in qualche modo, è «preziosa».I pittori che mi hanno influenzato nel ‘43 quando ho fatto i primi quadri e i primi disegni sono stati Masaccio e Carrà (che non sono, appunto, pittori materici). Il mio interesse per la pittura è cessato di colpo per una decina o una quindicina d’anni, dal periodo della pittura astratta a quello della pittura «pop». Ora l’interesse riprende. Sia nel ‘43 che adesso i temi della mia pittura non possono che essere stati e essere famigliari quotidiani, teneri e magari idillici.
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Pier Paolo Pasolini sulla spiaggia di Skorpios disegna il volto di Maria Callas durante l'estate 1969 © Graziella Chiarcossi-Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” Firenze
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Malgrado la presenza cosmopolita di Longhi - la mia Nous nemmeno pregata, allora, tanta era l’adorazione - la mia pittura è dialettale: un dialetto come «lingua per la poesia». Squisito, misterioso: materiale da tabernacoli. Sento ancora - quando dipingo - la religione delle cose. Forse una parentesi di trent’anni fa sì, che in questo campo, il tempo non sia passato, e io mi ritrovi, davanti a una tela, al punto in cui ho smesso di dipingere.
Naturalmente tra i miei idoli (dimenticavo) c’era anche Morandi. Non posso allora tacere il mio immenso amore per Bonnard (i suoi pomeriggi pieni di silenzio e di sole sul Mediterraneo). Vorrei poter fare un quadro un po’ simile a un suo paesaggio provenzale che ho visto nel piccolo museo di Praga. Nel peggiore dei casi, vorrei poter essere un piccolissimo pittore neo-cubista. Ma mai, mai, potrò usare il chiaroscuro, né soffiare il colore, con la spugnosa purezza e perfetta pulizia che sono necessarie al cubismo. Ho bisogno di una materia espressionistica, senza possibilità di scelta. (Come si vede, anche i dilettanti hanno i loro appassionati problemi)."
Pier Paolo Pasolini
Uno scritto di Pier Paolo Pasolini, 1970 (pubblicazione postuma) tratto da: Achille Bonito Oliva, Giuseppe Zigaina, Disegni e Pitture di Pier Paolo Pasolini, 1984, Balance Rief SA, Basilea.
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