Cose scritte all'improvviso per non perderne la spontaneità. Poche revisioni. Occasionali refusi. Molto cuore.
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Di pollici riottosi e virus infernali
Come ogni domenica, mi concedo la mia unica uscita settimanale per fare la spesa. Tutta gioiosa e salterellante entro nel supermercato e seguo le procedure di sicurezza. Metto i guanti e inizio a prendere le verdure e pesarle. Mentre attraverso la sensualissima area delle offerte, mi rendo conto che sto per cascare nel tranello dell’acquisto compulsivo da sconto e dico: - No stupida che non sei altra, hai scritto la lista. Non farti prendere dal desiderio trasgressivo di carciofini abbruzzesi sott’olio e panni cattura polvere all’olio di Argan. Non ti servono. Mi accingo a cercare la lista nel telefono (che avevo precedentemente disinfettato), ma il guanto non ha nessunissima voglia di collaborare con lo schermo. All'apparenza il touch dovrebbe funzionare, ma la verità è che le due superfici non si piacciono davvero. Sono come quelle coppie che si trovano assieme per caso quando entrambi avevano voglia di una relazione e più si impegnano più esce fuori del sesso pessimo. Così continuo ad insistere col dito sullo schermo finché non faccio cascare tutti i santi dal cielo. Illuminata dalla luce D’Urso, utilizzo il metodo dalla Carmelinda Nazionale per sfilare i guanti ma, in più, decido di sfilare solo il pollice avendo cura di non contaminare nulla. Nel giro di un secondo, vengo intercettata dal radar di una particolare specie di pokemon tipica di Milano: il c.d. “Bauscia ammonitore”. Già di solito è un orso, figurati in tempi di COVID-19. Bauscia Ammonitore usa “raggio mortificante” e mi colpisce con una raffica di cattiverie sulla mia irresponsabilità. Di seguito un breve sunto/flusso d'incoscienza:
EHVOIGIOVANIVICREDETEIMMUNIENONVENEFREGANIENTEDEGLIALTRIMAVEDALEIDIQUESTITEMPIUNODEVEPUREVEDEREQUESTECOSEEHMAHAPURELECUFFIEPERCHÈLEINONSENTEEHNONVUOLEASCOLTARESIGNORINABRAVABRAVACONTINUICOSÌECIAMMAZZERÀTUTTI.
Mi scuso tantissimo, lo ringrazio internamente per avermi dato della giovane e mi pento davvero per quel piccolo pollice birichino. Mi trascino verso la cassa con cinquanta chili di senso di colpa interiorizzato sulla schiena. Sono così presa male che mi dimentico il codice pin della carta, provo a recuperarlo, ma mi dimentico anche i codici per recuperare il codice pin della carta. Il cassiere è gentile e mi fa mettere in un angolo mentre io, all’apice della mia agitazione, mi rendo conto di aver messo un cappotto da neve e sudo come il concorrente di 4 Ristoranti nelle Langhe che aveva sbagliato lo zabaione. Dopo 25 minuti, 1200 calorie di stress bruciate e aver contravvenuto almeno 30 volte al mio buon proposito 2020 del non scusarmi continuamente con le persone, recupero il pin e vado finalmente a casa.
Buona domenica a tutti ma non a te, signor Bauscia Ammonitore.
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Venerdì pizza
A casa mia ogni venerdì si mangia la pizza. È un rituale sapientemente orchestrato da mio padre almeno una quindicina di anni fa per mettere al sicuro il suo desiderio di carboidrati e che mio fratello continua a perpetrare diligentemente, supportato da un’arma segreta a cui non si può dire di no: l’autismo. La ripetizione delle così dette stereotipie è la chiave di tutto, quando il tuo cervello funziona in modo diverso. La routine garantisce la stabilità, definisce la comfort zone e mette in sicurezza te e gli altri. Il suo è quindi uno stato di quarantena mentale dove osservare protocolli comportamentali rigidissimi è il massimo del piacere. Contare più e più volte la preziosa collezione di animali di gomma, ripetere a memoria le sigle dei suoi cartoni animati giapponesi preferiti e cantarle con enfasi, mettere a posto il mazzo di carte Vanguard con cui giocherà da solo (anche perché di base gli va bene così), far finta di fare la doccia e poi correre a rifarla dopo la strigliata materna, recitare con fare tragico le parole che Mufasa ha detto a Simba in quella magica notte stellata quando il ricordo di nostro padre diventa ingestibile. Mio fratello è molto meno tonto di quanto gli altri pensano. Il suo autismo è una forma di Zen che lo mette al riparo dai mali dell’umanità con grande successo. Li ha chiusi tutti nel vaso di Pandora del suo retro-cranio e li fa uscire fuori solo quando qualche stronzo decide di tirare via un stecca dal suo delicatissimo Jenga cerebrale. Quando crolla e finalmente piange io lo amo come nessuno può amare. Lo amo disperatamente perché i suoi occhi, che di solito sfuggono via, mi fissano dritta in faccia. Perché gli cola il naso goffamente e lui se lo pulisce con le mani sporche mentre urla di dolore. Perché piange male. Male come se davvero si fosse tenuto dentro talmente tante cose che l’unico modo per liberarle è farlo fragorosamente, come i gorilla arrabbiati che tanto gli piace guardare alla tv. In quei momenti è totalmente presente. Non ci sono stereotipie, né ripetizioni. Ci siamo solo io e lui e le sue mani pesanti e calde che mi tengono il viso. E allora stare chiusa nella mia piccola casa a lamentarmi mi sembra davvero molto comodo, ma poco funzionale. Vorrei essere lì con lui a farmi ripetere in loop che se ci comportiamo bene ne usciremo a breve e a rubargli segretamente i suoi trucchi per campare.
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La scala per il mare
La scala era stata scolpita più di cinquant'anni fa dalle sue mani callose e abbronzate. Come gli fosse venuta in mente l’idea di picconare quella rugosa roccia di mare non si sa bene come sia accaduto. Sappiamo solo che un lavoro fatto bene dura nel tempo e lui era certamente un capo in fatto di attività fruttuose. Diplomato geometra e con una profonda passione per il calcolo e l’arte del risparmio, di mestiere faceva il capostazione e in quella casa di fronte al mare ci aveva messo tutto: i soldi, le speranze, il sudore e anche la famiglia. Ovviamente, di quell’accesso preferenziale al mare, privo di qualsivoglia autorizzazione comunale e perfettamente posto di fronte alla casa, andava assai fiero. Di fatto, non c’era punto migliore dal quale tuffarsi per pescare, né posto più indicato per stendere la stuoia e lasciare che Lina e le ragazze prendessero il sole protette dagli sguardi indiscreti dei vicini grazie alla caletta circostante.
I migliori polpi mai assaggiati. Altro che quelle piovre tostissime che ti vendevano al porto. Escludendo gli inghippi causati dalle alghe, la pesca da fiocina sapeva dare grande soddisfazione a tutta la famiglia. Come, d'altro canto, la quotidiana raccolta delle patelle, perfette per le busiate fresche ma anche per un semplice spaghetto in buona compagnia. A lui della compagnia fregava poco e niente. Solo di quella di Lina gli importava. Da quando era andato in pensione la sua giornata era tutta dedicata ai lavori da carpentiere, ai cruciverba a schema libero e a tuffarsi giù da quella roccia appena sotto l’amata scala. Le figlie avevano avuto a loro volta altre figlie e la più grande aveva pure fatto il maschio. Desiderato sì, ma non per questo in particolare posizione di privilegio. In fondo era davvero troppo piccolo a quei tempi e lui, decisamente in là con gli anni per prestargli l’interesse dovuto.
Aveva però estrema attenzione o per meglio dire preoccupazione, per le nipoti adolescenti che avevano da tempo smesso di frequentare la piccola baia sotto la scala per spostarsi verso lo stabilimento balneare che si era piazzato proprio lì di fronte casa e gli aveva oscurato la vista sul mare. Della smania di libertà della sottoscritta, la più grande delle quattro, aveva ancora più timore e gli sguardi che mi lanciava ogni volta che correvo via da casa in costume da bagno per fiondarmi al bar a civettare erano neri di pece e di rancore. Ma a frenare la sua gelosia ci stava già pensando qualcos’altro. Quella cosa che accade agli anziani quando cominciano a perdere i pezzi e a svanire con lentezza. Quella coltre di fumo cerebrale che agisce centellinando sadicamente i pezzi della tua memoria da cui privarti quotidianamente. La demenza si è portata via il suo amore per Lina, il suo gusto per il vino forte, i cruciverba complicati, le pile di conti scritti a mano con la sua grafia scolasticamente perfetta. Si è portata via anche lo scheletro di quella casa sul mare, ereditata per poi essere scorporata in appartamenti più piccoli dalle figlie in difficoltà e alla fine si è portata via anche lui. L’unica cosa che quella malattia infame ci ha lasciato è proprio quella piccola scala di roccia, che resiste ancora oggi all’erosione, alle liti familiari e persino, pare, al surriscaldamento globale.
In queste notti mi sveglio spesso urlando in cerca di un appoggio. Penso alla sua mano callosa e abbronzata mentre mi aiuta a scendere giù per quella scala.
- Scinni, camina! Piano! Senza scarpe t’ammazzi, mannaggia a tia Giulia!
- Aspè nonno, niente ci fa. Faccio piano.
- Camina và scinni. Li peri chini di pici hai.
- Va bene nonno. Scendo.
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La mia ultima notte con Tilda
Di questa mia ultima notte con Tilda non so esattamente cosa porterò con me. Sono mezza malata, sola e ad un passo dalla quarantena.
Lasciatemi qui a raggomitolarmi in pace.
Ho preso una decisione da cui non si torna indietro e anche la gatta lo sa. Solo che mi accetta così come sono. Non ha colpe da affibbiarmi, né pallottole di rancore di spararmi qui, al centro del mio petto chiuso dalla tosse e dal senso di colpa.
La gatta non mi giudica.
Io e Tilda ci siamo sempre guardate come se ci capissimo davvero. Anche se all’inizio avevo paura di lei come avevo paura di affrontare il giorno. La tempistica con cui è arrivata in casa poteva, in effetti, essere più fortunata.
La mia gatta. Che mia non è.
Che mi guarda strano, mi dorme sul collo, mi aspetta la sera come Babbo Natale. Che mi lecca le mani e piange con me. Che piango come un gatto a cui non è stato insegnato bene a miagolare.
Farò finta che non sia l’ultima notte. La terrò con me tra le coperte e le bacerò la testa così che ogni bacio le ricordi tutti i singoli momenti d’affetto che ci siamo regalate. Poi la mattina uscirò di casa come in una normale giornata e, quando tornerò, saprò che se n’è andata.
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Direttamente in bella. Sul palco.
Nei miei ricordi non ci sono sono brutte copie. Non ho mai scritto un tema, una lettera o un biglietto più di una volta. Se sbagliavo, ci scarabocchiavo sopra.
È sempre andata così. Modificando il testo avevo paura di rovinare tutto, come quando provi a impacchettare più volte un regalo e l’ultimo tentativo è sempre una ciofeca. Così, anno dopo anno, quest’ansia di spontaneità si è mescolata ad un’atavica pigrizia e ha creato il piccolo mostro che sono io. Ho ampiamente riflettuto sul momento in cui la mia piccola persona ha capito che improvvisare era la cosa che più amavo e ho scoperto che questo amore risale a un tempo molto precedente alla mia prima lezione di impro.
Siamo alla scuola media, io, all’apice del mio egocentrismo prepuberale, ho ascoltato la lezione di storia in classe, letto di sfuggita il capitolo assegnato e raccolto le informazioni fondamentali. Capisco che per evitare di essere interrogata, devo prendere in contropiede la buonanima della Professoressa Buscemi (RIP) e propongo il mio primo format editoriale:
“Giulia racconta il Quadro Generale”
Non so quanto la Prof avesse intuito del mio losco piano per aggirare l’ammissione di una conoscenza nozionistica, ma trattandosi di una panoramica sul capitolo non mi vennero fatte domande e da quel giorno il mio punto della situazione divenne un appuntamento settimanale in cui di fatto introducevo la lezione, non venivo mai colta di sorpresa e facevo anche bella figura.
Adesso, quando penso alle mie lacune, mi sento un po’ una stupida ad aver pensato che fosse furbo giocare a fare i Ted Talk dopo la quinta elementare solo perché avevo ereditato dai miei il gene della saccenteria. Potevo imparare di più, ma la tecnica mi è stata comunque utile anche negli anni successivi. Al liceo, all’università e soprattutto nei colloqui di lavoro. Ovviamente, la mia capacità di spaventarmi a morte quando le persone mi mettono troppa pressione, o pretendono cose che non sento mie, ha egregiamente bilanciato i successi ottenuti relegandomi al perenne stato di impiegata. Ma questa è un’altra storia.
Dicevamo appunto. Del trovare una soluzione immediata. Una piccola recita per portare a casa la giornata. Fino a quattro anni fa, non sapevo che avrei potuto allenare questa mia passione attraverso una precisa scuola di teatro che insegna a vincere le proprie insicurezze e costruire una storia dal nulla, direttamente su un palco.
Quando l’ho scoperto, il mondo è cambiato.
Non era più necessario ballare nuda davanti allo specchio per fare la baccante presso me stessa, non dovevo frenare la mia voglia di inventare canzoni e poesie per la gatta, per i neonati dei parenti, gli\le ex o gli sconosciuti per strada. Non dovevo neanche preoccuparmi che qualcuno mi scoprisse mentre interpretavo finti personaggi nei negozi per sembrare meno povera o realmente interessata ad un acquisto. O fingermi incinta. Quello è sempre stato uno dei miei cavalli di battaglia. Potevo fare tutto questo una volta a settimana, per tre ore. Non avevo un testo. Solo qualche spunto qua e là. Il mio sapere di tutto e di niente, cosa di cui mi sono sempre vergognata, sarebbe bastato perché erano le emozioni a guidarmi.
Ogni martedì è diventato così la gioia più grande che potessi provare. La cura per il lutto che fuori dalla scuola mi faceva solo venire voglia di dormire e non svegliarmi più.
Da allora, tutto ha trovato il suo posto. Sto bene quando sento la fiducia dell’altro ogni volta che guido una scena e sto bene quando mi arrabbio se non va in porto. Sto bene quando supporto i mie partner sul palco e li vedo scintillare. Sto bene quando supero i cliché. Mi fa sentire ad un passo dal cielo. E quelle rare volte che azzardo un contatto fisico con l’altro mi sento così emozionata che il mio cuore non smette più di battere all’impazzata. È così difficile toccare qualcuno spontaneamente senza che questi si senta minacciato. Così delicato. Niente mi appaga come commuovermi durante una scena improvvisata. Quella sensazione lì non la puoi inventare meccanicamente. Lo spettatore lo capisce se quel dolore non lo senti anche tu, laggiù nelle budella dove lo nascondi tutti i giorni della tua vita. Se non vuoi fare Un posto al sole, quel dolore improvvisato deve essere viscerale.
E le risate. È da tutta la vita che le cerco. Come un’aspirapolvere del divertimento che raccoglie gli acari dei cattivi pensieri e li trasforma in aria pulita con una singola e fragorosa sganasciata.
Così, interpretare sempre qualcuno di diverso mi sta aiutando a capire chi sono io. E per quelle tre ore a settimana io sì, beccatevi questa, sono felice.
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The socks, for instance.
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Sendino: Exchange
L’alimento più bello e creativo del mondo.
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L’esagono è una forma bellissima
Il mondo lgbtqia è complicato da spiegare agli etero, tante volte è complicato da spiegare pure ai gay e vi confesso che spesso mi chiedo come mai tendiamo a complicarlo ulteriormente inventando sempre nuovi modi per definirci tutti “un po’ meno queer” di quanto siamo realmente. Dal canto mio, sono orgogliosamente bisessuale e questa, per molti versi, è la croce e delizia della mia esistenza.
Intendiamoci, essere bisessuale non è mai stato un problema per me, anzi. L’ ho sempre considerato una sorta di superpotere. Perché amare solo il tuo ragazzo quando potevi anche limonarti la tua migliore amica approfittando del suo totale asservimento all’immaginario porno etero-normato? È così che la vedevo quando ero una ragazzina, ma crescendo le cose hanno preso una piega che in adolescenza non avrei mai immaginato.
Da grandi poteri derivano infatti grandi responsabilità. Tipo quella di vivere in un contesto in cui non vieni riconosciuto né dagli etero, né tantomeno dagli lgbtqia.
<< Hey tu, sporca mezzosangue! Sei forse venuta a rubarmi il fidanzato? Tanto lo sappiamo che in fondo preferisci la figa. >>
Questo è il tenore dei commenti…
Ma la consapevolezza di questa difficoltà endemica nell’ essere bi non è arrivata subito. Fino ai 27 anni avevo vissuto le mie scappatelle con le ragazze solo come un piacevole modo per ingannare il tempo in attesa del principe azzurro. Le cose sono parecchio cambiate da quando ho deciso di fidanzarmi con una di queste.
D’ improvviso, in un solo colpo, la società milanese ha modificato la mia targhetta da “etero maliziosetta” a “lesbica radical chic”. È stato un attimo, non me ne sono nemmeno accorta.
L’unica cosa che volevo era tenermi il mio bel bollino da bi ma, a quanto pare, nessuno voleva lasciarmelo fare.
Approfitto di questo intermezzo per salutare i fratelli e le sorelle trans. Dovessi un giorno prendere una sbandata per un* di voi, sarò ben lieta di fare l’upgrade a pansessuale. Mi sentirei una vera Super Saiyan dell’amore. Nel frattempo, cerco di sostenervi andando a diffondere il verbo in giro.
Gli ultimi aggiornamenti mi dicono che ci sono ancora grossissime difficoltà per quanto riguarda la comprensione della differenza tra orientamento sessuale (con chi vi piace fare all’amore) e identità di genere (a quale genere sentite di appartenere indipendente dal sesso biologico). Sono con voi sempre, anche perché spesso mi viene chiesto perché mi vesto in modo così femminile visto che sto con una donna. True italian story.
Ma torniamo alla battaglia del BI.
Nessuno ci crede a questa cosa che ti piacciono entrambe le fazioni. Pare infatti che il bisessuale faccia estrema paura.
Potremmo definirlo come una creatura mitologica assetata di sesso e capace di distruggere tutti i rapporti intorno a sé come un sexy Godzilla senza cuore.
Ma perché è così difficile accettare che un panino può star bene sia con la nutella che con la marmellata? Grazie Olmo sempre utile la tua reference alimentare.
La gente passa le ore a crucciarsi per fare entrare la tua formina nel cerchio o nel quadrato quando tu stavi perfetta nell’ esagono.
CHE BELLA FORMA L’ESAGONO E QUANTO MI PIACCIONO LE METAFORE.
E cosa fai allora? Niente. Tendenzialmente passi la vita a correggere chi ti dice cose come “Vabbè ma tu non puoi esprimere un parere attendibile su un culo maschile, ormai non conti più” nella speranza che prima o poi qualcuno capisca che non solo puoi, ma sei anche maggiormente titolata a farlo in quanto esteta a tutto tondo.
Generalmente quella persona risponderà alla tua puntualizzazione dicendo cose come “Sì, ok ma non te la prendere, stavo scherzando” e tu ti sei sentirai in difficoltà per essertela presa quando in cambio volevi solo un po’ di rispetto. Deal with it.
Sfatiamo quindi qualche mito per gli amici da casa:
Non siamo confusi. Non è una fase. Non passerà.
No, non siamo macchine da threesome. Smettetela di chiedercelo in continuazione.
Gli uomini bisessuali esistono, la loro non è un escamotage per non definirsi gay (salvo eccezioni, ma quello vale solo per i gay di destra ndr).
Sì, è probabile che parte della nostra sfera romantica\sessuale soffra di una costante mancanza sopita quando siamo in una relazione monogama con uno dei due sessi. Ma non vale forse per qualunque relazione? Non usateci come capro espiatorio.
L’ etero-flessibilità è una sonora stronzata. La Scala Kinsey, che tutti noi ringraziamo per aver fatto molto all’amore nel nome della scienza, ha formalizzato la nostra esistenza definendone lo spettro ma, amico bi da casa, qualunque sia il tuo “grado di bisessualità” abbi per favore la cura di definirti tale in modo da non danneggiare tutta la categoria.
Il coming out di una persona Bi è di fatto un coming out. Mia madre conferma dalla regia.
Sì, percentualmente è più probabile che si possa finire a far famiglia con una persona del sesso opposto. Se lo stato ci desse una mano in termini di matrimonio e adozioni forse sarebbe più semplice rimandare al mittente il diavolo tentatore che ci sussurra la via di fuga più semplice quando siamo in una relazione omosessuale.
Ma i bisessuali stanno mai con altri bisessuali? A me non è mai successo, ma sarebbe un sogno.
Cosa vorrei dire ai piccoli bisessuali là fuori che sono nel bel mezzo delle prime tempeste ormonali:
La capacità di vedere l’amore e la bellezza per quello che sono, al di fuori di qualsiasi schema precostituito, è un dono prezioso. Per questo motivo, per quanto difficile, cercate di non rinunciarvi. Vi darà sempre una prospettiva diversa sul mondo e su voi stessi. Vi dicono che parlate troppo della vostra sessualità? Che ne siete ossessionati? Problemi loro.
La nostra è una battaglia politica e di questi tempi è sempre bene essere pronti alla rivoluzione.
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Un vitino invidiabile
Tra i molti motivi per cui adoro mia nonna Lina ci sono le storie sulla sua giovinezza, che racconta con una luce brillante negli occhi e dovizia di particolari. La cosa mi fa esaltare sempre, anche dopo averle sentite centinaia di volte. Una delle mie preferite riguarda la sua fantastica silhouette a clessidra. Nonna racconta che il nonno Pino, detto Pinuzzo, era orgogliosissimo di avere una fidanzata con un corpo sinuoso come il suo e amava che lei si mostrasse in giro "annacando" i fianchi con le sue gonne a ruota quando andavano a fare le passeggiate nel centro di Trapani.
"Non per cosa, figghia mia, ma avia un corpiceddruuuuu!"
Dell'amore dei miei nonni ho sempre ammirato lo strano senso di parità intrinseco nel loro rapporto e la genuina forma di romanticismo che li ha sempre contraddistinti. L'immagine di loro due che camminano insieme al tramonto per andare a buttare la spazzatura è, ancora oggi, la cosa più romantica che riesco ad immaginare.
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A Riccio
Da un po' di anni a questa parte ho accumulato molta esperienza nel campo delle visite specialistiche di vario genere. Non starò qui a spiegare la motivazione scientifica, ma penso di essere nella posizione di comunicare la mia solidarietà alle persone che come me soffrono quotidianamente con una buffa testimonianza. La vicenda nasce nella mia prima giovinezza ed è associata al detto siciliano "Lu figghiu di lu scarparu ha iutu sempi scausu", secondo il quale "Il figlio del calzolaio è sempre andato in giro scalzo, perché il calzolaio non si curava di fargli avere un paio di scarpe”. A me è successa la stessa cosa con mio padre, che di professione faceva il pediatra e nel suo lavoro, con pazienti non appartenenti alla famiglia, era un vero drago.
Non fraintendetemi, è stato un ottimo padre e suoi difetti sono gli stessi che mi porto dietro anch’io in quanto sua fotocopia al femminile ma, da quando ho memoria, ha quasi sempre risposto a qualsiasi mio malessere fisico con un "PIGLIATI UN OKI". A tredici anni soffrivo di una fortissima emicrania legata al ciclo mestruale che mi faceva piangere per ore al buio nella mia stanza. Un giorno, all'ennesimo "PIGLIATI UN OKI" e in preda ad un dolore atroce, che mi spingeva a desiderare di cavarmi via il male bucandomi il cranio a mani nude come in Pi Greco - Il teorema del delirio, risposi al suo "GIULIETTA CALMATI" con un sonoro "GIULIETTA UN CAZZO!", sentendomi incredibilmente in colpa per aver parlato in quel tono al Pater Familias e decidendo che da quel momento avrei sempre risolto da sola, per quanto possibile, i miei problemi di salute.
Negli anni ho sviluppato un incredibile senso di resistenza al dolore fisico di cui vado molto fiera. Una fierezza simile a quella che provo quando sollevo grossi pesi solo grazie alla mia forza di volontà e non sento assolutamente niente perché sono in preda all'adrenalina per aver compiuto un gesto di generale attribuzione maschile.
Bene, parte della mia tecnica nella risoluzione del problema dolore risiede nell'oculata scelta della posizione che assumo ogni qualvolta mi è possibile.
La posizione è quella che vedete in foto. Mi arrotolo su me stessa come un gatto e mantengo la posizione per tutto il tempo necessario. Lo faccio nel letto, sul divano, sul treno, sulla sedia dell'ufficio, sullo sgabello al corso di improvvisazione teatrale. Lo faccio sempre e da anni e così spesso che il mio corpo ha cambiato forma nel tempo e la mia anca da allora non è più la stessa.
Mi dà conforto.
Papà mi ha sempre criticata molto per la mia postura storta e rilassata, ma durante la mia adolescenza non mi ha mai portata a fare un controllo posturale o un ciclo di fisioterapia e solo quando una vergognosa sciatalgia mi costrinse a letto per una settimana alle tenera età di diciassette anni, decise che "PIGLIATI UN OKI" in quel caso doveva essere sostituito da "PIGLIATI UN TORADOL".
Il mio corpo è stato quindi bersagliato su due fronti: la negligenza paterna nella cura fisica dell'adolescente donna e la personale acquisizione di una posizione talmente sbagliata d'aver compromesso il mio fisico per lungo tempo. Il secondo punto è chiaramente collegato al primo.
Se mio padre fosse ancora qui, probabilmente starei al telefono a urlargli contro tutta la mia rabbia per aver sottovalutato la mia postura dando per scontato il senso di responsabilità di una ragazzina, ma visto che è andato a fare una passeggiatina permanente in bicicletta, mi limiterò prendere atto del fatto che, purtroppo o per fortuna, ogni figlio di medico di mia conoscenza è caduto nel sopracitato “Paradosso di lu scarparu”. Quando penso a tutti i difetti di mio padre, per qualche strano motivo, mi manca ancora di più. Litigare con lui e poi farci pace era uno dei nostri pochi momenti di intimità. È passato troppo tempo dall’ultima volta e io avrei davvero una voglia matta di fargli una grossa scenata e poi abbracciarlo forte e affondare la testa nel suo petto e piangere finché non respiro più.
Mi ritengo una persona decisamente più introversa di quanto io dia a vedere. Nella realtà, spolvero con una bella grattugiata di ironia qualsiasi sofferenza che mi riguarda nel profondo e risolvo tutto arrotolandomi. Sto cercando di cambiare. Sono andata in (fisio)terapia - ahahah che simpatica - . Non so quanto mi ci vorrà per rimettere la mia anca nella posizione che il Signor Gesù o chi per lui ha scelto per me, ma una cosa è certa: se mi vedete accovacciata in posizione fetale su qualsiasi supporto e in qualsiasi luogo, fate un atto d'amore e rimettermi al mio posto perché oggi, chiudermi a riccio, è diventata l'ultima delle mie opzioni.
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Ragazze cinematograficamente indipendenti
L'altra sera stavo pensando a quale fosse il film che aveva avuto più impatto sulla mia adolescenza. Il mio primo pensiero era andato, come prevedibile, a Velvet Goldmine di Todd Haynes. Ma la verità è che non era quello giusto. Velvet Goldmine mi era stato mostrato dal mio primo fidanzato quando avevo 17 anni ed ero ancora una "ragazza non cinematograficamente indipendente". Dovevo dunque essere formata dal tipo più grande e bassista tenebroso che mi avrebbe aperto così la via dell'estetica glam. Rimane uno dei film per cui provo più affetto, ma non ero stata io a scovarlo. Non era il film a cui ho pensato per ore, con una strana eccitazione addosso, quando mi sono messa a letto dopo averlo visto la prima volta. E non era neanche quello a cui ancora oggi penso quando mi ricordo delle mie fisse di quegli anni. Il premio va a "Secretary", di Steven Shainberg, scoperto, se non ricordo male, sul canale CULT di Sky in versione originale una sera che i miei erano fuori casa. Stiamo parlando di cinema indipendente americano dei primi anni duemila: il mio equivalente del Favoloso mondo di Amelie a livello di impatto romantico. Un sunto breve per chi non lo avesse visto. Una giovane Maggie Gyllenhaal, interpreta una bizzarra e autolesionista stenografa che, dopo essere stata ricoverata in manicomio, ottiene un lavoro da segretaria nello studio di un sadico e inquietantissimo James Spader. - La sola presenza di quei due attori non propriamente belli, ma perversamente attraenti, mi mandava già in orbita. - Dal loro incontro nascerà quella che provo a definire come "Una stramba commedia romantica, con un po' di drama e un alto contenuto erotico BDSM", accompagnata dalla sensualissima colonna sonora del mitico Angelo Badalamenti. Insomma, è la storia di due teneri disturbati che si innamorano a suon di refusi, ordini, punizioni, lombrichi e calze velate. La pratica sadomasochista, che pure non è mai stata di mio grande interesse, assume qui una funzione curativa delle sofferenze di entrambi i protagonisti.
Un vero sogno per la me che non poteva uscire di casa dopo le 23 e che, per dare sfogo alle sue bramosie da teenager, era costretta a usare la carta del - Vado a dormire da Ilaria - almeno due volte al mese. Credo che quel film abbia definitivamente costruito il mio immaginario del rapporto amoroso. E credo che me ne abbia dato una visione estremamente positiva. Come di una cosa buffa, storta, sessuale e dolce.
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Descrivi la cosa più catartica che tu abbia vissuto con un film:
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La risposta a tutti i vostri quesiti esistenziali è in questo video essay. E nei teen movie.
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Del perché amo Wong Kar Wai. E i video saggi.
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Un anno dopo
Il 31 Gennaio 2018 mi ero svegliata di buon umore. Avevo preparato il caffè per Giulia e per qualche strana ragione, a differenza del solito, avevo messo un po’ di musica. Generalmente ascoltiamo la radio ma quella mattina mi sentivo romantica. La canzone era “Don’t pull away” di J Views e Milosh. Uno di quei pezzi talmente languidi che ci si potrebbe accalappiare chiunque. Il video lo avevo visto in loop centinaia di volte. Una fotografa tomboy riprendere una deliziosa modella transgender di nome Indya Moore (che sarebbe diventata famosissima da lì poco) e nel cuore della canzone si baciano intensamente, avvolte dallo sfondo del mare. Lei dormiva ancora profondissimamente ed era tutto molto poetico tranne i miei capelli. Quando non riesco a svegliarmi in tempo per lavarli, opto per delle trecce alla mia maniera. Quelle che quando qualcuno mi incontra finiscono sempre per evocare immagini random della principessa Leya, Holly Hunter in Lezioni di piano o qualcuno della famiglia Stark. Ho dato un bacio a Giulia e sono uscita. Mi sentivo bene. Ho persino scattato un selfie.
Il lavoro era pessimo. Non imparavo nulla, ma stavo bene con i miei colleghi. Ci godevamo le numerose pause sigaretta e progettavamo insieme piani di fuga dai palazzi tristi di Maciachini. Papà e Adri sarebbero venuti a trovarmi nel giro di dieci giorni. Sembravano contenti ma era chiaro che il più grande dei due non avesse particolare simpatia per quella gatta traumatizzata che mi ero appena messa in casa.
Papà odiava i gatti ma sono certa che avrebbe riso molto se gli avessi mostrato il video in cui le faccio ballare “Shiny happy people” del REM. Tilda era uno dei miei pensieri principali durante quel pomeriggio. L’avevamo appena adottata e non si faceva avvicinare in alcun modo. Piangeva spesso. Chi avrebbe mai pensato sarebbe diventata il gatto-cane che è adesso.
In questo preciso momento ho appena terminato la descrizione del mondo ordinario che altro non era che la mia vita fino a quell’ attimo. In ventinove anni erano successe molte cose, ma la protagonista era in attesa della sua chiamata. E una chiamata fu realmente. Telefonica. Sul tragitto di ritorno a casa.
Una signora sconosciuta mi ha consolata mentre urlavo sul vagone della metro gialla in direzione duomo. A ripensarci sembra una scena di un film indipendente americano. O forse canadese. Nel susseguirsi degli “e poi…” e degli “e quindi…” che durante questo anno senza papà mi hanno condotta al nuovo equilibrio della mia narrazione, mi sono chiesta più volte se stessi davvero elaborando il lutto o se più semplicemente stessi scrivendo la storia di una tizia che pensava di potercela fare nonostante tutto, come facevo da piccola quando mi sentivo sola. Il metodo è sempre stato infallibile. Lo pensavo così intensamente da farlo funzionare. In fondo credo di stare bene. Voglio solo continuare a ricordarlo per paura che svanisca. A chiamarlo in causa in momenti in cui la gente non vorrebbe certo sentir parlare di te e del tuo defunto padre. Solo per sentirlo vicino. Magari inconsciamente perché un po’ li invidio e forse, lo ammetto, per farmi un po’ del male.
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Cose dal valore inestimabile che mio padre mi ha lasciato prima di morire
Il 3/2/2018 è la data in cui ho scritto questo post su Facebook. Esattamente 4 giorni dopo la morte improvvisa di Papà. L’elenco Vale sempre e oggi è anche più ricco di prima:
- Un esempio di amore incondizionato - L'ambizione e lo spirito d' indipendenza - L'ironia, anche quella difficile da digerire - La capacità di distinguere le persone buone da quelle cattive e di dire sempre alle ultime di andare a farsi fottere - Il valore del silenzio - La passione per i vestiti stravaganti - Che stare da soli è brutto ma fa bene - L' insofferenza per i preti e qualunque autorità da noi (papà e figlia) non riconosciuta - La vis polemica - La consapevolezza che né il mio essere donna né tanto meno il mio orientamento sessuale avrebbero dovuto fermarmi nella vita - Il Progressive rock, Antonello Venditti, Sting, il cinema, la passione per la cucina, gli aneddoti pazzeschi sui suoi anni dell'Università nel periodo degli scontri a Pisa (lo chiamavano Il Re della Frittata perché era povero ma con le uova riusciva a fare di tutto) - Buona parte della mia faccia - Il sarcasmo inopportuno - Una testardaggine da guinness dei primati - Che aiutare gli altri è bello e che se sei una buona persona gli altri se lo ricorderanno - Resistere al potente, sempre!
Papà non volevo fare un elenco in stile Fazio ma avevo paura di dimenticare qualcosa. Probabilmente l'ho fatto comunque. Almeno però c' ho provato.
Volevo ringraziarti un'ultima volta per quella cantata che ci siamo fatti quest'estate. Tu eri nella cucina del nonno Enzo e io in veranda a fumare con Giulia. Hai messo a tutto volume "La carrozza di Hans" e come sempre ci siamo messi a cantarla a squarciagola. Un grande classico della nostra routine familiare. È stato bellissimo ed è dall'altra notte che ce l'ho in testa.
Ciao Highlander, stavolta me l'hai fatta per davvero.
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