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《Of naked injury and chronic despair.》
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Circondato dal mio cimitero di circuiti elettrici, simulacri di altra realtà.
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Già che ci sono, reblog per uno dei migliori Indie-Game mai giocati.
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La mia vita universitaria in perpetua oscillazione tra Watashi di The Tatami Galaxy e Iori di Grand Blue, in un estemporaneo equilibrismo tra la perdita di senso e la leggerezza della primavera.
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Oggi Milano un po' come il mondo artificiale di un album dei Gorillaz, ascoltando Rhinestone Eyes e pensando un po' a Blade Runner.
Forse mi va di rileggermi Do Androids Dream of Electric Sheep?
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Odiare buona parte dei proprio compagni di corso, ed approcciare la dimensione umanistica della vita come il finale de Le Città Invisibili di Calvino, cercando di trovare - e di essere, se giriamo la calza - chi o cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno.
Ancora non mi sono disilluso cosí tanto da provare l'altro metodo di salvezza dall'inferno che Calvino offre: accettarlo e diventarne parte fino al punto da non riconoscerlo (e riconoscersi) piú.
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Nel mio stomaco hai piantato
Piccoli semi di lacrime
Che sbocceranno a primavera
Nel sole e nel vento di Maggio
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Girovagavo un po' sui miei stessi passi, e mi sono imbattuto nuovamente in questa piccola memoria. Pare si torni sempre dove si é stati male, non so per quale masochistica tendenza o quale istinto di annichilimento. Peró pare così. O, quantomeno, così é per me.
E devo dire che ho vissuto, in questi anni. E il caro me di anni fa aveva ragione. L'ho fatto in modo incosciente. Inconsistente. Quante cose che direi al me stesso di anni fa, se potessi. Quante cose gli rimprovererei. Credo di aver sempre cercato un qualcosa, un qualcuno, ma non ho mai saputo di chi o cosa fossi alla ricerca. Non funziona così. Non si arriva a destinazione se non si sa che treno prendere.
“But yet he was happy. For he lived. His heart was full...”. Così scriveva Thomas Mann in Tonio Kröger.
Ma non c'é pace se si é tristi, nemmeno se si vive.
E così mi sono abbandonato sulla strada di una ricerca che altro non era se non un combattere mulini a vento. Ho lasciato una scia di impronte in circolo, sorprendendomi di tornare sempre nello stesso punto, giorno dopo giorno.
Ho abbandonato la scrittura, ferita, sanguinante, sulla spiaggia in riva al mare del tempo. Ma la scrittura non mi ha mai lasciato, mi ha seguito, strisciando, come l'ombra della tristezza che mi é propria, che mi appartiene e sempre mi apparterrà, per quanto essa si allunghi e si allontani quando mi siedo a guardare un tramonto. É lì, e mi fissa contemplandomi silenziosa, come si fissano i morti.
La morte. La morte é un grembo di donna. La morte é una ragazza la sera dell'ultima luna d'estate. Gli occhi azzurri, freddi, la pelle bianca. Vestita di candido lino bianco, scalza sull'erba, e una una margherita tra i capelli biondi. La morte é una mano di questa ragazza, che ti accompagna dolcemente attraverso il mare di nebbia dietro di lei. E mi segue, giorno dopo giorno, memento dei giorni trascorsi senza essermi guardato indietro. E i fiori che portiamo sulle tombe sono per lei.
La nebbia. Mi sono illuso esistesse un bianco e un nero. Invece, esiste davvero soltanto questa nebbia, quest'informe grigiore di mattina d'autunno. Senza inizio, senza fine.
Quest'insonnia dello spirito non mi dà tregua.
Tutta questa follia, quest'inutile lotta per mantenersi in equilibrio tra ordine euclideo ed entropico disordine. Ho smesso di scrivere anche per oppormi a tutto questo; e ciononostante non posso venirne meno. Eterno ritorno, serpente che si morde la coda; ironico, a dir poco. Posso scegliere tra il dolore della mutilazione di una parte d'anima per spalmare inchiostro su carta, oppure quello di abbandonarmi al flusso del tempo, incosciente, inconsistente, che chiamano vita. Ed io che ho sempre cercato la via di mezzo, il grigio nel bianco e nero.
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Inizio a intravedere un certo filo conduttore tra quello che apprezzo, nei vari sprazzi di realtà che mi tiro dietro, ormai strascicandoli con fatica in mezzo a tutta la finzione e la bolla di vita che mi sto costruendo su solide fondamenta di menzogne e felicità.
Di base, quello che maggiormente apprezzo nella valanga di cultura pop dei giorni nostri, sono personaggi - letterari o cinematografici che siano - tutt'al più stanchi. Credo che possa essere questa la parola più adatta a descriverli. Questo dovrebbe essere il filo d'oro che collega il mio tempo perso quando non penso; o quando cerco di non farlo.
La mia psicologa dice che ho il complesso dell'eroe, come lo chiama lei, ma sono piuttosto sicuro sia un suo modo di addolcirmi la pillola della sua opinione secondo cui vivrei in un mio mondo dove la mediocrità della vita quotidiana non esiste. Credo possa essere vero, per quanto infantile possa sembrare, che non esito a cogliere un'occasione per evadere dal mondo e lanciarmi dove ci siano l'assoluto, l'ebbrezza, l'estremo, perché questo essere nulla mi fa vomitare, nonostante continui ad intorpidirmici dentro, giorno dopo giorno. Scriveva Palahniuk che siamo i figli di mezzo della storia, senza scopo, fuori luogo, e si domandava - dandosi un'ovvia risposta - se fosse meglio l'inferno o nulla.
Aggiungerei, visto che sono in serata di categorizzazioni inutili, che potrei forse appartenere alla categoria che Hesse definirebbe dei "suicidi", ovvero di chi tenta di resistere alla tentazione della - Hesse forse apprezzerebbe il paragone - pulsione di morte freudiana, non necessariamente persone che commettono suicidio (io stesso ammetto di essere ad ora troppo inetto per pensarci seriamente), ma banalmente persone che lo contemplano come parte della propria esistenza (come risposta all'assurdità della propria esistenza? Chissà, magari sto esagerando). Questo desiderio di redenzione e di ritorno all'origine ci riporta, a quanto pare, involontariamente alla canzone che prende il ruolo di protagonista del post.
Tornando a fare ordine, probabilmente la mia psicologa ha ragione, o forse no, sta di fatto che quello che sono é un Odisseo senza viaggio, senza mare e senza Itaca.
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Il pipistrello, la lucciola e la Stella Polare.
Qui, la costante - e, se vogliamo, il motivo dell'associazione - é semplicemente lo stesso motivo per cui torno a scrivere: non sto bene; e, dopo un pressoché notevole ammontare di tempo, torno ad accorgermi di aver mentito a sufficienza a me stesso da sentirmi in colpa. Non sto bene. Ad ogni modo, la reale costante tra questi tre elementi é una semplice sovrapposizione spaziale, ovvero la rubinia che osservo quando fumo sotto al balcone, il cui ramo più alto copre la carissima Polaris perfettamente in linea d'aria. Fatto sta che questo mi permette di scandire il progredire della rotazione di Cassiopea e dell'Orsa Minore intorno ad esso per tutta la durata della notte. In questo contesto, é da qualche giorno che noto l'avvicendarsi di un piccolo pipistrello che svolazza intorno a quell'albero, turbando il mio momento di disinteressata contemplazione con il suo moto caotico e piuttosto imprevedibile - nonché decisamente fastidioso. A questo si aggiunge il comparire intermittente di un'amichevole lucciola che, rasentando il terreno, compie ogni volta lo stesso percorso: un giro intorno al sottile tronco, zig-zag per qualche metro e scomparsa dentro ad un cespuglio. Non sono solito affibbiare significati ad eventi che non ne hanno.
Ho guardato un po' troppo le stelle, forse, per poter stare bene.
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Un passato come squarcio nel cielo
Ma se ti bagni cresci come una rosa
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Her heart in my hands: I'm pumping someone else's blood.
Dovrei chiudere il blog. Lo dico sempre e non lo faccio mai. Semplicemente non ho di che scrivere. Scrivo poco, e gran parte di ciò che scrivo non lo metto realmente in caratteri concreti, ma gravita nella mia testa, distorcendosi pian piano; venendo dimenticato; com'é forse giusto che accada. Le parole si prendono poco della mia vita. E non ho nessuno che si prenda ciò che rimane, ciò che vorrei venisse preso. Io stesso mi prendo poco della mia vita.
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La scrittura come luogo di rifugio e come mezzo di archiviazione ordinata di ciò che trova un senso in me soltanto. Che succede se perdo anche questo?
Che succede se non sto cambiando e non riesco neppure a mantenere quel che ho, quel che mi son costruito con fatica e parsimonia?
Relegare quello che prima erano piccoli eventi ordinati - messi in bilico da un esperto equilibrista che si arrovellava su improbabili incastri dando forma logica all'illogico del quotidiano - ed ora é flusso imponente di vita ed emozioni - che tali non sono piú, perché le ho giá provate, e perché non riesco a non vivere se non la noia della prossima volta, il panico del fare ancora - ad un ruolo marginale, di sfondo a ció che é l'io, poiché l'io é protezione.
Che succede quando cade l'io? Che avesse ragione Stirner e che il percorso dello sviluppo dell'individuo rispecchi e sia rispecchiato dallo sviluppo della storia? No.
Ma che accade quando cascano i muri costruiti pazientemente con parole e nastro isolante, distrutti dall'urlo profondo dell'incompiutezza che arriva dopo il tramonto?
Cosa accade se questa accidia incredibile ed insondabile non ha fine? Ho paura, ho paura e temo di non essere abbastanza e repello questo mio essere così biologicamente definito da dover rientrare nella mediocritá di chi vive e non sogna soltanto. Le luci di Milano come Rua dos Douradores. Non mi toglierò mai questa nausea, e questo acuto dolore al fegato. Ma se mi dimenticassi di tutto questo?
La scrittura come farmaco per la memoria.
E adesso, che accade?
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Il mio sonno non ha più luogo che possa chiamare proprio.
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Mi torna in mente quel che scriveva Stirner, cioé che "nell'epoca della libertà di pensiero, dominano i pensieri (le idee)" al di sopra delle menti che li hanno partoriti, tanto da essere i pensieri stessi a possedere gli uomini in grado di pensarli (e anche quelli non in grado di farlo).
Molto apprezzabile ed attuale, devo dire.
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Non più pensieri umani. Non parole d'umana argilla, né sogni liquidi dei dormienti. Quando rivolgeró il saluto all'insensatezza e all'assurdo dell'abisso, esso mi sorriderá.
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Ci vedo Minorca, nei cactus.
Cacti and Semaphore Georg Scholz oil on hardboard, 1923
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