#riterritorializzazione
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il ritorno all'ordine editoriale (distributivo) / differx. 2023
vedo, leggo testi non solo riterritorializzati, ma che addirittura assumono come territorio nient’altro che l’editoria. sicuramente non la “letteratura”. (ma forse nemmeno l’editoria, piuttosto la distribuzione. quella che movimenta merci in generale, piuttosto che oggetti di una qualche percezione del…
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La crisi planetaria, che segna la fine della mondializzazione intesa come planetarizzazione del modello consumista, ci mostra che la distruzione del desiderio attraverso il suo sfruttamento consumistico conduce inesorabilmente alla rovina dell’investimento in tutte le sue forme – e, in particolare, nelle forme dell’investimento economico, politico e sociale, che fondano l’economia politica – e che c’è un legame sistematico tra il comportamento pulsionale dello speculatore e quello, anch’esso pulsionale, del consumatore. Il disinvestimento è la conseguenza massiva del corto-termismo neoliberale di cui la crisi rivela da tre anni gli effetti mortiferi.
[…] Oggi, nel 2010, a partire dagli insegnamenti della crisi, ma anche a partire dalle nuove pratiche che si stavano sviluppando ben prima di questa crisi – e contro ciò che ha causato questa crisi –, è possibile ricostituire un progetto portatore di una nuova affermazione del ruolo della potenza pubblica, che consisterebbe nel fare del divenire tecnico un avvenire sociale.
[…] La fine del consumismo è la fine della mondializzazione in quanto essa è consistita essenzialmente nel cortocircuitare e in fondo nel disintegrare letteralmente i territori. Le tecnologie relazionali e reticolari, per quanto siano l’oggetto di una politica territoriale, nazionale e internazionale appropriata, costituiscono invece delle tecnologie della riterritorializzazione. Il territorio è uno spazio di esternalità positive e negative che i suoi abitanti conoscevano – e di cui hanno un sapere irrimpiazzabile. Il territorio è per questo motivo il terreno privilegiato della deproletarizzazione politica – della lotta contro la proletarizzazione del cittadino diventato unicamente consumatore, fenomeno che ha sistematicamente rinforzato il marketing politico, fornitore di prodotti elettorali sempre più mediocri.
[…] La post-mondializzazione non è un ripiegamento territoriale: è al contrario l’iscrizione del territorio in una reticolarità planetaria attraverso cui poter aumentare il numero dei propri alleati ad ogni livello, dalle relazioni interpersonali a quelle interterritoriali.
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Latouche propone otto punti programmatici, noti come le “otto erre”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Rivalutare significa riscoprire valori nuovi e nuovi atteggiamenti andando incontro, inevitabilmente, ad una diversa visione del mondo e della società. In modo affine, una riconcettualizzazione richiede di significare diversamente alcuni concetti come “ricchezza” e “povertà”, “rarità” e “abbondanza”. Cambiare i valori rende obbligatorio un conseguente adeguamento dell’ intero apparato produttivo e della gestione dei rapporti sociali, quindi una “ristrutturazione” completa della società. Questo richiede, necessariamente, l’uscita dal capitalismo e l’inquadratura delle istituzioni sociali in una logica differente. La ristrutturazione della società deve permettere un’adeguata ridistribuzione delle ricchezze e delle possibilità di accesso alle risorse della natura. Uno degli strumenti strategici su cui verte questa trasformazione è la rilocalizzazione delle attività produttive; questa renderà possibile una “riterritorializzazione” dei luoghi e un più diretto contatto con i prodotti e i mercati vicini. La rilocalizzazione proposta da Latouche si spinge fino all’invito all’autoproduzione dei beni. Decrescita significa anche, ineluttabilmente, “riduzione”. La riduzione dovrà toccare, per Latouche, diversi ambiti: energetico, tramite una riduzione dei trasporti e degli scambi commerciali assurdi; ore lavorative, così da riassorbire la disoccupazione e riscoprire un proprio tempo personale; produzione dei rifiuti, quindi anche dell’obsolescenza (programmata e psicologica) dei beni. Per quest’ultimo punto diventano allora indispensabili pratiche di riutilizzo dei beni che giungano a soppiantare definitivamente la cultura dell’ “usa e getta” favorendo, al contrario, il riciclo degli oggetti, quindi il recupero di componenti da ritrasformare in materie prime. Perché tutto questo abbia luogo bisogna necessariamente passare attraverso una “decolonizzazione dell’immaginario”, un cambiamento di mentalità che permetta, prima di tutto, di “far uscire il martello economico dalla testa”[3] per approcciarsi a nuovi valori, nuovi modi di intendere il benessere e ad un nuovo atteggiamento verso la terra e la società. Questa transizione, che non può che partire in modo locale e modesto, richiede il contributo attivo di intellettuali e artisti. Questi, infatti, con la loro creatività, sono capaci di “reincantare il mondo”, in opposizione alla banalizzazione e al disincanto prodotto dalla società dei consumi.
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