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Da Voci Sepolte. Rapporti materni complicati
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Voci Sepolte, 1979
Tatiana si fermò e rimase a fissare quei fiori di camomilla in mezzo al campo. Come potevano essere così belli? Sembravano un mare di stelle cadute sulla terra, i petali bianchi come la neve che circondavano un cuore dorato. Oscillavano al vento come un coro di ballerine eleganti in un balletto naturale. Lei era lì, in mezzo a quella distesa idilliaca, in balia del destino che avrebbe dovuto ricominciare a riscrivere per se stessa.
Aveva trascorso fin troppi anni a crogiolarsi nell'oscurità delle sue disgrazie, e ora era venuto il momento di prendere una decisione. Aveva avuto bisogno di qualcun altro per rendersi conto di una cosa che dentro di sé era sempre stata cristallina ma che si era rifiutata di osservare, preferendo accantonarla in un angolo riparato della sua coscienza nell'illusione inconscia che, così facendo, la ferisse di meno. Ma le stelle brillano nel cielo notturno, anche quando il mondo sembra avvolto nella totale oscurità, e lei aveva scelto di ignorare la propria luce interna per troppo tempo. Quanto era dannatamente bello quel campo di camomilla?
All'improvviso, era solo stanca. Stanca di quella ostinata, patetica lotta. Dentro di sé la travolse un desiderio travolgente di ritornare a vivere. Voleva poter godere di quell'incredibile scenario che si dipanava ai suoi piedi come un manto celeste senza le cortina oscurante dei suoi demoni, del suo incessante e perfettamente inutile chiacchiericcio mentale; voleva ritornare ad amare, amare se stessa e gli altri, senza i filtri inibitori appiccicati su di lei come una seconda pelle, amare con la stessa intensità con cui il sole bacia la terra al sorgere di un nuovo giorno. Non voleva più bere. Non voleva più rifiutare, per orgoglio altrettanto patetico, la mano esperta di qualcuno che sarebbe stato capace di aiutarla ad elaborare il trauma. Non voleva più seppellire la sua voce, non aveva fatto niente per essere così crudele con se stessa. Assorta, si chinò verso il terreno e raccolse un fiore. Se lo portò in mezzo ai capelli, poi sorrise. Le sarebbe piaciuto avere uno specchio per vedere quant'era carina con quel fiorellino in testa.
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Voci Sepolte, estratto capitolo
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Estratto capitolo 18 di Voci sepolte - Pienza, 1979. Una relazione clandestina interrotta da un omicidio.
Farah Nazari non sapeva perché si fosse trattenuta al funerale. Sapeva solo che quella circostanza, quell'ambiente, quel discorso del prete dedicato all'uomo che le sue intime speranze avevano dipinto per lunghi anni come proprio futuro marito, avevano condotto al debordare improvviso e tumultuoso delle sue emozioni, come se lo scarico di un tubo dell'acqua fosse stato bruscamente tagliato. A questo aveva contribuito quello stupore che continuava a coglierla, nonostante i dieci anni di permanenza in Italia, quando metteva piede in una chiesa. Lei, una donna. Le parole di suo fratello Nadir, privilegiato dalla nascita per la sua identità biologica, riemergevano nella mente come una cantilena lontana ma più viva che mai: "Tu non puoi entrare in moschea, devi restare a casa. Le donne non devono mettere piede in un posto simile." E poi, regolarmente, si avviava con suo padre e il fratello minore Ohmar verso l'uscita di casa rivolgendole le spalle quasi con fierezza, mentre lei rimaneva a guardarli seduta sul tappeto rosso, con i giocattoli di legno ai suoi piedi. Così era rimasta in chiesa, mentre le persone attorno a lei si scioglievano in un'orchestra comune in onore di Damiano D'Angelo. Si era sentita come se fluttuasse in una dimensione parallela, dove l'amore che sentiva per Damiano era proibito e inconfessabile, dove il dolore degli altri non la riguardava e non le era concesso di prenderne parte. Era rimasta pietrificata in mezzo a una calca di esseri umani che non aveva mai visto, divisa tra il desiderio irrealizzabile di condividere con qualcuno il proprio dolore, e la necessità di restare nascosta, al sicuro dalle occhi di Tatiana e della famiglia. Era una figura fuori fuoco in un quadro che non le apparteneva. Quindi non aveva potuto ripiegare su altro che sul proprio velo, ben stretto attorno al viso come uno scudo volto a nascondere agli indiscreti sguardi altrui la relazione clandestina che aveva avuto con quell'uomo. Il suo segreto che, se solo per caso fosse uscito fuori dalla traiettoria dello scudo in quel momento, avrebbe fatto sì che una cascata di giudizi spietati si sarebbe riversata su di lei senza pietà.
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Gli effetti terapeutici dei giardini giapponesi
I giardini giapponesi sono luoghi caratterizzati da una straordinaria bellezza, famosi in tutto il mondo per il potente effetto terapeutico che portano con sé. Ciò che salta subito all'occhio visitando tali luoghi è una cura certosina in ogni dettaglio, così come la rappresentazione della filosofia zen della natura come strumento per raggiungere la pace interiore e l'armonia.
I giardini giapponesi, dunque, hanno una straordinaria capacità di calmare l'animo e ridurre lo stress. La loro bellezza austera e, al tempo stesso, contenuta, agisce come una potente ancora che ci tiene saldi al momento presente, ci svuota la mente dal turbinio di pensieri frenetici permettendoci di raggiungere quella zona silenziosa di luce che alberga dentro di noi. Questi spazi di natura ci insegnano così a rallentare il passo, a percepire le piccole meraviglie che ci circondano ogni giorno e a ritrovare noi stessi.
Costituiscono degli spaccati di infinità, ritagliati nel tempo come preziose gemme a facce multiple. La loro bellezza è profonda, stratificata, come un sasso dalle mille sfaccettature. Le pietre sono lì, come testimoni antichi e immobili, a ricordare le infinite trasformazioni della Terra. Disposte con sapienza, quasi a comporre poemi visivi, restituiscono visioni eleganti e rarefatte. I ciottoli sono le labbra di questi giardini, che articolano il proprio canto silente ed evocativo ad ogni passo.
Alberi nani come bambù e rododendri si elevano come braccia esili tese a toccare il cielo, mentre l’erba dei prati scorre simile ad un���onda flessuosa o un respiro. I ponti gettano passerelle tra gli spazi, consentendo riflessioni in movimento. L’acqua che fluisce incessante è vita e rinascita, ricordandoci del trascorrere impietoso del tempo con il suo murmure. Le rocce si fanno sue compagne di viaggio, con le quali intrattengono un eterno e silenzioso dialogo. Per finire, gli alberi piegati a semicerchio vegliano sul percorso come figure guardiane, mentre il vento tra i rami sussurra misteriose confidenze. Si ha l'impressione che la natura si risvegli da un lungo sonno, per rivelarci le sue sembianze più pure e ancestrali. Non ci resta che visitare un giardino giapponese e smarrirci tra le linee essenziali di questi luoghi, lasciando che la nostra mente si espanda e il nostro spirito si libri. E voi, avete mai visitato un giardino zen?
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