Blog con gli aggiornamenti sulle pubblicazioni "edidatelling"
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Il vuoto nella canna
:: di Stefano Angelo ::
Fish and chips
Mi ritrovo seduta al tavolo di un fish and chips, tenendo tra le mani una tazza di tè irlandese per cercare di incontrare un po’ di calore. Dall’altro lato del tavolo non c’è nessuno. Solo un oggetto inconsueto appoggiato in bella vista, come fosse l’arnese più banale del mondo. Invece no. Si tratta di un fucile. Forse un fucile da caccia, di quelli a otturatore girevole. Così mi hanno detto. Ho una sensazione di disagio, di nausea e una rabbia celata da uno sguardo perso nel vuoto. Dopo un po’, fisso il fucile. Lo avevo trovato sulla soglia di casa qualche giorno prima. Lasciato da chi? Da mio fratello… Intanto rimugino sulla cosa che mi aveva irritata di più: non era quell’arma, apparentemente più ossidata di me, ma il biglietto che l’accompagnava e che non ho ancora avuto il coraggio di strappare. Il calore della tazza inizia finalmente a sortire qualche effetto mentre un’accozzaglia di pensieri intasano il mio cervello. Io non vorrei uccidere lui, mio fratello, con quel fucile ossidato e carico del mio dolore. Ma suo figlio, mio nipote. Un ragazzo (fastidiosamente) perfetto, (apparentemente) adorabile, con tanta gioia di vivere; dicono. Non so se lo amo, almeno un po’. Ma so che odio mio fratello. Alla follia. Il nipote sarà la mia lama, la mia vendetta. Che deliri… Intanto medito sul dopo. Sulla sofferenza inflitta a mio fratello. Sulle sue lacrime. Sul suo sudore. Sul vuoto. Suo. Mio. Di entrambi. In alcuni momenti immagino lo sparo, l’odore della polvere, il rumore assordante. Un fischio nella testa mi disturba. Resto attonita. Penso alla vita interrotta. Ma è un lampo. Poi ripenso a mio fratello. A quanto lo odio, a come lo odio e a quanto soffrirà con me. Penso alla mia vita bruciata. Penso a mio padre, che se ne è andato molto prima, sfuggendo alla mia croce. Penso alla mia casa. A come era prima che si ammalasse mamma. A come era durante la malattia, con un letto in cui era apparsa una crocifissa, con le scatole di medicine sparse ovunque. Penso al disordine, agli odori. Penso alla routine a cui ero costretta, ai tempi scanditi da esigenze non mie, alle inutili visite dei dottori. Penso a me, al figlio che avrei potuto avere… mi si annebbia la vista. Resto catatonica, per diversi istanti. Una voce un po’ stridula mi ridesta dal mio torpore. È la cameriera che mi chiede se voglio qualcosa da mangiare. Un cheesecake, rispondo meccanicamente. In fondo non ho nemmeno fame. In fondo ho le budella attorcigliate. Nell’attesa piombo di nuovo nel mio passato… * * *
Passeggiate
Le mie giornate erano tutte uguali, da sette anni oramai. La casa era sempre più vuota e sporca, dopo la morte di mio padre. Il giardino era uno schifo. Le erbacce invadevano in maniera arrogante i miei spazi. Tutti i colori intorno a me erano sbiaditi. Anche io ero sbiadita. I miei occhi guardavano in maniera sfuggente la mia immagine nello specchio. Non ero più io? No, non ero più io. A trentotto anni avevo dovuto lasciare il mio lavoro per occuparmi “meglio” di mia madre. Il mio lavoro di maestra mi piaceva, forse. Già non lo ricordo più. Ma almeno, al mattino, prima di uscire di casa mi lavavo, mi vestivo in maniera pensata. Ero decorosa e rispettata.
Pochi alunni in quella cittadina persa nella polvere, avevano un futuro incerto ma questa consapevolezza non mi demotivava. Alcuni bambini, con le loro famiglie, se ne erano già andati, la vita nei campi era dura e la fabbrica di armi della città vicina era una promessa. I negozi lì luccicavano. Le vetrine erano colme… Ci andavo spesso e mi piaceva vedere il mio riflesso per niente sbiadito in quelle vetrine. Mi piaceva proprio andare in quella città. Era una promessa anche per me. Lì viveva un avvocato di origine russa. Si era trasferito nella Città delle armi (così la chiamavo) dopo la Grande Guerra. Si chiamava Nikolay Melnikov. Melnikov significa mugnaio, ma ero l’unica a saperlo in quella città. Era serio, imponente. La sua mole un po' intimidiva. Era abile, molto abile. Aveva fatto amicizia con il sindaco e aveva già molti clienti. Nella Città delle armi si scatenavano diverse dispute. In altri tempi non ci sarebbe stato bisogno di un avvocato, pensavo. Oggi sì. Con Nikolay passeggiavamo spesso per le strade della Città delle armi, perfettamente asfaltate, perfettamente illuminate, soprattutto nei giorni di festa. Passeggiavamo sfiorandoci spesso, senza mai toccarci in maniera evidente. Era prematuro. Eravamo due persone rispettate. Con un ruolo, un obiettivo, un senso. Ma i dorsi delle nostre mani si cercavano e si incontravano. Complici. E bastava questo per farmi stare bene. * * *
Il giardino
Grande Guerra a volte ripetevo nella mia testa. Cosa avrà mai di grande una guerra. Io ero mite, a quel tempo. Coltivavo il mio giardino con precisione maniacale. Nessun cespuglio invadeva l’area del vicino. Io non invadevo l’area di nessuno. Ero riservata. Il mio sguardo non era ancora schivo. Scrutavo in maniera discreta le cose e le persone. Pensavo di capirle ma preferivo gli animali. Avrei voluto un laghetto con dei pesci. Non sapevo ancora che tipo di pesci. Piccoli, silenziosi, non invadenti. Ne avevo parlato timidamente con mio padre. Ancora mi metteva soggezione. Parlava poco, meno degli altri reduci. Spesso era assente. Non avrò mai lo sguardo come il suo, pensavo. * * *
La prigione
Le mie giornate trascorrevano serene. La mia routine lavorativa mi piaceva. Ma ultimamente mi piacevano di più le passeggiate nella Città delle armi. Lui non veniva mai qui. A lui non piacevano le strade polverose. A lui piacevano le camicie ben stirate, le cravatte e aveva una passione smodata per le bombette. Adorava quei cappelli… e io adoravo lui. Ma poi, tutto cambiò. Quando mamma si ammalò il mio tempo libero si sfumò. I primi tempi della malattia passavo i pomeriggi nei centri medici e nelle farmacie. I fine settimana, invece di andare a trovare Nikolay, provavo a scrivergli delle lettere. Non sempre ci riuscivo. Lui i primi tempi mi rispondeva, poi meno, poi in maniera distratta. Mio fratello, sfuggente, quasi mai mi concedeva un fine settimana di riposo. Lui aveva la sua famiglia, il suo lavoro. In uno di questi fine settimana “liberi” riuscii ad andare da Nikolay. Notai subito, dal suo sguardo, che qualcosa era cambiato. Era rigido, forse per nascondere il suo imbarazzo. Provai ad avvicinarmi a lui e percepii un odore estraneo, un profumo di donna appiccicato sulla sua camicia. Ricordo un brivido e la sensazione di un pugno nello stomaco. Ancora, però, conservavo il mio orgoglio. Tornai a casa senza batter ciglio. Ancora il mondo non mi era caduto addosso e mantenevo viva la speranza di una riscossa. Mi sbagliavo. La malattia di mia madre peggiorò. Nel giro di poco non fu più capace di alzarsi dal suo letto. Mio fratello, con un sorrisetto difficilmente interpretabile, appoggiò subito l’idea di mio padre: dovevo lasciare il mio lavoro. Ero l’unica che poteva occuparsi di mamma. Io, solo io. Il mio senso del dovere, verso la mia famiglia, mi impedì di vedere le conseguenze e diedi le dimissioni. L’adrenalina si alternava alla frustrazione. Poi i sensi di colpa, anche verso i miei pochi alunni, ma prima viene la famiglia, mi dicevo. * * *
Il fantasma
Dopo alcuni mesi mio padre morì, in maniera silenziosa, senza preavviso, durante una notte un po’ afosa. Gli ultimi anni con lui non erano stati di certo piacevoli ma nemmeno spiacevoli. Semplicemente era assente. Si affacciava di tanto in tanto da uno stipite della porta della stanza in cui viveva mia madre, senza mai entrare, senza mai parlare. La guardava per qualche istante per poi sparire nel buio del corridoio. Non lo notavi arrivare e non lo notavi andare via. Percepivo a volte il suo sguardo ma ormai non mi giravo più verso di lui, per invitarlo a entrare. Vagava per casa. Ultimamente non usciva nemmeno più in giardino. A volte gli portavo da mangiare in stanza, quando non si presentava spontaneamente a tavola all’ora abituale. Quasi lo preferivo. Stare a tavola con un fantasma, che nemmeno ti guarda, mi metteva a disagio. Stringevo forte le posate, ma non avevo il coraggio di rivolgergli la parola. Ero stufa di non ricevere risposte. Da un lato lo compiangevo per i traumi subiti in guerra, dall’altro lo odiavo per la sua rinuncia alla vita. Possibile che nella nostra casa non avesse trovato nessun conforto? Nessun motivo per reagire? Per riprendere a vivere? Almeno un po’. Così dopo la sua morte non dico che mi sentissi sollevata, ma nemmeno affranta. E poi c’era ancora mia madre. Dovevo ancora pensare a mia madre. * * *
La morte
La morte di mia madre arrivò cinque anni dopo quella di mio padre. Una morte diversa. Tra spasmi e lamenti. Bava e rantoli. Alla fine la sua faccia rimase quasi pietrificata in una smorfia di dolore. Non ebbi, alla prima, il coraggio di pulire e ricomporre il suo viso. Non volevo più toccarla. Dopo che per anni mi ero occupata di lei, di tutto il suo corpo. La parte più profonda di me non ne poteva più, malgrado l’amore. Era finita, ma ero finita anche io. Libera? Di fare cosa? Mi sentivo come un recluso che dopo trent’anni viene sbattuto fuori dalla prigione. Il trauma di uscire, da una tua prigione, a volte è più duro di quello che hai provato al momento di entrare… Con un dolore si può imparare a convivere, ti puoi convincere della sua “necessarietà”. Ma quando te lo tolgono all’improvviso? Che fai? Hai le forze per reagire? Per tornare a vivere? In quel momento vedevo, capivo, mio padre… ma la cosa per nulla mi allietava. * * *
Il testamento
Qualche settimana dopo venni convocata insieme a mio fratello dal notaio. Ero distrutta, logora e non solo per il dolore. Mio fratello aveva sempre quel sorrisetto un po’ impertinente. Mi dava fastidio anche il suo modo di “darmi coraggio”, come se la donna morta da poco non fosse anche sua madre. Ma c’era qualcos’altro, anche se ancora non riuscivo a capire. Il notaio, in maniera solenne, iniziò il suo rito, dopo averci spiegato alcuni dettagli sulla procedura. Prese un elegante tagliacarte, d’argento, con un manico ricco di incisioni e iniziò ad aprire la busta. I suoi movimenti erano lenti, troppo lenti. Io non vedevo l’ora di fuggire via da quella stanza e di rinchiudermi nuovamente nella “mia” casa. Finalmente, dopo aver disteso il contenuto del plico sulla sua scrivania, il notaio diede inizio alla lettura. Ascoltavo e non ascoltavo. Ero in uno stato di torpore. Pensavo fosse una pura formalità e continuavo a sentire forte l’impulso di andar via. Il mio disagio nel “mondo esteriore” era già marcato. A fatica mi ero ricomposta e vestita in maniera decente per l’occasione. Mio fratello era impeccabile come sempre e stranamente rilassato. Ecco ci siamo, il notaio stava per concludere ma la frase finale mi diede un sussulto. La maggior parte dell’eredità andava a mio fratello. A me restava solo la parte legittima. Ma come? Dopo anni di sacrificio, nemmeno il “diritto” all’equità! Cercai di balbettare qualcosa. Ma non avevo nemmeno la forza per protestare. E poi, cosa mai avrei potuto dire o fare rispetto alla volontà, presunta, di mia madre. Pensai per pochi istanti a Nikolay, avrei tanto voluto un braccio, in quel momento, su cui appoggiarmi. Mi alzai, invece, barcollante con le mie poche forze e mi trascinai senza fiatare verso l’uscita. * * *
Fish and chips (parte seconda)
Mi ritrovo adesso nel fish and chips, con quel fucile e con quel biglietto. Con una gran voglia di piangere ma non ho più lacrime da spargere per nessuno, nemmeno per me. Sul biglietto, scritto a mano, una sola parola: sparati. Come se la mia vita fosse già finita e priva di valore. Sarà anche così, ma che sia un’altra persona a ricordarmelo e a propormi una “soluzione” mi manda fuori di cervello. Sul dorso del biglietto una seconda opzione: quel cane di mio fratello, pieno del suo ego e del suo egoismo, mi invita a lasciargli la mia parte di casa il prima possibile, in cambio di una modesta cifra. Ma io non sono obbligata a vendergli la mia parte. Ma che diamine deve farsene di un’altra casa! Lui già ha la sua, comprata in parte con i soldi di mio padre, di nostro padre. La sua avidità mi lascia sbalordita. Come avrà fatto a convincere mia madre. Forse con la bella faccia del nipote? Poco dopo la morte di mio padre, avevamo convenuto che l’eredità di mia madre sarebbe stata divisa equamente e che con i miei risparmi avrei poi potuto comprare la parte della casa di mio fratello. Insomma, la casa sarebbe toccata a me. Quando mio fratello fece firmare a mia madre il testamento e lo portò dal notaio io mi fidai. Pensavo ingenuamente di conoscerne il contenuto. Perché mi fidai? Una parte di me ribolle di rabbia, come un magma represso e compresso nelle mie viscere. Ma sono ormai troppi gli strati di apatia da attraversare. Così mi ritrovo seduta da sola, in compagnia di un oggetto estraneo, a questo tavolo, con le mani intiepidite da una tazza di tè e con lo sguardo perso nel vuoto, nascosta da inutili strati di fard appiccicati sul mio volto in maniera distratta. Mi ritrovo aspettando… senza sapere esattamente cosa. © Testo – Stefano Angelo :: Editing a cura di Salvina Pizzuoli :: Immagine di copertina di Martin Kollar, modificata. :: Nota: Questo racconto, ispirato da una foto (di Martin Kollar) mostrataci da Mattia Grigolo durante un suo corso di scrittura creativa del 2019 (organizzato da ItaliaAltrove Francoforte), è un frammento di una raccolta – I racconti della donna con il fucile – che avrebbe dovuto dare vita a una pubblicazione cartacea. Purtroppo, causa COVID e impedimenti vari, il progetto si è arenato. Di tanto in tanto pubblicheremo alcuni di questi frammenti per rievocare un’esperienza, quella del corso, che ha comunque dato il “la” a nuove avventure su questo blog :: Read the full article
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Il sergente
:: di Lyes :: Ero andata via dall’ufficio senza salutare. Non lo facevo mai, ma in quei giorni ero stanca di tutto e di tutti. Questo dover oltrepassare i controlli e una sbarra all’entrata e all’uscita dal lavoro, mi rendeva intollerante, antipatica e claustrofobica. Particolarmente. Perché già lo ero di mio… Ma non da quando c’era lui. Avevo cominciato a notarlo qualche settimana prima. Cambiavano sempre e da poco era arrivato questo marcantonio dagli occhi blu che guardava sempre fisso davanti a sé. Nemmeno trentenne, io con qualche anno in più, aveva gli occhi del mare d’inverno, carnagione scura e lineamenti marcati. Sembrava uscito da una vecchia pubblicità della Coca-Cola. Però non sembrava affatto essere il bulletto a cui si atteggiava. Forse perché mi ricordava, a tratti, un caro amico d’infanzia, con cui avevo passato l’adolescenza e a cui avevo regalato la mia verginità. Avendo perso il padre da bambino era sempre incazzato col mondo. Faceva il bulletto ma io un po' lo compativo. Così, non dando poi tutta quest’importanza all’evento, decisi che la nostra era comunque una forma d’amore e mi lasciai sedurre con affetto, anche se nessuno dei due era veramente innamorato. Crescevamo insieme e basta. Il marcantonio mi controllava i documenti e non mi degnava di uno sguardo. Nemmeno per vedere se la foto corrispondeva. Mi faceva aprire l'auto, ma niente. Neanche al mio stringato, ma almeno civile, saluto era seguita mai alcuna occhiata, un sorriso, nulla. Forse era solo questo a renderlo interessante ai miei occhi. Quasi rallentavo per farmi fermare quando c’era lui. Ma ero una donna e non mi fermavano spesso. Non oggi però. Oggi controllavano tutti. Ogni tanto accadeva che ricevessero ordini dall’alto che bisognava ispezionare tutti. Ed eravamo in fila. Pazienti gli uomini. Le poche donne, meno. C’era sempre qualche scusa: figli da andare a prendere, correre a fare la spesa, cucinare, riunioni a cui partecipare. Insomma sembrava che gli uomini, in confronto a noi, non avessero mai niente da fare. – Gentilmente mi apre dietro? – Certo. Che voce stridula mi era uscita. Mentre sprofondavo dalla vergogna aprii il portabagagli e subito mi caddero a terra le mille cianfrusaglie stipate dentro la macchina che usavo ormai come una seconda casa. A entrambi venne automatico chinarci per prenderle e così, grazie a questo gesto quasi involontario, ci toccammo per la prima volta dandoci una severa testata l’un l’altro. Lui non si scalfì nemmeno, io invece persi l’equilibrio e mi ribaltai per terra. Mi affrettai a scusarmi. Non so perché. Forse perché la divisa mi incuteva un po' di timore. Ma avrebbe potuto farlo anche lui. Lo chiamarono. – Sergente. Venga. Niente nome. Mi fecero spostare avanti per far passare gli altri. Lui tornò indietro e guidò la mia auto fino a superare il controllo e parcheggiò accanto a me che nel frattempo ero stata messa a sedere su una sedia con del ghiaccio sulla testa e sul ginocchio gocciolante sangue, tra le calze smagliate. L’accaduto ci aveva regalato quell’inaspettata intimità. – Come si chiama? Mi chiese porgendomi le chiavi della mia auto. Ma lo sapeva già il mio nome. – Matilde. E lei? Nessuna risposta. S’inginocchiò di fronte a me e controllò le mie ferite. Mi accarezzò piano la fronte e finalmente dopo settimane che mendicavo il suo sguardo, i suoi occhi fissarono i miei. – Perché non se ne va via? Perché non me ne andavo via? Già, pareva facile. Prendere e lasciare tutto. Senza un soldo. Senza un lavoro. Senza alcun amico lontano che ti potesse ospitare. Eh però se restavi e succedeva che morivi in uno dei mille atroci modi possibili, non era certo meglio. No. Decisamente non lo era. – … E dove dovrei andare? … Arriverà anche qui? – Sì. Era stato un vero e proprio avvertimento. Un dirmi qualcosa che forse non avrebbe potuto. Ma io lo stesso non sapevo dove mai sarei potuta andare. I giorni passarono e fummo immersi in questa coltre di ansia e incertezza. Suonavano le sirene. Correvamo negli scantinati. Ogni tanto arrivavano notizie da dove era la guerra. Quella vera. Quella dove qualcuno che conosci è scappato o muore o non ne sai più nulla. Eravamo un po’ tutti sgomenti. Sotto choc. Mai avremmo potuto immaginare che una guerra, oggi, avrebbe preso posto nelle nostre vite. La guerra apparteneva al passato. Ai libri di storia o a un film, al massimo. E invece, nonostante sembrasse tutto così incredibile e assurdo, eravamo lì, e io avevo paura di tutto. Anche per il mio gatto ammaccato che si aggirava sempre più circospetto per casa. Da qualche giorno venivo fermata più spesso. Non solo io. La situazione era peggiorata. Mancava spesso l’acqua e riuscivo a lavarmi solo a pezzi. Mi sentivo sempre sporca e in ansia. I rumori mi atterrivano. L’umore era nero. – Mi deve dare i suoi documenti. – Ma sono sempre quelli i miei documenti. Passo da qui tutti i santi giorni, quattro volte al giorno. Non è che scado. Nonostante tutto risi di me stessa e della mia acidità. Il sergente alzò un sopracciglio e per la seconda volta in questa assurda storia, mi guardò dritta negli occhi. – Non c’eri ieri. Il suo darmi del tu mi sbalordì. – No. Riuscii a biascicare. – Nemmeno giovedì. – No. Il cuore cominciò a battere velocemente e dopo tanto tempo ebbi quasi un attimo di pura euforica allegria. Non ero più abituata a sentirmi leggera ed ero come ubriaca. – Stai meglio? – Sì. Non rispondevo che a monosillabi ma volevo gridare. Mi trattenni. E poi arrivò la mazzata. Inaspettata. Brutalmente inaspettata. – Tra 15 giorni mi trasferiscono. Mi sentii mancare. Ecco che questa oasi di vuoto, di estraneità all’orrore, me l’avrebbero tolta. Questo miracoloso rituale, che mi permetteva di sopravvivere ogni giorno, sarebbe finito. – Dove? Domanda inutile e stupida. Mi fece cenno di andare. E io mi sentii salire lacrime amare e piene di rabbia. Arrivai a casa con gli occhi arrossati e pieni di un mare salato. Salii in fretta e, visto che scorreva un leggero rigagnolo d’acqua, m’infilai sotto la doccia, nella speranza che durasse quantomeno per lavare via questa insensata frustrazione. Il citofono suonò. – Posso salire? Riconobbi la voce e aprii senza dire una parola. Senza nemmeno indicare il piano. Se sa dove sto, sa pure a che piano. Bussò e io aprii la porta, con i capelli bagnati e l’accappatoio addosso. Arrivò anche il micio che lo fissò torvo e sbilenco. Con mia grande meraviglia lo guardò e lo salutò sorridendo. Sorriso che era la prima volta che vedevo. I denti bianchi, erano perfettamente allineati. – Ciao gatto. Dal mugolio che ne seguì, compresi che anche il mio gatto si era preso, immediata, una cotta per lui. Dal gatto passò a guardare me. Mi guardò intensamente e a lungo. Per tutte quelle volte in cui prima non l’aveva fatto. – Posso? Mi chiese in un sussurro e io feci solo cenno di sì. Mi aprì l’accappatoio piano, mi afferrò i fianchi e cominciò a baciarmi lungo il collo, dietro l’orecchio. Mi accarezzò ogni centimetro di pelle. Avevamo bisogno del calore l’uno dell’altra e non smettemmo un secondo di guardarci e baciarci e sorriderci. Disperati. Mi svegliai con lui addosso. – Non so nemmeno il tuo nome. Si mise a ridere… – Ok. Ricominciamo da capo. Ci vediamo a pranzo. Ci incontriamo ufficialmente e ci presentiamo. – Ok. Sembrava un ragazzo adesso. E lo era. E se ne andò baciandomi sulla fronte. Aspettai l’ora convenuta con un’ombra nel cuore. Avevo paura che fosse stato solo un modo facile per andarsene. E invece eccolo lì, che ancora mi sorrideva arrivando da lontano. Con gli occhi fissi su di me. All’improvviso non vidi né sentii più nulla. Balzai violentemente all’indietro dal mio tavolino contro il muro. I vetri si frantumarono e la polvere fu ovunque. Un tremendo boato mi rimbombava nella testa e per qualche minuto non seppi più dov’ero e cosa stavo facendo. Mi scossero. Brandelli di carne e tutto il rosso che avevo addosso pensarono fosse il mio. Ma non era il mio sangue. Avevo (in loop) nella testa, lui che mi guardava per la prima volta. Lui che mi accarezzava il viso, lui che mentre facevamo l’amore mi sussurrava quanto mi aveva desiderato. Lui che mi sorrideva da lontano. Lui che saltava in aria. Qualcuno venne a chiedermi se sapessi il suo nome. Io avevo ancora il suo odore addosso. Ma il suo nome no, non lo sapevo. E non lo avrei saputo mai. © Testo – Lyes N.B. L'immagine utilizzata per la copertina è stata presa dal Web, ma non siamo riusciti a risalire agli autori. Siamo a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni o per errore di attribuzione. Qualora l'immaginie utilizzata in questo testo violasse eventuali diritti d’autore, si prega di darne comunicazione e sarà immediatamente rimossa.:: editing a cura di edida.net :: Read the full article
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Il dito medio
:: di Stefano Angelo :: – Non ce la faccio più. – Che succede chavalín? – Smettila di parlarmi in “itañolo” che non vivi più in Spagna. E poi non sono più un ragazzino. – Come che non vivo più in España, ma se l’Europa dovrebbe essere una Spagna allargata! – Ma che dici nonno? Allora i tedeschi potrebbero dire che l’Europa dovrebbe essere una Germania allargata! Ma non è così! – Guarda che i teutoni ci hanno già provato una volta e secondo me continuano a provarci, anche se in forme diverse… – Ma bastaaa! Che nel 1939 non eri nato nemmeno tu! – Dettagli (e poi pensavo un po’ anche al dodicesimo secolo). – Ma che dettagli, piuttosto spiegami perché solo noi usiamo la parola “tedeschi”. In spagnolo si dice Alemania y alemanes, in inglese Germany and Germans, in francese si dice Allemagne et Allemands, perché diamine noi usiamo la parola “tedeschi”? – Ma quante lingue tu sai? E poi se continua così saremo sul serio tutti “tedesken”, studia solo il tedesco che è meglio, va… – Ma basta con ‘sta crisi post elezioni. Anche il comunismo è morto e in fondo non è servito a niente, anzi ha fatto solo danni. – “Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?” – Smettila di citare Gaber e dimmi qualcosa di sensato. – “L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia” – Al massimo puoi dire “spero” ancora che ci sia… – Ma basta “non parlare” di politica, veniamo “a noi!” (accennando, ridendo, il saluto fascista) Cosa ti turba nipotino mio? Luce dei miei occhi, lampadina del mio bagno da 100 watt. – Sei solo invidioso perché la nonna mi diceva che sono “bello come il sole” mentre a te non lo ha detto mai (ridendo di gusto). – Quisquilie. Allora, vuoi dirmi perché sei venuto a disturbarmi mentre mi stavo godendo il mio sigaro toscano? – Semmai ti stavi vedendo un porno, dai nonno che li so tutti i tuoi segreti. – Zitto zitto, con tutti i droni che ci sono, altro che Orwell. – Ma se ne usi uno anche tu per spiare le vicine di casa! – Appunto (ridendo di gusto). Ma alla mia età non possono mica mettermi in prigione. – Hai ragione! (ride anche il nipote, citando Gianna Nannini) – Allora, vuoi svelarmi l’arcano? – Va bene nonno. Torniamo seri. Il problema è che non sopporto più la mamma. – E che succede? Cosa avrà mai fatto questa volta quella santa donna. – Mi dice che non posso fare “il dito medio”, che è volgare. – E non ha ragione? – Ma se a scuola lo fanno tutti, anche i professori, a volte. – Non farmi ritirare fuori la storia del salto nel pozzo, per favore. – Ma non centra l’imitazione o l’esser succube delle mode, come dici te. Il fatto è che ormai sono grande e posso dire le parolacce, anche con le mani se voglio. – Di nuovo con “l’erba voglio”, che lo sai già “la un nasce neanche ’n Boboli”. – Nonnooo ma basta con le citazioni e basta dirmi che non posso fare quello che voglio io fino a quando non mi metto a lavora’, che tanto di lavoro ce n’è poco. – Questo è vero, però il rispetto delle regole di una casa è una cosa importante. – E perché io non posso partecipare alla stesura di queste fantomatiche regole? E poi… magari fossero messe per iscritto. Escono così, all’improvviso, quando meno te lo aspetti. Secondo me mamma e papà se le inventano di volta in volta solo per farmi impazzire. I grandi hanno troppo potere! – Ecco questa cosa della limitazione dei poteri potrebbe esser interessante, ma non in questo caso. – Come no in questo caso! Se continua così, io ai 18, vivo, nemmeno ci arrivo. – Non fare il melodrammatico. Te lo abbiamo detto centinaia di volte. Fino a una certa età conta più l’esperienza dei genitori, sono loro che possono vedere oltre e darti buoni consigli. – Appunto, dovrebbero essere consigli e non imposizioni. – Imposizioni, non esageriamo. D’altronde loro a scuola non ci sono. Se fai il “dito medio” in classe nessuno ti vede. Tranne io con il drone, ovviamente (grassa risata). – Però perché dovrei comportarmi in un modo in casa e in un altro fuori casa. È un delirio. – Ma nemmeno puoi comportarti con i tuoi genitori come se fossero i tuoi amici di cortile. – Ma che cortile, nonno! Nel cortile ci giocavi tu! – Va bene, va bene, ma dovresti capire il senso. La famiglia e la scuola dovrebbero essere delle “istituzioni” con delle regole da rispettare. Regole buone per farvi crescere in maniera migliore, per prepararvi a essere dei buoni cittadini. Già la scuola si è sbracata abbastanza. Ai miei tempi ci si alzava quando entrava un adulto. Preside, insegnanti, bidelli dovevano esser rispettati. – Ma nonno, se il bidello adesso non esiste nemmeno più e si chiama “collaboratore scolastico”. – E lo spazzino che si chiama adesso “operatore ecologico”. Senti. la distinzione tra forma e sostanza la lasciamo per un’altra volta, altrimenti si diventa scemi. Torniamo “a noi” senza braccio alzato. La questione è che in una società non può regnare l’anarchia, perché l’anarchia, come il comunismo, è una utopia. Ora non mi far tirar fuori ricordi sbiaditi su Thomas More o su Pierre Joseph Proudhon o alcuni Illuministi. Per vivere in una società senza regole dovremmo raggiungere prima un punto estremo di evoluzione. Un tal punto che in parte cancellerebbe la natura stessa dell’uomo. Senza entrare nei dettagli, per poter vivere senza regole l’uomo, il cittadino, dovrebbe esser così evoluto da rispettare il prossimo “oltre natura”. Non ci dovrebbero essere invidie, egoismi, avarizie, ingordigie ecc. Non dovrebbe esistere la moneta. Tutti dovrebbero produrre, al massimo, secondo le proprie capacità – ma senza stressarsi – e tutti dovrebbero consumare, al minimo – ma senza soffrire –, secondo bisogni fisiologici temperati attraverso l’educazione o addirittura una forma di “auto educazione”. Questo è forse possibile? A volte mi viene il dubbio che alcuni filosofi non avessero figli o non avessero tempo per osservarli. Tanto per capirci... se adesso ti portassi in una pasticceria e il proprietario ti dicesse che puoi mangiare, gratis, tutti i dolci che vuoi, tu ti rimpinzeresti fino a scoppiare. Non saresti capace di pensare ad altri ipotetici ragazzini che potrebbero entrare in quella stessa pasticceria dopo di te. Saresti capace di svuotare il bancone senza lasciare niente, lucidandolo anche con la lingua. – Dai nonno, smettila, non esagerare. – Ma andiamo indietro nel tempo. Mi ricordo che quando tentavo di toglierti il sonaglino dalle mani, a pochi mesi di vita, urlavi come un ossesso e ti ribellavi. Ecco, in quel momento ebbi una visione: la “proprietà privata” è innata fa parte dell’istinto. Quanto tempo ci abbiamo messo per insegnarti che è giusto condividere i propri giocattoli anche con gli altri bambini. Cinque anni? Non lo ricordo nemmeno più. Però la condivisione è un valore importantissimo in una società. Senza condivisione di beni, mezzi, idee, conoscenze non si va da nessuna parte. E anche la condivisione ha bisogno di regole. Quindi, visto il livello di educazione attuale… o meglio dire visto il livello della “buona educazione”, si può forse vivere senza regole? Oppure, meglio vivere in una società imperfetta con delle regole di convivenza civile o vivere in una società perfetta con “auto-regole” inumane? In cui tutti sanno trattenersi e non svuotare il vassoio di pasticcini gratis? La risposta facile non è. Queste domande te le lascio come promemoria per l’università, se esisterà ancora (ridendo). E poi l’assenza di regole esterne richiederebbe la presenza di regole “naturali” interne, che al momento non fanno parte della nostra umanità. – Nonno mi hai fatto venire il mal di testa. Mi hai convinto, in casa non farò più il “dito medio”. Però del tuo discorso non ho capito nulla lo stesso. – (Sì che hai capito, dai! Pensa il nonno soddisfatto) Dai chavalín, mettimi su “Le elezioni” di Gaber e fammi riprendere il mio sigaro interrotto… – Vorrai dire “Le erezioni” nonno, non fare il furbo con me (dice ridendo il ragazzino selezionando il brano per il nonno sul loro mega impianto multimediale). © Testo e immagine – Stefano Angelo :: editing a cura di edida.net :: ___________________________________________ Se volete... completate il racconto con le due opere di canzone-teatro di Gaber citate: Le elezioni (Giorgio Gaber – 1976) https://youtu.be/3ncIoSPQOOQ Destra - sinistra (Giorgio Gaber – 1994) https://youtu.be/kZHvXtl4KY0 Read the full article
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La ragazzina
:: di Stefano Angelo :: La ragazzina ha circa 10 anni, credo. Alta un metro e cinquanta, magra. Ha un dente che sporge leggermente in fuori. L’incisivo sinistro, per esser precisi. Porta occhiali da vista tondi, poco spessi. Ha una felpa arancione con cappuccio, con i cordoncini bianchi, asimmetrici, che pendono sul suo torace senza seno pronunciato, per il momento. Tra poco crescerà, insieme a lei. Sorrido. Ha dei jeans, non troppo scuri, forse leggermente strappati sulla coscia destra. Scarpe bianche, sportive. Ha delle orribili scarpe bianche sportive, con lacci vistosi e suola da astronauta. Come se la sua altezza non le bastasse. Ha dei capelli neri corvini lunghi fino al sedere, ondulati.Viene e mi guarda, in silenzio. Viene e mi guarda in silenzio, tutte le notti. Cosa vuole da me? Perché non mi lascia dormire? Ha uno sguardo serio, forse leggermente arrabbiato.Si mette vicino alla porta, un po’ incurvata, con l’aria di chi se ne vuol andar via, però non se ne va. Sta lì ferma, aspetta. Aspetta qualcosa ma non so cosa. Se vuole andarsene, che se ne vada e mi lasci dormire in pace! Niente, resta lì.Mi rigiro nel letto, sono stanco. O sono pigro. O entrambe le cose. Immagino una bicicletta. Perché mai quella ragazzina dovrebbe avere una bicicletta? Rossa, un po’ arrugginita. Cigolante. La immagino pedalare su quel ferro non troppo vecchio, mi vien voglia di lubrificarle la catena per non sentire quel fastidioso cigolio. Ma non faccio in tempo. Apro gli occhi un po’ stordito, tiro fuori il braccio dal letto e prendo il telefono: 6:04 del mattino. Sbuffo e punto lo sguardo verso il soffitto.Odio le bici non curate. No, che dico, mi fanno solo un po’ di tristezza. Odio il padre della ragazzina. Non so ancora perché. Però non sopporto il fatto della cattiva manutenzione della bicicletta. E se invece la ragazzina fosse senza padre? Sospiro.Oramai son sveglio. Rassegnato mi alzo. Vado verso il bagno. Passo in silenzio al lato della ragazzina che è sempre lì, con una mano sullo stipite della porta. Mi sembra di sfiorarla con un gomito. Gonfio i polmoni cercando di catturare il suo odore. Lo comparo con quello da cinghialotto di mio figlio, che di anni ne ha nove. Sorrido. Potrebbero diventare amici, forse. Increspo le labbra e la fronte, pensieroso, mentre chiudo la porta del bagno. Un po’ di intimità, perdiana. Almeno qui. Esco come un ninja dal bagno, non voglio svegliare nessuno. Ma la ragazzina è sempre presente. Mi scruta e io scruto lei.Rassegnato mi siedo sul letto. Ascolto, con attenzione, il respiro di mio figlio che viene dall’altra stanza. La ragazzina lo nota e mi sorride. Allora sa anche sorridere, non è sempre arrabbiata.Mi sistemo i cuscini dietro la schiena. Sbadiglio e apro il tablet. Le mie pupille hanno un sussulto. Riguardo velocemente la lista dei documenti salvati, ma non devo divagare. Apro un nuovo file. Mi metto a scrivere. Ora sono io che ho bisogno di quella ragazzina e inchiodo rapidamente la sua descrizione su uno sfondo scuro.La ragazzina resta lì, in quelle parole. Non se ne andrà più via, almeno da me, dalle mie pagine. I personaggi, per uno scrittore, sono come dei bambini, dei figli. Che ti guardano ansiosi di crescere. Si aspettano sempre qualcosa da te. Non solo una storia, ma delle cure, delle attenzioni, delle confidenze. Non vogliono trasformarsi in ferri vecchi, inanimati, arrugginiti. Quanti personaggi annegati nella pigrizia… Perché? © Testo – Stefano Angelo© Immagine di DCStudio su Freepik, rielaborata da Stefano Angelo:: editing a cura di edida.net :: Read the full article
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Lo spartito
:: di Stefano Angelo :: È facile, ce la posso fare. Devo solo eseguire i passaggi in sequenza come mi hanno insegnato. Due pannelli, un po’ di fili da tagliare e l’allarme sarà disattivato. È facile, ce la posso fare. Peccato che abbia il cuore in gola e le mani sudate. Peccato che se non ci riesco Nick mi taglierà la gola, senza particolari emozioni. A lui le mani non sudano mai. Cazzo sto pensando, basta! È facile, ce la posso fare, incominciamo. La mia respirazione è affannosa. La gola secca. Forzo facilmente e silenziosamente la serratura del primo pannello. Tre fili rossi, li taglio in sequenza. Tutto bene. Apro il secondo pannello, un vistoso filo nero e due azzurri. Ma come!? Nessuno mi aveva detto di un filo nero. Che ci fa quel maldito filo nero in mezzo a due scatole bianche. Cazzo faccio. Lo taglio, non lo taglio? Non capisco più niente. Il tempo passa e non ne ho. Ok lo taglio. No, no no no. Scatta l’allarme. Si accendono le luci del giardino della villa. Mi giro istintivamente verso le finestre della casa di fronte. Vedo, immagino, delle tende muoversi. Mi hanno visto, cazzo mi hanno visto. Il cuore pulsa più forte di prima, sento esplodere le vene della mia testa. Rompo con furia le due scatole bianche, sradico il contenuto senza sapere cosa sia mentre con la coda dell’occhio vedo un terzo pannello, più piccolo, in basso sulla destra. Mi avvento su di lui senza pensare, inizio a tagliare e schiacciare pulsanti come in un delirio privo di senso. All’improvviso l’allarme si spegne e le luci del giardino pure. Una manciata di secondi, lunghi un secolo, si concludono nell’oscurità. Ma il danno è fatto. Nessuno penserà a un errore del sistema. La polizia starà già arrivando. Qui muovono eserciti all’istante per qualsiasi cagata di mosca. E la cacca di mosca, questa volta, sono io. Era il terzo pannello! Era il maldito terzo pannello. Non penso con lucidità. Scavalco velocemente il muretto di cinta, salto sulla bici con cui sono venuto e inizio a pedalare come un matto. Ho lasciato nel giardino la mia piccola borsa per gli attrezzi da pseudo scassinatore, ma in un primo istante non me ne frega niente, devo solo allontanarmi. Dopo un paio di chilometri, rallento, cerco di ricordare il contenuto della borsa rovesciato e abbandonato freneticamente sul suolo, non dovrebbe esserci nulla che la polizia possa utilizzare per identificarmi. Un brivido mi assale, so già che il mio capo si incazzerà lo stesso, come una bestia. Penso ora alla mia gola e al coltello da macellaio di Nick. Intanto pedalo. Scappo via con la mia bici nera. Più nera di me. Una bici un po’ piccola per la mia statura, per la mia età, ma non mi importa. Ha un adesivo di un magnifico dragone appiccicato sul tubo obliquo. La forca con gli ammortizzatori, i freni a tamburo e tre marce, di quelle che si cambiano con la leva montata sul tubo orizzontale del telaio. Sono orgoglioso della mia bicicletta, trovata in una discarica, quasi nuova. I bianchi buttano di tutto, anche cose non usate. I bianchi sono pazzi. Mentre pedalo sul marciapiede di un viale alberato vedo una macchina della polizia bianca, come i due energumeni che ci sono dentro, che accende le luci e parte a tutta velocità, facendo una inversione a U, verso la villa da dove vengo io. Istintivamente svolto sulla destra e pedalo lungo una strada un po’ stretta che porta verso un viale parallelo. Il panico mi assale di nuovo. E se mi hanno visto mentre scappavo con la bicicletta? Scendo e la lascio appoggiata su un albero prima di arrivare all’incrocio con il viale. Continuo a piedi. Bestemmio e mi maledico, ma devo continuare a piedi. Credo di non avere scelta. Sull’angolo vedo ammonticchiate delle cianfrusaglie, abbandonate al lato di un cassonetto, con in cima degli spartiti e dei dépliant di vecchi saggi di scuola di musica. Li prendo senza pensare. Intanto mi giro e vedo che qualcuno sta portando via la mia bicicletta, è una ragazza, intravedo la sagoma. Impreco di nuovo. Vorrei correrle dietro per recuperare la mia bici ma un’altra macchina della polizia sta arrivando. Trattengo il fiato e continuo a camminare lungo il viale tenendo stretti sotto il braccio gli spartiti e i dépliant. Dopo un centinaio di metri vedo una terza macchina della polizia. Ma questa volta è un posto di blocco. Tutto questo per un tentato furto in una casa di un bianco? Non è possibile. Devo continuare, anche se vorrei girarmi e scappare via. Cazzo un ufficiale. Si riconoscono subito quelli. Alto, in civile, col naso aquilino e i capelli lisci, leggermente lunghi, un po’ fuori norma. Quando mi vede mi fa un cenno con la mano per dirmi di avvicinarmi. Lo faccio a testa bassa, mentre mi si gela il sangue. Vede gli spartiti e i foglietti dei saggi musicali stretti sotto il mio braccio. Mi chiede se faccio musica nella parrocchia di don Carlo. Gli dico di sì con la testa, sempre con lo sguardo verso il basso, senza proferire parola. L’ufficiale mi dice che gli piace la musica e che gli piace quel pazzo di don Carlo. Bisogna proprio esserlo per insegnare musica a dei negri in una città comandata dai bianchi. Mi dà un rettangolino di carta. C’è scritto su il grado, il suo nome e un telefono. Mi dice di chiamarlo se mi metto nei guai. Me lo dice come se fosse una cosa “normale" mettersi nei guai. Sono un negro in una zona di bianchi. Mi dà una pacca sulla spalla e mi dice di filare a casa. Sette giorni dopo scoprirò che, quella notte, Nick e il resto della banda avevano svaligiato un’altra casa vicino a quella dove ero io. La villa “Corazón ligero”. Che nome idiota per una casa. Ma l’idiota, in quella notte, ero stato io. Mi avevano usato come esca. Come un verme da sacrificare. Ma l’avevo scampata. Mentre loro no...Sette giorni passati, inutilmente, nella mia stanza. L’ottavo, presi uno dei dépliant dei saggi musicali, conservati senza apparente ragione insieme agli spartiti. L’indirizzo della parrocchia di don Carlo era dall’altra parte della città, in un quartiere in cui di solito non mi avventuravo mai. Uscii di casa e iniziai a camminare, verso la parrocchia, stringendo uno spartito tra le mani. © Testo e foto – Stefano Angelo :: Editing a cura di edida.net :: Read the full article
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Un lavoro strambo
:: di Andrea Cini :: Sono un “milleurista” e come la maggior parte dei “milleuristi” della mia generazione mi son trovato un secondo lavoro, uno di quei lavoretti che siam costretti a fare per arrotondare un po’. Uno di quei lavori che i nostri genitori non possono concepire e anche quando ci sbattono la testa continuano a non capire. Ogni giorno, grazie a Internet e le nuove tecnologie, ci reinventiamo, ed ecco che son finito a fare un lavoro decisamente strambo. Ero in vacanza alle Canarie e mentre stavo su un bus che dalla montagna mi avrebbe portato al mare, mi apparve una pubblicità su Facebook: “Sai scrivere storie? Sai intrattenere le persone? Abbiamo il lavoro per te, stiamo cercando storytellers nella tua lingua!”. “Wow!” – esclamai – fare lo storyteller è un lavoro veramente “figo”! Ma vuoi sapere alla fine cosa faccio? Il » Chat moderator « in situazioni, diciamo, particolari. Ora ti spiego come funziona. Il 99,99% dei maschietti (se non sono ipocriti) passa almeno una volta per pagine come Youporn, Pornhub, etc. e in questi siti ci si imbatte, inevitabilmente, in pubblicità del tipo: “Donne vogliose nelle tue vicinanze” o “Ragazze in calore nella tua città”. Ora, tutto questo non è altro che uno specchietto per le allodole. Un mucchio di maschioni in calore cade nella trappola convinto di trovare sesso facile, alcuni rimangono, altri no. Ma le allodole, di solito, son tante. A volte, sono anche donne. Una truffa? Fino a un certo punto… Oggigiorno c’è sempre un’avvertenza per tutto e anche nei siti web con cui collaboro, al momento dell’iscrizione, è specificato ben chiaro che hanno come scopo far divertire e tenere compagnia alle persone mediante vari argomenti di conversazione, ma che no, non esiste la possibilità di incontri reali. Il problema è che nessuno legge questo tipo di indicazioni e dopo che le allodole si accorgono che le chat non portano a niente, si incupiscono. Alcuni, addirittura, fanno le vittime e scrivono a qualche programma TV (che non si occupa di ornitologia) per gridare allo scandalo. Molte volte provo pura pena, perché ci sono dei soggetti che davvero credono di poter trovare l’amore in questi luoghi virtuali, persone sole, spesso lontane, non solo fisicamente, da parenti e amici. Certo, ci sono anche individui che vivono in case sperdute in campagna, con pochissimi contatti umani, completamente disconnessi dalla realtà. A volte vorrei poter andare da loro per fargli compagnia, per dargli un po’ di calore umano, quello vero intendo (ma ahimè non vivo nel loro stesso paese e l’anonimato è la prima regola di questo strambo lavoro). Ma entriamo nel vivo della mia occupazione: tutto si basa sul chattare e sullo scambio di foto. Facile, non credi? Il mio profilo come ragazza, normalmente, consiste in una foto di una modella o pornostar, mentre le informazioni (nome, lavoro, città etc.) se non sono già state inserite da qualche altro operatore, me le devo inventare, basandomi sulle caratteristiche di base del profilo impostate dal sistema (regione di provenienza, status sociale, età, etc.). Il cliente naturalmente può mandarmi millemila foto, io ho solo quelle basiche del profilo, più quelle che mi vengono messe a disposizione come “bonus” (che normalmente sono tre o quattro e sono veramente poche). I clienti si sbizzarriscono raccontando le loro fantasie sessuali, quindi si tratta al 80% di sexting, assecondando i loro desideri nascosti. Il modus operandi inizia sempre con un messaggio ammiccante (mandato in automatico dal sistema) al potenziale cliente, al quale si fa capire che la ragazza è vogliosa, in modo da attirare la sua attenzione; oppure l’utente già registrato, guardando le foto delle ragazze, a seconda della categoria che sta cercando (età, status sociale, regione di provenienza, gusti sessuali etc.), si fa avanti, sperando che i suoi desideri vengano esauditi. Sai com’è, quando la conversazione non è presenziale molti si fanno prendere la mano e quindi tutto quello che non avrebbero mai il coraggio di dire in faccia a una ragazza, lo dicono in chat perché quando si è nascosti dallo schermo si perde ogni inibizione. Normalmente cerco di mantenere un personaggio verosimile, per non far sembrare tutto una finzione mentre altri operatori scrivono solo messaggi dolci e smielati (molti scrivono sempre le stesse cose, creando malcontento tra gli altri operatori, in quanto diventa poi più complicato rendere la situazione plausibile). Io mi prendo molta cura del mio personaggio, creando/ideando profili di diverso tipo. Uno dei miei preferiti �� la “nazi-femminista” della serie “io non sono una puttana e non sono a disposizione quando tu lo desideri, se vuoi questo ci sono i nightclub o le ragazze per strada”, rammento loro che “è facile dire queste cose quando sei in chat, vorrei vederti dal vivo”. Mi diverto ad andare contro le loro volontà quando vogliono fare il “macho dominante” e pensano che io possa cadere ai loro piedi e quindi scatto dicendo che a me durante il sesso piace comandare e che l’uomo è il mio schiavo, a volte dico loro che voglio incu…li con il dildo, altre che voglio metterli al guinzaglio e portarli a spasso in giro per la casa. Quando vedo che il cliente sta perdendo la pazienza e vuole “lasciare” la pagina, quindi anche la “ragazza”, mi trasformo in pazza isterica, accusandolo di essere egoista, di voler lasciare la chat solo perché cercava la sco..ta facile, oppure di non essere in grado di “capire i miei sentimenti” che sono “veri e puri”, e lì iniziano discussioni infinite, come don Chisciotte con i mulini a vento. Da una parte la ragazza che fa la vittima, dall’altra, il povero cristo che cerca di spiegare le sue ragioni (e ha tutte le motivazioni del mondo, soprattutto economiche). Normalmente questo tipo di discussioni finiscono con una pace o un addio. Bisogna precisare che non ho un “cliente fisso” con il quale parlo. Ogni volta che mi connetto alle due pagine di chat, un algoritmo mi assegna una “chiacchierata random”, stile chatroulette, quindi in alcuni casi devo iniziarne una da zero (cliente nuovo, o semplicemente il cliente non ha mai conversato con questa ragazza), o devo riattivare una conversazione con un cliente abituale che si è appena connesso, oppure prenderne in mano una che stavano facendo uno o più operatori (ovvero, se il cliente rimane online per tipo due ore a conversare con la “stessa ragazza”, può parlare con più di un operatore durante la medesima chiacchierata a seconda di chi è connesso in quel momento, senza rendersene conto). Ovviamente il sistema tende ad affibbiarti una stessa chat il più tempo possibile finché sei connesso. Tutte le informazioni sul cliente e sulla ragazza sono salvate in delle note, man mano che continua la conversazione, da noi agenti per evitare contraddizioni, (se fa l’infermiera, non può domani fare la commessa). Questo è importante anche durante le conversazioni quotidiane: sapere attraverso le note se il cliente sta vivendo un periodo particolare, o se è una persona dai gusti speciali, aiuta l’operatore a riprendere il filo, perché non sempre mi ricapita un cliente che abbia conversato con me durante la sua ultima connessione. Non posso partire da zero, altrimenti il cliente potrebbe capire che qualcosa non va. Ma non avere paura, lo so che stavi pensando a questo, quando la chat viene abbandonata dal cliente, tutte le note e soprattutto tutte le sue foto vengono cancellate dal sistema. Durante la mia esperienza, ho imparato a suddividere i clienti in vari tipi. - IL FURBO: Colui che fin da subito ti lascia i suoi contatti personali (mail e telefono, o FB e IG) convinto che la ragazza lo contatti lì per non pagare l’abbonamento alla pagina web; - IL TROMBAIOLO: Colui che parla solo ed esclusivamente di sesso e che mette in chiaro fin da subito che cerca solo avventure sessuali e non vuole nessun tipo di relazione; - LO SPOSATO: Una sottospecie di trombaiolo, colui che mette in chiaro fin da subito che è sposato, ma cerca sesso facile su internet perché la moglie non glie la dà più, o perché “a detta sua” la dà troppo poco per le sue focose voglie; - L’ANONIMO (SPOSATO): Cerca sesso facile su internet, non ha intenzione di mettere una sua foto perché ha paura di venire riconosciuto da qualcuno (il 90% delle volte perché è sposato) e vuole incontrarsi con la ragazza al più presto possibile (mentre la ragazza gli dice che non si sente sicura e magari riesce a tenerlo in ballo per mesi e mesi, senza “happy end”); - IL VEDOVO: Dopo la dipartita della consorte, cerca in tutti i modi di riempire il vuoto mancante; - L’INNAMORATO: Il più difficile da gestire, perché è quello che si innamora della “ragazza virtuale” e a volte provi davvero pena per lui, convintissimo di avere una fidanzata online che prima o poi lo incontrerà di persona, mentre l’operatore lo riempie di parole, di amore e di attenzioni, ma solo online (ci sono “innamorati” che durano anche 2/3 anni); - IL SADOMASO: Quello che cerca una dominatrice, una donna che soddisfi ogni sua fantasia del genere, con frustini, dildo in c..o, completini in latex, bondage, etc. etc. (sono arrivati anche a chiedermi di urinare e defecare sul loro corpo); - IL FINTO FEDELE: Promette amore eterno a ogni ragazza con cui si scrive (convinto che lei non sappia delle altre) e ogni volta che “lei” chiede se è l’unica con cui è in contatto dice sempre “Tu sei l’unica, sei il mio unico amore, non parlo con nessun’altra su questa pagina”; - IL FRETTOLOSO: Va sempre di fretta, non ha “tempo da perdere” con i messaggi, dobbiamo scopare, dimmi solo “dove e quando”. Sono i miei preferiti perché sono anche i più maleducati e allora godo nel torturarli; - L’IMPERTERRITO: Quello che va avanti mesi scrivendo ogni giorno a una ragazza nuova, sperando di trovare una disposta a incontrarlo e, di conseguenza, dargliela; - L’UOMO ULTIMATUM: Quello che minaccia sempre di lasciare la pagina, ti lascia i suoi contatti sperando di ricevere una chiamata o una mail, dice sempre che questo messaggio è l’ultimo; - L’UOMO ULTIMATUM 2: Quello che non si fa vivo per un po’ di tempo e poi all’improvviso scrive “Sono dalle tue parti, zona XY, se davvero fai sul serio chiamami al 123456” oppure, “ci troviamo tra un’ora al posto X”; - A VOLTE RITORNANO: Quello che si rifà vivo dopo mesi, a volte con lo stesso profilo (quindi è facile vedere la data dell’ultimo messaggio inviato), a volte con uno nuovo (in questo caso è più difficile riconoscerlo, ma sarà lui il primo a dirti “Hey sono Johnny, ti ricordi di me?” Certo come no…); - LO STALLONE: Colui che al primo messaggio già ti chiede “dove e quando” per venire a darti “una sistemata”, esalta le potenzialità del suo attrezzo e promette faville a letto; - L’EGOCENTRICO: Ti manda la foto del suo c…o e poi ti chiede cosa ne pensi; - IL CANE BASTONATO: Scrive frasi negative convinto di farti pena, della serie: “So che ci sono altri uomini oltre a me, e che io non conto niente”, oppure “Divertiti pure, mentre io sarò qua solo a guardare la tele”. Insomma, un piagnisteo continuo; - IL PURITANO: Quello che parla con le ragazze, ma allo stesso tempo le ripudia, per essere già state con altri uomini (casi più unici che rari, ma esistono davvero); - IL VERGINELLO: Può essere un ragazzino di 18 anni, come un adulto di 40. Si dichiara vergine ed è convinto di trovare finalmente qualcuna con cui perdere appunto la cosiddetta verginità; - IL TEENAGER: Secondo me rubano la carta di credito al padre o alla madre, normalmente cercano donne più mature, con le quali fare “esperienza”; - IL THREESOMER: Cerca una ragazza con la quale montare un trio, insieme alla “sua ragazza” che poi (nella maggior parte dei casi) altri non è che un’altra ragazza della pagina, che lui è convinto essere la sua fidanzata; - LA COPPIA APERTA: Una vera coppia in cerca di una ragazza con cui fare giochi a tre; - IL RINUNCIATARIO: Ormai ha rinunciato ai sogni di gloria, a ogni messaggio iniziale della ragazza risponde con un “Io farei volentieri molte cose con te, ma purtroppo su questa pagina siete tutte disposte a parlare, ma quando si tratta di passare ai fatti vi tirate indietro”. Non ho mai capito cosa cercano di dimostrare, i rinunciatari, con questo tipo di messaggi, forse è un volerci provare per l’ultima volta o giusto utilizzare gli ultimi crediti. - LA LESBICA: A volte entrano anche lesbiche in cerca di ragazze, ma sono una minoranza. Da uomo trasformato in “virtual girl” mi diverto molto. Diciamo che, da single, mi ritrovo in molti di loro, capisco le passioni e il loro desiderio di voler trovare l’anima gemella, solo che, probabilmente, eviterei di spendere metà del mio stipendio mensile per parlare con una persona che rimanda sempre i nostri incontri, perché “non si sente sicura”. Non so se sia un gioco o se assisto a delle miserie umane. Come interpreto io un personaggio, anche i clienti possono interpretare. Giudicare non mi interessa. In fondo, è solo un lavoro strambo. © Testo – Andrea Cini N.B. le immagini utilizzate per la copertina sono state prese dal Web, ma non siamo riusciti a risalire agli autori. Siamo a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni o per errore di attribuzione. Qualora le immagini utilizzate in questo testo violassero eventuali diritti d’autore, si prega di darne comunicazione e saranno immediatamente rimosse. :: Editing a cura di edida.net :: Read the full article
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Il temporale
:: di Maura Mollo ::La luce a giorno e il boato fragoroso mi sorpresero in piedi, in quella casa troppo nuova per me ma già consumata dal tempo. Avevo aperto l’ultimo scatolone del trasloco soltanto poche ore prima e, nella confusione, non ricordavo dove fossero le candele, accessori vitali in situazioni come quella.Arrancai come un cieco alla ricerca del divano: era inutile avventurarsi al buio. Mi accucciai sotto il piumone, che per fortuna avevo già sistemato per le serate fredde, e decisi che se la luce non fosse tornata avrei dormito lì. Dopotutto, avevo comprato quel divano perché era comodo come un letto.La stanchezza e la pioggia mi fecero crollare e mi addormentai quasi subito. Un altro tuono, più forte di quello che mi aveva fatto rimanere senza corrente elettrica, mi svegliò all’improvviso, lasciandomi una sensazione di disagio sulla pelle increspata per una frazione di secondo. Mi appiattii il più possibile nell’incavo del divano per cercare calore e conforto. Strinsi a me il piumone e richiusi gli occhi, cercando di riaddormentarmi il prima possibile. Ma la mente aveva registrato qualcosa che gli occhi avevano fatto finta di non vedere, e adesso continuava a far scorrere nel cervello quella frazione di secondo, in cui il cuore aveva iniziato a martellare.“È stato il tuono… e non conosci ancora la casa. Datti una calmata, non hai mica dieci anni!”Fare la voce grossa con la mia mente mi aveva sempre aiutato a mettere le cose nella giusta prospettiva. Non avevo alcuna intenzione di dare spazio alla paura. Fra il temporale, la casa nuova e l’essere sola, alimentare immagini di pareidolia sarebbe stata la mossa più stupida da fare per il resto della notte. Eppure la mia mente non mi lasciava in pace: lampo e tuono quasi simultanei e i miei occhi aperti su una stanza ancora estranea; la parete di fronte abbellita con lo schermo gigante, effetto cinema per le serate relax; il tavolino accanto al divano, dove avevo già impilato alcuni libri da leggere; il corridoio sulla destra, troppo buio e sconosciuto; dietro di me la finestra, che si rifletteva sullo schermo nero della televisione; la figura di qualcuno in piedi, accanto al divano, che come la finestra si rifletteva sullo schermo nero…Cercai di respirare, ma il mio corpo si era congelato. Niente aria, niente sangue, nessun battito. Rividi la sequenza nella mente, ancora e ancora: c’era qualcuno accanto a me.No, impossibile. Abitavo al quarto piano, la porta di casa era chiusa e, nonostante la pioggia battente, se qualcuno fosse entrato mi avrebbe svegliata. In quella casa c’ero solo io…O no?Aprivo spiragli di soluzioni logiche per calmarmi, cercando al contempo di ripristinare una respirazione da sonno e un battito che non superasse il rumore della pioggia. Avevo solo un pensiero: tenere gli occhi serrati.Ero tesa, pronta a cogliere il minimo rumore che non fosse l’acqua che continuava a picchiare sui vetri. Nessun fruscìo, nessun respiro, nessun movimento. Ma adesso, anche a occhi chiusi avevo la netta sensazione che quell’essere si fosse inginocchiato accanto a me e il suo viso fosse molto, troppo vicino al mio. Di nuovo la tensione divenne paralisi, di nuovo il sangue andò a nascondersi e il cuore s’inceppò. Qualunque cosa avessi fatto si sarebbe accorto che non dormivo, così rimasi immobile, sperando che il giorno e la luce arrivassero al più presto e senza rendermene conto mi addormentai di nuovo.Mi svegliai lentamente, sentendo i muscoli finalmente sciogliersi. Era giorno, ma il cielo era ancora scuro per via dell'insistente brutto tempo. Le luci della stanza erano accese e adesso la casa mi metteva molta meno ansia. Andai subito alla ricerca delle candele, frugando in vari cassetti, e ne posizionai un paio su ogni tavolo, tavolino o superficie esistente. Diedi una disinvolta occhiata in giro, verificando di essere l’unica abitante di quell’appartamento. Quando tutto mi sembrò a posto, feci un bel respiro e mi preparai per uscire.Al rientro, con le braccia piene di spesa e cianfrusaglie utili a iniziare una nuova vita, mi ritrovai a parlare da sola ad alta voce, come se volessi rendere partecipe dei miei acquisti la casa o chiunque mi stesse spiando. Perché la sensazione che ci fosse qualcuno continuò per tutto il giorno. Evitavo di guardare negli specchi, evitavo di girarmi di scatto, evitavo qualunque movimento repentino. Non volevo indispettire quell’essere, non volevo sorprenderlo e soprattutto, non volevo che lui sorprendesse me.Col passare del tempo presi confidenza con la casa, non avevo più bisogno di accendere tutte le luci mentre mi aggiravo fra le stanze; la sensazione di non essere sola smise di farmi paura: continuavo a parlare ad alta voce e tutte le sere, prima di andare a dormire, sussurravo un “Buonanotte” amichevole. E tutte le notti, quando mi rigiravo nel letto, sentivo uno sguardo su di me, un volto molto, troppo vicino al mio.© Testo e immagine – Maura Mollo:: Editing a cura di edida.net ::della stessa autrice: L'Equazione profonda del Mare Read the full article
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L'ultima prospettiva
:: di Daniela Alibrandi :: È una mattina come tante altre, del genere che amo. Il cielo terso, l’aria frizzante e i tetti di Via Margutta accarezzati dal sole. L’odore dell’acquaragia non mi infastidisce più, e la tela che ho appena iniziato è il richiamo inconfondibile che non sono mai riuscito a ignorare e che mi porta ad alzarmi con l’unico desiderio di continuare a dipingere. Era tanto che non sentivo un impulso così forte, una carica interiore talmente prorompente da farmi dimenticare la notte quasi insonne. Sveglio, finalmente pronto a ricominciare. Decido di mettere su un buon caffè il cui profumo, misto all’odore tipico dei colori a olio, crea l’inebriante elisir che ricordavo. E la soffitta, dove ho vissuto e dipinto, diviene adesso la porta tra le umane passioni e l’infinito distacco. Un mondo vuoto, scevro di momenti e di materia, nel quale il mio animo fluttua e non riesce a scegliere da che verso aprire o richiudere l’uscio. Fa caldo, è estate piena e l’alba vista dal terrazzo ricavato nell’abbaino non delude mai. È qui che sorseggio il caffè bollente, inspirando l’aria asciutta di un’estate romana, che potrebbe appartenere all’oggi o a un tempo lontano. E mentre con lo sguardo indugio sulle tegole colorate e antiche, mi chiedo quanto sarebbe bello iniziare il quadro dalla fine, sapendo che sto per dare l’ultima pennellata su di una tela all’apparenza bianca, riscoprendone tratti e sfumature, che esistono ma che non riesco a mettere a fuoco. Mi tremano le mani e so che il momento di decidere se aprire o chiudere, se entrare o uscire, è inesorabilmente arrivato. Mando giù gli ultimi sorsi di un caffè amaro, che scuote i miei sensi mentre brucia nella gola e nelle viscere e adesso lo so, senza dubbio, sto per morire. La mia stagione che sembrava infinita sta per scadere. Me ne sono accorto dall’impercettibile cambiamento del ticchettio dell’orologio, più cadenzato, isolato dai rumori dell’ambiente, lento, quasi inesorabile. – Non l’ho visto! Me lo sono trovato davanti e non sono riuscito a frenare… – grida, piangendo, il ragazzo del quale riesco a vedere solo le scarpe da ginnastica. Vorrei avvertirlo che gli si stanno inzuppando, che non doveva indossarle in una giornata piovigginosa come questa. Anche il mio volto adesso è bagnato da una pioggia fitta e fredda e, se cerco di aprire gli occhi, vedo che gli antichi sanpietrini riflettono a specchio la luce languida dei lampioni sul Lungotevere. – Chiamate l’ambulanza! – gli fa eco la voce di una ragazza, argentina, acuta, mi fa male udirla. Vedo solo i suoi stivali lucidi e le calze a rete che salgono più su del ginocchio, verso le cosce magre. Non voglio che mi aiutino, vorrei essere solo lasciato in pace, perché era da tanto che desideravo conoscere e comprendere ogni verità, era ora che tutto si compisse. Finalmente sono nel mio studio e posso dipingere qualcosa di eterno. Passi frettolosi attorno a me, ma io sono già lontano e la gamma di colori che vedo è immensa, così come sembra infinita la quantità di azioni che sto lasciando in sospeso. Non c’è più spazio per le mie fughe e i miei silenzi. Devo terminare la tela, prima che tutto finisca, e l’ultima pennellata deve essere la più forte, deve lasciare il colore in rilievo, anzi meglio ancora se è un colpo di spatola, talmente alto che potrebbe far scivolare la mano all’indietro. In un baleno chi ha attraversato la mia esistenza è vicino a me, una moltitudine di occhi che mi scrutano, ma ancora non ho risposte alla loro muta domanda, che faccio mia, mentre mi chiedo perché mai non ho saputo o voluto esprimere ciò che provavo. Solo adesso, se avessi la forza, mi alzerei in piedi e griderei l’amore che ho taciuto, le lacrime di meraviglia che ho nascosto nel guardare il mare, i brividi che ho rinnegato scoprendo il sesso. Mi alzerei, sì, e davanti ai loro sguardi increduli scuoterei forte quella ragazza che continua a urlare, isterica, dicendo che sembro davvero morto, che sono proprio morto. Le direi che la vita in fin dei conti non è altro che la finzione dell’essere. Che la morte alla fine è solo la verità del nulla. E che sì, è vero, adesso ci sono solo tante luci e infiniti colori, dove immergere il pennello. E posso abbandonarmi finalmente alla carezza nell’anima che sento, all’impalpabile stretta di una mano invisibile sul mio cuore, che stringe e spreme i miei sentimenti. E ti vedo, non così come sei ora, vecchia e con le mani macchiate, che dimenerai disperata quando ti diranno che sono morto, che non ci sono più. Griderai che non può essere vero, ma che lo sapevi, prima o poi ti avrei tradito ancora, lasciandoti sola. No, non così, ti rivedo invece come eri quell’estate, con i capelli sciolti e gli occhi grandi, distesa sulla sabbia ancora calda, mentre vibravi forte alle mie carezze e mi lasciavi spingere la lingua tra le tue labbra. Il tuo sapore di miele, i tuoi capezzoli turgidi, l’odore di scoglio confuso col profumo degli oleandri. Dal colpo di spatola finale adesso torno indietro a dipingere di azzurro chiaro l’armonia, perché non te l’ho mai detto quanto eri bella allora e quanto sei bella adesso, con i capelli bianchi, le rughe e gli occhi stanchi! E ancora il tratto scorre indietro agli anni rosa tenue delle ninne nanne, delle poppate infinite. Tra le mie mani i pennelli si muovono impazziti, spalmando il rosso intenso degli slogan gridati nei cortei di protesta, fino al nero delle notti insonni e dei lutti insopportabili, al verde dei prati dove ci stendevamo tranquilli quando avevamo marinato la scuola, distese verdi di quel verde intenso nel quale a sbocciare erano solo fiori e non siringhe. Poi il grigio chiaro, il colore limpido delle canne fumate nei bagni di scuola. Il giallo, l’arancione e le sfumature violette che annunciano l’intensità del tramonto, e solo ora mi accorgo che ogni giorno muore in un modo tutto suo, come ogni essere umano, ghermendo nel suo transito le profonde gioie e le incancellabili disperazioni che lo hanno animato. Il verde chiaro delle nostre illusioni, la trasparenza delle tue lacrime per i miei tradimenti, il freddo indaco per i miei rimorsi… la osservo e la tela adesso è un vero splendore. – Inutile il trasporto in ospedale, è andato, – dice perentorio il medico, sceso dall'ambulanza che è arrivata squarciando il silenzio sospeso di chi assiste alla mortalità; e io ho udito chiaramente le sue parole. Nessuno si accorge che sono felice, mentre vorrei portare con me il profumo di umido e di pioggia, quello che da sempre colma il mio animo, in attesa dei raggi di sole. Mi allontano dalla tela che ho dipinto con tanto fervore, camminando con passi lievi e orgogliosi nello studio da pittore di quel tempo lontano, nello spazio che da anni non mi appartiene più. Dio quanto mi è mancato! penso, mentre irrefrenabili sgorgano le lacrime di chi inspiegabilmente viene avvolto, all’improvviso, da una folata di vento tiepido. E mi accorgo che fuori anche il giorno sta morendo e che i tetti di Via Margutta riflettono quegli ultimi e sconfortanti sprazzi di luce nel mio sguardo spento. I colori perdono intensità, si affievoliscono e la tela sta tornando vergine come lo era all’inizio ed è questo che vorrei sussurrare adesso all’orecchio di quella ragazza, che ancora piange e si dispera. A lei che tra qualche ora cercherà di dimenticarmi, sfilerà veloce le sue calze a rete e farà l’amore per non ricordare. Vorrei asciugare quelle lacrime, tirarle indietro i capelli, baciarla nella bocca e raccontarle la stupenda verità che ho scoperto solo adesso. Lei non mi crederà, si pulirà le labbra dalla saliva di un vecchio e correrà via. Il ragazzo la seguirà con le sue scarpe da ginnastica inzaccherate, la terrà ferma per un braccio, non comprendendo il perché della sua fuga. Nessuno crederà che il vecchio morto investito l’ha baciata, nessuno crederà a quello che le ha detto in un sussurro. Ma lei giurerà, spergiurerà che è vero e che lo ha udito chiaramente con le sue orecchie. Lo griderà disperata, tirandosi i capelli. – Calmati! – cercherà di sedarla lui, abbracciandola, – ti credo, smettila di urlare, che ti ha detto? – Una cosa bellissima e terribile, ho perfino paura a raccontarla, – tra i singhiozzi lei tirerà su col naso, pulirà il muco col dorso della mano e alla fine parlerà, – mi ha confessato che la morte non arriva mai senza avvertire e che non è sopraffazione, ma restituzione. Mi ha assicurato che c’è un attimo, una frazione di secondo che solo la morte sa regalare, tra luci e ombre, fastidiosi suoni stridenti e leggeri accordi di arpe. Ed è in quel frammento di tempo dilatato che solo lei, la morte, sa mostrarti ciò che sei stato e che avresti potuto essere, restituendoti in un solo istante quello che hai perso nell’insensato palpito di vita –. © Testo – Daniela Alibrandi :: per maggiori informazioni sull’autrice, ecco il suo sito :: :: Editing a cura di edida.net :: © Immagine – Rosa Zerbo (2020 – acrilico, spatola) Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici con follow.it! Read the full article
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Lo scambio
:: di Andrea Guglielmino :: Il clima era mite. Insolito per Berlino. Una brezza fresca, proveniente dalle finestre semiaperte, ripuliva l’aria densa dei fumi della cucina. Tod spignattava, come sempre. Gli spaghetti erano quasi pronti. Belli al dente, come piacevano a lei. Tröme adorava l’Italia. Tod concluse le operazioni e poi si slacciò il grembiule da cuoco, che gli stava un po’ stretto sulla pancia e sui fianchi abbondanti. Si tolse il cappello da chef e asciugò qualche perla di sudore dalla testa pelata. Poi schiarì gli occhiali, che si erano appannati. – Amore, è pronto. Hai finito il bagno? – chiamò. Tröme stava uscendo dalla vasca in quel momento. Splendida, statuaria, sensuale, forme sinuose, fianchi perfetti, gambe lunghe, affusolate e un seno generoso, proporzionato, su cui ricadevano i capelli scuri e ancora bagnati di acqua schiumosa. Era difficile capire il motivo per cui i due stessero insieme. Quante occhiate di invidia verso Tod, con quell’aspetto così trascurato e poco attraente, quando camminava in strada a fianco della sua donna. Ma i due non ci facevano caso. Tod faceva tutto per lei, e lei lo ricambiava di un amore sincero. Nessuno si era mai preso cura di lei in tal modo. – Sono quasi pronta! – rispose Tröme sortendo dal bagno in un accappatoio che fasciava le sue curve, lasciando vedere caviglie sottili e una scollatura vertiginosa. Con i suoi occhi da cerbiatta guardò il compagno, gli tolse gli occhiali e lo baciò con passione. – Com’è stato? – chiese lui. – Perfetto. Grazie per i sali. Era quello che ci voleva, dopo una giornata del genere. Poco dopo si trovarono a tavola, a brindare con un buon Chianti. La cena era squisita, eppure Tröme era diventata, d’improvviso, silenziosa. – Qualcosa non è di tuo gradimento, mia cara? – chiese Tod – Oh, no, amore mio, no. È tutto superbo. È solo che… sono veramente stanca. In effetti, se Tod era un perfetto casalingo, era Tröme a lavorare tutto il giorno perché l’equilibrio del loro ménage potesse sostenersi adeguatamente. Lei bevve un sorso di vino che le corroborò il palato con il suo gusto deciso. Tutto ciò che stimolava i sensi stimolava anche Tröme, e Tod, nel farla sentire viva, era un maestro. Toccava in lei corde che nessun altro sarebbe stato in grado di sfiorare. – Ah – disse Tod – lo so quello che ci vuole per te. Si alzò prontamente e iniziò a massaggiare delicatamente il collo e le spalle armoniose della sua donna. – Mmmmh… – mugugnò lei sensualmente, con soddisfazione. Si rilassò, e ricominciò a parlare. – Sai che apprezzo le tue coccole – disse – ma il lavoro mi sta letteralmente uccidendo. È un vero massacro. Tod la lasciò sfogare, e poi propose: – Se vuoi staccare un po’, avrei un’idea. – Sarebbe? – chiese Tröme incuriosita. – Sarebbe che ci scambiamo di posto per qualche giorno. Vado io al lavoro e tu stai a casa. Che ne pensi? Lei gli lanciò uno sguardo stralunato. – Aspetta – specificò lui – non è che pretendo che tu cucini. C’è sempre il servizio a domicilio. Ti riposerai e io farò il lavoro che fai tu di solito… dopotutto, non è una cosa impensabile, no? Ci fu qualche lungo secondo di silenzio, poi Tröme scoppiò in una risata che Tod non prese bene. Lei se ne rese conto e corresse immediatamente il tiro, accarezzandogli dolcemente il viso. – No, amore, non fare così – disse Tröme – Scusami, veramente. Sei tanto dolce e io ti amo per questo, ma… non è possibile. Voglio dire, non sai nemmeno come si usa lo strumento. – Beh – rispose lui un po’ sollevato – per questo mi sono permesso di acquistarne dei miei. Vedi, era un po’ che ci pensavo, tra poco è il nostro anniversario, e volevo proporti questo scambio come regalo ma… mi hai anticipato. Tod si allontanò momentaneamente, con il permesso di Tröme, e tornò con una misteriosa e voluminosa valigia. Quando la aprì, gli occhi di lei si illuminarono. Era piena di armi. Da taglio, da fuoco, un coltello, una pistola, un’ascia. C’erano perfino una spada a lama finissima – poteva essere una Toledo – e una mitraglietta. – Però – ammise Tröme – niente male! – Visto? – replicò Tod – dammi una possibilità. Posso cavarmela! Tröme ci pensò ancora un attimo. Dopotutto, erano una coppia moderna, e questa momentanea inversione non poteva far male. E poi il gesto di Tod era veramente tenero, perché mandarlo in fumo? – Va bene – disse lei – proviamo per un giorno. Domani lasciami dormire. Trovi la mia lista sul comodino. Tod fece un gran sorriso. – E adesso – ordinò Tröme porgendo un piede al suo uomo – sai cosa devi fare. Tod iniziò a massaggiare. I piedi di Tröme erano perfetti, morbidi e profumati come un misto di spezie esotiche. Tod li avrebbe leccati e annusati per ore. Iniziò ad eccitarsi e Tröme notò la sua dirompente erezione. Tröme spostò il piede sul pene di lui e iniziò ad accarezzarlo. Fecero l’amore selvaggiamente, come due animali. La sveglia suonò alle 6.00. Tod si lavò e si fece la barba con cura, poi mise il suo vestito buono. Raso viola e camicia di seta azzurra. Cravatta intonata e annodata con perizia. La sua compagna aveva un’uniforme di lavoro, voleva averne una anche lui. Tröme dormiva sensualmente adagiata. Lui fece silenzio per non svegliarla. Prese la lista. Era parecchio lunga. Fece colazione, poi caricò in macchina la valigia con i ferri e seguì con cura le indicazioni, che lo portavano a Jacob Kief, bancario, onesto lavoratore, una moglie e due figli piccoli. L’appuntamento era per le 7.30. Kief scese puntualmente alla fermata di Potsdamer Platz. Era stressato, quella mattina aveva un gran mal di testa e quando gli arrivò in fronte il proiettile che Tod gli aveva piazzato in testa da lontano, con un silenziatore, il rilascio dei nervi alleviò il dolore. Kief ne fu felice. Poi stramazzò a terra schizzando pezzi di cervella, tra l’orrore generale degli astanti. In meno di un minuto il diligente Tod mise in moto la macchina e si dileguò. Poi passò a Laura König, casalinga, uccisa a colpi d’ascia in un vicolo, e a Gino Steben, quattordicenne, trucidato da una raffica di mitraglietta. Per la signora Bergen fu diverso, aveva ottant’anni ed era in ospedale da tempo e in pessimo stato. Bastò staccarle il respiratore in un momento in cui tutti erano distratti. Nessuno andava a trovarla da settimane. Frau Bergen prima di morire guardò Tod e sorrise. Lo aveva scambiato per suo figlio. Tröme stava facendo shopping. Pensò che sarebbe stato carino chiamare Tod per sapere come stava andando. Squillò il cellulare – con un pezzo dei Carcass – e Tod rispose attivando il viva voce dell’automobile. – Come procede, tesoro? – Tutto molto bene – rispose lui – anzi sono già avanti sulla lista. Arrivo presto. Ma adesso… devo risolvere un problemino! Tod imboccò una superstrada spaccando ogni barriera senza ritegno, inseguito da una scia di macchine della polizia urlanti, di cui aveva inevitabilmente attirato l’attenzione. Sparò l’ultimo colpo dal finestrino e prese in pieno, bucando il vetro, la testa del poliziotto che era alla guida della prima. Era Fred Wilhelm, ed era in lista. La volante deragliò, devastando il guard rail e cadendo giù nella vallata sottostante, e così fece la macchina di Tod, non appena la sua gomma destra posteriore venne colpita da un proiettile. La sua auto esplose, e così quella della polizia, in uno spettacolare tripudio di rottami, fiamme e carne bruciata. Tröme aveva appena attaccato il telefono per ordinare le pizze, Quattro Stagioni per lei e Capricciosa per lui, quando suonò il campanello, che riproduceva maestosamente il Requiem Confutatis di Mozart. Tod era orribilmente sfigurato, con ustioni di vario grado sul viso e su tutto il corpo. La mascella quasi staccata dal resto del viso, e faticava a parlare. – Bentornato tesoro! – lo accolse Tröme affettuosamente e solo dopo notò la pessima cera del compagno – Mamma mia! Come ti hanno ridotto! – Hhhhhhhh… – sospirò lui, che non poteva articolare le parole. Tröme lo baciò, cercando di centrare quello che era rimasto della sua bocca, e le ferite di Tod iniziarono miracolosamente a guarire. In meno di un minuto era come nuovo. – Ecco fatto – disse lei – però che ti avevo detto? È un lavoro stancante, il mio… – Lo so, tesoro – fece eco lui – lo so… Suonò nuovamente il Confutatis. Erano le pizze. Mangiarono rapidamente e si infilarono a letto. Tröme si presentò nel nuovo completo intimo, più sexy che mai. – Amore – disse lui – sei bellissima, ma sono distrutto. Non ce la faccio. Tröme lo tranquillizzò e lo abbracciò forte. Si addormentò come un bambino. E così fece lei. Fu una notte tranquilla. Alle prime luci Tröme si svegliò e guardò il suo Tod. Era dolce. Quando lo aveva incontrato, per la prima volta, era sul ciglio del ponte di Oberbaumbrücke, in piena notte. Stava per buttarsi giù. Lei si presentò con il suo vero aspetto. Tod la guardò come nessuno l’aveva mai guardata. La aspettava da sempre. Quello sguardo innamorato la spiazzò e cambiò la sua esistenza per sempre. Dopotutto anche lei, la Morte, aveva il diritto di amare ed essere amata. Tod la conquistò con un bucatino all’amatriciana. Aveva perso il lavoro da chef, ma ora qualcuno poteva apprezzare i suoi piatti. Lei amava l’Italia. Per questo aveva scelto “Tröme” come pseudonimo: l’anagramma del suo vero nome in italiano, aggiungendoci quell’umlaut che dava un tocco di ‘nordico’ in più. E si era fatta bella, per lui, per ringraziarlo. Perché fossero felici. Quanto poteva durare? Non lo sapeva e non le importava. Adesso doveva tornare al lavoro. Aprì l’armadio e prese la falce, il suo strumento. Indossò il mantello, la sua uniforme e passando davanti allo specchio si vide, per come si concepiva lei. Vide il teschio. E anche se non aveva labbra, sapeva di sorridere. Baciò Tod ancora rannicchiato in posizione fetale. – Tesoro mio – sussurrò – te la sei cavata bene e mi hai fatto passare una giornata stupenda. Ma adesso è meglio che torni io... E uscì di casa, pronta a mietere vittime. © Testo – Andrea Guglielmino :: Editing a cura di edida.net :: Immagine “mano con pistola” presa dal sito PNGWing e ritoccata da Stefano Angelo Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici con follow.it! Read the full article
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La lite
:: di Stefano Angelo :: Seduto al tavolo, con l’avambraccio destro disteso verso una coppa di vino, battevo nervosamente il dito indice sulla base del calice. Il suono di quel battito rimbombava amplificato nella mia testa, come se volesse proteggermi, distrarmi, isolarmi, senza riuscirci, da un rumore ancora più forte. Il mio sguardo, come era il mio sguardo? Basso, spento, fisso sul mio avambraccio. E il mio corpo? Ricurvo. Ero ricurvo su me stesso e cingevo, con la mano sinistra, l’avambraccio. Continuavo a fissare quella parte anatomica del mio corpo, senza capirne bene il motivo. Stavo scomodo, in tensione, con il peso sbilanciato sul mio fianco destro, mentre non ascoltavo lei che mi incalzava con le sue richieste. Richieste da esaurimento nervoso. Chi diavolo mi aveva messo in quella situazione e in quel locale, in quel momento? Non avevo alibi, ero stato io con le mie stesse gambe. Una promessa è una promessa. Che frase senza senso – forse. Intanto quel rumore assordante, della voce di lei, non mi dava pace. Avrei voluto alzarmi di scatto, buttarle il vino in faccia e scappare via, sbattendo una porta. Ma non ci riuscivo. Lei continuava a vomitare parole. Io, sempre più compresso, ritirai leggermente il braccio, sollevai il capo e cercai di posizionarmi, con fatica, con il busto eretto sulla sedia. Abbandonato il calice iniziai a muovere ansiosamente la gamba destra, “urtando” ripetutamente contro il bordo della tovaglia che pendeva sulle mie ginocchia. Era come un tam tam silenzioso, che echeggiava nella mia testa. Lei sbatté, all'improvviso, il pugno sul tavolo e mi fissò, per pochi istanti, come se volesse urlarmi in faccia “Ma mi ascolti?”. Io, ridestato dal pugno, incrociai il suo sguardo, per un palpito, mentre lei riprendeva imperterrita con i suoi rimproveri e con la veemenza di sempre. “Ma ti pare il modo di parlare a una persona?” pensai. Poi, come in catalessi, mi rifugiai in antichi ricordi. Antichi, proprio la parola esatta. Infinitamente lontano mi sembrava l’inizio della nostra relazione... solcata da innumerevoli crisi che l’avevano frammentata in ricordi sbiaditi, così sbiaditi da non poter più distinguere i momenti buoni da quelli meno buoni, violenti, orrendi come quello che stavo, stavamo, vivendo in quell'inutile pomeriggio. Mi sentivo piccolo e nervoso, bloccato e schiacciato in un angolo della vita di lei. Non riuscivo a pensare, nel mio calice vedevo solo caos e oppressione. Adesso, invece di scappare, avrei voluto buttarmi su di lei, afferrare il suo esile collo con le dita e stringere, stringere, stringere. Con rabbia, in silenzio, in cerca di una liberazione. Vedevo i miei pollici affondare sulla sua trachea e un mezzo sorriso affiorò sul mio volto. Di nuovo il rumore di un pugno sul tavolo mi ridestò, di nuovo i nostri sguardi si incrociarono per un misero momento mentre lei, continuando a parlare, sembrava che mi stesse anche urlando “Ma che diavolo hai da ridere!”. Io avrei voluto abbaiarle in faccia: “Mi sento bene solo immaginandoti morta”. Ma continuai chiuso nel silenzio e il mio accenno di sorriso si spense in un soffio. Di nuovo mi estraniai dalla discussione. Discussione è parola grossa: monologo furioso... Rimuginavo. La vedevo, la percepivo nella mia mente come un demonio liquido, capace di insinuarsi dentro di me, di invadere il mio corpo attaccando tutti i miei organi: i timpani, gli occhi, la lingua, il cuore, il diaframma, il ventre. Con la mente seguivo il liquido e cercavo, in uno scampolo di lucidità, di capire cosa mi stesse succedendo. I miei timpani erano avvolti da un frastuono insopportabile. I miei occhi, annebbiati e leggermente socchiusi, erano in uno stato di tensione che traspariva dalle rughe della fronte. La mia lingua era schiacciata sul palato e sugli incisivi, facendomi sentire dolore e immaginare il sapore del sangue. Il cuore batteva in maniera discontinua, cercai per un attimo di afferrare invano i miei battiti irregolari. Sentivo il diaframma come paralizzato, al punto di non poter quasi respirare. Percepivo i miei addominali come un tutt’uno con i miei glutei, contratti, come se una lama partisse dal mio ventre fino ad arrivare alla base della schiena. Lì si fermò. Il liquido si dissolse. Una sensazione di freddo improvvisa in quel punto mi provocò un violento brivido che risalì come un fulmine fino a esplodere col fragore del tuono nel mio cervello che, destatosi da quello stato di torpore, mi portò a inclinare il torace in avanti, ruotare il braccio destro dietro di me, fino a scovare con la mano l’origine di quel gelo. Sfilai con uno scatto un revolver dalla cintura dei miei pantaloni. Adesso silenzio. Adesso che alla fine del mio avambraccio destro non vi era più una coppa di vino ma una mano tremante che impugnava una pistola, lei aveva smesso di parlare. Finalmente. Ma quel silenzio improvviso non era consolatorio. Lei mi fissava. Io no, io guardavo il mio avambraccio, la mia mano e quella pistola. Di nuovo l’avambraccio, la mano, la pistola. Al ritmo del mio respiro affannoso, ripercorrevo con lo sguardo e con la testa quel tracciato. Stavo sudando. Lei era attonita, ma non fece in tempo a spaventarsi. Io smisi di tremare e di guardare. In un lampo, vissuto al rallentatore, portai con precisione la pistola alla mia tempia e feci fuoco. L’urlo di lei si confuse col boato dello sparo e io, inclinato su un fianco, mentre iniziavo a precipitare verso il pavimento, in un tempo sospeso tra la vita e la morte, riuscii a sorridere... con un sorriso diverso e mi godetti quella caduta istante per istante. Raggiunsi il suolo: senza più rumori, senza la voce di lei in sottofondo, senza pensieri. Libero e prigioniero (al tempo stesso) di una nuova dimensione, in cui tutto sarebbe ricominciato in maniera differente – o forse no. Ma questa volta, probabilmente, avevo vinto io. © Testo – Stefano Angelo :: Editing a cura di Francesca Frosali ::Un ringraziamento particolare a Cristina T., Daniela A. e all'immancabile Salvina P.Immagine di sfondo di Viki_B (Pixabay licence)Ti è piaciuto questo racconto sulle relazioni asimmetriche e l'incomunicabilità? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici!Aiuta l'autore! Condividilo... Read the full article
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I gerani
:: di Lyes :: Fa talmente caldo che non mi va di alzarmi nemmeno per annaffiare i miei gerani, semi-appassiti, in piena asfissia sul davanzale della finestra. Moriranno. Pazienza. Prima o poi capita a tutti. Aspetto il tuo arrivo dondolandomi sulla mia sedia di vimini scassata, come si usava una volta e si usa di nuovo adesso, facendo perno col piede nudo sul tavolino che mi sta davanti. Le persiane sono abbassate a tre quarti e la luce entra a strisce polverose nella stanza, arroventata dal soffitto catramato del terrazzo sopra di me. Goccioline di sudore scorrono dentro l’incavo del seno e penso se non sia il caso di rifarsi una doccia. La terza della giornata. Le cuffie dello smartphone ripetono questo cavolo di “contemporary drama” nelle mie orecchie, di cui comincio a capire qualcosa solo ora, dopo una trentina di puntate andate a vuoto, perché mi fa bene per imparare l’inglese “parlato” che dovrò capire per forza una volta arrivata a Houston, Texas, Usa. Tra 72 ore esatte a partire da adesso. La valigia è più triste di me, ancora mezza vuota e io non so quando e come avrò il coraggio di infilarci dentro il minimo sindacale per un inizio di vita altrove. Suoni il citofono e io apro la porta facendo finta che non m’importi nulla, che non ti sto aspettando, che le mutandine che indosso non l’ho messe e tolte e poi rimesse quel paio di volte in più del necessario. Lo stesso con il vestito. Ma prima, mentre sali, ho un secondo per guardarmi allo specchio. I capelli in disordine li lego in una coda che a stento trattiene tutto, il lucidalabbra lo tolgo con il dorso della mano perché mi rende non vera, il vestito leggero che fa intravedere la forma del mio seno, forse è troppo corto? Bussi, apro la porta e ci sei tu. Entri, mentre mi dai un bacio fugace sulla bocca, e mi porgi un vasetto di gerani. Gialli questa volta. Niente parole inutili tra di noi. – Ciao. – Ciao. Appoggio il vaso accanto agli altri, ognuno di un diverso colore, ma sempre moribondi, e mi giro a guardarti mentre anche tu fai lo stesso, appoggiato al lavello della cucina, coi tuoi occhi scuri dalle ciglia lunghissime, che mi perforano l’anima. Pieno di rimprovero e disapprovazione prendi la caraffa, la riempi d’acqua e ti metti a innaffiare le piantine che mi hai regalato, in religioso silenzio, aspettandoti un miracolo, forse, al quale io, mezza atea e mezza astiosa, non credo. Senza che me ne renda conto, e con la strana sensazione che qualche fiore nel frattempo si sia materialmente messo a respirare di nuovo alzandosi di un impercettibile mezzo millimetro, mi sei accanto e mi sposti una ciocca di capelli dal viso. Mi prendi in braccio e mi fai sedere sul tavolo con le gambe avvinghiate a te, iniziando il nostro gioco preferito. Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi… Piano, mi abbassi la spallina sottile del vestito nero che indosso e mi stringi il seno nudo, con le mani ruvide, esigenti, maleducate. … e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò, da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de' prodi Atride e il divo Achille… Non riesco a continuare mentre le tue mani mi accarezzano e la mia parte mi si spezza in gola. – Andiamo di là. Ordini, non suggerisci. Anche qui siamo in penombra. Il buio non fa per noi. Mi guardi fisso negli occhi, mentre mi fai stendere sul letto, mi sollevi la gonna e allarghi piano le gambe. Giochi con le mie mutandine. Le sposti di lato e infili dentro le dita, lentamente. Inarco la schiena al tuo tocco, non so quanto riuscirò a resistere e mentre il desiderio che ho di te continua a salire e mi offusca la mente, secco mi chiedi: – perché non dai acqua ai gerani? La domanda sembra talmente seria ed è arrivata così inaspettata che scoppio a ridere tanto la risposta è banale. Ma la mia risata sembra avere uno strano effetto su di te che mi guardi ancora più serio di prima e mi entri dentro, furiosamente, con le mutandine ancora addosso. Poi, scompariamo dal mondo. – Vuoi che ti accompagni in aeroporto? Io penso sia l’ultima cosa che voglio. – Grazie. Ma no, grazie. Viene Irene. Metto a bollire l’acqua per il tè alla menta, abitudine che ho preso anni fa, dopo un viaggio in Marocco con delle amiche, in cui tutte ci innamorammo di questa berbera usanza di rinfrescarsi col tè caldo d’estate. Mentre lo beviamo insieme, il tuo telefono squilla ma non rispondi. Dici soltanto: devo andare. Siamo di nuovo in piedi appoggiati al lavello. Mi metto accanto a te e ti do una lieve spallata, come se fossimo i vecchi amici che non siamo mai stati e ci mettiamo a ridere. Per non metterci a piangere, come due deficienti. Abbasso gli occhi, colmi già di una stupida nostalgia di cui mi vergogno, e mi tiri su il mento guardandomi mentre il respiro mi si affanna, nonostante cerchi di darmi una calmata. Non lo reggo il tuo sguardo, oggi più che mai, ma tu ti avvicini, mi dai un bacio leggero sulle palpebre chiuse a metà mentre le tue mani mi riempiono il volto. Sappiamo entrambi che la distanza non fa per noi. Che non ci siamo mai telefonati per raccontarci la nostra quotidianità, nemmeno quando eravamo a 5 km l’uno dall’altra. Figurarsi a 9150 km l’uno dall’altra. Km più km meno. Consapevoli del fatto che nessun dei due si potrà presentare all’improvviso, in caso di bisogno, nel cuore della notte a casa dell’altro, per un abbraccio o un’allegra e superficiale, almeno così sembrava fino a ieri, scopata. Non funzionerebbe. – Rimani. Non sembra nemmeno la tua voce. A stento riconosco la sicurezza perentoria, quasi arrogante, del timbro che fino a un secondo fa non pensavo potessi mai e poi mai perdere. C’è odore di sabotaggio nell’aria per questo cuore, ma mi sorprende il coraggio che ho: – Non posso. Non chiederlo. Neanche la mia, sembra la mia voce. – Va bene. Ti guardo andare via senza girarti nemmeno. Del resto, non lo sopporterei. Ti guardo chiudere piano la porta dietro di te, che io invece avrei sbattuto con tutta la rabbia di questo intollerabile addio. Aspetto un minuto. Vado alla finestra e getto di sotto, uno per volta, uno dietro l’altro, dieci in tutto, i tuoi maledetti, insopportabili, vasetti di gerani, che si schiantano al suolo in un fragore di ceramica frantumata. Mille minuscoli pezzettini colorati di nulla. Fiori semi-appassiti dappertutto. Qualcuno di sotto si lamenta: Ehiii! – Ehi un cazzo! Sorrido amaramente. È arrivato il momento di fare la valigia. © Testo – Lyes :: Editing a cura di Stefano Angelo :: Immagine di copertina realizzata da RitaE (Pixabay licence), ritoccata da Stefano Angelo. :: Nota: Primo racconto, con un pizzico di erotismo, della serie Codigo Rojo. Stuzzicante al punto giusto, malinconico, irrequieto. Della serie, quando fa caldo e non puoi farti un bagno… Ti è piaciuto questo racconto sulle relazioni amorose? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici! Read the full article
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Il Bar delle Zie
:: di Bernadette Lauro :: Sono lì, con pensieri assortiti – è un esercizio di parole propizio a risolvere il caso... Quale caso? Beh, ora che mi trovo in ballo, devo ballare... un ballo turchese, come questa camicia, come il colore orrendo di questo tavolo... e lo guardo… (guardo cosa?) le parole sono troppo lente, i pensieri pi�� veloci...Ricominciamo: sono lì, per caso, con pensieri assortiti, alcune parole mi sfuggono e… devo risolvere il caso. Quale caso? Ah sì, il fucile, quel dannato fucile davanti a me, col prezzo sopra e che indica... indica di là. Ecco perché sono lì, per risolvere il caso... Ma perché mi trovo lì? Perché in quel bar? Perché con la camicia rosa? Non era turchese? Il ballo! Mi ricordo ora del ballo. È un caso propizio? L’assortimento di pensieri... oddio no! Ricominciamo daccapo… ero lì per caso. C’era un fucile davanti a me, avevo una camicia turchese, come il tavolo al quale ero seduta. Un assortimento di colori strano. Ero lì per caso… Cosa ho visto? Non lo so, so solo che il fucile indicava di là e c’era un prezzo… un prezzo, sì un prezzo.Tesoro... (ero lì per caso…) tesoro…– Tesoro svegliati! – In che senso? (apro gli occhi e vedo la faccia divertita di mio marito) – Hai ripetuto tutta la notte: assortimento! Ahah! Assortimento! Ma di cosa?Mi prende in giro, ma io mi sento intontita, come se avessi attraversato un mare in tempesta. Eppure... non riesco a ricordare. Ho fatto un cattivo sogno? – Buongiorno – gli dico. Non sono di buon umore come lui. Mi alzo, mi guardo allo specchio del bagno e lo stordimento inizia a svanire. Lo sguardo da cupo e socchiuso pian piano si apre. L’acqua fresca fa il suo dovere. Venite particelle di H2O… rinfrescatemi. Gli angoli del viso si dirigono verso l’alto come sollevati da fili trasparenti e insorgo: è il mio primo giorno di lavoro! Lo urlo, e mio marito, lo vedo col pensiero, sorride, di là, mentre legge il giornale. È contento che abbia questa novità, lo stavo assillando con le mie lamentele, negli ultimi tempi percepivo una certa insofferenza, cosa che gli capita quando è arrivato allo stremo della pazienza. E di pazienza ne ha sicuramente tanta. Poverino, i preparativi per l’inaugurazione sono stati faticosi per me e per lui che mi ha dovuto sopportare.Mi precipito davanti all’armadio, prelevo il vestito che avevo appeso alla gruccia iersera e mi proietto mentalmente nel mio nuovo status di aiuto-vice-assistente alla cassa del Bar delle Zie di via Pigna 37.C’è voluta una lunga discussione prima di partorire il titolo del mio ruolo, tra le zie del Bar di via Pigna 37, prima che diventassimo le manager del Bar delle Zie di via Pigna 37. Aiuto-vice-assistente-alla-cassa suona altisonante. Nella mia previa esperienza lavorativa come capo ufficio, dello studio commercialista associato Peroni&Co. Srl, conclusasi con il pensionamento nei miei appena compiuti 62 anni 3 mesi e 7 giorni, con 37 anni virgola cinque di contributi e 45 virgola cinque di anzianità, avevo capito che il ruolo di segretaria, con il suo orario ridotto e le lunghe chiacchierate con i clienti in attesa di parlare con il titolare, era di gran lunga più vantaggioso del mio. Come capo ufficio avevo sgobbato sulle dichiarazioni dei redditi dalla mattina alla sera nei mesi primaverili e sulle fatturazioni per il resto dell’anno. Pertanto avevo insistito, con le zie del bar di via Pigna 37, che semmai fossimo riuscite a prelevare la gestione del locale, io avrei ricoperto esclusivamente un ruolo secondario e di intrattenimento della clientela. Purtroppo, però, non c’erano ruoli di intrattenimento, ma solo un lavoro alla cassa. Al che mi sono impuntata, anche se ne fossi stata responsabile, avrei preteso ufficialmente un titolo secondario, e mi sarei comportata di conseguenza.Nell’ora successiva al mio risveglio ero lì, a via Pigna 37, al Bar delle Zie, per preparare l’inaugurazione. C’erano tutti: Totò, con il suo piglio romanesco e l’autoironia di chi convive con una figura un po’ malformata dalla nascita, e con gli sfottò raccolti da amici affezionati e compagni bulli. E c’erano le zie: Matilda, Rosa e Veronica. Le raggiunsi e salutai: – Cos’è quella faccia? Non è tutto pronto per l’apertura? – Sembravano deluse. Mentre mio marito chiacchierava ancora con il posteggiatore abusivo, Rosa mi disse – È passato il vigile e ci ha detto che manca un’autorizzazione...Cosa? Io mi ero sbattuta per tutti gli uffici possibili, passando intere giornate in Prefettura e all’Ufficio Igiene, ero certa di aver ricevuto tutti i certificati necessari! cosa mancava? Il permesso di soggiorno di Abdi? Ma se era tutto chiarito, Abdi aveva ottenuto un certificato di idoneità all’esercizio della professione di barista, aveva fatto il corso, era risultato anche il migliore tra i partecipanti, e poi lo conoscevamo bene e potevamo garantire per lui! Cos’era successo?D’improvviso l’energia con cui avevo accolto nei miei pensieri il mio primo giorno di lavoro stava dando precedenza allo sconforto. Non avevamo un altro barista. Totò, col suo metro e quaranta non arrivava nemmeno a porgere le tazze sul banco, essendo questo molto profondo. Lo so, lo avevamo previsto che sarebbe stato un problema, qualora Abdi si fosse assentato. Contavamo di costruire una pedana lunga quanto il banco per consentirgli di raggiungerne la profondità, ma i fondi raccolti ci erano bastati a malapena per l’apertura. Oddio quanti pensieri, devo riprendermi e agire.Mi giro verso mio marito e gli ordino di risalire in macchina. Si va dal brigadiere Saltini.– Brigadiere buongiorno!Urlo con un gran sorriso. Mio marito dietro. Non so quale santo mi ha fatto incontrare un uomo così intelligente da saper stare un passo indietro al momento opportuno. Il brigadiere mi guarda con un’espressione a metà tra il sorriso e il “rieccola, mi era mancata da ieri...”– Brigadiere mi aiuti, sono in un’impasse... – Che è successo signora Mara, non dovevate aprire stamattina? – Un guaio. – Si calmi, vedo che suo marito non è agitato, quindi dev’essere qualcosa di risolvibile. Mi segua nel mio ufficio.Mio marito non si agita mai... penso.– Il ragazzo! – Quale ragazzo?Il brigadiere fa finta di non capire, ma sa che io so che lui sa e che si sta preparando alla sfuriata, sta cercando di prendere tempo.– Abdi, brigadiere, si ricorda? – Mi ricordo, signora, non c’è bisogno che mi racconti tutte le volte quant’è stato sfortunato il povero ragazzo che ha attraversato il mare per arrivare nel nostro Paese, eccetera eccetera. Vuole un caffè? E mi indica la macchina espresso automatica.– Brigadiere, sono io che dovrei offrirle il caffè al Bar delle Zie, se solo avessimo potuto aprire... – E perché non potete aprire? – Perché Abdi non ha l’autorizzazione, a quanto pare. È passato il vigile per i controlli e ha dichiarato che Abdi non può lavorare. Non ho capito bene come sia possibile, fino a ieri tutti i certificati e le autorizzazioni erano a posto! – Signora, se Abdi non può lavorare il bar si può aprire lo stesso, non crede? (Sorride) – Mi vuole provocare? (Penso: Mara stai calma, non esplodere. Sorridi e fai un respiro profondo) Brigadiere, lei lo sa che questo è un progetto d’integrazione, vero? gliel’ho spiegato. Senza Abdi, niente zie e niente bar. Fondi persi, contribuenti arrabbiati e io e le zie veniamo a fare il “picchietto” qui davanti al Prefetto, come abbiamo già fatto l’anno scorso, si ricorda? – O mamma mia, signora Mara, il picchetto, vorrà dire? se me lo ricordo, per poco la famiglia non mi cacciava di casa... pure la notizia delle zie incatenatesi davanti alla Prefettura avete fatto pubblicare... che disonore! – E allora, che vogliamo fare? C’è questa autorizzazione o no? – Signora, non dipende da me. Pare che, purtroppo... (e si mette a esaminare una carta) sembra che... mi sembra di capire che... abbiano revocato il permesso di soggiorno a tutti gli emigrati come Abdi, che sono arrivati il... Non lo ascoltavo più. Ormai ero su tutte le furie. Non avrei saputo con chi prendermela e quindi decisi la ritirata preventiva. Quando il Brigadiere Saltini alzò gli occhi vide solo la porta che sbatteva dietro di me. – Andiamo! – dissi a mio marito che era rimasto ad aspettare nella sala antistante all’ufficio del Brigadiere.Uscendo noto un fucile, in una teca, e attaccato al vetro della teca un biglietto... uno di quelli che si attaccano e si staccano. Se solo li avessimo potuti usare quando lavoravo alla Peroni&Co. Quel tirchio del titolare non voleva spendere soldi in cancelleria e ci costringeva a scrivere le note su una lavagna. Tornavo a casa con i vestiti sporchi di gesso... ma acqua passata, l’importante è che sono riuscita a fargli scucire un contributo importante alla raccolta fondi per l’apertura del bar. Mi avvicino e leggo sul biglietto un numero. Lo stacco, lo osservo meglio, sembra un numero di telefono, ma finisce con troppi zeri. È un prezzo. Perché dovrebbe esserci un prezzo su questa teca? Mio marito si avvicina e mi chiede cosa mi ha colpito di quel fucile in mostra. Gli rispondo che mi era sembrato di averlo già visto, e usciamo. © Testo – Bernadette Lauro :: Editing a cura di Stefano Angelo :: Immagine di copertina realizzata da StockSnap (Pixabay licence), ritoccata da Stefano Angelo:: Nota: Questo racconto, ispirato da una foto (di Martin Kollar) mostrataci da Mattia Grigolo durante un suo corso di scrittura creativa del 2019 (organizzato da ItaliaAltrove Francoforte), è un frammento di una raccolta – I racconti della donna con il fucile – che avrebbe dovuto dare vita a una pubblicazione cartacea. Purtroppo, causa COVID e impedimenti vari, il progetto si è arenato. Di tanto in tanto pubblicheremo alcuni di questi frammenti per rievocare un’esperienza, quella del corso, che ha comunque dato il “la” a nuove avventure su questo blog ::Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici! Read the full article
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Happy days
:: Alessandra Facciolo :: Le note graffianti di Streets of Philadelphia mi accolsero all’entrata del locale, “non può essere una brutta giornata se la condividi con il Boss”, mi dissi accomodandomi al solito tavolino un po’ defilato. La cameriera, con il grembiulino bianco e la divisa rosa, arrivò con il caffè caldo e la tazza e li posò sul tavolino senza parlare. “Grazie” sorrisi, poi tirai fuori dalla grossa borsa il pesante involucro e, con delicatezza, cominciai ad aprirlo. Tolsi prima il nastro, poi la carta grigia che lo avvolgeva e infine lo sollevai e contemplandolo lo appoggiai davanti a me, lasciandolo lì in bella vista. Con cura ripiegai la carta, riavvolsi il filo e li riposi nella capiente sacca vicino a me. Bevvi con calma il pessimo caffè, ancora tiepido, osservando il locale oltre il bordo della tazza. Non c’era nessuno a quell’ora e la cameriera era ancora occupata dietro al bancone a sistemare tazze e bicchieri usciti ancora fumanti dalla lavastoviglie. Un uomo, vicino alla porta, beveva una birra. Fuori, sulla grande strada polverosa, passavano poche macchine, per lo più dirette verso il centro della piccola città. Nessuno passeggiava sullo stretto marciapiede. A quell’ora, normalmente, tutti si affrettavano verso casa, per preparare la cena e godere, in pantofole, delle ultime ore del giorno. Quando più tardi la ragazza prese la tazza ormai vuota e passò oltre senza disturbarmi, neanche me ne accorsi. Tenevo lo sguardo fisso davanti a me: sul tavolo e su quell’oggetto posto quasi a distanza di sicurezza. Certo, doveva averne viste quella ragazza per non fare neanche il minimo accenno riguardo all’oggetto posto sul mio tavolo. Ma in quel momento ne apprezzai la discrezione. Non mi sentivo pronta a rispondere a domande o a dare spiegazioni. Non ne avevo neanche per me. “Che curioso contrasto” pensai invece, stupendomi della frivolezza dell’immagine, “un vecchio fucile da caccia su un tavolino rosa e azzurro di un locale anni ’50”. Alzai gli occhi guardandomi intorno, “chissà che effetto faccio”, mi dissi, “una vecchia signora sola, vestita in modo discutibile, davanti a un fucile e una lettera, in un tripudio di colori pastello”. Il mio aspetto lasciava un po’ a desiderare. Ero uscita senza guardarmi allo specchio, vestita come per casa, e i miei capelli… sì, decisamente avevano bisogno di una messa in piega o almeno di una pettinata! Da quanti giorni non lo facevo più? Dovevo aver perso il conto. Che cosa mi avesse spinta ad uscire da quella casa all’imbrunire ora non lo rammentavo neanche più, ma ormai ero lì, lo avevo fatto e tanto bastava. “Surreale” mi ritrovai a pensare. Sì, decisamente la situazione lo era. Era la prima volta, dopo esattamente quindici giorni, che avevo abbandonato le quattro mura della mia stanza, che avevo aperto la porta. Era stata dura lasciare il letto, uscire allo scoperto. Non avevo impegni, niente scadenze, nessun appuntamento. Non avevo intenzioni bellicose, anzi. Non avevo desideri di riscatto. Piuttosto mi resi conto di aver bisogno d’aria. Sì, proprio di aria fresca! Mi ero diretta in strada, verso il parco, salvo poi allontanarmene in fretta alla vista della varia umanità che a quell’ora lo popolava. Proseguii lungo la strada e senza rendermene conto mi ritrovai davanti a quel caffè. Non avevo voglia di rimestare nei ricordi, né di ripercorrere luoghi e pensieri. Forse avevo solo bisogno di scoprire che, nonostante il “mio personale terremoto”, il resto del mondo era rimasto saldo, fermo, indifferente. Questo mi dissi varcando la soglia. Ma ora che, seduta, contemplavo il menu del giorno senza leggerlo, lo sconcerto che mi aveva avvolta e riempita nei giorni precedenti, lasciò il posto a un grande vuoto. “Sono sull’orlo del baratro o magari sono al nastro di una partenza o, forse, solo all’inizio di un esaurimento nervoso… prima o poi deciderò” mi dissi. I pensieri si affastellavano senza ordine apparente. Non era la solitudine, che ora avvertivo chiaramente, a spaventarmi, quanto piuttosto il dover riprendere in mano il timone della mia esistenza, ridirezionare il viaggio e riprendere a navigare. Improvvisamente, da un cassetto della memoria saltò fuori una frase da uno dei miei film preferiti: “… è strano come le situazioni si impongano anche quando non le vuoi…” L’avevo sempre amata quella frase e mai come ora la trovai calzante, perfetta per ciò che mi stava accadendo. Certo, la decisione finale non era stata la mia, mi era stata piuttosto imposta, l’avevo subita, e mi ritrovai a chiedermi quando era cominciato il lento abbandono, quando avevamo cominciato a perderci senza renderci conto di quello che ci stava accadendo. In tutta coscienza non potevo dirmi sorpresa, ma, confidando nella solita e inveterata inerzia che sfociava spesso nell’apatia, mi ero assuefatta all’idea che la mia vita continuasse nel consueto solco fatto di quotidianità, televisione, qualche libro, un po’ di musica e poche parole, per lo più inutili. La malinconica dolcezza del tramonto predispose il mio animo a pensieri poco bellicosi e più meditativi o forse meditabondi. Fissando il fucile di fronte a me, rividi quel negozio di tanti anni fa, ripensai a me stessa e all’entusiasmo ancora giovane di un’assolata mattina di primavera, al campanello della porta e alla penombra ingombra di passato e di ciarpame che mi aveva accolta appena varcata la soglia. Sapevo già cosa volevo e lo indicai sicura al vecchietto che mi scrutava dietro le lenti sporche appoggiate sulla punta del naso: un vecchio fucile da caccia, risalente forse alla Guerra di Secessione o magari all’epoca della febbre dell’oro, un residuato bellico dimenticato da un paio di secoli. L’avevamo visto un paio di giorni prima in vetrina, mentre passeggiavamo pigri per la città, io avevo colto il lampo di curiosità nei suoi occhi e avevo deciso di regalarglielo per l’imminente anniversario. Una novità quel regalo nella quiete monotonia delle nostre abitudini: un mazzolino di rose, un dolce e un bacio accennato, questo era il copione consueto dei pochi eventi da calendario. La sua faccia stupita alla vista dello Springfield ripulito e lucido era stata la mia migliore ricompensa, l’avevo decisamente sorpreso e anche felicemente. Negli anni successivi l’avevo visto spesso smontare e rimontare l’arma, ripulirla e ammirarla; l’aveva persino rimessa in funzione e si era spinto fino a un poligono di tiro per provarla, tra la curiosità e l’ammirazione di tutti. Lo Springfield in casa faceva bella mostra di sé sopra il caminetto, al centro della casa. E lì era rimasto negli anni, a lui il compito di spolverarlo, pulirlo, oliarlo e riporlo di nuovo al suo posto d’onore. Anche il fucile, come tutto il resto, era entrato nella monotona consuetudine delle nostre vite. Eppure ero convinta che non se ne sarebbe mai privato, c’è chi si affeziona a un cane, a un gatto, a una moglie persino… c’è chi non si separa da un libro, da un vaso cinese, lui aveva il suo fucile, compagno dei suoi pensieri, testimone privilegiato della commedia della nostra vita coniugale. Certo come “sit-com” lasciava un po’ a desiderare: statica, sicuramente, pochi dialoghi, spesso ripetuti, sicuramente banali. Ma era la nostra vita. E invece se ne era andato lasciandolo lì al suo posto, come me d’altronde, ma non era stata una dimenticanza, no al contrario: era stata una scelta precisa, l’ultima vigliacca stoccata. Sì, perché attaccato al calcio avevo trovato un biglietto scritto di suo pugno: un cartoncino doppio, uno di quelli che conservavamo nel cassetto in alto a destra della scrivania, uno di quelli che si usavano per gli auguri per le feste, per i compleanni o per le condoglianze. Lui ne aveva scelto, o più probabilmente preso a caso, uno a tema pasquale: pulcini e uova colorate, un’atmosfera primaverile, di festa, che invitava alla pace e che cozzava pesantemente con le poche parole scritte di fretta con la sua consueta grafia un po’ storta: “Non ne ho più bisogno, la guerra è finita”. Che cosa intendesse dire non mi era chiaro, non comprendevo il senso di quelle parole e neanche i sottintesi. Ma ciò che, invece, avevo afferrato immediatamente era la stilettata velenosa, l’acredine, quell’astio che mi era arrivato come un pugno allo stomaco. Da dove si originasse quella rabbia non lo capivo, così come ne ignoravo totalmente le ragioni. Nei primi momenti di sconforto e smarrimento avevo ripercorso dapprima le ultime settimane, poi i mesi e poi gli anni alla ricerca dell’origine, della sorgente di tutto, ma non avevo trovato nulla. Possibile che non mi fossi accorta di niente? Che ormai, così assuefatta alla quotidianità, non mi fossi resa conto che qualcosa stava cambiando? Che il leggero venticello stava silenziosamente evolvendo in tempesta? O forse non avevo voluto cogliere io stessa le avvisaglie, possibile che fossi stata così cieca? Cieca lo ero stata sicuramente, ma scema no! Qualcosa era successo e decisi di scoprirlo, anche se ci avrei impiegato il resto della mia vita. Tempo ne avevo. Ma da dove cominciare? Mi sentii improvvisamente un naufrago approdato in terra straniera, senza più radici né punti di riferimento. Mi sentii tanto piccola in una vita tanto grande ed ebbi pietà di me stessa. Mi vidi lì, sola, persa, indifferente alla pioggia degli eventi che mi erano piovuti in testa. Nel frattempo un nuovo sentimento si faceva spazio nella mia anima confusa: una dolce malinconia che colmò la mia ansia e mi permise, finalmente, di piangere. Piansi a lungo, piansi in silenzio, piansi grosse lacrime che, scendendo lungo il viso, si raccolsero nelle mani chiuse in grembo. Quando ebbi esaurito tutta la mia scorta, rialzai la testa e mi guardai intorno cercando di vedere oltre il velo del pianto. Nulla era mutato all’interno del locale, la cameriera era ancora dietro il bancone e leggeva una rivista, concentrata sulle ultime novità da Hollywood. L’uomo vicino alla porta si era assopito sul boccale ormai vuoto. Anche la musica si era interrotta, e nell’aria rimaneva solo il ronzio continuo del neon che illuminava sinistramente metà del locale. Era ora di tornare a casa. Aprii la borsa e cercai una banconota che lasciai sul tavolo sotto il portacenere trasparente. Poi tirai fuori la carta grigia e, di nuovo, incartai il mio muto compagno riponendolo nella grande sacca con cura. La strada verso casa non mi era mai parsa così lunga. Camminando veloce mi guardavo intorno, circospetta, all’inizio timorosa di incontrare volti noti a cui avrei dovuto, necessariamente, fornire spiegazioni che non avevo. Poi rallentai, ammaliata dalla luce sbieca del crepuscolo e mi chiesi con stupore se le strade, gli alberi, le facciate delle case potessero avere, anche loro, una memoria. Se potessero conservare il rumore dei passi, i richiami delle madri, le risate degli amici, i sussurri degli amanti o se anche tutto questo fosse destinato a perdersi, nel silenzio sospeso del crepuscolo. Alla luce ormai incerta della sera mi fermai sul ponte del piccolo fiume che attraversava la città. Appoggiata al parapetto vidi ciò che era rimasto del mio matrimonio cadere in acqua e affondare, mentre il biglietto, galleggiando, proseguiva la sua corsa solitaria trascinato dalla corrente. Quando, poco dopo, scomparve anche lui nell’oscurità, ripresi la strada del ritorno. La casa mi accolse, buia ma familiare: il giardino ben curato, la staccionata bianca e il porticato con il dondolo di legno e i cuscini a fiori. La caraffa del tè di vetro blu con i grandi bicchieri colorati era rimasta sul tavolino di ferro battuto vicino alla porta. Una lunga scia di piccole formiche approfittava della mia assenza, banchettando con le briciole sul pavimento di assi della veranda. In una giornata normale mi sarei precipitata a ripulire, ma in quel momento mi limitai a guardarle e, dopo averle scavalcate avendo cura di non disperderle, entrai in casa. Mi sedetti sui primi gradini della scala di legno davanti alla porta e lì rimasi in attesa, con la testa appoggiata di lato alla balaustra bianca. Mi assopii e sognai sogni confusi e facce note. Quando, trasalendo riaprii gli occhi, lasciai che i battiti del mio cuore rallentassero e smettessero di rimbombare forte nella mia testa, prima di alzarmi e salire. Al buio, a tentoni, attraversai a passo sostenuto il lungo corridoio, aprii tutte le porte che incontrai lungo il passaggio e mi diressi spedita nella stanza matrimoniale, verso il grande armadio ai piedi del letto. Spalancai tutte le ante superiori e inferiori con forza, facendone gemere le cerniere, poi afferrai i cassetti e ne svuotai il contenuto sul pavimento in un tripudio di camicie dai colori spenti, cravatte regimental e completi di fresco lana. Poi passai alle magliette, alle polo, ai maglioni e alla biancheria intima. Solo quando ebbi scovato anche i fazzoletti, i pantaloncini per lo sport, le sciarpe, i cappelli e i costumi da bagno mi arrestai e, esausta, mi guardai intorno. Nel marasma generale intravidi un attimo, nel grande specchio sopra la cassettiera, la mia faccia. Nella corsa concitata non avevo neanche acceso le lampade e nella camera, appena rischiarata dalla luce giallastra del lampione sulla strada, mi sembrò di scorgere uno spettro: gli abiti in disordine, i capelli dritti e spettinati, gli occhi spalancati e lucidi sul viso scuro in penombra. Avevo ancora le scarpe e la giacca, la borsa a tracolla e la sacca sotto il braccio. Tutto appariva stravolto anche i gesti consueti e quotidiani erano saltati. Mi bloccai di botto e una risata mi risalì in gola e mi scoppiò in bocca: risi, risi tanto, risi forte, risi fino alle lacrime, risi accasciata a terra strappando camicie e lanciando calzini, calpestando giacche, rompendo bottoni. Lo feci a lungo, lo feci meticolosamente e, quando alla fine rialzai la testa, tutto mi apparve nuovo e possibile. Improvvisamente leggera, spinta da una nuova forza mi sollevai da terra e, recuperati dei sacchi neri, li riempii di tutto ciò che ingombrava il pavimento, il letto e i mobili. Poi passai alle altre stanze e le svuotai di tutto il passato: oggetti, libri... Ogni sacco venne riempito e chiuso e a ogni sacco la medesima sorte: un lancio preciso dal primo piano nel giardino sul retro. A notte fonda una collina scura copriva la visuale del giardino dalle finestre della cucina, ma io non la vidi, i miei occhi erano proiettati oltre lo spazio ristretto della mia esistenza, verso un nuovo chiarore lontano, verso l’orizzonte. © Testo – Alessandra Facciolo :: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli :: Immagine di copertina di Martin Kollar, modificata da Stefano Angelo :: Nota: Questo racconto, ispirato da una foto (di Martin Kollar) mostrataci da Mattia Grigolo durante un suo corso di scrittura creativa del 2019 (organizzato da ItaliaAltrove Francoforte), è un frammento di una raccolta – I racconti della donna con il fucile – che avrebbe dovuto dare vita a una pubblicazione cartacea. Purtroppo, causa COVID e impedimenti vari, il progetto si è arenato. Di tanto in tanto pubblicheremo alcuni di questi frammenti per rievocare un’esperienza, quella del corso, che ha comunque dato il “la” a nuove avventure su questo blog :: Ti è piaciuto questo racconto? 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Goccia
:: di Salvina Pizzuoli :: ¿Qué es la vida? Un frenesí. ¿Qué es la vida? Una ilusión, una sombra, una ficción, y el mayor bien es pequeño; que toda la vida es sueño y los sueños sueño son. PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA “La vida es sueño” Gocce, gocce, gocce… Sembrano simili, ma sono tutte diverse, ciascuna con la propria particolarità. Dolci, salate, gonfie, sottili e lunghe, iridescenti, opache, veloci, pachidermiche, calde, gelide, penetranti, effimere. Il paragone non regge? Forse no perché nel mio immaginario sono solo femmine. E femmine siano, sì. Ipotesi 1 Siamo gocce, di un mare più grande. Ci confondiamo in questa moltitudine, ma noi sappiamo di essere uniche e viviamo questa specificità, amiamo questa unicità. Come gocce scorriamo, attraversiamo sentieri piani o impervi, discese che paiono salite, pericoli, tragedie di piccole gocce che sanno resistere fino in fondo o si dissolvono rapide o si seccano lente. Sì, ho attraversato il mio sentiero e lasciato parte di me senza rammarichi, con consapevolezza poi, senza appartenenza agli inizi, quando si lascia, senza sapere. Sì, mi piace questo paragone, questa metafora, questa similitudine. Ho resistito, ho dato, non ho mai disperso? Disperso sì, disperato no. Chiusa come crisalide dentro la scorza della mia goccia: ho guardato fuori, ho visto, ho ammirato, non sempre ho afferrato il senso sfuggente, ma ammaliata ho goduto e mi sono nutrita di Amore e Bellezza; dentro il mio guscio protettivo e caldo ho percorso il mio tragitto come dentro una luce che non si è spenta mai, neanche ora che mi sento prossima al confine. Confini, limitazioni. Mi piace, anzi è già da tempo che mi stuzzica immaginare, anzi sostenere che come gocce in un mare più grande siamo vita che non si perde mai, scorre senza limiti e limitazioni per infilarsi in un tutto, fuori dalla crisalide, ma avvolgente e caldo, più indistinto, meno peculiare, più noi, senza io. La fine del percorso ci fa paura. Assuefatte allo scorrere ci sarebbe piaciuto all’infinito, vedere, guardare ancora, capire, imparare. Ci hanno convinte che non si possa e prove schiaccianti lo possono confermare. Ma con che occhio guardiamo? Quello dell’involucro che da sempre ci copre e accompagna? che si evolve e decompone? Non sa guardare bene, è perfettamente imperfetto. Afflato, respiro, soffio, quanti sinonimi per l’immortalità! Gocce e come tali, come acqua entriamo in un percorso più ampio perdendo spoglie che germoglieranno dentro altri percorsi, e ancora e ancora, imperituri e potenti. Illusione? Quante hanno fatto parte integrante del percorso. Ma io lo so, sono vita della Vita che mi accomuna a tante altre che non scompariranno se non dentro un mare più vasto e meno imperfetto, dove riconoscersi o confondersi non sarà limitante. Tutte? Sì, il mare accoglierà come un grande abbraccio le imperfezioni e cattiverie e tristezze e meschinerie che ci hanno accompagnato, senza giudicare, senza assolvere, ma lasciando a ciascuna il peso del proprio personale fardello... che chissà, mescolato nel mare più grande, sarà poi più leggero? Ipotesi 2 Gocce. Si stemperano, evaporano, svaniscono, si dissolvono leggere. Il calore prima avvolgente e protettivo, quasi un secondo involucro. Il calore poi, penetrante, pungente e doloroso, scompone e decompone l’involucro originario. Si spezza e si apre. Leggerezza che abbaglia. Nude, eteree, impariamo a volare, più leggere dell’aria. Si sale, sciolte in particelle, sempre di più, minime ormai. Senza sentire, senza essere. Umidità che si nebulizza, iridescente. Polvere d’acqua. Senza sofferenza, senza timore, senza. Nulla. Una folata di vento più freddo. E ricadere come goccia, nell’eterno ritorno. Ipotesi 3 Gocce. Si gelano, s’induriscono, si gonfiano, si solidificano. Il gelo prima avvolgente, quasi un secondo involucro. Il gelo poi, penetrante, pungente e doloroso, scompone e decompone l’involucro originario. Si chiude e s’irrigidisce bloccato. Fissità. Vedere solo in un punto. Scoprire nulla. Senza sofferenza, senza timore, senza. Nulla. Per sempre. Nel ghiaccio per sempre. © Testo – Salvina Pizzuoli :: Editing a cura di Stefano Angelo :: Immagine di copertina realizzata da Claudia Wollesen (Pixabay licence) Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici! Read the full article
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La casa
:: di Umberto Gorini :: Era calata la sera e accelerai, allungando il passo. Non vedevo l'ora di arrivare a casa e rivedere Anita, la mia compagna, che sicuramente aveva preparato una bella cenetta. Quando lei era al lavoro toccava a me preparare i pasti, ma non ero di certo alla sua altezza. Anita era infermiera e oltre alla salute provvedeva anche alle grandi e piccole incombenze dei restanti anziani, abitanti di quel paesino sperduto dell'entroterra ligure. Io, invece, ero la controparte tecnica di Anita. Allestivo, riparavo e risolvevo problemi di antenne, ricevitori, televisioni, telefoni, collegamenti internet etc. Ma forse il mio compito più importante e non retribuito era quello di parlare con le persone, ascoltare quei pochi vecchi rimasti abbarbicati al paese. Come me del resto. Questa riflessione si inserì estranea nel flusso dei miei pensieri: già! Rimanevano avvinghiati a un paese che piano piano, senza uno straccio di negozio, uno spaccio o una rivendita di tabacchi, si stava spopolando. Lì si sperimentava da tempo la telemedicina e spesso io o Anita eravamo accanto a qualche abitante per prestare assistenza. Per il resto il medico con l'ambulanza veniva – quando veniva – in casi estremi e spesso con troppo ritardo. I figli se ne erano andati e poco dopo anche i genitori li avevano seguiti. Qualcuno era rimasto e nei primi tempi figli e nipoti ritornavano d'estate e per qualche settimana il luogo si rianimava, ma poi ritornava il silenzio e la pace. I verdi prati intorno, i boschi e i sentieri, la tranquillità… tutte cose che io e Anita apprezzavamo ma che ai giovani non interessavano o addirittura detestavano. Così col passar degli anni non venne praticamente più quasi nessuno. Certo, c'erano internet, Skype e quant'altro che permetteva a molti, se non tutti, di tenersi in contatto col mondo e con figli e nipoti. Per loro ero indispensabile, o almeno così mi sentivo io. Altri, ancora in buona salute e incuranti delle novità tecnologiche, curavano qualche albero di olive, un orticello o andavano per boschi e si fermavano a guardare il panorama dalla collina. Pensai a quando non ci sarebbe rimasto più quasi nessuno. Allora che cosa avremmo fatto, noi due? Anita da qualche tempo, prima solamente accennando e poi diventando sempre più esplicita, mi aveva detto che desiderava un bambino, anzi più di uno. Io amavo i bambini, ma avevo qualche perplessità per la scuola lontana, per la mancanza di altri bambini con cui giocare e anche per il troppo silenzio del luogo. Ma quella sera avrei preso Anita tra le braccia e messo da parte le mie riserve. In fondo i figli non erano un'ipoteca e un’assicurazione sul futuro? E noi, abbastanza giovani, se non proprio giovanissimi, avevamo ancora molti anni da trascorrere insieme. Felice, di aver preso questa decisione, cambiai il lato della strada che stavo percorrendo. Da destra a sinistra. Senza pensare, automaticamente. Ma poi, voltandomi, vidi la “casa”. Era un po' lontana dalla strada dentro una specie di piccolo parco ormai inselvatichito, circondato da una recinzione di legno molto malridotta. Mi vennero prepotentemente in mente le dicerie e le voci su quella casa. Voci e dicerie del tipo si “sentiva”, si “vedeva” ma mai niente di più dettagliato. Da ragazzo avevo tentato di saperne di più e i vecchi del paese mi avevano raccontato di una famiglia felice che all’improvviso aveva lasciato tutto per andarsene lontano. Forse in America o in Australia e così la casa era rimasta abbandonata. Ripensai, sorridendo, alle prove di coraggio che effettuavo da ragazzino con i miei amichetti. Queste prevedevano dapprima di scavalcare il cancelletto sempre chiuso, avvicinarsi alla casa, poi alla porta d’ingresso chiusa e infine la prova suprema: toccare il pomello della porta. Di più non avevamo mai osato, anzi eravamo scappati di corsa, senza sapere il perché e nessuno aveva mai detto o confessato il brivido di paura che avevamo sentito dentro di noi. Anni erano passati. Molti anni. La “casa” era pian piano – sebbene sempre lì – quasi scomparsa anche dalle chiacchiere dei vecchi sulla panchina. I miei compagni di gioco e di avventura erano pian piano andati via e io, preso dalle molteplici attività, non ci avevo praticamente più pensato o forse avevo semplicemente rimosso il ricordo. Riguardai la casa ben delineata nel chiarore lunare. Anche se abbandonata sembrava ancora in buono stato. Guardai meglio. La porta dell'ingresso sembrava socchiusa, anzi era socchiusa e da uno spiraglio usciva una lama di luce bianca, molto più bianca di quella lunare. Possibile? Ci sarà qualcuno? – mi chiesi. Ritornai sull'altro lato della strada, davanti al cancelletto. Ero indeciso: ritornare sui miei passi, andarmene a casa, stringere Anita tra le braccia e fare progetti per il nostro futuro? Oppure andare a vedere che cosa c'era dietro quella porta socchiusa? Scrollai le spalle: ancora paura della “casa”? Alla mia età? Aprii il cancelletto che non emise, stranamente, nemmeno un cigolio e percorsi quelle poche decine di metri fino all'ingresso. Qui mi fermai e ricordai che questo era quasi il limite massimo a cui mi ero spinto da bambino. Non si sentiva nessun suono o rumore. Salii i tre gradini e mi avvicinai alla porta. Cercai di guardare attraverso lo spiraglio, ma la luce era così intensa che non riuscii a scorgere niente. Sfiorai con la mano il pomello, velocemente, come se avessi paura di prendere la scossa o che fosse incandescente. Tirai un lungo sospiro e spalancai la porta. Prima di varcare la soglia mi concessi ancora una manciata di secondi: scorsi un corridoio. Quella strana luce proveniva proprio dalla porta in fondo a quel corridoio. Oltrepassai la soglia, deciso ma anche molto cauto. Ai lati del corridoio non c'era nulla, nessuna altra porta, nessun mobile o quadro. Andai verso la luce, verso quella porta aperta… Entrai in una grande stanza piena di quella luce strana, ma spoglia e disadorna. L’unico oggetto presente, una poltrona posta esattamente al centro della sala. Le finestre erano coperte da pesanti tende che lasciavano trapelare appena un lucore lunare. Da dove veniva dunque tutta quella luce? Mi avvicinai alla poltrona, di stoffa verde. La guardai attentamente. Passai un dito sullo schienale. Nemmeno un granello di polvere. “Strano” – pensai. E girai ancora con lo sguardo l'intera stanza, ma già sapevo che l'avrei fatto. Mi misi seduto sulla poltrona. Si stava molto comodi, anche se cedeva leggermente adattandosi alla mia figura, piuttosto pienotta – grazie alle arti culinarie di Anita alle quali opponevo da tempo una sempre più debole resistenza. Dopo aver assaporato quella sensazione di comodità, mi chiesi che cosa stessi in fondo facendo lì, in quella stanza, seduto su quella poltrona, quando davanti ai miei occhi si aprì una visione, o meglio mi trovai completamente immerso in una scena in cui due giovani si rincorrevano su una spiaggia, giocando, scherzando per poi baciarsi, scambiandosi sguardi a dir poco intensi. Io non soltanto vedevo, ma sentivo il rumore del mare, l'odore salmastro, gli stridii dei gabbiani. Sentivo la sabbia, le alghe sotto i miei piedi nudi. Ero così vicino a questi due giovani felici e sconosciuti che avrei potuto sfiorarli con la mano. Ma all'improvviso tutto si dissolse e mi trovai in tutt'altro ambiente. Una donna a cavallo, una donna matura. Un'andatura leggera tra colline piuttosto brulle adornate da qualche alberello striminzito. Sembrava assorta in pensieri. Percepivo che era in difficoltà, sentivo il dorso del cavallo sotto di me, il suo sudore e il suo sbuffare mentre arrancava un po' in salita per un sentiero poco battuto. A che cosa pensava, con gli occhi rivolti in basso, mentre teneva distratta le redini con una mano? Ma non ebbi tempo di riflettere su qualche ipotesi che di nuovo qualcos'altro si aprì ai miei occhi. Un uomo sedeva accanto a un letto, dove una donna giaceva immobile, tra apparecchiature, tubi, cavi e fili di ogni genere. Certamente un ospedale. L'uomo la guardava fisso e silenzioso. Lei era completamente immobile, con gli occhi chiusi. L'uomo si avvicinò e la baciò delicatamente sul volto: sulla guancia, sulla fronte, sulla bocca. Baci lievi e leggeri, quasi più accennati che dati. Su tutto aleggiava un forte odore di medicinali e di… Non riuscii a finire il pensiero che mi trovai in un ambiente pieno di rumore e di odore di metallo. Uomini e donne montavano pezzi meccanici e lamiere, intorno a una scocca di automobile. Braccia meccaniche di robot ruotavano su sé stesse. Sul pavimento si vedevano pezzi di metallo, viti, chiavi e altri attrezzi sul nudo cemento. Gli uomini e le donne lavoravano con gesti ripetitivi e quasi non scambiandosi una parola. Ogni tanto certe macchine emettevano sibili o segnali d'allarme e spie rosse lampeggiavano furiose. Mi tornò in mente quando da giovane entrai in fabbrica e vi restai per un anno esatto. Ma non era per me. La fabbrica sparì e una torma di bambini eccitati prese il suo posto. Correvano lungo una strada coi visini rossi, urlando e prendendosi in giro con uno sfottio continuo e assillante. Credetti di riconoscerne qualcuno, ma chi? Un bambino rimase indietro. I compagni lo chiamavano, lo invitavano ad andare con loro, ma lui li fissò silenzioso e prese la direzione contraria. Poi immagini e situazioni, alcune molto tristi, altre felici e altre ancora indecifrabili si susseguirono sempre più rapidamente in una ridda di colori e suoni e sensazioni fortissime. Quanto tempo era trascorso da quando mi ero seduto su quella poltrona? Tanto? Poco? Poi calò il silenzio. Luci e colori scomparvero e mi vidi seduto nella poltrona in quel luogo disadorno. Vidi me stesso, Cesare. Guardai la mia faccia, guardai dentro i miei occhi spenti e allora capii. © Testo – Umberto Gorini :: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli :: © Immagine – Elena Barsottelli – link su Instagram Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici! :: ITALIAALTROVE, Associazione Italiana Francoforte, unisce le persone e stimola le collaborazioni. Questo racconto è un frutto indiretto di questa associazione che tanto fa per la comunità italiana residente a Frankfurt am Main :: Read the full article
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Un giorno perfetto
:: di Bernardo Tomea :: Adoro l’estate. Dichiarazione scontata, penserai. Ma per uno come me, che vive a Frankfurt am Main da 11 anni, l’estate comporta cambi a dir poco significativi. Cambi netti: colori, odori, suoni. Tutto diverso, o forse sono io ad esser diverso... Assaporare giornate terse diventa, così, un piccolo lusso che lascia retrogusti insperati. Sorprendenti, direi. Amo l’estate, ma c’è una cosa che amo di più. Amo volare! Amo le sensazioni, le emozioni, i palpiti che solo il volo mi sa dare. Sensazioni spesso intime, spesso intense. Un volo si può condividere ma le sensazioni no. Il corpo, i sensi reagiscono in maniera diversa rispetto alle esperienze di quota zero. Alcuni voli sono un’esperienza quasi spirituale, altri, invece, richiedono molta presenza fisica. Per questo, di solito, amo volare da solo. Di solito… In estate, stranamente, no. Forse perché l’estate è veramente breve da queste parti. Così in estate, alcune volte, mi piace condividere l’esperienza del volo con altre persone. Mi piace condividere con gli altri la prospettiva privilegiata di chi vola a duemila piedi. Mi piace sondare, scoprire, capire, come l’esperienza abbia ridestato nei miei ospiti sensazioni sopite. La routine abbassa la capacità di percepire il nostro intorno. Per questo una bella scarica di adrenalina, di tanto in tanto, ci vuole proprio. Lo dico ridendo. Anche perché, specialmente per i neofiti, ritrovarsi tra le nuvole su un Katana (un piccolo aereo biposto da addestramento) dà una bella scossa… Qualche volta, se capita di parlarne, i miei passeggeri possono essere intimoriti nello scoprire che sono abilitato al volo acrobatico e mi tocca rassicurarli: “Nessuna acrobazia per oggi, non preoccuparti, ma è un’ottima maniera per avere maggior confidenza con l’aria”. Confidenza relativa, ripensandoci, perché pur volando un paio di volte a settimana, so che ogni volo è differente, so che ogni volo mi regalerà qualcosa e non so mai quello che mi aspetterà. Così, a fine luglio, ho incontrato un amico all'aeroporto proprio all'orario di apertura (0800 CEST). Mi piace essere tra i primi ad arrivare all’aeroporto di Egelsbach, a pochi minuti dal centro di Francoforte. Mi piace tirare fuori l’aereo dall’hangar mentre l’aria è ancora fresca, prima che inizi il caldo che, di anno in anno, si fa sempre più torrido. Mi piace fare i controlli pre-volo nel silenzio del piazzale con solo il rumore delle bandiere e della “calza a vento” mossi dalla brezza mattutina. Ma oggi sono in compagnia, così eseguo i controlli pre-volo spiegandoli, in maniera dettagliata, al mio ospite e gli spiego anche perché sono fondamentali per la sicurezza del nostro volo. Nel corso degli anni trovo che, in realtà, dire ad alta voce quello che sto facendo o sto per fare, mi rende meno incline a dimenticare le cose e commettere errori, quindi mi piace avere, di tanto in tanto, una persona che mi stimoli ad esser, solo con la sua presenza, maggiormente preciso, senza sentirmi come un matto, privo di pubblico, che va blaterando ad alta voce intorno e dentro al velivolo. Ricapitolando: carburante buono, tutti i sistemi funzionano a dovere, io mi sento stupendamente bene. Contatto la torre per chiedere la pressione (che mi serve per regolare l’altimetro correttamente) e la pista che dovrò usare… “Delta Echo Whisky Whisky Foxtrott , Pista 26, Pressione 1014 Hg” ripeto alla torre. La torre mi dà l’ok definitivo. Mi allineo sulla RWY 26 e mi preparo a decollare in quello che sembrava il giorno più limpido e calmo dell'anno. Il decollo è rapido e morbido, l’ombra si stacca da terra a 55 nodi. Dopo la salita iniziale mi dirigo a sud verso Darmstadt e ancora oltre verso le colline che si ergono a sud della città. Vicino alle colline l'aria è liscia, quasi vellutata. Sembra quasi che accarezzi la fusoliera. Non so come spiegarlo, ma queste carezze le sento anche io. Lo dico sempre ridendo al mio ospite che mi guarda un po’ perplesso. Intanto ci godiamo il panorama, la visibilità è praticamente illimitata. Subito dopo aver superato la città di Darmstadt con una direzione sud, volgo lo sguardo direttamente a Mannheim e alla valle del fiume Neckar, affluente del Reno, dove si trova la città di Heidelberg. Che meraviglia! Sorvoliamo il Reno a 1500 piedi, il colore delle sue acque è di un insolito blu. Mentre sto monitorando gli strumenti, nella mia “pancia” sento che un giorno come questo è una benedizione, un pieno di libertà, che sgombra la testa dallo stress del lavoro e inietta ricordi mozzafiato. Mi fa paura pensarlo, ma sento che sono felice, mentre passiamo sopra uno dei miei castelli preferiti... Ogni collina ha un castello. Volo sopra Burg Frankenstein, proprio il castello della novella di Mary Shelley, poi sopra Schloss Auerbach con la sua curiosa pianta triangolare. Mi tuffo ad est nella valle che porta sul paesino di Fischbachtal. I boschi sono interrotti da prati e campi. Agglomerati di poche case con i tetti spioventi sono sparsi qua e là. Sotto di me, qualche automobile percorre le curve delle bellissime strade di campagna. A questa altitudine volano solo falchi e aquile e a me sembra quasi di essere un intruso. Non sto volando da ‘A’ a ‘B’, magari con la giustificazione di un viaggio di lavoro. Mi sto appropriando della libertà e della vista che appartengono a un’aquila. Per questo mi sento grato e umile allo stesso tempo. Continuo verso Nord, ormai preparandomi all’atterraggio quando qualcosa attraversa la mia traiettoria verso l’alto, veloce e improvviso. Il mio ospite lancia una imprecazione. Ma io rimango in silenzio. Sono solo concentrato sull’oggetto. Non capisco immediatamente cosa sia, o in che direzione stia volando, vedo solo una scia bianca. Istintivamente porto la barra di comando a fondo corsa verso destra cercando di spostarmi dalla traiettoria dell’oggetto. L’aereo risponde al meglio delle sue possibilità, ma la virata del piccolo Katana non è quella di un mezzo acrobatico. In pochi istanti l’oggetto completa un giro della morte e scende, in picchiata, esattamente allineato alla mia ala sinistra, grazie al cielo appena qualche metro più in là. Allora riconosco la sagoma di un modello radiocomandato a turbina. Un maledetto giocattolo! Porto l’aereo di nuovo in volo livellato. Guardo indietro. Respiro. Controllo i dati dell’altimetro. Il mio ospite è pallido e silenzioso, sembra quasi che stia trattenendo il respiro. Chiamo il controllo radio di Langen e faccio rapporto sull’incontro ravvicinato. Così ravvicinato che mi rendo conto di essere appena entrato nelle statistiche degli avvenimenti aeronautici a causa di quello che in gergo tecnico si chiama un “near miss”, una collisione mancata per poco. Continuo verso Egelsbach per atterrare. Atterro pochi minuti dopo, posando delicatamente il carrello sull’asfalto della pista. Sulla pista di rullaggio tre o quattro aerei sono già allineati per il decollo, ignari della mia disavventura. Non trovo inizialmente le parole per commentare con il mio passeggero e preferisco concentrarmi sui controlli dopo il volo e fare subito un paio di telefonate per fornire maggiori informazioni, che quando si è “in frequenza” non c’è il tempo di dare. “L’abbiamo scampata…” dico poi sospirando. Il mio ospite, ancora a bordo con le mani piantate sul cruscotto, dice con un fil di voce: “Siamo a terra”. Cosa sarebbe successo se l’aereo giocattolo a turbina ci avesse colpito? Chi lo controllava? In che direzione volava? È successo tutto così rapidamente che non sono in grado di rispondere a queste domande. Tutto si farà più chiaro nei giorni seguenti, riguardando i video presi dalle due telecamere che ho a bordo e dopo il rapporto alle autorità. © Testo – Bernardo Tomea © Immagine – Elena Barsottelli – link su Instagram :: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli :: Nota: per avere una idea su questi "piccoli giocattoli" ecco un video https://www.youtube.com/watch?v=_hSEBdzu7QA Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici! Read the full article
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Il bacio dei vecchi
:: di Daniela Alibrandi :: “Nel bacio dei vecchi c’è tutto” ricordo che pensai quel pomeriggio d’autunno, seduta su una panchina del Pincio. Andavo sempre lì quando qualcosa mi tormentava, e aspettavo che il sole tramontasse oltre la terrazza che dava su Piazza del Popolo, inondando di luce forte e calda le cupole di Roma. Lui mi aveva lasciato e ora guardavo con rabbia il diario e i libri dove avevo scritto centinaia di volte il suo nome. Mi sembrava di essere calata in un baratro senza possibilità di ritorno. Il mio primo amore, quello che poeti e scrittori hanno sempre decantato come il sentimento dei banchi di scuola, se n’era andato senza darmi un perché. Iniziava l’autunno e io avvertii una serie di brividi. Faticavo a capire se fossero dovuti al fresco serale o alla solitudine con cui mi accingevo a trascorrere l’inverno senza di lui. Non piangevo, no. Ciò che sentivo in quel momento andava ben oltre le lacrime.Il sole iniziava la sua rapida discesa e io non sapevo come affrontare la sera, la prima sera nella quale non avrei pensato a lui se non con una rabbia infinita. Fu in quel momento che una coppia di anziani si sedette sulla panchina avanti alla mia. Mi davano le spalle e il sole che filtrava attraverso i loro capelli svelava la loro età. Seduti vicini si guardavano e si tenevano le mani e, quando parlavano, cercavo di immaginare i loro pensieri. Read the full article
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