#questa canzone è proprio me
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Lettera aperta a tutti quelli che che mi hanno conosciuto.
Passano gli anni ma mi rendo conto che chi sta meglio di me in realtà sta peggio.
Persone che ho sempre voluto vedere felici, che mai avevo visto nemmeno di persona, hanno cercato di usarmi pensando fossi ingenuo, ma la bontà non è sinonimo di ingenuità, di debolezza, io ho aperto le porte a chiunque, perché dentro non smetterò mai di abbandonare quel bambino che sono stato, che condivideva anche i sorrisi che non aveva per sé stesso, ma che non avrebbe passato la notte se avesse saputo che il suo “amichetto/a” il giorno dopo avesse avuto il broncio.
Perché siete “cresciuti” dando spazio all’odio?
Perché anziché promettere ad altri non promettete a voi stessi di ritrovarvi?
Di guardarvi dentro una volta tanto, e affondare nel male che avete condiviso con me, anziché condividere quella parte di “esseri umani” che era ancora insita in voi?
Se foste stati di parola, come a quegli anni, non mi avreste mai abbandonato, così dicevate.
Vedere lasciare soffrire una persona non rientrerà mai nei mei pensieri, anche se fosse qualcuno che, come successo fino all’altro ieri, ha fatto di tutto per mettermi i bastoni fra le ruote, no, perché so che anche il peggiore ha dentro qualcosa di positivo da condividere con chi gli sta accanto, solo che non lo sa, ma anche se fosse, non ci proverebbe minimamente a mostrarlo, l’egoismo è letale.
Parto sempre dal presupposto che non ho lezioni da dare a nessuno, sono anni che passo muto ad osservarvi, non ho mai commentato una virgola, chi sarei per farlo?
È proprio per questo, che ho preso in mano una penna e ho iniziato a sfogare tutto ciò che avevo dentro, quello che avrei voluto dirvi, ma sarebbero stati guai a raccontarvi quello che provavo, perché un consiglio oggi è visto come una condanna.
Eppure vi ho sempre lasciato sfogare con me, vi ho sempre ascoltato, anche quando ne avevo le palle piene, avevo i problemi a casa con mia mamma e la sua maledetta malattia, io per anni non sono esistito per voi, ma non me ne vergogno, ho ammesso anche io i miei sbagli, ho chiesto scusa, anche quando non non mi andava di farlo, e soprattutto quando non c’era motivo per scusarmi, ma pensavo: “Magari domani sanno che potranno sfogarsi nuovamente con me, si sentiranno più liberi dal peso che questa società ci scaglia addosso”.
Quanto male mi son fatto!
Ma rifarei di nuovo tutto, vi verrei di nuovo incontro, vi vorrei vedere sorridere solo a sentirmi parlare, vi vorrei tutti più uniti, come da piccoli ricordate?
Non c’era bimbo/a che stesse solo.
Perché qualcuno andava a recuperarlo, anche a costo di restarci solo assieme.
Ma abbiamo dimenticato, come si dimentica la storia, stessa identica cosa.
Di voi ricordo ciò che dicevate tutti: “Mattia non cambiare non diventare come gli altri, hai qualcosa in più che non riuscirò mai a spiegarti”, questa frase me la ricordo ogni mattina quando mi sveglio, da quanti anni ormai? Troppi.
Permettetemi una domanda?
Perché voi siete cambiati?
Per piacere a gente che poi vi ha fatto lo stesso gioco che avete fatto con me?
Perché farsi del male da soli?
Perché arrivare a non guardarsi più in faccia?
E poi c’è ancora qualcuno che pensa di cambiare il mondo?
Sì, uno ce n’era, il sottoscritto, ma non voleva cambiare il mondo, solamente la sua generazione, il mio sogno più grande, che continuerò anche se con molto sconforto, a portare avanti, “UNO CONTRO TUTTI”, chissà se ora qualcuno, capirà/collegherà tante mie frasi passate a cosa fossero collegate.
Siete riusciti a darmi contro per una canzone su ciò che ho vissuto sulla mia pelle, e sono stato zitto, scendeva una lacrima, ma stavo zitto, so che qualcuno ancora l’ascolta e sappiate che vi leggo spesso nei commenti, e mi fa sorridere il fatto proprio da chi mi “odiava” ingiustificatamente alla fine è finito a farmi i complimenti, ma no, io non voglio queste cose, voglio solo capire perché un giorno disprezzate e l’altro apprezzate una persona come nulla fosse, ma non sapreste spiegarmelo, ne sarei sicuro.
Io ho tanti di quei testi scritti negli ultimi anni, che spesso mi faccio paura da solo, non mi rendo conto di quanti ne scrivo, di quante cose il cuore comunica alla mano che spesso trema, come non volesse accettare quelle cose, ma deve, dobbiamo, accettare tutto in questa vita, ma io in primis non vorrei mai.
Come non ho mai accettato le malattie di mia madre, la morte degli unici amici che avevo fin da quando ero adolescente, che sono gli angeli in terra che hanno evitato quel pensiero maledetto che avevo di togliermi la vita…ma qui mi fermo, perché ognuno di noi non accetta il passato, quindi si blocca, respira, e sa, che se continuasse a pensare a tutto ciò, prima o poi sarebbe lui stesso ad andarsene.
Purtroppo la rabbia generata dalla mia generazione, da chi è passato per la mia anima, e dai quali ho voluto assorbire, pur di evitare di vedervi soffrire ancor di più, mi ha ucciso dentro.
Voi tutti qui, fuori da qui, avete visto Me per quel poco che mi è rimasto da far vedere esteriormente, con un maledetto sorriso che non farò mai mancare a nessuno, gentili o meno che siate con me; quelle poche volte che stavo al centro estivo le animatrici mi dicevano che un mio sorriso giornaliero, era la carica per tutti i ragazzi dello staff, e chi sono io per tenere musi?
Dentro non esisto più, da anni, ma sto cercando di recuperarmi, pezzo per pezzo, forse non mi basterà il resto della vita, ma voglio ritrovarmi anch’io.
Il “numero uno” non esiste, qui dietro al mio essere, c’è solo tanta fragilità, tanta voglia di donare amore, un po’ di spensieratezza, anche se momentanea, di rialzare chi è a terra e spronarlo a rigenerarsi, assieme, mai da soli.
Questa società c’ha fatto sbranare fra di noi, fatto credere che uno potesse essere meglio dell’altro, che potesse avere tutti ai suoi piedi, e noi ci abbiamo creduto, dai più piccoli ai più grandi, passando da un social alla vita reale, visto che ormai non c’è più differenza fra quest’ultime.
Voglio essere sincero con me stesso fino all’ultimo, anche a costo di perdere qualsiasi cosa ma mai la dignità, quindi risponderò a semplici domande che mi son state fatte negli ultimi anni, alle quali non ho mai voluto dare risposta.
Cos’è l’amicizia?
Puro opportunismo.
Cos’è l’amore?
A 16 anni ti avrei risposto, quello che ha verso di me mia madre, piange, urla *silenziosamente* dai dolori, passa settimane a letto, ma rinasce quando mi vede felice, anche se solo per un giorno.
Oggi?
La stessa cosa.
Il significato del termine “amore” mi ha aperto gli occhi mentre pensavo inconsciamente di viverlo, ma andando avanti si inciampa negli errori degli anni passati, e l’amore per giunta non è mai stato amore, è sempre quel qualcosa con una data di scadenza, una parola inventa per stupire un pubblico di creduloni, sii sincero, per quante forme possa avere l’amore, come può essere chiamato tale, se siamo nati con l’odio e il disprezzo reciproco dentro?
E tu come ultima cosa mi hai domandato perché scrivo?
Perché tutto ciò chi mai avrebbe avuto il coraggio di ascoltarlo?
Vi abbraccio con tutte le mie paure, spoglio di tutto ciò che negli anni non ho saputo tenermi stretto, consapevole che domani potrei non esserci più, e sicuro di aver raccontato tutto di me, perché l’oscurità non mi appartiene, e so di essere stato messo al mondo con uno scopo;
come ognuno ha il suo, io ho il mio, quello di far farvi splendere nel vostro piccolo, anche se per poco, assieme a me.
Chiudo mandando un abbraccio forte a mia mamma, il delfino che mi porto sempre in tasca da quando ero piccolo, per ricordarmi che non sono mai solo, anche nei momenti più disperati, mio padre, che nonostante le voragini d’incomprensioni conta su di me, per i vostri sacrifici, mi metto dalla vostra parte e riconosco tanti miei errori ingiustificabili, un abbraccio forte a tutte quelle persone che conosco e ho conosciuto che stanno passando dei brutti momenti, del resto non c’ha mai uniti così tanto il male quanto il bene…e a te che sei arrivato fin qui, l’unica cosa che chiedo sempre a tutti dopo un semplice ma per molti ormai banale: “Come stai”?! Ricordati di farti un sorriso appena puoi.
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Sono giorni in cui la città è bellissima in modo sfacciato e con un freddo quasi frizzante, forse la parola che cerco qui è croccante come le birre quando è estate piena.
Vado al cinema e usiamo sempre questi posti qua che sono bellissimi, in fondo, tranquilli, si vede tutto e non hai nessun* dietro.
Sto cercando di capire anche passivamente cosa posso fare veramente in questa città e forse sono tante cose e devo scegliere che vestiti indossare, sarò un'ambientalista sfrontata o una tesserata a un partito? Vedremo, intanto sono sicuramente una studentessa e il laboratorio che seguo mi piace tanto, anche la mia collega M mi piace proprio e vorrei tanto stringere di più, ma sono timida e mi emoziono troppo quando le parlo tanto che non riesco a dirle niente di troppo sbottonato o frasi più carine, di complimento, senza arrossire.
La psicologa è una manna dal cielo davvero anche se vorrei riuscire a gestire la terapia in modo da sfruttare al massimo ciò che mi può dare, penso che sia tutto in stallo fino a quando non finirò questo percorso
In questo periodo ascolto tanto Guccini e pensavo che forse anche io se avessi previsto tutto questo forse farei lo stesso e anche io oltretutto sono nata fessa.
Comunque sto ascoltando tantissimo Canzone delle domande consuete che è stupenda (tanti anni che son qui ad aspettar primavera, tanti anni ed ancora il pallone) e E cerca 'e me capì che forse non vale la pena di spiegare, ha molto più senso ascoltarla.
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Ogni anno mi sforzo sempre di più per fare degli auguri originali, non tanto per farvi esclamare 'Oh! Wow! Groovy!' ma più che altro per condividere con voi in modo non scontato la gioia del ritrovarsi, scevra - almeno per me - da qualsiasi connotato religioso.
Potrei dirvi che è stato un anno faticoso e difficile ma se da un lato mi parte subito il coro greco di baccanti che intonano 'ESTICAZZI!' dall'altra mi rendo conto che invece è proprio così... e per così intendo
ESTICAZZI
Evidentemente possiedo molta di quella dote psichica che durante la pandemia era molto inflazionata come termine (quella che fa rima con delinquenza) e in più un innato senso di stoico martirio che mi chiude la bocca nell'attimo in cui mi sto per lamentare e poi vedo che puntualmente l'interlocutore sta messo peggio di me.
Questo è un grosso errore o perlomeno, se portato agli estremi ti strippa emotivamente come una pentola a pressione saldata ma riconosco i miei limito e - mi dico - perlomeno non faccio a gara di sciagure per essere citato nel remake dei Miserabili.
Sto rivalutando il concetto di salute mentale perché dopo averne parlato parecchi ad altri mi sono reso conto che, nel mio caso, la salute mentale non necessita di cure ma di salvaguardia.
Devo scegliere con cura le mie battaglie.
E sebbene battaglie evochi una presunta contrapposizione tra me e chi si frappone davanti a ciò che voglio ottenere, in realtà lo scontro avviene sempre e solo nel mio cuore ed è per questo che in un prorompente scoppio della succitata originalità voglio, come l'anno scorso, ringraziare ancora @autolesionistra che sempre in modo involontario mi ha restituito il senso di quello che provo, parlandomi di una canzone che mi ha fatto fare pace con una parte di me che mi accompagna da più di 50 anni.
Ve la voglio riproporre, scegliendo la versione sottotitolata (ha un testo molto denso e fitto) ma credetemi se vi dico che per quanto dolorosa, molti potrebbero riconoscercisi e proprio perché dolorosa potrebbe sembrare strano che io ve la faccia vedere (non ascoltare... vedere) per augurarvi buon natale e serene feste.
Poi vi dirò il perché...
Il motivo è che siamo tutti piccoli e persi nella continua ricerca di calore e conforto, quotidianamente tormentati dal ricordo di ciò che non è più e nella flebile speranza che il domani abbia meno nubi.
Eppure si va avanti lo stesso, con l'enorme peso dei nostri vuoti e la fragile leggerezza di inutili bagagli, perciò vi dico di volervi bene, di voler bene anche a quella parte di voi che disprezzate perché se siete qua a leggere ciò che scrivo è anche per il desiderio di fuggire da un qualcosa che invece vi seguirà per sempre.
Siamo esseri umani... e se questo a volte può sembrare una dolorosa dannazione io credo che invece sia un degno tributo a chi non è più e un meraviglioso lascito a chi sarà dopo di noi.
Ok... tutta 'sta roba omerica per augurarvi Buon Natale (!) ma prima di andare a filtrare il brodo per i cappelletti vi lascio un'ultima cosa
E se vi debbo dire ancora una cosa, è questa: non crediate che colui che tenta di confortarvi viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare queste parole.
Rainer Maria Rilke
<3
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Storia Di Musica #356 - Lou Reed, Berlin, 1973
L'ultimo libro del 2024 è stato lo strepitoso Kairos di Jenny Erpebeck, ambientato nella Berlino Est a fine anni '80, tra gli ultimi anni della DDR e la transizione verso la riunificazione. Quel libro mi ha ispirato per la prima serie di dischi della Rubrica del 2025, che sarà dedicata a dischi che hanno a che fare con Berlino. Due tra i più famosi, Heroes di Bowie, fulcro della cosiddetta Trilogia Berlinese (insieme a Low e Lodger, in verità in primo solo in parte registrato lì, il terzo pensato a Berlino ma finito fuori dalla Germania) e Achtung Baby! degli U2 sono stati già protagonisti delle storie di musica. Ma fortunatamente la città tedesca è stata fonte ispirativa per altri grandiosi capolavori musicali.
Il disco di oggi parte da un assunto: dopo che ci aveva quasi rinunciato, e proprio grazie a Bowie era diventato di nuovo leggenda, Lou Reed è ormai un artista di successo oltre la leggenda che lo accompagnava dai tempi dei Velvet Underground. Dopo Trasformer, ha una necessità particolare di fare un disco particolare, personale, ardito. Lo spunto glielo dà il giovane produttore, che diventerà uno dei più grandi di sempre, Bob Ezrin, chiamato dalla RCA a districare le idee di Reed. Ezrin chiede a Reed: tu scrivi grandi canzoni, che però non hanno mai una fine. Che fine hanno fatto per esempio i protagonisti di Berlin (canzone del primo disco solista, Lou Reed, 1972?). Reed fa sua questa osservazione e costruisce un concept album che racconta la storia dei due protagonisti di quella canzone, Jim e Caroline, coppia di americani che vive a Berlino. Una coppia che vive una vita drammatica, oscura, terribile tra droghe, abusi, maltrattamenti, figli non accuditi. Un viaggio nelle tenebre, nella disperazione, nel caos psicologico (con molti accenni autobiografici) di uno dei maestri narratori di questi viaggi, ricordo a tutti che Reed si laureò cum laude alla Syracuse University in Letteratura Americana.
Musicalmente, Reed in Berlin, che esce nel 1973, registrato tra Londra e New York, ripesca nel suo archivio di bozze, scritte anche per i Velvet Underground, e costruisce con Erzin canzoni dai grandi arrangiamenti, con archi, fiati, accompagnato da un gruppo di musicisti eccezionale: l'ex Cream Jack Bruce, Tony Levin mago del basso, Ainsley Dunbar che fu nel gruppo di Frank Zappa, Steve Hunter e Dick Wagner chitarristi di Alice Cooper, e i fratelli Brecker ai fiati. Berlin, che apre il disco, ha perfino un Happy Birthday, sciorina poi nel suo pianoforte quella sensazione di tristezza e angoscia che, volutamente, permea la storia di Jim e Caroline. Lady Day, un omaggio a Billie Holiday, morta prematuramente per abuso di droghe e alcol, è metafora di ciò che caroline va alla ricerca. Men Of Good Fortune (Men of good fortune often wish that they could die. While men of poor beginnings want what they have and to get it they'll die) è l'amara constatazione della loro condizione materiale. How Do You Think If Feels è il brano più autobiografico di tutto l'album: c'è la drammatica paura di Reed di dormire, dovuta alle serie di elettroshock a cui i suoi genitori lo obbligarono a sottoporsi da adolescente, per curarlo da una latente omosessualità. Oh Jim, è la versione di "autoanalisi" che Jim fa a sè stesso, cosa che Reed fa fare a Caroline in due brani, Caroline Says e Caroline Says II, che partono da una canzone pensata per i Velvet, Stephanie Says: soprattutto la seconda è un pugno nello stomaco per ciò che racconta Caroline: Caroline says\as she gets up off the floor\Why is it that you beat me\it isn't any fun (...) But she's not afraid to die\all her friends call her "Alaska"\When she takes speed, they laugh and ask her (...) as she gets up from the floor\You can hit me all you want to\but I don't love you anymore. Da un lato l'umiliazione sociale (La Gelide Alaska, così la chiamiavano gli amici), dall'altro l'abuso fisico. The Kids, così straziante per il pianto dei bambini, ci descrive la squallida situazione familiare in cui vive la coppia, con i bambini che vengono portati via alla coppia. Il finale è potentissimo: The Bed parte dal suicidio di Caroline, Jim prova una struggente nostalgia per lei e la "racconta" elencando tutti i suoi oggetti rimasti: la cronaca ci dice che in quelle stesse settimane la prima moglie di Reed, Bettye Kronstad, tentò un suicidio tagliandosi le vene. Il disco si chiude con Sad Song, che è tra il dolore e l'assoluzione (I'm gonna stop wasting time, somebody else would have broken both of her arms).
Il disco all'epoca fu osteggiato dalla RCA, che si convinse a produrlo solo perchè Reed firmò un contratto per altri due dischi (che furono un live, il fantasmagorico Rock'N'Roll Animal del 1973, e il glam rock sbiadito di Sally Can't Dance nel 1974), e snobbato da pubblico e critica, che lo bollò come un disastro. Con il tempo, le continue trasformazioni di Reed e nella generale riscoperta della sua musica (che ha una data precisa, cioè quando gli U2 lo chiamano a cantare Satellite Of Love durante gli show dello Zoo Tv Tour) il disco viene riconsiderato uno dei suoi grandi capolavori, nonostante la sua dolorosa e tragica natura. Che tra l'altro fece una vittima illustre: Bob Ezrin ebbe un esaurimento nervoso dopo le registrazioni, probabilmente per aver osservato troppo tempo quella oscurità, ma avrà comunque una carriera stellare, a fine decennio produrrà un altro concept leggendario, The Wall dei Pink Floyd. E un verso di The Kids, Oh, I am the water boy, the real game's not over yet\Oh, but my heart is overflowin' each and everyday, arriva fino ad un ragazzo scozzese, Mike Scott, che chiamerà la sua band The Waterboys.
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Diario chiedeva: quale testo che hai letto ti ha ispirato profondamente?
Take control of your mind and meditate
let your soul gravitate to the love
Non è proprio un testo è più un verso di un testo di una canzone che è “were is the love”. La prima volta che l’ho ascoltata dopo tanto tempo ho fatto realmente caso al testo e quando è arrivato questo verso mi sono quasi messa a piangere. È una frase così vera che penso in pochi siano in grado di capire realmente, come si spiega a chi non pratica l’amore cos’è l’amore? E quell’amore non è inteso solo come amore romantico verso qualcuno, la maggior parte della gente probabilmente cade in errore anche in quello. Per me questa frase intende un amore che va ben oltre, è un amore enorme che parte da te e si irradia intorno a te cercando di scaldare quanto più possibile, perché hai imparato che la prima cosa è amarsi, ma non amarsi in maniera egocentrica ed egoista, non quello che ti fa vantare con gli altri dei tuoi traguardi e delle tue vittorie ma anzi quello che le tiene per se e che sapendo bene di avercela fatta sa anche che riuscirà a salire il prossimo gradino e che quindi con lo stesso entusiasmo fa il tifo per gli altri che magari non sono ancora in grado di amarsi a pieno o che semplicemente non vedono quello che potrebbero realmente fare. Penso che se il mondo lavorasse ed operasse con queste condizioni vivremmo in un posto migliore.
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Come tutti gli anni, mi ritrovo su questi canali, il giorno dopo il mio compleanno, a ringraziare pubblicamente tutte le persone per gli auguri ricevuti.
Come tutti gli anni mi sono sforzato di rispondervi singolarmente, perché non esiste risorsa più preziosa del tempo, e averne sprecato un po’ per me mi rende orgoglioso e felice, ma anche debitore nei vostri confronti (minchia quanto sono pesante).
Come tutti gli anni, mi lascio andare ad un flusso di coscienza, per esorcizzare il tempo che scorre, e quest’anno la carta d’identità dice 39, zio pera!
Ho in mente da giorni una canzone, che grazie a san remo, è tornata prepotentemente nelle mie playlist.
La canzone è “sogna ragazzo, sogna” di Roberto Vecchioni; il primo verso di questa canzone recita
“E ti diranno parole rosse come il sangue, nere come la notte
Ma non è vero, ragazzo, che la ragione sta sempre col più forte”
Questo verso mi ha fatto riflettere su come non debba essere possibile soccombere a chi sbraita di più, a chi fa più rumore (e come mai sto parlando proprio di Giorgia Meloni?), a chi si deve per forza dimostrare virile in ogni situazione.
Questa verso mi ha fatto riflettere su quanto oggi ci sia bisogno di non esasperare sempre più l’io, di non dover raggiungere la vetta a tutti i costi, di non poter accettare un fallimento.
Questo verso mi ha fatto riflettere su quanto, oggi più che mai, ci sia bisogno di gentilezza, di ascolto, di darsi agli altri.
Credo sia una cosa fondamentale guardare a chi ci è davanti, anche per una semplice questione migliorativa verso sé stessi, ma questo non deve mai prescindere dal guardare chi è dietro di noi, chi sta peggio, chi ha bisogno di aiuto.
Singolarmente valiamo poco, come comunità abbiamo possibilità di sopravvivenza.
L’augurio che personalmente mi faccio è di non perdere mai la capacità di ascoltare gli altri, di avere pazienza sempre di più verso mio figlio, di essere sempre più unito con mia moglie.
Vorrei non perdere mai la capacità di ridere e di vedere il sorriso negli altri.
State vicino a questo ragazzino che sta invecchiando
Vi voglio bene
Antonio
Ps nella foto non sto dormendo, stavo solo elaborando tutto questo che ho appena scritto
Peace.
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a me la canzone di Geolier piace, è nella mia top5, e l'ho messo pure in tutte le mie squadre al fantasanremo (e di un paio è pure capitano), però il primo posto ieri non se lo meritava.
è stata una serata molto bella, con esibizioni pazzesche e ne potrei citare almeno 10 migliori della sua. la cosa che ho apprezzato di più è che molti artisti hanno deciso di rendere omaggio alle loro origini ed è una cosa che mi commuove sempre (anche perché questo amore per la propria terra io non riesco proprio a provarlo e spero davvero di riuscirci un giorno).
il problema dei fischi a Geolier non è tanto che ci siano stati mentre c'era lo schermo abbassato e veniva rivelata la classifica (anche lì a me è scappato un "se vabbè").
il problema è stato che i fischi sono continuati anche quando l'hanno fatto tornare sul palco per cantare di nuovo. lì è stato un gesto veramente scorretto.
l'artista non c'entra niente ed è stato davvero fuori luogo mortificarlo così.
non credo nel caso specifico di ieri si tratti di antimeridionalismo, però non si può negare che gran parte dell'astio nei confronti di Geolier nasca da questo fenomeno.
non dobbiamo dimenticare le domande dei giornalisti che mettevano in dubbio la sua partecipazione in gara con una canzone in napoletano (quando ci sono sempre state canzoni in dialetto) e i vari commenti non proprio felici che girano su tutti i social che sono chiaramente antimeridionali.
perché un conto è dire che la canzone non piace, un altro è dire che la canzone non piace e che i napoletani sono indegni e che il Vesuvio debba spazzarli via tutti.
detto questo, io credo che nella serata delle cover il voto spetti all'orchestra, com'è sempre stato e non condivido questa scelta di far valere anche qui il voto del pubblico.
mi sa comunque che vince Geolier, alla fine la nave del Napoli quest'anno non la possono usare per il campionato, tanto vale che la rispolverano per questo anziché stare in garage (o dovunque stiano le navi che non si usano).
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Prima di tutto cerca di avere rispetto perché dire “fa cagare” è veramente da maleducati. Il fatto che questa canzone possa piacermi a me e non a te non implica che, se a te non piace, allora è brutta e non dovrebbe piacere a nessuno. Non significa che tu abbia ragione e che quindi chi dice che è bella abbia torto.🐺
Ma dove hai letto “non piace a nessuno” e che a chi piace è nel torto? ho detto che fa cagare e continuerò a dirlo e per me non si merita la vittoria perché ce ne sono di più belle fine. Ripeto STACCE.
Poi zio è la finale di Sanremo ma proprio stasera devi rompere il cazzo eh dai. Non leggermi e fine.
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con un bel po' di ritardo, partecipo anche io:
when you get this, list 5 songs you like to listen to, publish. then, send this to 10 of your favourite followers <3
ringrazio @der-papero per il gentile tag (di 12 giorni fa!), e procedo con le 5 canzoni che al momento infestano la mia playlist giornaliera (spero che le vostre aspettative siano a terra):
il duo agar agar lo conoscevo dai tempi dell'università (quindi una vita e mezza fa), ma questa canzone l'ho ascoltata per la prima volta recentemente, di notte, mentre guidavo in autostrada nella nebbia della pianura padana. una vera esperienza.
immaginate la mia meraviglia quando ho scoperto che stromae avrebbe fatto una canzone per arcane.
questa mi fa un po' incazzare, perché l'ho scoperta ahimè da un tiktok. ho passato ore intere a lavoro con questa canzone in loop. temo che sarà tra le mie più ascoltate di spotify wrapped
questa è quella che ascolto più spesso nei tragitti rapidi in macchina.
questo disco me lo sono proprio gustato. questo è il brano che attualmente sto ascoltando di più.
e questo è tutto.
prendendo spunto da chi mi ha taggato, taggo i miei ultimi mutuals (anche se temo che lo abbiano già fatto tutti 💔 nel caso, ignorate e passate avanti); liberissimi di farlo e di taggarmi anche se non interpellati! così vi rubo un po' di canzoni
@idettaglihere @yellowinter @unpensieroallavolta @tettine @brontosaurotriste
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Buonasera mia cara, questa mattina quando mi sono svegliato percepivo molta stanchezza. Durante la colazione, il latte che si mescolava ai miei cereali tristi, mi ricordava quando da bambino prima di andare a scuola la colazione era il momento più bello della giornata vicino a mamma e papà.. Ora invece, sono solito fare colazioni che non mi facciano sentire in colpa del mio aspetto fisico e che siano molto veloci affinché io abbia abbastanza tempo per fumarmi una sigaretta, pensando e ripensando alla mie giornate. Oggi 28 novembre è stata una giornata piena di nebbia e angoscia, andavo a lavoro, mi sentivo molto strano, pensa che non riuscivo nemmeno a scegliere la canzone adatta durante il tragitto. Mi sentivo come se avessi 200 personalità dentro, odio il ripetersi consequenziale delle mie giornate lavorative ma ne sono anche strettamente ossessionato, pertanto mi chiedo spesso, se non facessi questo, cosa farei? cosa sarei? Riuscirei lo stesso ad essere cosi cattivo e crudele con me stesso, ma allo stesso tempo cosi dolce e umano con i pazienti? Quanto valore sto dando a questo scorrere del tempo? Sinceramente, ne sono molto preoccupato. Sai quando me ne accorgo, mia cara? Proprio ora che sono in questo letto, esausto, consumato, con molti nodi che si aggrappano fortemente alla mia gola, quasi togliendomi il respiro. Ho molta paura di quello che verrà. Nella mia testa una frase soggiorna gli scaffali del mio cervello e non riesco a fare a meno di scriverla ovunque o di dirla in ogni mio discorso "Amor fati"... credo davvero che esista un amore per il destino, che non sia crudele...
Ora mia cara, ti lascio riposare, andrò a fumare una sigaretta nella nebbia e dopo, dormirò facendo finta di poggiare delicatamente la testa su di te, invece è solo il mio cuscino preferito..
Dolce notte, a presto.
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Sabbia sulle cosce
Sabbia sulle cosce. Gratta, gratta, a volte fa male, ma è così piacevole! L'ho sempre adorata. Stare lì, così, accovacciata nella buca sabbiosa che ho ricavato tra una sdraio e l'altra, mi fa sentire un animale. Una creatura del mare, tipo una foca, o un granchio. Una primitiva. E, oh mamma, quanto mi piacerebbe esserlo davvero. Un ammasso di cellule, ciccia, ossa e muscoli con nessun altro scopo se non quello di vivere.
E giocare, ovviamente. Selvaggia, rumorosa, sufficiente a me stessa. Invece ho dieci anni e quando questa estate cederà il posto all'autunno inizierò la scuola media. Ne ho una gran voglia, a dire il vero! È roba da grandi, un salto verso il domani, un'idea bellissima e nuovissima. Qualcosa che fa un po' paura, sì, ma che mette a disagio solo perché ancora non la conosco. Ne sono certa. Come quella sera di qualche mese fa, quando i miei stavano guardando "The Village" e io sarei già dovuta essere addormentata, al sicuro nella mia cameretta. Solo che non lo ero. Avvolta nel pigiamino blu, ero scivolata silenziosa come un furetto dal mio letto al corridoio; da lì, avevo provato a fare capolino dalla mezza parete che si affaccia sulla sala. Era tutto buio, ma le facce di mamma e papà erano illuminate dalla luce rossastra del film.
Mi ero messa sulla punta dei piedi per vedere lo schermo anch'io. Ed eccolo lì, il mostro di "The Village"! Era sbucato all'improvviso proprio mentre mi stavo sporgendo per curiosare. Ero tornata nel lettino con la coda tra le gambe, spaventatissima. Ma in realtà non avevo visto chissà cosa, giusto uno scorcio. Un microsecondo di quel mostro prima di scappare via. Mi aveva spaventata, molto, e mi era rimasto in testa per tutta la settimana, con quel suo mantello rosso, gli artigli e le zanne.
L'avevo anche disegnato, a un certo punto, da tanto era forte il bisogno di buttarlo fuori dalla mia mente! Mamma aveva visto il disegno e se n'era accorta. Mi aveva chiesto se per caso volessi parlarne e rivedere quella scena insieme a lei e papà, per far andare via la paura. Avevo detto sì e così avevamo fatto. Wow, a vederlo bene quel mostro non faceva per nulla spavento. Anzi, mi era sembrato quasi carino. Avevo sempre avuto un debole per le creature bizzarre. Sicuramente poteva venirne fuori un bel costume di carnevale per l'anno successivo.
Ecco, sono sicura che andare alla scuola media sarà proprio così. Mi sento nervosa e preoccupata, ma solo perché devo abituarmi e guardare tutto da vicino per la prima volta. Sarà fantastico; una cosa da grandi.
Sabbia sulle cosce. Mi metto a sedere e continuo a scavare, a giocare con la poltiglia sabbiosa che mi si forma nelle mani che ho appena immerso nel secchiello. Stravaccato sulla sdraio più vicina, c'è il nonno. Legge il giornale, borbotta qualcosa che non sento — c'è talmente tanto rumore lì, tra coccobello e la musica sparata a tutto volume dalle casse dei bagni 52. Sull'altra sdraio, la nonna. Si abbronza, i grandi occhiali da sole leopardati le coprono quasi tutta la faccia.
Sono loro i miei compagni di vacanza a Riccione. Mamma e papà sono ancora a casa, ci raggiungeranno più avanti. Mi mancano un po', ma diventare grandi è anche questo, no? Cavarsela da soli. Come una primitiva. Come una foca, o un granchio.
E, in fondo, non è per nulla male. Anche se…
Gratta, la sabbia gratta. Ora un po' più di prima, la sento sfregare sulla pelle delicata dietro le ginocchia: mi dà fastidio. La mia schiena è sudata. Da quanto tempo sono lì tutte quelle goccioline di sudore? Boh. Ma quanto rumore!
Pusch mi, en den giast tuch me, til ai chen ghet mai, satisfachton, satisfachton…
Quella canzone tutta agitata e dal suono che mi ricorda un po' le caramelle acide mi piace anche, parecchio, ma è tipo la quinta volta che oggi la mettono su e adesso inizia a trapanarmi le orecchie come non aveva mai fatto prima, mi entra giù nel collo e mi fa tremare le spalle. È troppo.
Quella sensazione pulsante corre da lì fino alla pancia e poi un po' più in basso, verso un punto a cui non penso quasi mai, se non per gioco o quando guardo i documentari sugli animali e a un certo punto il narratore spiega come avvengono gli accoppiamenti e le nascite dei cuccioli. Una piccola fitta proprio al centro, poi quel dolore sconosciuto si sdoppia e si sposta verso i fianchi. Ma come è possibile? Non mi era mai successo prima che il mio corpo avesse male in più punti contemporaneamente, non in quel modo.
Oh. Forse ho capito.
"Nonna?"
"Che c'è, Martinina?"
"Devo andare in bagno, posso? Mi scappa la pipì."
"Vai, vai."
Ma non è vero che mi scappa la pipì. Le toilette sono all'ingresso della spiaggia, proprio vicino agli spogliatoi e alle cabine dove William il bagnino mette tutti gli oggetti smarriti che ritrova sulla spiaggia dopo l'orario di chiusura. Entro in quella libera: dentro c'è odore di caldo, sabbia bagnata, sudore e acqua sporca. Non è certo gradevole, ma non direi che sia una puzza brutta; fa anche quella parte dell'estate e di Riccione. Mi abbasso la parte sotto del costume e mi siedo sul gabinetto. È tutto così buio, ma un po' di sole filtra in linee sottili dai tagli verticali della porta verniciata di bianco: guardo l'interno del costume.
Sangue. Sangue? Una macchiolina tutta rosa, pallida, sembra quasi un gioco di luce. Ma non è un gioco, è sangue vero. E il rosso sulla carta igienica che uso subito dopo me lo conferma.
Le mie cose. Urrà! Viva! Wow! Sono felicissima! Che emozione! Sono appena diventata una signorina. Mamma me ne aveva parlato. E anche nonna, anche se in un modo un po' da persona vecchia. Non sono impreparata, ho più o meno capito di che cosa si tratta e che cosa significa quando arrivano. Sapevo che le avrei avute anche io, prima o poi, ma mi sembrava una cosa fin troppo da ragazza grande: un'idea lontana, distante dalla mia vita di bambina che ancora gioca con il secchiello e fa le vocine per dare vita ai suoi pupazzi a forma di cavalli e draghi. E, invece, eccole lì, nelle mie mutandine. Sono una piccola donna.
Plic, plic. Un'altra scossa tiepida mi strizza la pancia e altro sangue scivola via da me, cadendo nell'acqua del water. Oh, ma allora è proprio una roba seria, qui c'è da dirlo a qualcuno. Mi pulisco come posso, tiro su il costume e torno dai miei nonni; felice, orgogliosa, con il cuore che mi batte a mille.
Ci affrettiamo a tornare in hotel, manco stessimo scappando dall'arrivo di un tornado. Nonno viene spedito prontamente a comprare degli assorbenti in farmacia — tornerà più tardi con quattro confezioni di marche diverse, due da me inutilizzabili, una troppo ingombrante, l'altra più o meno adatta; e anche dei cioccolatini.
Nonna si occupa di me. Mi dà un ricambio, mi spiega come lavarmi, mi chiede se sto bene. E io sto bene, eccome. Questa è una giornatona, è appena successa una cosa talmente importante che non riesco ancora a crederci. Chiedo a nonna di poter usare il cellulare per chiamare la mamma e dirglielo. Però, quando la voce di mamma tocca le mie orecchie e sento la curiosità elettrica di mia nonna agitarsi sopra la mia testa, in attesa che io mi sbrighi a dare la notizia, la mia euforia viene meno.
C'è qualcosa che non va. Qualcosa che non quadra. Io voglio dirlo alla mamma, ma le mie guance diventano tutte rosse e calde. Sento una sensazione spiacevole pizzicarmi la nuca, gli occhi e la gola. Non mi è estranea, l'ho già provata prima, quando le maestre mi rimproverano per qualcosa davanti a tutti o gli zii chiedono che io reciti la poesia di Natale davanti a tutti subito dopo aver mangiato gli struffoli e prima di scartare i regali. Imbarazzo. Vergogna. Che strano, non mi ero mai imbarazzata per qualcosa che riguardasse il mio corpo. Mai. E poi, perché nonna continua a darmi dei colpetti di gomito, esigendo che io dica quello che è successo? Che fastidio! E se non volessi dirlo? E se volessi che sia una cosa solo mia? Perché non può essere solo mia? Cos'è, se una cosa esce da te allora diventa di tutti?
Beh, comunque glielo dico, ovvio.
"Oggi ho ripassato le tabelline. Ho fatto un po' di matematica con nonna. Ah, e… e… emisonovenutelemiecose, ciao!"
"COSA?!"
È divertente, in fin dei conti. Sento mia madre inchiodare con la macchina — sta tornando a casa — e balbettare qualcosa, tutta agitata ed emozionata. Seguono un po' di coccole fatte a voce, parole di conforto, congratulazioni, domande e qualche lacrima. Mamma è buona, non vuole sottrarmi quel momento importante che, a voler ben vedere, appartiene solo a me. Ma certe cose deve dirmele, è così che funziona il mondo. Deve dirmi che sono diventata signorina. Deve dirmi che ora ogni mese sarà così. Deve dirmi che è tanto, tanto felice per me. Deve dirmi che sono entrata nel club delle ragazze grandi. Deve, e lo fa con dolcezza.
Ed è bello sentirsi così speciali, grazie a quelle parole. Ma l'imbarazzo non se ne va.
Quel pomeriggio non andiamo al mare. Nonno se ne sta nella hall, a leggere il giornale e chiacchierare. Nonna e io ce ne stiamo in piscina. O meglio, siamo sedute a un tavolino vicino alla piscina. Lei beve un caffè, io un succo alla mela. La pancia mi fa un po' male, ma non è per nulla insopportabile. Anzi, mi fa quasi piacere sentire un dolore nuovo: quei pizzicotti che arrivano dall'interno mi ricordano che tutto sta funzionando proprio come dovrebbe e mi incuriosisce scoprire tutte queste sensazioni che il mio corpo di signorina può provare.
"Martinina," fa mia nonna, "ora sei una donnina, lo sai, sì?"
"Certo!"
"Ora sei diversa. E stai attenta, perché anche gli uomini sanno che sei diversa."
"Eh?"
"Ora puoi avere figli. E gli uomini ti vedono."
Ma in che senso? La guardo aggrottando le sopracciglia, con i baffetti sporchi di succo. Lei si sporge per pulirmi con un tovagliolo e fa un gesto generico verso gli altri tavolini vicini al nostro.
"Mah, tipo quello, quello ti guarda."
Quello è un uomo, in effetti. Un signore che non ho la minima idea di quanti anni abbia, potrebbe averne trenta come anche sessanta, per me sono tutti uguali, con quei pantaloncini del costume sempre blu o grigi, i nasi un po' scottati e le gambe pelose. L'ho già visto prima, è un ospite dell'hotel e gli piace stare in piscina. Mi sta guardando, è vero. E non è la prima volta, ora che ci penso. Mi ha guardata anche ieri, e l'altroieri. Mi guarda quando aspetto che le crepes siano pronte a colazione. Mi guarda quando rido alle battute degli animatori la sera. Mi guarda quando gioco nell'acqua della piscina. Ma, ehi, che problema c'è? Anche io guardo le cose attorno a me.
Ma adesso è diverso. Mi guarda. E io lo guardo. Lo guardo e vedo il nemico. Vedo il pericolo. Ed è un nemico diverso da quelli che nascono durante i giochi di fantasia che faccio ancora con i miei amici al parco o nel cortile della scuola. Quelli sono finti, iniziano e finiscono quando voglio. Dietro di essi ci siamo solo noi, i bambini, e noi ci conosciamo, ci fidiamo della bontà dei nostri compagni. Io mi fido di loro. I "facciamo finta che" funzionano, in fondo, perché so che Matteo, Samira o Anna non vogliono farmi male per davvero. Farsi male non è divertente e mette nei guai. È un gioco, solo un gioco. Mi fido di te, tu ti fidi di me, e i nemici sono solo una maschera spaventosa da mettere e togliere tra mille risate.
Ma quello è un nemico diverso. È un nemico vero. Non finisce e non inizia. Non finge. Non gioca. Non ha maschere. È, semplicemente è, un pericolo. Lo sento.
È stato risvegliato dal mio sangue, come una bestia magica? L'ho creato io, quel pericolo, con la macchiolina rosa nel mio costume, o è sempre esistito? Se fossi ancora senza macchia e senza sangue, sarebbe diverso? Non lo so, io davvero non lo so.
"Non dare confidenza, sai, agli uomini che non conosci. Non puoi, ora."
"Ok."
Di nuovo, imbarazzo. Vergogna. Torno a dare attenzione al mio succo alla mela. Sento una gocciolina umida scivolare sull'assorbente. Più quel sangue esce, più ho la sensazione che un velo si stia alzando. Mi sembra di vedere le cose in modo diverso, un po' come quando mi diverto a mettere e togliere e mettere e togliere gli occhiali da sole leopardati di nonna: quelli hanno le lenti rosate e il mondo sembra fatto di zucchero filato e sciroppo quando li indosso. Poi quando li tolgo tutto torna normale, tendente al grigio. Ecco, è così: è come se avessi cambiato le lenti. Ora tutto sembra più vero, concreto, reale, presente. Io sono presente, lui è presente. Il mio corpo è reale, il suo sguardo è reale.
"Nonna, sai che non ho ricoperto la buca con la sabbia? L'abbiamo lasciata tutta aperta."
"Vabbè, Martinina, ci pensa William."
"Magari domani la trovo ancora lì, per giocare."
"Certo."
E spero davvero sia così. Spero che la buca sarà ancora lì. Così potrò accovacciarmi, come una creatura del mare, tipo una foca, o un granchio. Una primitiva. Oh mamma, quanto mi piacerebbe esserlo davvero. Un ammasso di cellule, ciccia, ossa e muscoli con nessun altro scopo se non quello di vivere. Sufficiente a me stessa
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Inochi no tabekata (Come mangiare una vita)
Volume 1
Capitolo #0/ Oltre (i)l=. passato
kako w(h)a dot kanata
Con la mano destra afferrò la ringhiera. Con una leggera spinta, con una mano si lanciò all’insù. Grazie al peso del suo corpo, atterrò con il suo piede sinistro sulle sbarre.
Otogiri Tobi si trovava in piedi sopra le sbarre orizzontali di ferro a braccia incrociate.
“Oi oi, Tobiii……”
Lo zaino agganciato sulla sua spalla sinistra rise stupito.
“Devo dirtelo, quello che hai appena fatto è stato un po’ strano, sai? Sembri un tipo strambo, non credi?”
Tobi, facendo finta di non ascoltare, si guardò intorno nel parco giochi pubblico dei bambini. Sbarre orizzontali di ferro. Uno scivolo. Due alberi piantati. Due panchine. Una fontanella per bere. Lampioni. Un’altalena a due posti.
Due ragazzini si trovavano seduti sull’altalena. Entrambi più piccoli di Tobi. Di quinta o sesta elementare. Tutti e due, spaventati, con una faccia come a voler dire ‘Ma che sta facendo quello studente delle medie? Fa paura’.
“Hai visto?”
He, he, he.
La fastidiosa risata dello zaino si alzò.
Tobi schioccò la lingua. Taci, Baku. Lo pensò solo. Non se lo lasciò sfuggire di bocca. Quei bambini delle elementari non sentivano la voce di Baku. Nel mondo solo Tobi poteva conversare con lo zaino.
Tobi saltò giù dalle sbarre.
“Non hai altro che un corpo leggero. È come quello di una scimmia”
Ignorando Baku che continuava a prenderlo in giro, Tobi iniziò a salire sopra lo scivolo.
I ragazzini dell’altalena avevano smesso di guardare Tobi. Invece di dondolare, giocherellavano con lo smartphone.
Tobi si trovava sopra lo scivolo con la vita all’indietro. A quel tempo, probabilmente l’altezza di Tobi era quella.
Lo scivolo era fatto in metallo. Il colore argenteo faceva vedere le ammaccature. La vernice gialla del corrimano si era staccata in alcuni punti.
“……È forse questo il posto?”
Baku sussurrò.
“Me lo chiedo anche io”
Tobi rispose a bassa voce, mentre si tirava su la manica sinistra della sua uniforme. I cristalli liquidi del suo orologio da polso, preso ad un negozio dell’usato, indicavano le 4:59 del pomeriggio.
Tobi era uno studente di seconda media, non partecipava a nessuna attività extrascolastica, non andava nemmeno in una scuola privata. Il parco chiudeva alle 5:30.
"Senti, farai tardi, non dovresti tornare a casa?"
Baku sghignazzò.
Stai zitto.
Tobi mentre lo pensava, saltò giù dallo scivolo.
L'ombra di Tobi con lo zaino sulla sua spalla era molto più lunga.
La campana iniziò a suonare. È Yuuyake koyake*. Una melodia familiare. Un suono familiare.
*Letteralmente "Tramonto brillante", famosa canzone giapponese per bambini
Tobi alzò gli occhi al cielo serale.
“……Sulle spalle”
“Eh? Che cosa?”
Chiese Baku, senza ricevere risposta; Tobi ripetè mormorando.
“Sulle spalle—”
Già, è così.
Sulle spalle.
Suo fratello maggiore lo portava sulle spalle mentre andavano al parco. Suo fratello cantava qualcosa a bassa voce.
“Hey, fratellone, che canzone è questa?”
Suo fratello schivò la domanda di Tobi e rise.
“Che canzone è, chiedi?”
“Dimmelo”
Tobi assillava il fratello tirandogli leggermente le orecchie.
“Dai, dimmelo. Che canzone è?”
“L’ho inventata”
“Tu, fratellone?”
“Già. Ho inventato questa canzone io, proprio adesso”
Lo ricordava. Chiaramente. Lo ricordava vividamente.
Lo scivolo. Tobi aveva giocato su quello scivolo molte volte. Suo fratello lo controllava seduto su una panchina. Con le gambe incrociate si sporgeva in avanti, i suoi occhi si assottigliavano. Un sorriso appariva sul viso di suo fratello.
Stavano anche sull’altalena. L’altalena aveva due posti, suo fratello stava in una seduta dell’altalena.
“……Già, è così”
Non era andando.
Sulle spalle, lo portava mentre tornavano.
Tobi, stanco dopo aver giocato, veniva portato sulle spalle dal fratello. Sulla via di casa, quando risuonava Yuuyake koyake, lui canticchiava un’altra canzone.
“Tobi”
Baku lo chiamò.
“Oi, Tobi”
Tobi non rispose e uscì dal parco giochi. Davanti a loro si trovava una casa a due piani. Qui era a destra? O avevamo girato a sinistra? Quel giorno che direzione ha preso mio fratello? Merda. Non lo so.
Per adesso Tobi provò ad andare a destra. La strada era così stretta che le auto si riuscivano a malapena a sorpassare. Nessuno degli edifici che si affacciavano sulla strada erano nuovi. Alcuni edifici erano piuttosto vecchi.
C’era un barbiere con l’insegna a spirale rossa, blu e bianca. I muri esterni erano di un profondo verde. Il nome del negozio era ‘Barbiere Hatsushima’. Mi sembra familiare, o forse no.
“Com’è?”
Chiese Baku. Tobi senza fermare le gambe scosse la testa.
Stava cercando un appartamento. Non conosceva l’indirizzo. Però sarebbe dovuto essere da queste parti. Era un appartamento dal colore biancastro, con corridoio e scale esterni. Tobi viveva in quell’appartamento al secondo piano insieme a suo fratello maggiore al tempo.
Non ricordava qual era il numero della camera del secondo piano. Di sicuro era in un angolo. Ricordava più o meno com’era l’interno della stanza. Fuori dalla finestra era installata una recinzione di color nero, suo fratello faceva sedere Tobi su di essa. L’immagine di lui che fuma una sigaretta con i gomiti sulla staccionata era impressa nella sua mente.
Tobi si fermò in mezzo all’incrocio. Sotto i suoi piedi c’era un tombino.
Non importava in quale direzione guardasse, nessuna vista gli tornava in mente.
Da allora erano passati otto o nove anni. Le cose potrebbero essere cambiate nel frattempo, non sarebbe stato strano.
“Che ne dici di questo posto, Tobi?”
Disse Baku.
“Stai—”
Tobi cercò di trattenersi.
“Vedi di tacere, tu!”
Era impossibile. Aveva appena urlato.
“Non arrabbiarti. Ho sbagliato io”
Non sembrava che Baku si stesse davvero scusando.
Tobi sospirò e girò i tacchi. In quel momento.
Un vecchio muro di blocchi anneriti catturò la sua attenzione. Dall’altro lato del muro c’era un angolo. Uno sporco muro di blocchi anneriti. Un angolo.
Strano. Tobi si avvicinò. Dietro l’angolo si trovava un sentiero abbastanza stretto, entrambi i lati sono affollati da case ad uno e due piani. Sul ciglio della strada c'erano dei vasi con delle piante, i pali del telefono erano molto sottili. I cavi elettrici sembravano coprire il cielo. Il cuore di Tobi sussultò.
“In questo posto—ci sono già stato……”
Era stato quel giorno.
Tobi stava correndo in quella strada così stretta. Non era da solo. Suo fratello era con lui. Tobi era mano nella mano con suo fratello che lo trascinava. Era di fretta. Stavano venendo inseguiti? Si. Qualcuno stava inseguendo Tobi e suo fratello. Loro due stavano scappando. Ma perché?
Perché venivano inseguiti? Non avevano tempo per pensare a queste cose? Che dire, non ricorda. Cosa stava succedendo? Suo fratello l'aveva spiegato a Tobi? Oppure nemmeno lui lo aveva capito? Non lo sapeva. Erano comunque disperati. Questo era tutto quello che sapeva.
Non c'era nessuno. Intorno a loro era buio. Non era buio pesto però. Verso il tramonto. Oppure l'alba. Non ricordava quale dei due.
Il sentiero conduceva ad una strada un po' più larga. Guardando a destra c'erano due negozi, a sinistra uno, con dei tendoni allestiti sulla grondaia. Tobi e suo fratello stavano correndo su quella strada probabilmente. Avranno corso a lungo. Ora Tobi non stava correndo, però sentì un dolore nel petto.
Sicuramente Tobi doveva essersi lamentato molte volte. 'Fratellone, è inutile. È impossibile. Mi fa male, non riesco più a correre. Lasciami qui'.
Suo fratello doveva averlo incoraggiato. 'Ce la puoi fare, Tobi. Corri. Puoi ancora correre'.
Esatto.
Devo fare del mio meglio.
Perché, se lo fa il fratellone, posso correre anche io.
Camminando per la strada, arrivò in una strada non più asfaltata, ma fatta da ciottoli. Era una vecchia zona commerciale. La maggior parte dei negozi aveva la saracinesca chiusa. Non rimembrava questa strada chiusa. La strada era errata?
No, non era così. Era il sentiero. Da quel sentiero Tobi e suo fratello erano passati.
“È qui, Tobi?”
Chiese Baku. Tobi non rispose. Penso sia qui. Non mi sbaglio. Vero?
Immaginava si possa definire città bassa. Non c'erano caratteristiche distintive. Per dirla in parole povere, era un banale paesaggio urbano. Era davvero qui?
Finalmente suo fratello prese Tobi in braccio. In quel momento Tobi potrebbe aver pianto. Probabilmente era caduto e non era riuscito a rialzarsi. È così. Sono caduto qui. Suo fratello prese in braccio Tobi e corse.
“È tutto a posto, Tobi!”
La voce di suo fratello gli ritornò in mente.
Si sentiva il rumore delle macchine. Una luce rossa si accese in lontananza, e suo fratello disse “Merda!” e dopo aver vomitato quella parola si voltò. Probabilmente erano più di uno o due a inseguire Tobi e suo fratello. Erano in molti.
“Fermatevi”
Questo era quello che diceva. Era la voce di un uomo. Non in quel momento. Parlo di quel tempo. Ma Tobi non poteva far altro che restare immobile al solo pensiero. Era una sensazione atroce. Lo ricordava così chiaramente. Tobi si aggrappò a suo fratello che lo teneva in braccio, forse aveva chiuso gli occhi. Il "Fermatevi" dell'uomo, detto con tono minaccioso, lo impietrì e sgranò gli occhi.
L'uomo era in piedi davanti a loro. L'uomo teneva qualcosa con entrambe le mani. La punta di quell'oggetto puntata verso di loro. Echeggiò un forte suono. Un suono esplosivo. Il suono era simile a quello che si produce quando si colpisce qualcosa di duro. Che suono era? In quel momento non lo capii. Ora che ci pensava, doveva essere stato uno sparo.
L'uomo aveva una pistola. Aveva sparato a Tobi e suo fratello.
Suo fratello fece "Aaargh" e barcollò. A quel tempo non aveva idea che gli avessero sparato. Però qualcosa a suo fratello era successo. Questo era tutto ciò che Tobi aveva capito.
Tuttavia, suo fratello continuava a scappare con Tobi in braccio. Suo fratello trascinava la gamba. Era chiaramente ferito. Sembrava davvero doloroso.
Da quanto tempo stavamo scappando? Non per una sola decina di secondi o minuti. Più di qualche decina di minuti? Oppure di più?
Suo fratello corse in un vicolo tra gli edifici. Prima di ciò, suo fratello mise Tobi a terra. Fu Tobi a chiedergli di metterlo giù. Comunque, Tobi teneva per mano suo fratello. Era un posto molto umido, puzzolente e sporco. Sopra di loro, le unità esterne dei condizionatori sporgevano come una specie di tetto, facendo molto rumore.
All'improvviso suo fratello aprì una porta e ci spinse dentro Tobi.
"Nasconditi qui"
"Ma, fratellone……"
"Rimani fermo finché non ti dico che va bene. Capito, Tobi? Promettimelo. Non emettere mai alcun suono"
Suo fratello tornò nel vicolo. Tobi era nascosto là dentro. Suo fratello stava per chiudere la porta. Tobi era spaventato e ansioso. Se faccio come mi dice mio fratello, rimarrò da solo. Mi rifiuto. Non voglio restare da solo. Voglio stare con mio fratello. Non voglio stargli lontano.
Però, mio fratello è ferito. Sembrava dolorante tutto il tempo, dev'essere stata dura. Sono sicuro che sia già al limite. È impossibile.
È impossibile.
Tobi gli tirò la gamba. Sono solo un ostacolo.
Non voglio separarmi da lui, non voglio rimanere da solo, ma devo ascoltarlo. Così aveva pensato.
“Sì”
Tobi annuì, ma suo fratello mise un dito sulle sue labbra.
“Shhh”
Riusciva a malapena a vedere il volto di suo fratello.
Tuttavia, per qualche motivo, aveva la sensazione che suo fratello in quel momento stesse ridendo.
Tobi ancora una volta annuì, questa volta in silenzio.
Suo fratello chiuse la porta. Tutto si oscurò.
Tobi ricordava quell'oscurità.
Non era solamente buio. Si poteva sentire persino il suo tocco. Quel buio era pesante. Non perché il buio non gli facesse vedere nulla. Tobi era circondato dall'oscurità. Il buio gli copriva gli occhi, le orecchie, il naso e anche la bocca, non rendendolo in grado di respirare. L'oscurità si insinuò dentro di lui.
Si sentiva come se stesse impazzendo, quindi appoggiò l'orecchio alla porta per ascoltare i rumori esterni. Le unità esterne dei condizionatori facevano ancora un sacco di rumore. Si sentì un po’ sollevato quando udì quel suono. L’oscurità non aveva ancora coperto del tutto le orecchie di Tobi.
Improvvisamente sentì un altro suono. Potrebbe essere il rumore di passi? Poi si udì un forte rumore.
Poco dopo, una voce.
Qualcuno stava urlando. Era mio fratello? Oppure era un’altra persona?
Ovviamente, Tobi voleva uscire. Aveva la mano sulla maniglia della porta. Molte volte era sul punto di aprire la porta, ma esitò sempre.
Nasconditi qui. Suo fratello gli aveva ordinato di farlo. È una promessa, aveva detto, e Tobi annuì. Non poteva infrangere la promessa fatta a suo fratello. Non poteva farlo.
Ma alla fine, avevo paura.
Ero così spaventato, che tutto quello che potevo fare era trattenere il respiro in quell’oscurità.
Prima che se ne rendesse conto, Tobi si era accovacciato. Aspettava solamente suo fratello.
Mio fratello tornerà sicuramente. Va tutto bene, è abbastanza, Tobi. Direbbe così. Tobi credeva in suo fratello. Non aveva altra scelta che credergli.
Nella stanza buia c’era probabilmente una scala. Quella scala portava in un posto ancora più giù. Forse fino in fondo. Fino alle profondità della terra.
Di tanto in tanto, aveva la sensazione che qualcosa si muovesse nell’oscurità. Ogni volta che succedeva, Tobi quasi urlava. Però riusciva a sopprimere le urla, chiamando nel suo cuore suo fratello.
Fratellone.
Fratellone.
Fratellone.
Aiutami, fratellone.
Torna presto, fratellone.
Per favore, ti scongiuro, fratellone.
Fratellone.
Fratellone.
Fratellone.
Aspetterò qui. Perché l’ho promesso. Faccio come mi hai detto tu. Fratellone—
Tobi non sapeva per quante ore aveva aspettato suo fratello, tremando nel buio, forse in dormiveglia, per poi svegliarsi all’improvviso.
Tre ore?
O forse quattro ore?
Dieci ore?
Oppure di più?
Metà giornata?
Un giorno intero?
Forse due giorni?
O magari di più?
“—……”
All’improvviso, si sentì la porta aprirsi ed entrò la luce. Era abbagliante. Per un momento, gli fecero male gli occhi. Però non importava.
“Fratellone!”
Tobi salì le scale. La porta era ancora aperta. Uscì da lì. Puzzava ancora come un buco. Il vicolo era pavimentato in cemento. C’erano macchie rosse sul cemento sporco e crepato.
Era sangue.
…O almeno, lo pensò.
Di chi era il sangue? Non può essere.
Non può essere del mio fratellone.
Non può essere vero. Tobi era sulle scale che portavano al seminterrato buio. Era da solo. Qualcuno aveva aperto la porta dall’esterno. Chi l'aveva aperta?
“Fratellone”
È così. È mio fratello. Mio fratello ha aperto la porta. È sicuramente così. Mio fratello è tornato. Era venuto a riprendere Tobi.
Tobi cercò suo fratello. Doveva essere lì da qualche parte. Se fosse stato mio fratello ad aprire la porta, sarebbe strano se non fosse proprio accanto a me.
“Fratel—……”
Era lì. Un uomo si trovava davanti all’uscita del vicolo. Però, aspetta. Tobi rabbrividì. Non è così.
Non è il mio fratellone.
L’uomo si voltò verso Tobi. Era alto e indossava un cappello. A quel tempo Tobi non sapeva veramente che tipo di cappello fosse. A pensarci adesso, forse quel cappello era un cilindro. L’uomo indossava una sciarpa e un lungo cappotto nero.
Il problema era il volto dell’uomo.
C’era un occhio.
Ce n’era solo uno.
C’era solamente un occhio.
Un solo occhio.
Quello era il volto dell’uomo.
Non era un bulbo oculare. Era solamente un occhio. Se Tobi non ricordava male, il volto dell’uomo, Hitotsume*, sbatté la palpebra. Significa che qualcosa di simile a una palpebra ce l’aveva.
*Letteralmente "un solo occhio"
L’uomo dall’occhio solo aveva una borsa o qualcosa del genere sulla spalla. Sembrava non portasse nient’altro. O almeno, non sembrava avere una pistola in mano. Non era fra quelli che inseguivano Tobi e suo fratello. Sentiva come se non facesse parte di quel gruppo. Ma comunque, aveva un solo occhio.
O forse, quella creatura era qualcosa di più pericoloso, spaventoso e misterioso. Dopotutto, aveva un occhio solo.
L’uomo dall’occhio solo si tolse lentamente la borsa dalla spalla e la porse a Tobi. Si comportò come se stesse dicendo di prenderla.
Tobi scosse rapidamente la testa. L’uomo dall’occhio solo sembra sospetto, e poi quella borsa non era nemmeno di Tobi. Non poteva semplicemente accettare quel genere di cose.
Infine l’uomo dall’occhio solo abbassò leggermente il viso. Poi, si chinò e appoggiò delicatamente la borsa a terra.
Una borsa.
Forse, era una borsa.
Era fornita di una tracolla per poterla portare sulla spalla o sulla schiena. Era una borsa grande.
Tobi fissò la borsa per un po’.
Quando alzò lo sguardo, l’uomo dall’occhio solo non c’era più. Da nessuna parte. Sparito. Era come se l’uomo dall’occhio solo non fosse mai esistito.
Però, non poteva far finta che non ci fosse mai stato.
Ne aveva la prova.
Quella borsa era stata lasciata lì.
Era ciò che l’uomo dall’occhio solo aveva lasciato dietro di sé.
“Per colpa sua……”
A Tobi venne improvvisamente voglia di piangere.
È colpa sua, di quell’uomo con un occhio solo. Poiché ha aperto la porta, Tobi era finito per uscire.�� Avrei dovuto aspettare il ritorno di mio fratello. Per colpa dell’uomo con un occhio solo, Tobi non aveva mantenuto la promessa fatta a suo fratello.
Tobi originariamente era un piagnucolone. Piangeva molto senza una buona ragione. Quando Tobi iniziava a piangere, suo fratello lo abbracciava forte. Suo fratello non gli diceva di non piangere.
‘Piangi, Tobi. Puoi piangere quanto vuoi’
Quando si ricordò delle parole del fratello, le sue lacrime si fermarono.
Da allora, Tobi non pianse nemmeno una volta.
Dopo aver esitato, Tobi prese la borsa che l’uomo dall’occhio solo aveva lasciato. Aspettò un po’ e si accorse che era leggera per le sue dimensioni. Anche Tobi, che all’epoca aveva solo cinque anni, riuscì a portarla sulla schiena agganciandolo alla spalla sinistra, proprio come faceva l’uomo dall’occhio solo.
Stranamente, si sentì come se non fosse più solo.
Le macchie rosse continuavano fuori dal vicolo.
“Il fratellone è ferito”
Tobi ne era sicuro.
Le macchie erano del sangue di suo fratello.
Forse suo fratello aveva intenzione di seminare gli inseguitori. Sicuramente sarebbe tornato dopo essersi assicurato che fosse tutto al sicuro. Però era successo qualcosa e non era potuto tornare indietro.
In tal caso, doveva essere Tobi ad andare da suo fratello.
“Devo cercarlo—”
Cap. Successivo: Cap. 1-1
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DANILO REA_OPERA IN JAZZ
Per rendere “simpatico” il jazz al grande pubblico non c’è strada migliore che cercare di renderlo digeribile con ibridazioni e ammiccamenti con i ritmi della grande musica popolare. Operazioni simili si sono già viste alla televisione, per esempio per la danza, basta ricordare le trasmissioni televisive di Roberto Bolle che si è prestato a questa operazione di grande divulgazione (e quindi forse anche Andrea Bocelli andrebbe ascritto ai grandi divulgatori in campo musicale per la lirica). Un’operazione simile con il jazz la fa Danilo Rea che a JazzMI ha presentato, sabato scorso al Teatro della Triennale di Milano (ex-Teatro dell’arte), “Opera in jazz”, operazione piuttosto compressa, volta a portare il jazz a dialogare con i grandi interpreti del passato della lirica italiana. Pezzi ed arie celeberrime dell’opera lirica sono rielaborate al pianoforte in chiave jazzistica, mentre su uno schermo scorrono immagini, fotografie e filmati storici degli interpreti dell’opera. Si incomincia con una “Casta diva” nella memorabile e irraggiungibile interpretazione di Maria Callas da “Norma” di Vincenzo, Bellini, si prosegue con “Una furtiva lagrima” dall’ “Elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, cantata da Enrico Caruso, e via via fino ad arie meno consumate dall’uso, ma sempre di grande impatto, concludendo, per il bis, con la canzone italiana per eccellenza, ovvero quel “O sole mio” di Alfredo Mazzucchi e Eduardo Di Capua, celebrata, cantata e ricantata in tutto il mondo con una impennata di celebrità in questo nuovo millennio. E il jazz? Bisogna riconoscere che, nonostante queste operazioni siano sempre un po’ rischiose, il risultato è assolutamente pregevole, date anche le capacità tecniche di prim’ordine di Danilo Rea. Non era facile, come lo stesso Rea ha ricordato dal palco al folto pubblico, dialogare con un cantante o una cantante che in realtà non ti ascolta, la cui voce, anzi la cui registrazione monofonica della voce, proviene dalla notte dei tempi della musica riprodotta. Rea riesce eccellentemente nell’operazione, tanto che qualche aria sembra continuare naturalmente nella sua tastiera poliedrica. Se qualche dubbio resta, almeno a me, è il senso generale dell’operazione, come se il jazz non bastasse a sé stesso e altrettanto vale per l’opera lirica. Ma io oltre a non fare testo, sono sempre un po’ troppo esigente e un po’ troppo rigoroso, anche con me stesso, e queste “scampagnate musicali” mi sembrano sempre un po’ delle operazioni azzardate. Quelle che invece sembrano proprio di difficile digestione, sono le immagini proiettate sullo schermo, di una bruttezza e di un cattivo gusto esemplari: elaborazioni elettroniche di rose che fioriscono, fiocchi di neve da centro commerciale, bolle, riflessi, ombre e tramonti napoletani degni di una pizzeria. Forse, se proprio necessario, sarebbe bastato proiettare le rare immagini della Callas, di Beniamino Gigli, di Mario del Monaco o di Mascagni, Rossini e Puccini nel loro originale e fascinosissimo b/n. Spero soltanto che il Roberto Grossi che ha curato la parte video della serata, non sia lo stesso Roberto Grossi, ex studente nella mia stessa scuola e scenografo di mia conoscenza, perché sarebbe la fine di una amicizia…
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Storia Di Musica #295 - Fleetwood Mac, Rumours, 1977
Di solito un duetto tra una voce maschile e una femminile è si presente in molti dischi, ma in modo episodico. Sembra strano, ma i gruppi in cui le voci principali sono state una maschile e una femminile sono molto più rari di quello che all’apparenza potrebbe pensare. Partendo da questa osservazione, i dischi di ottobre saranno dedicati appunto a casi del genere: ho cercato di unire cose molto note e significative ad altre meno, come è nello spirito di questa rubrica. Si parte oggi, nella prima domenica di ottobre, con uno dei dischi più belli, di successo e imitati di tutti i tempi. Eppure tutta questa gloria non era né scontata né, soprattutto, immaginabile dato che il capolavoro nacque proprio quando tutto sembrava irrimediabilmente compromesso, in un periodo di tensione altissima tra i membri della band che ne fu autrice. I Fleetwood Mac nascono come gruppo brit-blues sotto l’egida di Mick Fleetwood (batteria) Peter Green (chitarra) e John McVie (basso) che lasciano i Bluesbreakers di John Mayall ed intraprendono una carriera autonoma. Si chiamano così perché Green unì il cognome del batterista al Mac di McVie. Iniziano subito a farsi notare, con alcuni pezzi molto belli come Man Of The World, Albatross e Black Magic Woman, che diverrà famosissima solo anni dopo con la cover dei Santana. In questo periodo composero almeno due grandi dischi di rock blues (l’omonimo Fleetwood Mac del 1968 e Then Play On del 1969, dalla stupenda copertina e che nel titolo cita nientemeno che La Dodicesima Notte di Shakespeare). Poi Green se ne va, iniziando una carriera solista dignitosa ma non superlativa. Dal 1970 al 1975 Fleetwood e McVie chiamano a sé molti musicisti per rimpiazzarlo, tra gli altri ricordo Danny Kirwan, Bob Welch, Bob Weston, che durano più un meno un annetto con il gruppo. Colpisce invece la cantante Christine Perfect, che nel frattempo si sposa con McVie, divenendo Christine McVie, entrando in pianta stabile nella formazione. Gli album di questo periodo sentono della poca amalgama tra i membri, finendo per essere scialbi e dimenticabili. Rimasto nel 1975 senza chitarrista, Fleetwood incontra Lindsey Buckingham, che a dispetto del nome è un ragazzo californiano, che in coppia con la sua compagna, Stevie Nicks, aveva pubblicato un disco di leggero pop dal titolo Buckingham + Nicks (che sono una scelta nella scelta, dato che univano una voce femminile e una maschile soliste). Il primo lavoro della nuova formazione è clamorosamente stupendo: Fleetwood Mac (secondo disco omonimo, già un record) nel 1975 è uno dei dischi più venduti in assoluto e trascinato dai singoli Warm Ways, Say You Love Me e la stupenda Rhiannon, diviene già un classico. L’attesa per il proseguimento è spasmodica, tanto che la prima cosa a segnare il passo è la band stessa: sia la coppia Buckingham - Nicks che quella Perfect - McVie si stavano separando, e Fleetwood scoprì sui giornali che la moglie lo tradiva con un amico. Nonostante le dicerie che la davano sul punto di sciogliersi, la band si concentra nelle registrazioni di uno dei capolavori assoluti del pop-rock di tutti i tempi e lo intitolano con notevole spirito ironico Rumours (che ricordo in inglese vuol dire brusio, ma anche chiacchiericcio e dicerie).
Con una maniacale cura che rivoluzionerà il concetto stesso di arrangiamento e produzione (anche per l’uso delle più avanzate tecnologie dell’epoca, come fecero nello stesso anno gli Steely Dan con Aja) Rumours, che esce il 4 Febbraio del 1977 è davvero perfetto: penso che chiunque abbia mai pensato di scrivere una canzone abbia voluto creare qualcosa come Go Your Own Way, trascinante e fantastica. Ma già l’apertura con Second Hand News (che richiama le dicerie di stampa del titolo) che ha echi di musica celtica fa capire che non è un album qualunque. Dreams, che da solo vendette oltre un milione di copie come singolo, è altra canzone definitiva, come Never Going Back. Songbird è piano e chitarra acustica, e diventerà uno dei momenti clou dal vivo. The Chain, che nasce come unione di idee scartate, è un country folk un po’ psichedelico, ed è uno dei pochi brani accreditati a tutti i membri della band. You Make Loving Fun, altro singolo vendutissimo, I Don't Want to Know (già nel repertorio solista di Stevie Nicks) è allegra e ritmica, Oh Daddy e la misteriosa Dust Gold Woman (che per anni si è favoleggiato fosse una canzone sulla droga, che girava molto alle feste cui partecipavano) chiudono il disco. Disco suonato, cantano (memorabili gli intrecci vocali, i salti melodici di tre voci grandiose), prodotto al massimo livello (da Fleetwood e la band con Ken Caillat e Richard Dashut) e dove le singole personalità pur mantenendo piena autonomia individuale, si completano alla perfezione. E ho sempre pensato che 40 milioni di copie vendute in tutto il mondo, con 31 settimane consecutivi al primo posto della Classifica Billboard statunitense, paese dove vendette da solo 20 milioni di copie (che lo fanno uno dei dischi di maggior successo di ogni tempo) e il Grammy del 1978 come miglior disco abbiano oscurato di fatto la bravura di un lavoro non costruito per il successo (almeno non in queste dimensioni) e che nasce dalla voglia di lasciare tutto alle spalle del personale, per mettere tutte le energie nel lavoro. Il momento magico continuerà con Tusk, altro gioiello, passato alla storia per essere costato nel 1979 oltre un milione di dollari in registrazioni. Dopo un Tusk Tour grandioso, la band si ritira in Francia, dove abbandonerà il sofisticato, colto e meraviglioso suono di questi due gioielli per un pop più leggero e senza mordente. Evidentemente forse si erano riappacificati.
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Highlights di oggi
• Oggi c'era la prima lezione di italiano per stranieri nella scuola autogestita. All'inizio ero attenta a ciò che facevano le ragazze che avevano già insegnato l'anno scorso ed ero intimorita nell'immaginarmi al loro posto, quando mi hanno chiesto se volevo continuare un po' io la lezione non me la sentivo, era la mia prima volta in quel contesto e soprattutto mi spaventava l'idea di parlare in pubblico.
In un paio di momenti avrei voluto suggerire delle piccole cose, anche perché notavo che un ragazzo vicino a me faticava più degli altri e che il livello non era molto omogeneo, nonostante la divisione in gruppi; ma non sentivo di essere nella posizione per poter già dire qualcosa, anche per evitare che venisse preso male.
Poi la seconda parte della lezione l'abbiamo fatta suddivisi in piccoli gruppi, è stata anche la parte che è durata di più, al mio tavolo le eravamo io e una ragazza dell'anno scorso e in quel contesto, dopo un poco di tentennio iniziale, ho sentito di avere il mio spazio. Ho spiegato le cose che mi chiedevano, fatto degli esempi, spinto loro a fare altrettanto. È divertente perchè rispondere a domande come "cosa vuol dire avere?" / "Cosa vuol dire essere?" non è scontato (soprattutto la seconda) e quasi ogni concetto o anche oggetto di uso comune ha bisogno di essere spiegato in maniera semplice ma creativa. C'era un bel feeling, mi sentivo soddisfatta di ciò che facevo e loro avevano un sacco di voglia di imparare e provare, sia quelli più "confident" nel fare gli esempi, sia quelli più timidi che però se incoraggiati si mettevano in gioco senza tirarsi indietro. Se non azzeccavano la coniugazione verbale o la pronuncia di una parola alla prima, dopo qualche tentativo riuscivano a riformulare la frase senza errori. Essere parte del processo di apprendimento e vederne i risultati mi trasmetteva pura gioia, che detto così suona naive, ma tanto mi sentivo felice che ero arrivata lì stanca morta per il ciclo e le poche ore di sonno e alla fine mi sentivo piena di energia. Non solo il tempo era volato, ma mi sentivo ricaricata e finalmente leggera, leggera ma piena come non mi sentivo da non so quanto tempo.
• Ho scoperto una pizzeria molto economica ma buona non troppo distante da casa (15 min in bici o forse anche meno) che è aperta fino alle 23:00. In questa città, in cui tutto ma proprio tutto chiude presto, e in cui i posti che quando non hai niente in casa ti salvano la cena sul tardi e con pochi euro sono veramente pochi, è una gran scoperta.
• Visto che quando tornavo a casa ero così contenta, mi sono goduta sia il viaggio in bici che la musica che ascoltavo nel frattempo più del solito. Ho fatto partire una playlist creata da Spotify ed ero particolarmente gasata ma anche più concentrata su ogni canzone di quanto riesca a fare in genere.
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Liam.
Liam non è possibile scriverti in nessuno dei tuoi account social. Ti scriverò qui, come se stessi parlando con te.
Liam Payne è morto, questa è la notizia con cui mi sono svegliata ieri mattina.
È da ieri mattina appunto che sono sotto shock, in un completo stato di trance, loop emotivo da cui non riesco a uscire, da cui non so se voglio uscire.
Non riesco a capacitarmi di come sia possibile l'accaduto.
Era chiaro al tutto il mondo che avessi svariati problemi, ma non voglio crederci, che tu sia morto intendo.
Ti volevo bene, ti amavo, un amore platonico tra fan e cantante.
Non ti seguivo più da un po', ma il sentimento che provavo è rimasto lì a occupare il mio cuoricino per tutti questi anni.
Seguivo gli One Direction, li ho seguiti fin da subito e Liam, bhe tu era poi soprannominato il papà del gruppo mica per niente ahah...
Reputo gli 1D come una parte fondamentale della mia adolescenza, ognuno di voi presi separatamente mi avete insegnato qualcosa in fondo.
Perciò a discapito di tutte le accuse che hai ricevuto nell'ultimo periodo voglio ricordarti come il ragazzo che faceva parte della band e non come l'uomo dipinto dalle accuse.
Non sono qua a dire che le accuse siano false, prima di prendere una parte ascolto sempre entrambe le campane, e tu, la tua, non potrai più dirla.
Liam, amore mio, ti amo.
Vorrei che tu avessi avuto più tempo.
Forse più tempo non lo volevi, forse i tuoi obiettivi nella vita li avevi raggiunti, i problemi erano troppi e hai detto basta in un momento molto buio, senza aver più la forza di combattere.
Avrei combattuto io per te, se avessi potuto.
Non ho mai avuto la possibilità di vederti dal vivo, né di incontrarti, ma se ti avessi incontrato nell'ultimo anno, ti avrei abbracciato stretto stretto, dicendo che sarebbe andato tutto bene, che se avessi voluto prenderti una pausa o smettere di stare in quel mondo di gente famosa nessuno se la sarebbe presa.
Hai salvato tanti ragazzini insieme ai tuoi compagni Liam.
E nessuno è riuscito a salvarti. Tu in primis però dovevi voler salvarti.
31 anni sono pochi Liam, avevi ancora una vita davanti.
E ora il tuo bimbo? Senza il suo papà?
Non preoccuparti però Louis sarà uno zio fantastico e perché no Freddie e Bear possono diventare amici, se non lo sono già.
Ma anche gli altri ragazzi saranno zii fantastici ne sono sicura.
Noi, da fan, non conosciamo il vostro rapporto, ma viste le parole scritte sui social per te, immagino ti volessero un gran bene, nonostante tutto.
Siete cresciuti insieme, siete diventati uomini insieme, siete come fratelli.
Liam lasci un enorme vuoto dentro di me. Non ho pianto, non ancora, ma probabilmente è perché non realizzo.
Non ci sei più, niente più canzoni, niente più video, niente più interviste, niente più foto.
Non c'è più possibilità di incontrarti e di dirti quanto sei importante per me e per tanti altri nel mondo.
Te ne sei andato e ti sei portato via tanti pezzetti di tante persone, spero in cuor mio che ovunque si vada dopo la morte tu riesca a ricostruirti con tutti questi pezzetti e che tu riesca a stare finalmente bene.
Voglio dedicarti un pezzo di una vostra canzone Liam.
I wish that I could take you to the start
I'd never let you fall and break your heart
And if you wanna cry or fall apart
I'll be there to hold ya
È Through The Dark, la ricordi?
Ieri l'ho riascoltata e porcavacca è proprio quello che ti direi se solo potessi vederti.
Sorridi adesso, che tu possa essere felice.
Hai sempre avuto un sorriso meraviglioso.
Riposa in pace piccolo mio, a un aldilà con i cucchiai vietati.
Riposa ora.
Lì nessuno ti dirà niente, nessuno ti sarà contro, tanti ti vorranno bene.
Anche quaggiù siamo in tanti a volerti bene.
Per sempre in noi Liam, per sempre.
Ciao
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