Dove amiamo è casa, i nostri piedi possono lasciarla, ma non il nostro cuore
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Non ho smesso di pensarti
Non ho smesso di pensarti, vorrei tanto dirtelo. Vorrei scriverti che mi piacerebbe tornare, che mi manchi e che ti penso. Ma non ti cerco. Non ti scrivo neppure ciao. Non so come stai. E mi manca saperlo. Hai progetti? Hai sorriso oggi? Cos’hai sognato? Esci? Dove vai? Hai dei sogni? Hai mangiato? Mi piacerebbe riuscire a cercarti. Ma non ne ho la forza. E neanche tu ne hai. Ed allora restiamo ad aspettarci invano. E pensiamoci. E ricordami. E ricordati che ti penso, che non lo sai ma ti vivo ogni giorno, che scrivo di te. E ricordati che cercare e pensare son due cose diverse. Ed io ti penso ma non ti cerco. Charles Bukowski
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Non t'amo
Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio o freccia di garofani che propagano il fuoco: t'amo come si amano certe cose oscure, segretamente, entro l'ombra e l'anima. T'amo come la pianta che non fiorisce e reca dentro di sè, nascosta, la luce di quei fiori; grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo il concentrato aroma che ascese dalla terra. T'amo senza sapere come, nè quando nè da dove, t'amo direttamente senza problemi nè orgoglio: così ti amo perchè non so amare altrimenti che così, in questo modo in cui non sono e non sei, così vicino che la tua mano sul mio petto è mia, così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno. (Pablo Neruda)
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Non Fraintendermi
Ottobre, il mese delle castagne, il mese che è a metà tra autunno, mite e dolciastro e novembre, cupo e triste, è finito.
Il primo mese di scuola è finito, avanti il prossimo. Con Anna, il rapporto sta migliorando, riusciamo a vederci tutti i venerdì pomeriggio, se piove ce ne stiamo a casa, o la sua o la mia, ad ascoltare musica, a parlare. Non sono una che parla di cose personali, ma con lei è facile. Oggi l’argomento ha riguardato te. Te in tutti sensi.
Di solito non confido mai le mie storie, non confido mai nemmeno i rapporti sessuali, ma oggi non so perché è successo.
Non fraintendermi, con te lo faccio, ma come te anche io ho bisogno di confrontarmi con una persona del mio stesso sesso.
Tra i soliti pettegolezzi che si fanno tra ragazze, con annesse storie sulle mie nuove compagne di classe, mi ritrovo a parlare con lei, seduta per terra nella sua camera, mentre i Pretenders cantano, di tutto quello che mi è successo, incluso il mio gesto estremo, il tentato suicidio.
Lei non si scompone, sentendo la storia si rende conto che in fin dei conti era quasi impossibile. Ero all’apice della disperazione.
Cominciamo a parlare della prima volta, lei se la ricorda, è stata con il suo ragazzo, quello che l’ha lasciata un mese prima di San Valentino, perché a detta sua “era spaventato dalla piega della loro relazione”. Lei l’ha presa bene, nel profondo aveva capito che lui si vedeva con un’altra, quindi meglio chiudere prima che poi. Il paranco di corna non sta mai troppo comodo in testa, spesso finisce col cadere. Tornando al discorso io della mia prima volta ricordo poco o niente, non sono passati secoli, solo due o tre anni. Le racconto che quel giugno ero rimasta a Milano per un caso. Uscivo con una ragazza di un paio d’anni più grande di me, insieme conoscemmo un gruppo di ragazzi, lei si prese una sbandata per uno di questi, io ero restia. Un pomeriggio mi scongiurò di accompagnarla a casa loro, così da vederci insieme un film dell’orrore. Non avevo mire particolari, di quei ragazzi, simpatici, non mi interessava nessuno, erano più grandi di me, troppo più grandi.
Quel pomeriggio faceva caldo, il tipico caldo umido e appiccicoso di Milano, entrando nella frescura di quella casa, messa in penombra per tenere fuori il sole e il caldo non mi accorsi degli sguardi. Chiesi un bicchier d’acqua, scherzai sull’eventuale film, poi nebbia totale. A sprazzi ricordo che c’erano dei volti davanti a me, a sprazzi ricordo che ero in un lago di sangue e provavo un dolore immenso.
Ricordo vagamente di essere tornata a casa, di essermi fatta una doccia e aver terminato di preparare la valigia per Napoli. Non sarei più tornata a Milano, stavo archiviando le mie cose. Il giorno dopo il treno per Napoli mi aspettava alle 8.00 del mattino.
Parlando con Anna, ho notato per la prima volta un cambiamento nel suo sguardo, dal solito calmo e attento, stavolta è diventato freddo e irascibile.
Mi ha guardata come se fossi un’idiota e confesso di essermi sentita tale. Si alza dal suo posto sul pavimento davanti a me, va in cucina a prendere due caffè e la raggiungo. Sua madre non c’è è al negozio, suo padre a lavoro, in casa ci siamo solo noi due. La guardo e lei senza scomporsi mi dice “ti hanno drogata ed hanno abusato di te” non è la prima ad arrivare a questa conclusione, ci erano arrivate anche Carlotta, Alessandra e Rossella, ci sei arrivato anche tu, io non posso smentire, non ricordo praticamente nulla di quella volta.
Dovrei essere arrabbiata, umiliata, invece sono impassibile. Non fraintendermi, non mi diverte sta cosa, ma se è andata così, meglio non ricordare niente.
I Pretenders, con la voce della cantante cantano Don’t Get me Wrong, non fraintendermi, appunto. Guardo Anna e la mia risposta è semplice, “meglio non ricordare. Ricordo già troppe cose, dimenticarne un paio, non mi fa male. Tanto non potrei comunque cambiarla, per cui, amen, andiamo avanti.”
Sono così, non sbatto la testa su ciò che non posso cambiare, vado avanti, a volte arranco, altre volte sono una staffetta, fa parte della vita, ciò che non può essere cambiato nel mio passato, spesso è meglio non ricordarlo, rimuoverlo.
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Talvolta crediamo di aver nostalgia di un luogo lontano, mentre abbiamo soltanto nostalgia del tempo vissuto in quel luogo quando eravamo più giovani e freschi. Così il tempo ci inganna sotto la maschera dello spazio. Se facciamo il viaggio e andiamo là, ci accorgiamo dell’inganno.
Arthur Schopenhauer (via somehow—here)
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Gesù Gesù come si cambia……
Si si cambia, a volte si è costretti a farlo, altre volte ti costringono.
Sono passati solo pochi mesi dal mio rientro a Napoli, all’inizio ero combattuta, da una parte certa che qualcosa non fosse giusta, dall’altra invece vedevo i miei progetti iniziali stendersi di nuovo davanti a me.
Ho imparato a fare pochi progetti e a portarne a termine solo la metà, non perché non mi mettessi di impegno nel terminarli, ma perché bisogna sempre fare i conti con gli imprevisti.
Ho preso un po' il vizio di fumare, non tantissimo, una dopo pranzo e una dopo cena, a volte la mattina. Non sono una fumatrice accanita, non ancora, almeno.
Oggi sono arrabbiata. La scuola va bene, i voti sono buoni, ottimi direi. Le prime interrogazioni e i primi compiti in classe hanno dato una scossa al mio essere competitiva.
Ho notato che nonostante il mio tempo si limiti sempre di più, trovo spazio per fare le cose che mi piacciono, ho ripreso a nuotare e ho cominciato a fare arti marziali.
Mi alleno due volte a settimana con Christian, il braccio destro del mio amico ispettore, lui sa perché lo faccio, lui ha fotografato i miei lividi, lui ha fotografato le botte prese dal mio ex, lui ha visto i segni di dover perdere, a diciotto anni, non solo la propria dignità, ma anche un figlio.
Questa sera ho deciso di raccontarti tutto, ogni cosa di me, non tutto è stato bello e non tutto è stato brutto. Mi aspettavo una reazione diversa, spaventata, arrabbiata, rancorosa, invece hai ascoltato in silenzio, tenendomi tra le braccia, aspettando che le lacrime di rabbia passassero. Avevo paura che a dirti queste cose, mi avresti lasciata, invece hai solo sospirato, stringendomi ancora più forte.
Ero arrabbiata nel raccontarti queste cose, ma dovevo farlo, perché è bene che tu veda oltre la superficie, scenda nel profondo. Quando mi hai conosciuto hai intuito che sotto l’apparenza ci fosse altro, non hai chiesto, ma hai capito. Ho aspettato in silenzio che tu dicessi qualcosa, che tu parlassi, ma il tuo silenzio era un muro impenetrabile.
I miei incubi me li porto dentro, sono i miei demoni, ci combatto ogni giorno. Le arti marziali, non mi servono per fare del male, ma per canalizzare la rabbia, per evitare di perdere il controllo. Per imparare a contare fino a dieci prima di far del male a qualcuno o farmene io stessa.
Ho cercato di capire se fossi arrabbiato, deluso o altro. Il tuo silenzio dura da un giorno, ho provato a chiamarti ma non eri a casa e non mi hai più richiamata. Lascio a te la mossa successiva, io non posso fare niente. Hai voluto sapere perché ho così tanti problemi col sesso, te l’ho raccontato, hai voluto sapere perché mia zia era terrorizzata all’idea di me a Napoli, te l’ho raccontato, hai voluto sapere tutto della mia vita, il bene e il male, cosa ricordo di mio padre, cosa ho provato quando è morto, hai voluto sapere. Quando ti ho detto della mia idea di prendermi una casa per conto mio, sembravi spaventato. Non capisco Lello, davvero, non capisco, se non vuoi sapere, non chiedere. Mi hai chiesto come ho perso la verginità ed io ti ho detto, non me lo ricordo, ricordo tutto quello che ho fatto prima di quel momento poi un giorno di buio, ricordo di essere tornata a casa, ma non ricordo altro.
Hai voluto sapere ed ora? Ed ora sei sparito. Ti ho spaventato a quanto pare.
Forse questo ti porterà a cambiare idea. Per quanto male mi faccia e credimi è un dolore lacerante, non posso convincerti del contrario. Sto ascoltando Pino Daniele, un mix di vecchie e nuove, lui mi urla Gesù Gesù come si cambia però. Si è vero si cambia. Butto un occhio al telefono, più per caso che per altro, lo vedo illuminarsi, è quasi mezzanotte. Rispondo prima che cominci a squillare a tutto volume.
Sei tu.
Mi chiedi di vederci ora. Ti avviso subito che non posso uscire, quindi se vuoi restiamo nel palazzo, anche se non fa caldo, non si congela. Potrei anche farti entrare, ma sveglierei mia zia e non è il caso.
Ti chiedo di non citofonare, mi trovi lì ad aspettarti.
Sei andato via da un’ora e già mi manchi. Ci siamo chiariti, o almeno lo hai fatto tu. Le tue parole, sono state un balsamo per le mie ferite. “Scusa per questo silenzio di oggi, avevo bisogno di riflettere, non su di noi, quello è chiaro, avevo bisogno di capire e di confrontarmi con un amico, su come è meglio comportarmi con te. Non voglio che tra noi finisca, ma quello che mi hai raccontato scioccherebbe chiunque. Mi hai spaventato, l’idea che tu voglia avere una casa tua, così giovane, mi spaventa un po'. Io sono con te, qualunque scelta tu voglia fare, sono dalla tua parte, qualunque cosa tu voglia, io ti aiuto come posso. Sono stato in silenzio per un giorno intero perché dovevo capire. Perdonami, lo so che ti ho ferita, lo so che ti ho spaventata, ma ora ho capito e non me ne importa niente, tu sei qui ora, sei sempre la mia bellissima ragazza, sei la persona che ho amato dal primo momento.” Mentre tu parlavi guardandomi dritta negli occhi, io dovevo combattere con le lacrime, con la mia paura. Mentre le tue parole arrivavano a fare breccia nella mia armatura, io dovevo cercare di pensare a cosa dire, l’unica cosa che mi è venuta da dirti è stata “scusa.” Mi hai guardato, con i tuoi occhi neri, resi ancora più neri dalla notte, le tue braccia sono arrivate intorno a me, la tua bocca a un millimetro dal mio orecchio, “scusami tu.” Il bacio, il più bel bacio del mondo, bello come il primo che ci siamo dati, bello come il primo dopo esserci ritrovati, bello come il primo sole del mattino su questa città, bello come un sogno. Staccandomi da te ho solo potuto dirti, “ricordatelo sempre e per sempre, qualunque cosa possa succedere, io non smetto di amare te, te e nessun altro.”
Ti ho lasciato andare a casa, ma avrei voluto che tu restassi qui, avrei voluto che tu restassi nel mio letto, invece, saggiamente ti ho fatto rientrare a casa.
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Mi piace il silenzio
In una città come questa, trovare il silenzio è impossibile, bisogna aspettare la notte.
La notte. Le mie notti, quelle fatte di musica sparata nelle orecchie dagli auricolari, di silenzio, rotto solo dallo scricchiolio dei mobili, dal sonno profondo di mia zia, dai passi di qualche nottambulo che torna a casa dopo una notte di baldoria.
A volte mi nascondo nel silenzio. A volte le parole sono inutili, non necessarie. Gli sguardi parlano meglio di tutte le parole che possa dire la voce. Parlo già troppo in radio, quando posso sto zitta. Ho imparato a mie spese che parlare, spesso lascia agli altri la possibilità di avere modo per colpirti.
Questa è stata la prima volta che sono venuta con te a cena insieme ai tuoi amici. Cena con la tua compagnia.
Le ragazze del gruppo mi hanno guardata in modo strano, quasi come se fossi la bambina del gruppo, salvo poi ricredersi quando si è parlato di trasmissioni radio, scoprire che al tavolo con loro c’era una delle due ragazze che le intrattiene la mattina, ha cambiato i loro atteggiamenti. I ragazzi invece sono stati subdolamente gentili. Il giochino dell’essere superiore, l’ho visto praticare parecchie volte, con me funziona poco e male, restituisco le battute arcigne al mittente senza troppi complimenti, come quella fatta dall’amica della tua ex “scusa quanti anni hai?” “diciannove” le ho risposto in modo educato, ma lasciando trapelare una domanda, del tipo “perché? Hai qualche problema?” sentirmi poi dire, sempre da codesta signorina, “sei piccola” mi ha portato a lavorare allo stesso modo, “tu, invece, quanti anni hai?” le ho chiesto, sapendo già che aveva la tua età, ma volevo spingerla sull’orlo del precipizio con le sue gambe, rispondendomi “ventiquattro”, mi ha dato un assist, di quelli che un bravo giocatore usa per fare gol, ed ecco che segno il mio punto, il pallone entra in aera, tiro, gol “tu sei vecchia” questa risposta, senza dare possibilità di appello, senza dare altro, se non la sintesi, ha portato il silenzio per qualche secondo, salvo poi una risata generale, la tua è stata la migliore, perché ormai mi conosci, sai che non sono una che se le tiene, se poi vengono servite sul piatto principale, come dire, bisogna essere stupidi per non coglierle, ed io sarò anche piccola o giovane, ma non sono stupida.
Sono rimasta ferma, impassibile con il mio sorrisetto sarcastico stampato in faccia, ad aspettare che tu o Rosario, diceste qualcosa, invece non un verbo è uscito dalle vostre bocche, troppo impegnati a ridere. Io avrei voluto, ma aggiungere anche la risata mi sembrava eccessivo, per cui ho lasciato che foste voi a giocare la carta dello scherzo, anche perché io non stavo affatto scherzando. Per me lei dimostrava trenta/trentacinque anni. Non che una donna a quell’età sia vecchia, ma di sicuro non è più giovane.
In macchina è stato diverso, mi sono potuta accucciare sul sedile e ridere fino ad avere i crampi allo stomaco. Rosario ha dovuto accostare, perché quella risata era liberatoria e contagiosa, tu sei dovuto scendere dall’auto. Credo che l’amica della tua ex, non la vedremo più. Forse sarà andata a raccontarle quanto è stronza la tua nuova ragazza. Le altre ragazze a tavola, cercavano di non ridere, ma era difficile. I ragazzi, invece non sono riusciti a smettere. Capisco perché al momento dei saluti, lei non si sia avvicinata, non che io mi sia sprecata. Sono così, o mi piaci subito, o mi sei del tutto indifferente, il fatto però che non conoscendomi, questa mi attacchi, non lo concepisco.
Mi aspettavo che avremmo discusso per questa mia sparata, invece tu hai continuato a ridere. Il tuo unico commento è stato “hai spiazzato tutti, li hai messi tutti al tappeto, dimmi come fai?” Come faccio cosa? Io sono così, io non mi invento di essere un’altra persona, sono così, con le mie battute disarmanti, a volte un po' ingenue, in alcuni casi che attirano più schiaffi che baci, io sono così. Ciò che penso dico, a volte la parola è solo più veloce del pensiero. Ti ho con un’alzata di spalle “io sono così, dico quello che penso, non ho molti peli sulla lingua o filtri”
Mi sarei aspettata che mi dicessi che non è questo il modo di comportarsi, che una brava ragazza non dice queste cose, invece tu hai sorriso, “è per questo che ti amo, hai questo dono. Puoi startene nei tuoi silenzi per ore, ma poi quando parli, lasci tutti spiazzati, tutti come degli stoccafissi. No non hai peli sulla lingua, per niente, per te tutto è o bianco o nero, poche sfumature.” Ti ho guardato, convinta ci fosse il resto, mi aspettavo la solita diatriba che al mondo bisogna essere diplomatici, invece no, per cui ho continuato io “la verità può essere la più grande bugia del mondo, solo devi saperla raccontare. Io con le bugie non me la cavo bene, anzi sono una pessima bugiarda, piuttosto che dire una palla sto zitta, ma se mi provochi, vuol dire che vuoi la verità e allora la dico, senza preamboli, senza sconti, senza scrupoli, sta all’altra persona farci i conti, non a me.”
La cosa bella è che con te non ho bisogno di tante parole, ti guardo dritto negli occhi, so già dove vanno i tuoi pensieri, tu sai già dove vanno i miei.
Il silenzio non ha bisogno di spiegazioni, condiviso con te, è solo un momento in cui posso lasciare la mente alla deriva, trasportata dalla corrente e pensare a quanto è bello, a quanto mi piace.
Anche i Depeche Mode, raccontano del piacere del silenzio. Enjoy the Silence.
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(via https://www.youtube.com/watch?v=C4Je7YiOEo0)
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Odio il lunedì
Come Vasco anche io odio il lunedì. La sveglia che suona alle cinque del mattino, alzarsi dal caldo e comodo letto per prepararsi e andare a lavoro.
Uscire di casa alle sei, ottobre ormai è praticamente finito. Un mese mi è scivolato tra le dita, come se fosse acqua.
Il freddo, certo non pungente come quello di Milano, ma comunque insistente, mi ricorda che siamo vicini al ponte dei morti. Mi ricorda che adesso ci saranno ben pochi sabati in cui lavorerai tutto il giorno. Rosario parla di farmi partecipare ai prossimi matrimoni come assistente, secondo lui ho la stoffa.
Oggi ho voglia di Vasco. Di quella sua graffiante voce e del suo sarcasmo irriverente, ho voglia di ricordare che sono ancora un’adolescente che fino a qualche anno fa ero innamorata di lui. Non l’ho mai ammirato come uomo, non lo trovavo né sexy né bello, aveva solo quel suo modo brutale di entrarti dentro.
Stamattina sono euforica. Sto correndo come una matta con il walkman nelle orecchie, intanto canto. Spero che non ci sia la polizia o i carabinieri appostati, altrimenti ho finito la mia lunga corsa.
Ecco questo è un piccolo segreto, la mattina presto, vado in motorino con il walkman e le cuffie. Una sola cuffia. Ma il lunedì è una tragedia, bisogna svegliarsi, anche se sei felice come una Pasqua, anche se tutto sta andando a posto, il lunedì è un bieco, infame bastardo.
Il week –end è finito, il prossimo è lungo da venire e davanti si stende tutta la settimana infernale di cose da fare.
A volte mi immagino quando tutto questo trambusto sarà finito, quando arriverà maggio, così lontano per ora resta quel miraggio, anche perché maggio sarà il mese da incubo di voi fotografi. Come dici tu, “tranquilla, toccherà anche a te” questo mi terrorizza. Sorrido, però intanto mi immagino come sarà.
Oggi pomeriggio, vado a vedere una casa. Voglio prendermi un posto in affitto, da sola per conto mio, senza doverci spendere fortune in affitto. Voglio avere un posto dove se le cose dovessero rasentare l’incubo dell’anno scorso, posso sempre scappare lì. L’appartamento è di un amico, il mio angelo custode, l’amico Ispettore. Conoscendo tutto quello che ho passato l’anno scorso me lo ha proposto per trecento mila lire, oggi lo vedo, poi decido. Non ti ho detto nulla, perché per ora non ho ancora deciso.
Tranquillo, te lo dico appena decido. Intanto sono le sette, in radio comincia la riunione pre diretta. Tra poco tutto si spegne, solo la luce rossa, il tecnico che conta con la mano, tra poco, Elisa ed io, daremo il buongiorno. Oggi cominciamo con Vasco, a ricordarci appunto che tutti odiamo il lunedì. ON AIR.
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Non chi comincia, ma colui che persevera
Amerigo Vespucci
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Una notte ancora
Non mi sono accorta del tempo che è passato e tu?
Ottobre sta volgendo al termine, i miei giorni di scuola sono ore di inutili, chiacchiere infinite su tutto il programma dell’anno scorso.
Ecco le ore, il tempo, quella grande scommessa, enorme presa per il culo. Ci convinciamo di averne sempre in quantità infinita, poi facciamo i conti con gli impegni, lavoro, scuola, famiglia, tutti che richiedono quell’attimo di attenzione, quel tempo che non hai, perché sei preso da milioni di cose e anche dal vivere.
Noi due riusciamo a ritagliarci il nostro tempo. Poco o tanto che sia, è il migliore che abbiamo.
Mi rendo conto che tra le mattine in radio, dal lunedì al venerdì, tre pomeriggi a scuola, gli altri due dedicati a Rosario e a te per imparare il lavoro da fotografo, mi resta molto poco per studiare. Non che ne avessi eccessivo bisogno, fortunatamente è solo un ripassare gli argomenti dell’anno scorso, ma questo tempo è sempre una goccia nel mare, rispetto al resto.
La notte ormai non mi sveglio più presa dall’ansia e dalla depressione, ma per studiare. Amo le ore notturne, mi concentro meglio, comincio a pensare che tu non abbia torto, io sono una gatta, un animale notturno. Per te la cosa è divertente, per me un po’ meno.
Oggi ho preso il primo permesso dalla radio, incredibile! Ma dovevo. Esame di teoria per la patente. Ho studiato così tanto per questa prima parte che sarebbe stato un insulto non passarlo. La prima a finire, la prima ad aver risposto a tutte le domande in modo corretto. Ora posso buttare o regalare il libro di teoria e quello dei quiz.
Non canto ancora vittoria, no la danza della vittoria me la tengo per il mese prossimo, quando affronterò quello di pratica, con quello avrò meno bisogno di memorizzare nozioni, quelle ormai sono tatuate internamente, da che è arrivato il foglio rosa, ormai guido tutte le sere.
Poche ore fa, sono le tre del mattino ora, mi hai chiesto di riuscire a trovare una notte da passare insieme. Tue testuali parole “voglio una notte intera con te, averti vicina, addormentarmi con te, svegliarmi con te”. Lo voglio anch’io, mi basterebbe una sola notte. No io vorrei una vita con te. Non ho detto che sia impossibile, solo va organizzata bene, perché non posso mentire, non posso dire che dormo da un’amica, quando poi non è così, anche perché se lo scoprono, finisco nei guai. Preferisco non dire nulla, ma non dire palle, quelle disgraziatamente non mi riescono nemmeno bene.
“Ci sto lavorando”. Questa è stata la mia risposta. Tra tutte le cose che amo di te, una tra tutte è la tua comprensione, sia dei miei limiti, sia dei limiti che mi hanno imposto. So che vorresti di più, la vedo la delusione nei tuoi occhi quando arriva il momento in cui dobbiamo fermarci. Come tutte le telenovelas, sempre sul più bello.
Mi rendo anche conto che con te sto andando oltre le mie barriere. Sto iniziando a scoprire che posso essere una parte attiva nei nostri rapporti.
Starcene nudi sul letto di quell’albergo, a raccontarci e a viverci, mi sta aprendo di più. Il sesso per me non è più una cosa di cui avere paura, ma una cosa da amare con te.
Voglio una notte con te, una sola notte. Voglio svegliarmi, voltarmi e trovarti addormentato. Voglio vederti dormire, voglio sentirti mentre entri nei tuoi sogni e anche nei miei.
Sto ascoltando Phil Collins, sempre con le cuffie, lui chiede una notte ancora, One more night, io chiedo una notte, una sola con te. Lo trovo il modo, fidati, lo trovo.
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“Ci vuole un minuto per notare una persona speciale, un'ora per apprezzarla, un giorno per volerle bene, tutta una vita per dimenticarla….” ~ Charlie Chaplin ~
Charlie Chaplin
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Per un’ora d’amore
I Matia Bazar hanno inciso questa canzone qualche anno fa. Oggi per caso l’ho risentita e mi sei venuto in mente tu.
La diretta è finita da ore, la mattinata è passata senza che io nemmeno me ne accorgersi, ero euforica. Il cambiamento è saltato subito agli occhi, avevo voglia di sorridere, di scherzare più del solito, ero pacatamente felice.
Stamattina tu accompagnavi la tua……non so come definire lei e nemmeno come definire me con te, dal medico. Sto qui sul mio letto, con la musica nelle orecchie, l’ora di pranzo è passata, mia zia sta dormendo ed io sto aspettando che suoni il telefono.
Il mio telefono si illumina quando squilla, per cui lo guardo, quasi a pregarlo che arrivi la tua telefonata, intanto con la mente, torno a ieri.
Rivivo nella mia mente tutto, le parole sulla spiaggia, i baci, le parole in macchina, i baci. Continuo a sentire il tuo profumo, continuo a sentire le tue mani, le sento ovunque.
Sto pensando a tutto ed eccolo, il telefono comincia ad illuminarsi, passa dal blu al bianco. Rispondo.
La tua voce è calma, controllata e serena. Mi chiedi di vederci, ti rispondo si senza pensare.
Entro mezz’ora sarai qui. Le domande si affollano, cosa è successo? Come è andata? Cerco di dirmi di pensare positivo, ma sono terrorizzata all’idea di perderti di nuovo, sono qui che conto i minuti. Una doccia al volo, lavo i denti alla velocità della luce, guardo se ho peli da togliere, niente, la ceretta di sabato pomeriggio funziona, mi dovrò ricordare di ringraziare la mia amica Rossella. Mi cambio, infilo i jeans, una camicetta blu. In tutto questo mia zia si sveglia. Sono elettrica e di fretta, sto uscendo.
Esco dalla porta che mancano cinque minuti al tuo arrivo. Sto lì fuori dal palazzo ad aspettare che arrivi, sperando che con te arrivino le notizie che entrambi vogliamo.
Non entro in macchina, mi ci tuffo letteralmente.
Solo rivederti mi fa sentire bene, ti avvicini per ricevere un bacio. Sei sereno e rilassato, quasi felice. Per ora non oso chiederti nulla, aspetto che andiamo via da questa strada. Non mi importa se qualcuno mi vede, non voglio però perdermi nessuna delle tue parole. Sono fondamentali.
Vedo che prendi la direzione della tangenziale, non ti chiedo né dove andiamo, né perché. Quelle domande sono insignificanti per me. Vedo solo che sorridi. Azzardo a guardarti interrogativa. Tu, come se leggessi il mio pensiero, sorridi “nessun bambino. Non è incinta. L’ho piantata in asso fuori dallo studio medico, le ho detto di starmi lontano, di non cercarmi, di non chiedermi niente e di non avvicinarsi più a me. Mi sono voltato ho preso la macchina e sono stato fermo ai Camaldoli per un’ora, prima di chiamarti.”
Sono senza fiato. Senza parole, senza niente da dire. Per me non è certo una novità. Ma oggi sento che dovrei dire qualcosa, invece è come se comprendessi il tuo bisogno di startene da solo. Dopo certe notizie, bisogna stare tranquilli per un po’, cercare di mettere in ordine i pensieri, le cose da fare, quelle da dire. Capire se quella notizia ci ha sconvolti in modo negativo, facendoci soffrire, o in modo positivo. Mi rendo conto guardandoti, che per te è come stato scaricare un intero bancale di massi di granito. Tutti belli allineati sulle tue spalle, ora ti senti libero.
Guardo la strada e mi chiedo dove stiamo andando. Non so perché ma non voglio farti questa domanda, se hai una tua idea di posto per stare tranquilli, a me può solo andar bene.
Vedo che non prendi l’uscita di ieri ma che prosegui dritto. Comincio a preoccuparmi, così azzardo a guardarti interrogativa. Mi guardi e sorridi, “Non ti dico niente, è una sorpresa”. Mi preoccupa il fatto che per te le mie espressioni siano chiare come se scritte su un foglio.
Resto tranquilla al mio posto, stringo solo la tua mano ferma sul cambio. La tua pelle è morbida, le tua dita sono curate, pulite, belle. Prendo la tua mano e me l’avvicino al viso, comincio a baciarti la punta delle dita.
Mi rendo conto che la cosa ti piace, piace anche a me, troppo. Vedo la scintilla maliziosa nei tuoi occhi e mi fermo.
Allontani la mano per scalare di marcia. Siamo quasi arrivati. Non ne sono convinta, però mi rendo conto che stai rallentando, che stai prendendo l’uscita verso Baia Domizia, non ho idea di dove stiamo andando per cui lascio cadere ogni proposito di scoprirlo, mi godo questo momento, con te, la musica e la giornata.
Lo capisco appena arriviamo. Sembrerà squallido, ma a me l’idea piace, eccita. Un hotel. Lontano dal mondo, lontani da occhi indiscreti. Non mi è mai piaciuto farlo in macchina, a parte la scomodità, c’è da mettere in conto anche chi, in una città come Napoli, non si fa gli affari suoi e va a spiare le coppiette appartate. Un hotel, forse per qualcuno sarà anche squallido, per me invece è sinonimo di riservatezza.
Ho già i miei problemi col sesso, se poi ci si mette anche il fatto di essere alla mercé di guardoni, la cosa si complica.
Sorrido. Scuoto la testa e resto spiazzata. Mi hai letto nel pensiero. Ti guardo, non sembri convinto, mi avvicino e abbracciandoti ti dico “Ottima scelta”. La cosa sembra rasserenarti, sospiri e ti viene da ridere.
So che necessitano dei documenti, per cui apro il mio zainetto e ti passo la mia carta di identità.
Le pratiche sono così rapide che non ho il tempo di capire che posto sia. Nella hall, non c’è nessuno, solo noi due.
La camera è al secondo piano. La mia paura comincia a farsi avanti. Tremo come una vergine alla prima volta, anche se vergine non lo sono da qualche anno e a voler essere oneste sarebbe già la terza volta che facciamo l’amore, solo che non è mai stato così. Questo mi spaventa, insieme a tante altre cose, mi terrorizza. I ragazzi con cui sono stata, incluso il mio ex, non si sono mai curati tanto di cosa piacesse a me, restavo lì come una bambola in attesa che finissero. Non contribuivo più di tanto, forse è per questo che tutte le mie relazioni sono finite in modo pessimo.
Per te non è solo per fare l’amore, per te, mi rendo conto è un posto dove poter parlare tranquillo e rilassato, senza curarti del mondo che ti circonda.
Sono ferma, appoggiata alla parete, non riesco a parlare, neanche a muovermi, cerco di guardare ovunque, tranne che nella tua direzione, l’imbarazzo è troppo. Sei tu a rompere il ghiaccio. “stai tranquilla, ti amo troppo per farti del male” ecco, proprio quello che mi ci voleva. Sorrido e cerco di essere normale “sembrerà strano, ma non sono questa grande esperta, per quante storie ci siano state, tre con te, per essere onesta, non ho mai……………”non finisco la frase, le tue labbra, le tue mani sono su di me, qualunque pensiero si azzera, qualunque ansia si perde, emigro in un mondo che appartiene solo a te e a me.
Antonella Ruggiero cantava per un’ora d’amore non so cosa darei…. Io per una vita con te, in questa stanza, in questo albergo, non so cosa darei.
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Il suicidio non é la soluzione, é il problema. Pensateci.
Una psichiatra vent'anni fa.
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Carte da decifrare
Poteva essere una domenica di sangue. Di quelle dove volano parole pesanti accompagnate da mani ancor più pesanti. Mia sorella ed io, non siamo mai riuscite ad andare d’accordo. Per me è come se lei avesse smesso di far parte della mia vita, per lei sono la rovina della sua vita.
Il mio comportamento di oggi, la mia fuga, ha lasciato mia zia e i presenti al pranzo a gestire il problema. Mia zia, è tornata a casa a piedi, mia sorella alla fine, si è chiamata un taxi e se ne è andata con le sue gambette.
Io sono arrivata in perfetto orario al mio appuntamento. Quella sensazione di mattone nello stomaco si è dissolta non appena ti ho visto.
Al solito le mani cominciano a sudare, cerco di essere impassibile ma i miei occhi sono sempre un bel libro da leggere.
Sei lì appoggiato alla tua macchina, mi guardi venire verso di te, vedo l’ombra di un sorriso. Mi avvicino e ti saluto tranquilla.
In macchina me ne sto in silenzio, grazie alla radio, grazie alla musica, riesco a rimettere in ordine i miei pensieri. Dal finestrino vedo mia cugina affacciata al balcone che mi guarda, non accenno a nessun saluto, se lei ti ha riconosciuto o meno, non sono affari miei.
La radio ha deciso di darmi una mano, Ivano Fossati, canta la sua Carte da Decifrare, per lui l’amore è questo, tutto carte da decifrare, e per me?
Questa canzone è come il mio mantra notturno. In questi ultimi giorni, è quello che penso, è quello che faccio.
Scrivo di notte, su fogli di carta. Ti scrivo milioni di parole che non so se leggerai mai.
Se avessi buona la bocca ti parlerei, se non si impigliassero in gola, se non restassi in silenzio a chiedermi sempre cosa dire.
L’amore è carte da decifrare e lunghe notti e giorni per imparare. Cosa?
Sono persa nelle riflessioni su questa canzone, neanche mi accorgo che è finita, ho solo gli occhi lucidi.
Te ne accorgi. Ma non chiedi. Non ancora. Sento che stai mettendo in ordine tutte le domande, tutte le risposte, lo sento perché è quello che sto cercando di fare io, con miseri risultati.
Ti osservo guidare, intanto vedo che prendi la tangenziale, direzione zona flegrea. Direzione spiaggia.
Non riesco ancora a parlare, lascio che la musica della radio dove lavoro dal lunedì al venerdì, ci avvolga. Riconosco il tecnico impegnato alla regia, c’è tutte le domeniche, quando mi vede arrivare sorride, forse oggi sarà preoccupato, non sono arrivata.
Sorrido. La tua voce mi coglie di sorpresa. “Che hai da sorridere?” il mio sguardo si sposta verso di te. “Stavo pensando che come tutte le domeniche, alla regia della radio c’è Mario. Solo lui riesce a mettere Ivano Fossati e dopo i metallica. Sorrido perché si starà chiedendo dove sono finita, visto che le domeniche pomeriggio, sono solita andarmene in radio ad esiliarmi in archivio”
Vedo che ti incupisci per cui aggiungo “La mia intensa vita sociale, la domenica si disattiva. E dopo i pranzi con mezza famiglia, ho bisogno di starmene per conto mio.” Annuisci comprensivo.
Siamo arrivati in spiaggia. Ti propongo di scendere e passeggiare, camminare mi aiuta, i pensieri assumono una forma più semplice. Seguono il ritmo dei passi.
Chiederti come stai, mi sembra la domanda più stupida del mondo. Lascio che sia tu a decidere cosa dire. Io ascolto.
La tua mano afferra la mia, un gesto semplice eppure così complesso, un gesto che dice, “Ti tengo per mano, ti tengo con me, ti accompagno insieme a me.”
Ci sediamo a guardare il mare. Altro immenso amore della mia vita, il mare. Dal blu al verde, dall’azzurro al nero, insieme al cielo, il mare, riesce a completare una scala cromatica.
Continui a tenermi la mano, come se avessi paura che da un momento all’altro io possa andarmene. No. Non me ne vado. Sposto lo sguardo, dall’immenso blu al tuo immenso marrone, quasi nero.
Le tue parole, la tua voce, sono le cose che durante la notte mi aiutano sempre ad addormentarmi, fremo in attesa che arrivino le parole. Le temo anche.
Mi sposto per averti di fronte, guardarti negli occhi, stringo le ginocchia al petto e aspetto. Tu, ti volti verso di me, allarghi le gambe stendendole ai lati, appoggi le mani sulle mie e mi guardi. Faccio un solo gesto, tremante, allungo una mano per spostarti gli occhiali da sole, devo vedere l’immensità dei tuoi occhi, devo decifrare tutto quello che mi dirai, devo capire se mi mentirai o no. Sposto la mano sulla tua guancia, un gesto semplice, con la punta delle dita accarezzo il tuo profilo. Afferri la mia mano e te la stringi contro la faccia, baciando le dita. Ci teniamo così. La mia mano nella tua, i tuoi occhi nei miei, siamo tu ed io su questa spiaggia, il mondo non esiste, un ragazzo e una ragazza che sono chiusi nel loro mondo, impenetrabile a tutti i fattori esterni.
Per ora il silenzio tra noi è il solo padrone, io sono in attesa che tu parli, tu mi guardi. Attendo che tu abbia messo in fila i pensieri, attendo che la tua voce arrivi, sono in attesa di questo momento da settimane. Non l’ho programmato. Sapevo che prima o poi ci saremmo trovati, sapevo che prima o poi ci saremmo chiariti. L’ho immaginato così tanto, che ora che lo sto vivendo, non so ne’ cosa dire, ne’ cosa fare.
Una parte di me, quella fatta di istinti, di poca razionalità, di passione, vorrebbe abbracciarti e baciarti fino a non avere respiro. Quella più razionale, attende di capire chi sarà il primo dei due a cedere all’istinto.
La tua voce è bassa e calma, “La situazione è complicata, la sto risolvendo. Lei dice di essere incinta di me, io sono certo che non è mio. Sto aspettando di andare con lei dal medico, domani. Lei ha capito che nella mia vita c’è un’altra, ha capito che non sono innamorato di lei, non credo neanche di esserlo mai stato.” Continuo a guardarti, l’unica domanda che mi viene da farti è “Perché? Perché allora mi hai detto che l’amavi, che volevi tornare con lei?” I tuoi occhi si fissano nei miei. Ci vedo paura. Aspetto però che sia tu a darmi la risposta “Il tuo ex mi ha minacciato, ha minacciato mia sorella, ho avuto paura. Poi tu mi hai detto che te ne tornavi a Milano, cosa potevo fare? Sono stato con lei pochi giorni, poi l’ho lasciata di nuovo, poi è venuta fuori questa storia, ora devo andare fino in fondo. So che mente, so che sta dicendo una bugia, non ne ho le prove, le avrò domani. Io sono convinto che non ci sia nessun bambino, se anche fosse, non è mio.” Ti guardo ancora. Questa volta sento le lacrime pungermi gli angoli degli occhi. Sposto lo sguardo, lo estendo su tutta l’immensità del mare, su questa spiaggia deserta, sul silenzio che ci circonda.
Riporto gli occhi su di te. I tuoi sono calmi, i miei invece sono pieni di lacrime, le sento ancora lì ferme, pronte a uscire.
Con voce tremante ti chiedo “Che intenzioni hai, Lello?” il tuo sguardo e le tue parole sono decise, forti e senza lasciare alcun dubbio. “Amo te, dal primo momento che ti ho vista, dal primo momento che i tuoi occhi hanno incrociato i miei, ho sentito come uno strappo nella pancia, ho sentito che dovevo stare con te.” Sospiri e continui “Non ho mai provato nulla di così forte e intenso, non sapevo nemmeno come spiegarlo, ora lo so, la mia vita è stata solo un’attesa, un’attesa di te.” Sento le tue mani spostarsi dalle mie e arrivare al mio viso, ora lo so, sto piangendo. Non ho più il coraggio di guardarti in faccia, fatico a respirare. Mi sciolgo dalla mia posizione, stendo le gambe sulle tue e lascio che tu mi abbracci.
Le mie parole sono ferme dentro la gola, vorrei dirti quanto sono disperatamente innamorata di te, ma non ci riesco. Sento la forza delle tue braccia, mi trascini verso di te, mi abbracci ancora più forte, le tue labbra coprono la mia faccia di baci fino ad arrivare alla bocca.
Ed è questo che ho sognato per notti, arrivare al punto di abbracciarti, di sentire il tuo corpo sul mio, di sentire le tue braccia intorno a me e la tua bocca rubarmi l’anima. Ho immaginato, sognato, pensato a questo momento costantemente, l’unica cosa che cambiava era il posto. Non ho mai pensato alla spiaggia.
Ho smesso di piangere i tuoi baci hanno asciugato le mie lacrime. Mi guardi, i tuoi occhi sono così luminosi che potrebbero essere stelle. Non riesco a dirti nulla se non che ti amo. Sorridi, mi abbracci e sento le tue parole dirmi “Allora basta. Ci amiamo, non stiamo separati, stiamo insieme.” Mi sposto di lato, ti guardo dritto negli occhi “Si, stiamo insieme, prima devi sistemare questa cosa, devi esserne certo.” Tu annuisci, hai ben presente cosa vogliono dire le mie parole.
Ci guardiamo ancora negli occhi, il tempo delle mezze parole è finito, ora dobbiamo essere sinceri l’uno con l’altra, ora dobbiamo costruire il nostro rapporto, nessuno ci deve separare, nessun ex e nessuna ex.
L’amore sarà anche carte da decifrare, ma al momento è solo un insieme di baci, di respiri affrettati, di desideri e mani voraci, di tutto quell’insieme che alla fine ci riporta in macchina.
I sedili sono abbassati, tu sei sopra di me, ed io ti sento entrare, non solo nel mio corpo, ma anche nel mio cuore e nell’anima.
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Domenica di Sangue
Gli incubi peggiori non li fai mai quando dormi. Quelli li vivi durante il giorno.
Mi sono addormentata tenendo i bon jovi nelle orecchie. Non mi sono neanche accorta che il cd andava avanti a ripetizione. Nel sonno si sono staccate le cuffie.
Stamattina appena sveglia mia zia mi ha dato il buon giorno e una bella mazzata. Arriva mia sorella. Ottimo, fantastico, posso andare su Marte?
La doccia gelata, però è arrivata alle dieci del mattino, mentre cercavo di recuperare parti e pezzi di me, suona il telefono. Rispondo. La voce di mia sorella, che odio come se fosse quella di satana, mi chiede se la vado a prendere in stazione. Istintivamente le rispondo che deve essersi fatta di sostanze allucinogene pesanti, io non ho la macchina, ho un motorino, un SI della piaggio, un piccolo mezzo.
Il silenzio è pesante. Di solito mia zia se ne va per conto suo, io la raggiungo per ora di pranzo. Il motorino lo uso perché nelle mie intense domeniche, ho sempre un posto dove andarmene. Che sia la radio o Mergellina, che sia passare per pochi minuti sotto casa tua, cosa che tra l’altro potrei fare anche andando in stazione a prendere la mia tortura.
Le chiedo se ha pensato a prendersi un taxi, sarebbe meno problematico per me. Mi scongiura, mi ricatta alla fine delle sue invettive, passo il telefono a mia zia, lascio a lei la gestione del problema, andare a prenderla in stazione, implica poi, doverla riportare lì a prendere il treno, il tutto secondo i suoi maledetti comodi.
Perché mi deve rompere le palle di domenica? Perché non si passa le domeniche in quel dannato paese dove vive con quel tizio? Perché per un suo capriccio bisogna scomodare il mondo.
Sospiro, mi armo di santa pazienza e aspetto il verdetto di mia zia, se mi chiede di farle il favore lo faccio, se mi dice di lasciar perdere, ho pronta la scusa. Alle quattro devo essere in radio per lavorare. Non è vero, ma vista la mia intensa vita sociale, in radio ci vado anche quando non ho da lavorare. Me ne sto lì, in archivio, ad ascoltarmi cd. Mi preparo per il giorno dopo, mi leggo un libro. La mia pace, in quelle stanze, porta la mia mente a non avere crucci o problemi. Oggi però è una giornata particolare. Devo chiamare te alle tre del pomeriggio, con la promessa, velata, di poterci vedere e parlare. Se salta questo impegno, salto io, come se avessi messo i piedi su una mina antiuomo.
Attendo, visibilmente scocciata da questa pretesa di sua maestà la rompicoglioni. Mia zia mi guarda, ha già capito che la mia voglia di andare a prendere mia sorella rasenta lo zero. Cerca di convincermi, so già che alla fine ci riuscirà, per cui, mi vesto rapidamente e mi dirigo alla porta, prima di abbassare la maniglia le dico “io oggi alle tre devo fare una telefonata, probabile che poi vado via, se vuole il passaggio in stazione deve essere pronta in meno di due minuti, altrimenti se la fa a piedi”.
Prendo le chiavi del garage, ed esco. La mia sfortuna, non piove neanche. Cazzo c’è un sole che spacca le pietre. Torno sui miei passi, prendo il telefono e chiamo Rosario.
Gli chiedo se gli va di berci un caffè, in venti minuti posso essere sotto casa sua, accetta.
Arrivo a casa di Rosario, con la faccia che sembra quella di un condannato a morte a cui è stato rifiutato l’ultimo pasto, l’ultimo desiderio. Mi guarda legare la catena intorno al motorino, sorride e mi chiede cosa ho. Sbuffo e gli rispondo “Cosa vuoi che abbia, quando pensavo di potermene stare tranquilla, ecco che arriva mia sorella” lui ride, lo guardo con la faccia di quella che non ci trova niente di divertente, ride ancora di più, mi stizzisco come una gatta a cui hanno tirato la coda, incrocio le braccia e aspetto che gli passi da ridere. Sto li fumante di rabbia a guardare ridere Rosario che neanche mi accorgo che stai arrivando tu.
Sono ancora più furiosa. Stringo di più le braccia intorno al corpo e aspetto che l’attacco di ridarella gli passi, intanto ti vedo, ti avvicini.
Il tuo sguardo incuriosito, si sposta da me al tuo amico, cerchi di capire cosa sia successo. Sbuffo ancora e ripeto la frase di prima, “per darmi immensa gioia in questa domenica, arriva mia sorella, mi tocca andare a prenderla in stazione” sono così seccata che ho la tentazione di piantare Rosario con il suo attacco di ridarella e andarmene. Tu mi guardi e sorridi, “rompi il motorino così non ci puoi andare” non so perché mi viene da ridere. Scuoto la testa e ti rispondo “lo farei se domani non mi servisse per andare a lavoro, siccome io non ho lo chaeffeur, mi tocca tenermi sto mezzo, finché non muore per conto suo” sento la tensione sciogliersi e attacco a ridere anche io. Quando abbiamo finito tutti e tre di pensare ad un modo per boicottare mia sorella, ci avviamo al bar.
Rosario parte avanti prendendoci in giro, sostenendo che sembriamo gli amanti di un qualche dramma ottocentesco, ci guardiamo, poche parole, ma non arriviamo mai a conclusione.
Rido. Non posso fare a meno di guardarti e vedere che anche a te questa cosa diverte. Ti chiedo come sei arrivato a casa di Rosario, mi rispondi “a piedi”. Annuisco, senza pensare ti dico “considerato che devo passare sotto casa tua per andare a prendere l’arpia, se vuoi ti do un passaggio” i tuoi occhi si illuminano, accetti ed io intanto manco di respirare e aspiro il crodino, rischiando di strozzarmi.
Altro giro di risate. Intanto io sono paonazza, non so se ridere o incazzarmi, intanto devo respirare e smettere di tossire.
Usciamo dal bar e scherzando ritorniamo al mio motorino. Ti passo le chiavi, gesto normale, come se fosse tuo o come se fosse una cosa nostra. Tu le prendi senza pensare, ti faccio cenno di guidare. Salendo dietro di te ho la possibilità di abbracciarti, cosa che non vedevo l’ora di fare.
In pochi minuti arriviamo sotto casa tua. Siamo lì fermi a guardarci negli occhi, se fino a poco prima l’atmosfera era leggera ora sembra essersi appesantita. Non so cosa dire ne’ come dirlo. Sei tu a parlare.
“A che ora finisci di pranzare dai tuoi?” ti rispondo che per le tre, massimo tre e mezza ho finito. Sto lì a guardarti ancora pensierosa, non mi allungo neanche a vedere che ore sono, aspetto che tu finisca. Continui come se l’informazione ricevuta fosse quella che volevi, “bene, allora ci possiamo trovare a casa tua per le quattro. Ti vengo a prendere io in macchina, così non devi muovere questo mezzo”. Guardo il mio motorino e ti rispondo che per me va bene. Ci vediamo alle quattro a casa di mia zia. Mi sorge il dubbio, così ti chiedo “ti ricordi ancora dove abito?” tu sorridi e rispondi “ricordo tutto quello che ti riguarda, incluso dove abiti.”
Ora ho lo stomaco che si è andato a fare un giro. Azzardo a vedere l’ora e scopro che sono le 12.00. Panico, come minimo l’arpia è arrivata in stazione e sta già dando in escandescenza, metto in moto e parto, salutandoti con la mano.
Sono talmente euforica per l’appuntamento che gli stramazzi di mia sorella seduta dietro, mi arrivano come se fossero suoni smorzati. Ho applicato uno strato di insensibilità alle orecchie. Insiste che se guida lei arriviamo prima, insiste che non sono capace, che non conosco la strada. Ormai sono a pochi metri da casa mio cugino, accosto e le dico “scendi, siamo arrivate.” Scende seccata, forse si è resa conto che tutto quello che mi ha detto, mi è passato da un orecchio all’altro senza lasciare tracce.
La mia domenica infernale non è ancora finita.
Seduti a tavola a casa di mio cugino, sono interrogata sulle mie attività. La scuola, il lavoro, la scuola guida. Va tutto bene. Questa è la mia risposta, non ho voglia di dare informazioni a mia sorella, nulla che possa usare contro di me. Meno dico, meno sa, meglio sto.
Avviso solo mio cugino e mia zia che alle tre devo andare via, ho un appuntamento alle quattro.
Mio cugino mi strizza l’occhio. Ha già capito che ho in ballo qualcosa. Non gli ho raccontato la storia nel dettaglio, forse l’ha fatto mia zia, ma io no. Sto per dirgli che ci sono sviluppi interessanti quando mia sorella scatta e dice “Non puoi, io come torno in stazione?” ecco lo sapevo. Sbuffo, alzo gli occhi dal piatto e rispondo “non è un mio problema, io ho le mie cose da fare, non posso portarti”. Vedo mia zia agitarsi sulla sedia, mio cugino lanciarmi uno sguardo in tralice come a dire, “non farti fregare”. Tengo duro, tra me e lei la testarda sono io. Le chiavi del motorino sono al sicuro nei miei jeans, per cui, per quanto mi riguarda sono tranquilla. Il suo attacco continua “rimandi il tuo impegno e mi porti in stazione” resto fredda e impassibile, l’unica risposta è “non posso, devo lavorare”. Che se la beve o no, io ho deciso che non rinuncio a niente della mia vita. Soprattutto non per lei.
La solita tiritera su quanto sono egoista, su quanto io abbia sempre avuto tutto dalla vita, sul fatto che i soldi per il motorino me li ha dati mamma, per cui sono io che le devo un favore.
La lascio parlare, intanto continuo a mangiare. Con un occhio curo il mio piatto, con l’altro guardo l’orologio.
Il segnale di mio cugino mi arriva forte e chiaro, “prendiamoci un caffe’” mi alzo, vado in cucina, armeggio nei pensili con la moka, sono le due e mezza del pomeriggio di domenica, giusto il tempo del caffè, di fumare una sigaretta, andare in bagno e scappare a gambe levate.
Organizzo la fuga in modo silenzioso, aspetto che lei si alzi per andare in bagno. Recupero la giacca saluto con la mano i presenti e scappo come se avessi i leoni alle calcagna. Arrivo al mio caro motorino, metto in moto e sono fuori dal cancello.
Come domenica di sangue dura anche troppo. Gli U2 hanno ragione.
Mi sento come il ladro che scappa dopo aver rapinato una banca, con l’adrenalina a mille e un sorriso di scherno che va da un orecchio all’altro.
Per dimostrare che davvero devo andare a lavoro, prendo la strada che porta in radio, è anche la più veloce.
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