Favole per non più bambini dove tutti i personaggi alla fine muoiono, ma non ha importanza.
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Manny
Manny era uno di quei ragazzini che i suoi compagni, a scuola, chiamavano "strano".
Era alto e magrissimo, aveva braccia e gambe lunghissime, i capelli nerissimi e la pelle bianchissima. Aveva la pelle così bianca che quasi gli si potevano contare le vene e le ossa. Ma non era per questo che era reputato un ragazzo strano.
Manny era uno di quei preadolescenti che avrebbe voluto amare stare con altre persone, ma non ci riusciva. Era un tipo solitario, riservatissimo, sapeva ridere di gusto, ma per poco. Da quando era bambino preferiva passare il tempo con il suo gioco preferito: le costruzioni.
Con quei mattoncini colorati infatti, creava mirabolanti storie, molto più avvincenti della realtà: viaggi nell’universo con navicelle spaziali, salvataggi eroici con la camionetta dei pompieri, città futuristiche con le macchine volanti.
Il suo primo amico lo ebbe all'età di undici anni: era un uccellino blu che, incuriosito da tutti quei colori, iniziò ogni giorno a venire alla sua finestra per guardarlo giocare.
Manny, che inizialmente gli dava retta appena, decise infine di chiamarlo Cielo, per via del suo colore.
Capitava spesso che Cielo giocasse con lui alle costruzioni, afferrava un mattoncino con il becco e glielo passava.
Altrettanto spesso, capitava che, guardando il suo amico sempre solo e stanco, incalzava:
“Manny, perchè non vieni fuori a giocare con me? Oggi c'è il sole, tira un vento tiepido che mi fa volare bene ed ho visto un sacco di bambini come te giocare fra loro!"
Ma il ragazzino puntualmente rispondeva:
"Mmm, non lo so. Poi vediamo."
E alla fine si sa, non vedeva un bel nulla.
Così Cielo volava via e lui continuava, solo, con i suoi mattoncini.
Un giorno Cielo si presentò con un suo amico uccellino, aveva dei bellissimi riflessi neri e verdi sulle piume, ma aveva un'ala che non riusciva ad usare bene. Manny decise di chiamarlo Petrolio per via del suo colore.
Petrolio, al contrario di Cielo, era molto timido e parlava pochissimo. Prese a giocare silenziosamente anche lui alle costruzioni, se non fosse che un giorno, guardando fuori dalla finestra da cui era entrato, sbuffò:
“Manny... Sai che non mi piace parlare... Non so dire le cose, ma... perché... che ne pensi se... perché non andiamo un pò fuori a giocare? Le nuvole sembrano fatte di panna ed io voglio esercitare la mia ala per imparare a volare meglio di tutti!"
Ma ahimè, anche lì il giovane Manny rispose:
"Mmm, non lo so. Poi vediamo."
E alla fine si sa, non vedeva un bel nulla.
Così Cielo e Petrolio volarono via (quest’ultimo sempre con molta fatica) e lui continuò con i suoi mattoncini.
Passarono gli anni e la situazione non cambiò: Cielo e Petrolio osservavano fuori i coetanei di Manny innamorarsi, piangere, lottare, crescere e si dispiacevano per lui, per quel che si stava perdendo. Ma niente riusciva a convincerlo.
A far perdere definitivamente le speranze ai due uccellini, fu l’ultima, definitiva idea entusiasta di Manny:
"Mi costruirò attorno una casa di mattoncini colorati!"
E così cominciò: mattone per mattone iniziò a costruirsi tutt’intorno pareti coloratissime. I due uccellini, man mano che la “casa” cresceva , smisero pian piano di andare a trovarlo, tanto lui era preso dalla sua folle impresa che ignorava completamente la loro presenza.
Petrolio, nel frattempo, imparò a volare e mantenne la promessa: diventò così bravo, che nelle migrazioni il suo stormo sempre lo voleva in prima fila come guida.
Cielo invece, conobbe un’uccellina color smeraldo che gli raccontò le incredibili avventure nel mondo che aveva vissuto e partirono assieme per lunghi e meravigliosi viaggi. Quando tornarono al loro nido, diedero alla luce tre splendidi pulcini. Uno di loro era davvero buffo: aveva zampette lunghissime, ali più grandi del corpo e le piume nerissime. Cielo decise di chiamarlo Manny, memore del suo vecchio e strano amico. Ricordando con nostalgia ed affetto quel piccolo umano, si convinse fosse giunto il momento di riandarlo a trovare, per raccontargli delle sue mille avventure e parlargli dello splendido pulcino che tanto gli somigliava.
Successe così: Cielo arrivò alla finestra e di Manny nessuna traccia. Sbirciando meglio dal vetro impolverato, notò un’enorme cubo colorato con un grande tetto e nient’altro. Con grande dolore pianse: non c’erano nè porta, nè finestra.
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Ad un mio lontanissimo ex,
a cui provai a fargli Sentire la vita,
ma finì con io non riuscivo più a sentire la mia.
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Sandy
Sandy viveva in una città fatta di libri. Ogni casa, strada o palazzo che sia, era fatta di pagine scritte. La Strada di Kerouac era la via principale, la cattedrale della città era La Divina Commedia, l'osservatorio era fatto di pagine di Guida Galattica per Autostoppisti e così via. Sandy aveva da poco compiuto tredici anni, aveva capelli corti e nerissimi -come l'inchiostro che decorava la sua città- ma con un lungo ciuffo che le cadeva davanti l'occhio sinistro. Aveva lo sguardo fiero e sveglio. Al contrario delle altre bambine, Sandy non era particolarmente affettuosa e aggraziata e la madre spesso la supplicava di indossare una gonnellina che lei puntualmente rifiutava sprezzante. Era una ragazzina molto solitaria, non amava fare nuove amicizie, preferiva passare il suo tempo in un modo per lei più proficuo. Sandy infatti, amava fare lunghe passeggiate per la sua città, leggendo ogni parola ed ogni virgola impressa sugli edifici. Crescendo però, ebbe sempre più difficoltà a ricordare ciò che leggeva, voleva trovare assolutamente un modo che le facesse ricordare ogni singola storia. Fu così che per i suoi sedici anni, il padre le fece quello che per lei fu il regalo più bello del mondo: un set completo di evidenziatori. Non potete nemmeno immaginare la sua felicità quando per la prima volta evidenziò le parole chiave degli studi televisivi "1984": erano così grandi che ogni volta le toccava rileggere da capo per non perdere il segno. Mano a mano, tutta la sua città iniziò a prendere vita attraverso i suoi colori. ma fu proprio mentre evidenziava "viviamo nel migliore dei mondi possibili" che un ragazzino, più o meno della sua età, andò da lei e con impertinenza le disse: <Stai imbrattando tutta la città con quei tuoi stupidissimi evidenziatori!> Sandy, colta di sorpresa, arrossì di rabbia e rispose: < E' grazie a me che adesso tutti possiamo ricordarci le storie in cui viviamo! Io so trovare benissimo le parole-chiave! > < Ahahahah > rise il ragazzino impertinente < Ti sbagli, non hai evidenziato la parola più importante di tutte! > < La più importante di tutte? Impossibile! > rispose con fare saccente Sandy. < Eccome se è possibile> la riprese il ragazzino impertinente < E' la parola da cui tutto comincia! > Detto questo, il ragazzino impertinente la guardò con aria di sfida, poi girò i tacchi e se ne andò. Sandy rimase lì, in silenzio, ancora rossa di rabbia in viso, con il suo coloratissimo evidenziatore arancione stretto nelle sue mani tremanti. "La parola da cui tutto comincia" si ripeteva fra sé e sé. Com'era possibile che le fosse sfuggita una parola così importante? Subito corse alle porte delle sua città ben decisa a rileggersela tutta da cima a fondo. "Impossibile" ripeteva fra sé e sé. "La parola da cui tutto comincia" ripeteva fra sé e sé. I giorni passarono e Sandy divenne sempre più disperata. La sua città era immensa, erano troppi i kilometri ed i palazzi da leggere, dormiva pochissimo e non mangiava più. I suoi genitori erano preoccupatissimi, la vedevano sciupata, spenta, ossessionata. Ma lei era irrefrenabile: non si sarebbe data pace fino a che non avesse trovato "La parola da cui tutto comincia". < Insomma, non ancora l'hai trovata? > Esordì il ragazzino impertinente il giorno del diciassettesimo compleanno di Sandy. Lei sussultò, lui era sbucato dal nulla, dietro le sue spalle. Non lo vedeva dal giorno in cui l'aveva sfidata. Sandy lo fissò dritto negli occhi e lui quasi si spaventò: erano occhi gonfi e stanchi, di un rosso vivissimo. < Non esiste, la tua stupida parola da cui tutto comincia, non esiste! > gli urlò contro Sandy. < Eccome se esiste, stupida ragazzina, è ovunque in città. Senti, ti aiuto. La puoi trovare anche sul campanile de La Divina Commedia.> le rispose beffardo il ragazzino impertinente. Sandy , senza neanche rispondere, corse a più non posso verso la cattedrale. L'aveva letta migliaia di volte, non era possibile che le fosse sfuggita La parola da cui tutto comincia" . Salì cosi, in fretta a furia, tutti i gradini della cattedrale fino ad arrivare all'ultima pagina de La Divina Commedia, posta in cima al campanile: A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ’l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle. Sandy lesse e rilesse cento, mille, diecimila volte l'ultima pagina de La Divina Commedia. De "La parola da cui tutto comincia" non c'era traccia. Dopo anni di ricerche, non la trovava. Fu così che fissando e rifissando quell'ultima pagina, gli occhi le si gonfiarono di lacrime. Iniziò a piangere a dirotto, come mai fece nella vita. Tremante, si mise dunque in piedi sul cornicione del campanile. Lo sguardo era ormai vuoto, perso, stanco. Guardò da lassù un’ultima volta tutti quei libri-città, poi fece un passo e si lasciò cadere giù. Il giorno del funerale di Sandy, tutta la città era presente al cimitero di carta. I genitori piangevano e per la Strada Di Kerouac risuonavano forti e tristi le campane de La Divina Commedia. Quando la celebrazione finì, tutti silenziosamente si allontanarono dalla lapide di carta su cui era stampata la foto di Sandy. Solo un'ombra, nascosta negli alberi, si avvicinò lentissimamente e s'inginocchiò di fronte al sepolcro: era il ragazzino impertinente. Dopo aver fissato a lungo ed in silenzio la tomba di Sandy, egli frugò nelle tasche della sua giacca, cacciò un evidenziatore arancione e chinandosi sulla lapide di carta scrisse: "Fine" ************* A Panda, la mia amica poco affettuosa che parla di una vita in bianco e nero ma che in fondo, in fondo, ne vorrebbe una coloratissma.
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Jaune
Jaune aveva grandi occhi verdissimi ed una costellazione di lentiggini sparse sul suo viso bianco e tondo come una luna piena.
Aveva grandi occhiali tondi e blu con cui metteva a fuoco il mondo, parlava poco,mangiava tanto e tutti gli volevano un gran bene.
Jaune nacque in una calda mattina di maggio, il sole accarezzava gli alberi e quel giorno fu lieta e ordinaria letizia il suo primo piangere; tutto sarebbe sembrato normale - se normale è una parola che mi perdonerete usare - se non fosse che Jaune, da quel giorno, di piangere non smise quasi mai.
-Dottore, mio figlio non smette di piangere.
Disse la mamma preoccupata.
-Dottore, mio figlio da quando è nato non fa altro che piangere. Piange quando fa la pappa, quando lo portiamo al parco, ha pianto quando per la prima volta ha giocato con un altro bambino.
Disse il papà scoraggiato.
-Ma in che modo piange?
chiese il medico incuriosito.
-Lacrime mute, dottore.
Spiegò la madre tristemente.
-Ma sorride sempre.
Aggiunse il padre mestamente.
-Signori miei,- sospirò allora il dottore - mi addolora darvi questa notizia.
Vostro figlio è affetto da una grave e rarissima patologia chiamata
“Sindrome Acutissima Della Meraviglia Della Bellezza” e, ahimè, non vi è cura.
Fu così che Jaune crebbe : ovunque vedeva bellezza, piangeva.
Piangeva quand’è che cadeva la prima foglia in autunno, quand’è che scopriva un fiore nascere fra l’asfalto, quand’ è che due amici si abbracciavano e quando le persone si dicevano “grazie”.
Subito il suo nome fece il giro della città, le persone lo guardavano con compassione, inteneriti. Alcuni lo schernivano.
Lui viveva bene la sua Sindrome Acutissima Della Meraviglia Della Bellezza, essendoci nato non la trovava inusuale, anzi, molto spesso si stupiva che il mondo non fosse malato come lui, era felice.
Se non fosse che quando compì vent’anni, una giornalista ed il suo cameraman bussarono alla sua porta.
Jaune s’imbarazzò moltissimo quando gli venne chiesto di rilasciare un’intervista riguardo la sua patologia bizzarra, ma decise comunque di accettare perché gli dissero che la sua storia avrebbe reso felici persone che non erano malate come lui e la sola idea di poter rendere felice qualcun altro lo fece piangere all’istante, cosa che il cameraman non si fece sfuggire di certo accendendo prontamente la sua telecamera.
La notizia di Jaune affetto dalla Sindrome Acutissima Della Meraviglia Della Bellezza fece il giro del mondo e presto a suonare alla sua porta furono altri giornali, televisioni, e addirittura un’azienda di fazzolettini che gli chiese di diventare testimonial ufficiale del loro marchio.
Jaune accettò tutte le offerte che gli furono fatte, gli dissero che la sua storia avrebbe aiutato la gente.
Accadde poi che lo chiamarono per fare il giurato ufficiale del Solennissimo e Illustrissimo Premio Del Miglior Film Del Mondo: la visione che gli avrebbe scaturito più lacrime avrebbe vinto.
Fu lì che accadde una cosa assai strana:
Durante la visione di uno dei più bei film finalisti del Solennissimo e Illustrissimo Premio Del Miglior Film Del Mondo, Jaune smise di piangere. La folla incredula rimase in silenzio ed il regista si mise le mani fra i capelli. I film continuarono ad essere proiettati uno dopo l’altro,ma nessuno di loro fece piangere Jaune. Gli organizzatori preoccupati andarono da lui e gli presentarono un uomo che fece il giro del mondo per cercare una donna che una volta sentì cantare in radio innamorandosi della sua voce. Dopo quattro anni di ricerche era riuscito a trovarla ed ora vivevano felici in una casetta in Irlanda. Ma Jaune non pianse neanche lì. Allora gli raccontarono di un cane che per quattordici anni andò ogni giorno ad accucciarsi sulla tomba del suo padrone. Niente.
Jaune non piangeva.
Subito fu chiamata un’ambulanza e Jaune fu portato in ospedale.
Jaune non parlava, tremava, era confuso, non capiva.
Il medico, dopo avergli mostrato un documentario su come tutto nel mondo girasse intorno alla figura della sezione aurea senza riuscir a suscitare nessuna reazione, sospirò e sorridendo disse:
-Jaune, lei è finalmente guarito.
Da quel giorno Jaune sparì. La notizia fece il giro del mondo come lo fecero l’indifferenza e l’oblio circa la sua esistenza nel giro di sette giorni.
Anni dopo, ad un bambino s’impigliò l’aquilone su un albero, quando lo andò a riprendere, fra le radici trovò un paio di occhiali tondi e blu con cui mettere a fuoco il mondo e sulla corteccia una scritta:
“Non v’è bellezza laddóve gli occhi non sanno guardare" ***************************************** A Giallo, il mio amico che viene dalla luna e che ama mangiare con gli occhi.
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Il Signor J.
Il Signor J. era un uomo distinto, ma con i capelli scompigliati, in giacca e cravatta ma scalzo, aveva una valigetta ventiquattrore, ma in finta pelle -non amava che agli animali gli si togliesse via la pelle solo per farne una valigia- , ed indossava gli occhiali, ma non guardava mai dove metteva i piedi. Ogni mattina il Signor J. passeggiava sul lungo fiume, diretto al suo lavoro, -che era uno di quei lavori complicatissimi che avevan a che fare con fogli, tanti numeri ed una calcolatrice(la sua era a forma di tavoletta di cioccolata)- e nel farlo amava guardare tutto ciò che poteva cercando di non tralasciare nulla: dalla trama dell'asfalto, alla foglia, al chewing-gum per terra appena raccolto dalla scarpa di un signore, ai tronchi e poi ai volti e poi alle nuvole, e poi ai volti nelle nuvole. Aveva questo difetto qui di meravigliarsi della bellezza del tutto, e badate bene, dico difetto perché a causa di questo ha avuto molti amori tristi: la prima volta s'innamorò di un albero, ogni mattina lo abbracciava e si sentiva bene, ma l'albero non poteva piegarsi e ricambiar l'abbraccio,in più mai avrebbe potuto passeggiar al suo fianco, cosi il Signor J. , seppur triste, capì che non poteva andare avanti e lo lasciò. Poi s'innamorò di un uccellino che vide un giorno proprio su quell'albero: ne amava il libero svolazzare e la dolcezza del suo canto, ma quando gli chiese di viver assieme, l'uccellino rispose che la sua casa era il mondo, e vivere dentro delle mura l'avrebbe portato alla pazzia. E poi capitò di un sasso, e poi di una goccia di pioggia, ma vi lascio solo immaginare come andaron a finire queste storie. Nel frattempo però, il Signor J. non poteva sapere che per anni e anni c'era qualcuno che provava immenso amore per lui e che continuamente l'osservava. Lo scoprì quando, innamorandosi di una foglia secca e dovendola seguire per via del vento si ritrovò a salutarla mentre prendeva il largo poggiata come una barchetta sul lungo fiume. - Finalmente mi saluta. disse il fiume al Signor J. - Cosa? Oh, no.. no.. salutavo la foglia, quella secca lì, che prende il largo poggiata come una barchetta su di lei..lì..Addio.. rispose sconsolato il Signor J. al fiume -Oh, la foglia..! Oh, capisco.. Ecco. Sussurrò tristemente il fiume. Il Signor J. accorgendosi della brutta figura appena fatta cercò di riprendersi: -Ma no, ma no, cioè sì ma anche buongiorno a lei, fiume! Cosa ci fa da queste parti? -Sono sempre stato qui, buongiorno a lei. -Oh! Ah! Giusto, giustissimo! Che sciocco che sono, sei sempre stato qui, ovvio, certo, sì. -...e lei non mi ha mai guardato. Io è tanto che la osservo, sa? L'ho vista innamorarsi dell'albero, e poi dell'uccellino, e poi del sasso e della pioggia. Ho visto molte volte la tristezza nel suo volto. -Tristezza.. triste, sì. Tristissimo. Nessuno che m'ami come io amo loro, eppure qualcuno lo consigliò tanto, tantissimo tempo fa, sa, l'ho letto su un vecchio libro.. - Io l'amo. - E' un libro che ha delle pagine finissime pare che.. lei cosa? - Io l'amo da quando la osservo. - ...sono pagine così finissime che pare si strappino,ecco. E' vecchio, vecchissimo.. Lei che? M'ama? - Mi guardi. Il Signor J. fece un profondo respiro e alzò bene lo sguardo. Osservò com'eran belli i riflessi del sole sul corpo del fiume, e com'era fresca e infinita la sua acqua, molto più della goccia di pioggia. Ne cercò l'inizio e la fine, ma non li vide e ammirò il suo apparente infinito. Dopo una lungo, lunghissimo silenzio, disse: -Ha ragione, mi sa che avrei dovuto guardarla prima. E' strabiliante. Mi sa che l'amo anche io. - Con la stessa intensità con cui ha amato l'albero, l'uccellino e via dicendo? Io non ho i loro pregi, non ho delle radici ed una bella chioma, non dò ossigeno agli esseri viventi. Non so cantare, nè tantomeno volare. - Si calmi, le dico che l'amo con più intensità di quanto io abbia amato gli altri. - E perchè mai? - Perchè è grazie a lei che le radici dell'albero bevono, ed è grazie a lei che l'uccellino può nutrirsi e fare il bagno. Sono stato così scioccio. Così sciocco...! - Aspetti un attimo, devo bloccarla subito. Oh, diamine, non volevo finisse così. -Così come? Ci amiamo entrambi, finalmente, a cosa si dovrà mai porre fine? - All'amore, mio caro Signor J. . Io l'amo ma non posso. Lei non lo sa, ma alla fine del mio corpo, sono già congiunto. Beh, ecco, vede..io, io sono sposato con il mare. - Il mare.. - Si.. il mare.. io l'amo, ma non posso. Seguì un lungo, lunghissimo silenzio. Poi il Signor J. infine disse: - L'immenso mare, ed io così piccolo, non ho speranze.. Ma sa che le dico? io l'amo.. e non voglio più esser triste. Mi son fatto sfuggir troppe cose, non l'ho guardata prima e.. Quello fu l'ultimo giorno in cui l'albero, l'uccellino, il sasso e la goccia di pioggia videro il Signor J. . Lo videro spogliarsi pian piano di ogni sua veste e man mano scomparire nell'acqua. Si dice in giro -forse perchè alle persone piace aver un lieto fine- che abbia raggiunto il mare per cercare di contrattare, l'amore. A Jeff Buckley, con amore.
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