#narrazione fluida
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⚠️ NOVITÀ IN LIBRERIA ⚠️
Michel Le Maire
L’ORDINE INGIUSTO
Guida al sovvertimento dell’oligarchia globale
Edificato attorno all’unipolarismo americano, l’attuale Occidente è dominato da un “ordine ingiusto” fondato sul consumo compulsivo e sulla totale assenza di riferimenti verticali. Questa “cloaca maxima” – che ha sussunto le identità nel verbo apolide del mercato – opera il sistematico sradicamento di ogni orizzonte di senso: la persona si abbassa ad “individuo astratto”, la famiglia retrocede ad “unione fluida”, la Nazione si riduce ad “espressione geografica”, lo Stato si fa “governance tecnica” e la realtà cede il passo virtualità “social”. Spogliato delle sovranità e orfano delle Comunità, questo sistema è plasmato da una narrazione isterica e atomizzante – frutto dell’abbraccio mortale tra le utopie del marxismo culturale e i meccanismi della società liberale – che trova spazio nel quotidiano delirio del progressismo cosmopolita: la chimera della “società aperta”, la violenza del multiculturalismo, il livore femminista, la decostruzione “gender” e la martellante dittatura rivendicativa delle presunte minoranze a caccia di nuovi “diritti”. Un vuoto teorico dagli effetti devastanti, il cui trionfo – però – è tutt’altro che definitivo.
Storia, filosofia, economia, politica, attualità e cultura: questo pamphlet – coraggioso e per nulla fatalista – intende denunciare senza mezzi termini le perversioni e le idiozie di questa distopia del brutto, del basso e del vile, senza abbandonarsi alla rassegnazione del “tutto è perduto”. Perché dinanzi alla tirannia del deforme e dell’informe, alle anime libere spetta il dovere del riscatto. Queste pagine, allora, vogliono suscitare la fierezza e la speranza: per la decisiva riaffermazione della Civiltà europea, senza indugi e senza pentimenti.
INFO & ORDINI:
www.passaggioalbosco.it
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The Lost Tomb 2: Explore With The Note
"Voleva che venisse scoperto tutto e allo stesso tempo che rimanesse un segreto per sempre." [CIT]
Il sottotitolo non è casuale. non lo è mai
Ancor più se si parla di Lost Tomb, patria dei giri a vuoto, di cose inspiegabili e di informazioni inutili, abitata da gente perlopiù bipolare e con gravissimi problemi di comunicazione.
Ok, lo ammetto. Non avrei dovuto vedere questa stagione subito dopo l'altra: di solito lascio mantecare per un annetto prima di ributtarmi su una storia. La saga di High and Low l'ho finita in più di 5 anni, per dire.
Tuttavia, un po' gli spoiler, un po' i libri che sto leggendo e soprattutto la consapevolezza che con le serie siamo all'inizio e ancora manca un bel po', ho deciso di andare avanti un pelino.
A proposito del libro: non è il momento di parlarne qui ma una cosa la voglio dire. Io pensavo che Martin, l'autore di Game Of Thrones fosse un maledetto che gode nel farci soffrire non finendo mai quei benedetti libri. Ma Xu Lei, l'autore di Lost Tomb è addirittura ad un livello superiore. In confronto Martin è un novellino.
Xu Lei infatti, ha scritto libri - come Mystic Nine - ma non ha mai finito (e mai lo finirà se me lo chiedi) facendo lo sceneggiatore per la serie e concludendo la storia su pellicola. La sua libreria è composta dalla storia principale di Lost Tomb e poi ci sono un infinità di storielle, pezzi, on-shot, sparsi ed incompleti che giacciono lì... tu inizi a leggere una storia, una ventina di capitoli e poi stop. Non c'è altro. La narrazione si chiude e non saprai mai cosa accadrà.
Perché d'altronde questo è Lost Tomb e sia mai che chiarezza, ordine e linearità siano presenti!
Ma lo si ama anche per questo.
Tornando alla stagione in esame, per certi versi è andata meglio delle precedenti. Per altri versi invece, è stata agghiacciante.
Dunque, la prima cose che voglio dire è che la trama ha un senso e le cose vengono spiegate.
E lo so che per molti di voi questa è la base per qualsiasi cosa. Ma chi segue questo capolavoro ed è arrivato come me al 4° prodotto visto ormai, conosce l'architettura fatiscente e approssimativa delle stagioni passate. I buchi di trama, personaggi che compaiono e scompaiono a seconda dell'esigenza, cose e eventi che accadono senza un perché...il solito insomma. Senza contare i tagli delle scene, il montaggio strano, le musiche fuori contesto...
In questa stagione invece, tutto prosegue con una linearità sconcertante. Sono pochissimi gli eventi inspiegabili - per lo più nel finale - e la narrazione è abbastanza fluida e chiara. Si capisce perché si fanno le cose e cosa vogliono certe persone. Sono rimasta basita da tale "ordine e disciplina."
Certo, rimangono i molti misteri (per citare @lisia81: risolvi un enigma e te ne spuntano fuori altri tre) ma nel complesso, sono sbalordita da come io sia riuscita a seguire le vicende di questa avventura senza mai perdermi o alzare bandiera banca scoraggiata.
C'è da dire che la serie non parte benissimo. Già alla prima puntata sorgono i primi problemi quando mi accorgo che c'è qualcosa che non va. Tolto il re-cast di mezzo cast che ti costringe a giocare a "indovina chi".
La stagione sembra iniziare non dalla fine della stagione precedente...ma da prima ancora. Tipo dalla 35° puntata su 40 in tutto. In pratica, stavo vedendo il finale della seconda stagione ma girata in modo diverso. E qui, Signori, mi si sono spalancate le porte dei Cieli:
Hanno cancellato gli ultimi episodi della stagione e li hanno rigirati in un modo completamente diverso, con una storia diversa, eventi diversi e attori diversi.
Ragazzi, questa è avanguardia altissima. Ma dove la trovate un altra serie che se ne sbatte così platealmente di quanto già fatto e modifica la storia dove e come cazzo gli pare?!! Torna indietro, va avanti...fa come cazzo vuole.
Tralasciando questo momento di arte pura, la serie come ho scritto, trova alla fine una sua linearità e prosegue senza grossi problemi fino alla fine.
Anzi, faccio la caga cazzi e mi lamento di questo fatto: è vero che le stagioni precedenti sembravano fatte da scimmie sbronze e strabiche...ma almeno erano divertenti! Le risate che mi sono fatta per tutte le cose inspiegabili e fatte male non me le porterà via nessuno.
Explore with The Note invece, mi toglie tutto il divertimento scegliendo di farmi vedere 24 puntate di stanze oscure, tombe, passaggi nel terreno, altre stanze, corridoi, bare. Con i nostri che vagano per questi luoghi quasi senza mai incontrare roba eclatante. Pochissime scene d'azione e ancor meno di esplorazione della tomba. Siamo semplicemente andati a dritto!
L'unico guizzo ci viene dalla scoperta della squadra archeologica morta malissimo nella stanza del tesoro ed il cui ritrovamento, apre mille parentesi di cui dopo parlerò.
Ma per il resto, ho trovato questa stagione un po' piatta ed a tratti noiosa. Cosa che Lost Tomb non può essere! Tutto gli si può dire a questa serie, tranne che sia noiosa.
Credo che questo possa esser "colpa" anche del punto centrale della vicenda, ossia l'identità dello Zio di Wu Xie ed i sospetti - che poi diventano certezza nel finale - che si scambi di ruolo con l'altro Zio quando nessuno guarda. Se da una parte sono contenta che si sia risolto il mistero dello Zio, dall'altra parte mi domando se inserire questa dinamica del sospetto e della fiducia del lead per lo zio per TUTTI i 24 episodi, sia stata la scelta migliore.
Explore With The Note infatti, sembra concentrarsi troppo su questo, con millemila scene del povero Wu Xie che guarda con sospetto, poi con fiducia, poi di nuovo con sospetto sto benedetto parente, portando il mistero a livelli oceanici.
Anche perché poi, se ci pensi, lo Zio spiega il motivo di questo switch che dura da quasi vent'anni ed ha portato alla follia mezze famiglie, in due righe: nella vecchia spedizione alla tomba sottomarina c'era qualcosa di strano. C'era una talpa. Hanno tentato di farli secchi ma non sapendo chi fosse il nemico, hanno deciso questa linea d'azione per scoprire chi fosse e perché. Punto.
Interessante come QUESTO MISTERO CHE DURA DA 3 STAGIONI sia stato spiegato in 3 righe di sceneggiatura. Grazie Lost Tomb.
E visto che abbiamo toccato l'argomento "vecchia spedizione" nella tomba sottomarina, poiché conosco gli spoiler non dirò molto, se non che Wu Xie, anima pia, NON HA DETTO NE ALLO ZIO NE A POKER FACE NE A XIA YUCHEN del ritrovamento.
E che li hai scoperti a fare?!!
Cioè, trovi un gruppo di persone che dovevano essere presumibilmente scomparsi in mare, nel mezzo di una montagna a ottomila km da dove dovrebbero essere. Un gruppo che metà dei tuoi conoscenti cerca disperatamente. Un gruppo di cui faceva parte anche tuo zio e... niente. Stanno là. A prendere il sole.
Ma Cristo di D...!!
La cosa meravigliosa è che dopo questo ritrovamento, appare anche Xia Yuchen che litiga con Wu Xie proprio per il coinvolgimento dello Zio su questa faccenda. Ed accanto a loro stanno sti cadaveri. Io boh. Senza parole.
Non commenterò poi il fatto che Xia Yuchen abbia convenientemente trovato Wu Xie e suo Zio girando a caso per una tomba millenaria e sapendo benissimo dove, quando e come incontrarli.
Xia Yuchen arriva dove deve arrivare, bello come il sole, vestito come un modello, scortato da persone armate come un esercito d'occupazione, fa le sue cose...e se ne va.
Amen.
Ed ora, svisceriamo il vero grosso motivo del perché questa stagione sia stata per me agghiacciante: Wu Xie, Poker Face, La Bromance e la Love Story. Più Ning che fa contorno.
Partiamo proprio da lei: Ning. Nella passata serie l'avevo trovata insopportabile. In questa invece, almeno per gran parte della storia, mi sono trovata a doverla rivalutarla. Acquisisce finalmente un suo spessore e personalità, mostrando chiaramente il suo conflitto tra la fedeltà verso il "padre" e la consapevolezza di non star facendo esattamente la cosa giusta.
Peccato che, appena Cox si presenta in scena, torni ad essere un burattino senza anima. Senza idee, atti di ribellione, conflitti...niente. C'è la scena dove suo padre lascia finalmente questa valle di lacrime e lei sta lì che se lo guarda. Non è che so...prova a salvarlo, gli urla dietro, spinge Wu Xie nel portale, caga per terra... qualsiasi cosa! Sta lì, immobile.
Chiariamoci, lo spettatore sa perché lei è così sottomessa al "padre" e pronta anche a morire per lui. Ma arrivata a questo punto, mi aspettavo un minimo d'evoluzione emotiva. Anche perché, i complimenti di cui sopra, che glieli ho fatti a fare allora?!
Ancor peggio della Signorina, sono i due lead. Presi singolarmente ed in coppia.
Molti commentano la caratterizzazione e la recitazione dei due, facendo paragoni e confronti con il libro, cosa che io vorrei invece evitare. Non credo che per comprendere appieno un personaggio ci sia bisogno di aver letto anche il libro. Semmai il raffronto lo puoi fare per come sono resi i personaggi nelle stagioni precedenti.
Certo, questo è Lost Tomb che aumenta la difficoltà cambiando gli attori principali ogni stagione, con il risultato che in tre prodotti tu hai tre interpreti diversi che ovviamente rappresenteranno i loro ruoli, tutti in un modo diverso.
Solo che questa volta, per dirla male, si è pisciato fuori dal vaso.
L'attore di Wu Xie sembra una ragazzetta adolescente incapace di trattenere le sue emozioni con pochissimo autocontrollo e ancor meno sicurezza in se stesso. Litiga con Fatty per via della sua collaborazione nascosta con Cox mentre sottobanco collabora con Ning, portando il bipolarismo dunque a livelli estremi. Ma il bipolarismo è una caratteristica della famiglia Wu in generale.
E' la recitazione che proprio non mi è piaciuta. A tratti esagerata, isterica. Ovviamente c'è da tenere in considerazione tutte le vicende del personaggio e quello che emotivamente sta passando. Ma dopo 4 tombe (5 con questa) e aver visto le peggio cose, considerando anche la caratterizzazione dell'altro Wu Xie nella stagione precedente, ho trovato la sua resa troppo emotiva.
Peggio ancora Poker Face. Lo sapevo che dovevo tener di conto quel raro sorriso delle stagioni precedenti perché mi sarebbe dovuto bastare per un bel po'.
qui, quando Poker Face aveva ancora espressioni.
Il suo interprete infatti, ha deciso di rendere il suo personaggio il meno espressivo possibile. Con il risultato che ogni volta che lo inquadravano, mi pareva di guadare il Ken della mia vecchia Barbie:
Ora, i personaggi misteriosi, poco loquaci, inclini a stare nell'ombra, sono difficili da rendere poiché devono mostrare tutte la sfumature di chi sono, facendoli conoscere al pubblico, tramite sguardi, espressioni, movenze.
Maestro in tal senso, è il Lan Zhan di The Untamed, interpretato da un magistrale Yibo che è riuscito a caratterizzare e farsi capire dicendo in tutto 4 battute nell'arco di più di 40 episodi. La sua espressione diceva tutto: rabbia, tristezza, angoscia, serenità, preoccupazione....
Poker Face è un personaggio per certi versi simile, pur avendo " perso l'uso della parola" per motivi e storia diversi.
Per questo, pur comprendendone la difficoltà, trovo piattissima e vuota l'interpretazione di questo personaggio in questa stagione: rega' a me sembrava un robottino. Non aveva espressioni.
Tanto più che non si registra proprio la sua presenza. C'è o non c'è è uguale. Nelle stagioni precedenti, anche se Poker Face non parlava, ne percepivi la presenza accanto ai personaggi. Invece in questa stagione, nonostante se ne sia stato parecchio per i fatti suoi, quando c'era, non ne ho mai percepito la presenza. Mancava proprio di carisma e personalità.
E cosa succede quando questi due sono assieme? niente.
Se c'era una cosa in cui Lost Tomb era davvero bravo, era la bromance e la chimica tra i ragazzi del Triangolo di ferro: i loro battibecchi, le dinamiche interne al trio e al duo WuXie&Pokerface erano fantastiche da vedere e ti divertivano tantissimo. Senza parlare della plateale lovestory tra quest'ultimi, rei di aver avuto una chimica spettacolare che manco i BL thailandesi avrebbero potuto sperare di avere.
d'altronde se 2/3 delle fanficion che girano su internet sono storie porno tra sti due, un motivo ci sarà.
Qui invece, tutto sparito. C'è amicizia tra i tre - soprattutto tra Wu Xie e Fatty - ma manca quell'intesa che li facevano quasi sembrare una cosa sola.
E' quindi stato per me angosciante vedere questa dinamica andare a Signorine e Buonasera, rimpiangendo i giorni in cui Wu Xie e Poker Face si guardavano con gli occhi a cuore circondati dai cadaveri, sembrando pronti ad andare a copulare dietro ad una bara.
Anche perché era una delle poche cose buone della serie. Per dire.
(riprendiamoci con Sua Maestà Xie Yuchen e la sua figaggine)
E ancor più angosciante è stato il finale: uno dei più insoddisfacenti mai realizzati, sotto tutti i punti di vista.
Dal punto di vista emotivo l'ho trovato terribile: Poker Face arriva da Wu Xie, lo guarda - sempre con la stessa espressione vuota - gli dice:-"Addio" ed entra nel portale. Con Wu Xie che trattenuto da Fatty, alza la manina verso il portone, con sul volto un espressione che non saprei bene come definire. Scioccata? Spaventata? Triste?
Questa scena sarebbe stata magnifica emozionalmente parlando se 1) la recitazione fosse stata migliore 2) avessero approfondito la relazione tra Wu Xie e Poker Face durante l'arco della stagione e 3) ci fosse stata un po' più d'intensità. Se ci fossero stati gli attori dell'altra stagione con la loro chimica, questa scena mi avrebbe strappato l'anima ed il cuore. Avrei pianto per giorni.
Dal punto di vista logico anche, non si è capito cosa sia successo. Perché il portone si è aperto due volte? Perché Poker Face è andato dentro? ok, lo so perché ma darci un indizio? perché il proprietario della Tomba si è svegliato proprio in quel momento? cioè, sto stronzo dorme da secoli. Poi arrivano i nostri e si sveglia?! Così, de botto! e poi, perché sto tizio sembrava uscito da Final Fantasy?
E ancora, perché Cox voleva Wu Xie? nella serie mi è sembrato di capire che Cox volesse il corpo del Lead. Gli fa tutto un discorso su quanto sia giovane, intelligente e con il sangue meglio dell' Autan quindi ho interpretato che volesse fare uno switch tra loro due. Però appunto, è una mia interpretazione.
Che mi auguro che sia sbagliata perché se è questo il motivo di tutto sto giro per la Cina, mi domando perché Cox non abbia preso un giovane random per la via. Voleva Wu Xie per il sangue? Ma per farci cosa? a meno che Cox non pensi di girare per tutta la vita tra le tombe, cosa te ne fai di un sangue che respinge gli insetti?! per passare delle estati sereno senza i pizzichi di zanzara?
La cosa ancor più pazzesca è il modo in cui nel finale, hanno deciso di rivelare le cose:
Come detto sopra, i due Zii spiegano un piano durato vent'anni, un mistero assurdo che ha coinvolto mezza Cina - tra cui il lead - che ha perso 3 stagioni per essere portato in campo, in meno di 3 minuti. Con un mezzo spiegone contornato da qualche flashback.
Idem Cox, che come ogni buon villain, racconta i suoi obiettivi alla fine della sua vita. E siccome sto tizio ha vissuto una luuuuuuunga vita, incrociando anche il cammino dei Mystic Nine, ti aspetteresti almeno dieci minuti di retroscena. E invece sto stronzo, ci fa esposizione - si vede che proviene dalla serie di Mystic Nine, Regina di questa pratica - raccontandoci a grandi linee e rimanendo il più vago possibile su cosa ha fatto e perché. Chiudendo il tutto In meno di 5 minuti.
Dici te: non avranno avuto tempo. Però oh, 3 minuti di puntata di Xie Yunchen che va a parlare con la Nonna Huo del nulla cosmico, quelli sì. Il tempo per quello c'era.
Io vorrei tanto sapere come gli autori di questa serie gestiscono il minutaggio: per alcune cose ci perdono interi episodi. Per altre - le più importanti - le fanno raccontare nel modo più sbrigativo possibile.
Comunque sia, il risultato di questo finale è stato grandemente insufficiente. Aveva tutte le carte in tavola per essere un mezzo capolavoro ma ha preferito afflosciarsi tipo sufflè.
Conclusione: drama che non consiglierei manco al mio peggior nemico, risultando il peggiore della Saga visto fino a mo'. Per una narrazione più lineare paghiamo un prezzo troppo alto che non sono onestamente disposta a spendere. Gli altri erano fatti peggio ma divertivano e mi regalavano anche della bella bromance e love story. Gli do comunque un punto in più per i vari collegamenti con le vecchie stagioni e per aver risolto alcuni dei misteri che ci portavamo appresso da tantissimo.
Voto: 6=
#the lost tomb: explore with the note#cdrama#chinese drama#wu xie#poker face#zhang qiling#lost tomb#fatty#Zhang qi ling#the lost tomb
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Bruno Barba - "Ma quale DNA?"
“Ma quale DNA” è un saggio scritto da Bruno Barba che ha uno scopo ben preciso: quello di screditare e affossare qualsiasi teoria evoluzionista presente nel calcio, atta a portare un peggioramento della qualità culturale e comunicativa di narrazione e giornalismo. Il termine specifico oggetto della critica da parte di Barba, docente di antropologia, è, appunto, “DNA”. Parlare di DNA in uno sport nel quale, come sosteneva Socrates, “può vincere anche il peggiore”, risulta un’operazione anacronistica, che assume intrinsecamente concetti razzisti, che vengono così trasfigurati nello sport più mutevole e intriso di socialità, rivoluzione, rispetto ed accettazione di tutti i tempi. Frasi come “Questa squadra ha la vittoria nel DNA” oppure “questa società ha carattere” non hanno motivo di esistere quando si tratta di raccontare, mediante studi empirici, o più modernamente con storytelling e messe in scena televisive, uno sport creato dagli uomini e da essi continuamente plasmato, come se vivesse in uno stato di continua evoluzione interiore.
Non esiste infatti, in primo luogo una “maniera” di giocare a calcio: Sacchi, per esempio, si ispirò al modello olandese per arrivare a far giocare come prima punta il sardo Virdis, e pretese fortemente l’acquisto dell’emiliano Ancelotti dalla Roma, dando vita ad un modulo studiato per poter competere con le squadre di quel preciso periodo storico e sociale. Allo stesso modo, ci viene raccontata l’Italia del 1982, che fu capace di prendere le distanze dal calcio di Pozzo, il calcio “da alpini” delle due Rimet vinte di fila e in grado di trovare aperture e spazi, alla faccia della costante retorica del catenaccio all’italiana.
In “Ma quale DNA”, le parole come “sincretismo” e "partecipazione" hanno maggior valenza rispetto agli slogan che vengono continuamente diffusi dai social e da una maniera di raccontare il calcio troppo spinta verso la celebrazione delle vittorie e delle imprese sportive del singolo, più che nei confronti degli uomini nella loro collettività, con i loro pregi e i loro difetti, che le hanno compiute.
Il calcio non viene descritto come materia minore rispetto ad altri sport, soprattutto quelli che esaltano in modo più spiccato l’individualità : dal giocatore di terza categoria all’amatore, dalla vecchia gloria che sta finendo la carriera in Serie D al giovane promettente di qualche cantera europea, tutti vengono posti sullo stesso piano, grazie ad una ricerca socio-antropologica esaustiva e rivelatrice, frutto dell’immensa cultura e dell’estremo interesse scientifico che il docente alessandrino mette a disposizione dei propri lettori.
Stiamo parlando di un testo accademico e di tutt’altro che facile lettura, ma estremamente necessario, soprattutto per capire cosa significhi veramente parlare di calcio moderno. Essendo appena uscito, grazie alla lungimirante opera di Battaglia Editore, “Ma quale DNA” esamina ogni sfaccettatura antropologica del gioco del pallone, arrivando a parlarci degli ultimi Mondiali, disputati in Qatar, partendo dall’Homo Ludens di Huzinga per poi arrivare a Pavese, Gianni Brera e al Basaglia di “da vicino nessuno è normale”. Perché il calcio, come gli uomini, è un fenomeno fluido, come fluida è la società nella quale prende vita e viene giocato ogni giorno, sul campetto di periferia come nelle grandi arene sportive.
Scrivere, raccontare e parlare di calcio dovrebbero essere, secondo Bruno Barba, pratiche veicolanti per trasmettere un’esperienza e, successivamente, interpretare i fenomeni che ne derivano. Saper descrivere il calcio per poi poterne parlare, saper individuare le cause tattiche per poter commentare un’azione sono operazioni che vanno ben più in là rispetto all’abbruttimento del linguaggio calcistico al quale siamo ormai da decenni abituati. Stiamo parlando di vera e propria fenomenologia, che non si scaglia a priori contro modernità e cambiamenti, in una retorica nostalgica ed ancorata al passato, me che ne entra a far parte in modo quasi naturale e descrittivo.
Raramente ho trovato un saggio calcistico che, in modo così naturale, eviti scontate sussunzioni e scada in effimere narrative nostalgiche per raccontare questo gioco. Se ovunque possiamo giocare a pallone, allora ovunque e a chiunque possiamo raccontarne le storie.
“Esiste una contraddizione di fondo tra il desiderio di formulare articolate teorie sui massimi sistemi calcistici e l’evidenza di alcuni fatti: se al novantesimo minuto della finale mondiale 1978 l’olandese Resembrink, invece che colpire il palo, avesse indirizzato la palla qualche centimetro più in là, sarebbe cambiata la storia di quella squadra arancione, dell’Albiceleste, e chissà persino il destino dell’Argentina e della sua infame dittatura.���
#ufficiosinistri#brunobarba#maqualedna#football#footballstories#reviews#footballculture#thebeautifulgame
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Dr. Schafausen, attraverso la mente
Chi ha detto che non si può inventare nulla di nuovo in musica? La dimostrazione del contrario è il progetto del Dr. Schafausen, all’anagrafe Sergio Pagnacco, creatore del Dystopian Metal. Questo genere contiene diverse influenze come metalcore, djent, trap e progressive metal. Le parole non riescono a rendere il risultato ottenuto dall’alchemica mistura. Una certezza è che il suono risultante è potente, d’impatto, d’atmosfera, mai domo, sempre in movimento, anche nei frangenti più calmi. Particolare, ancora più, coraggiosa, la scelta del tema trattato in questo How can you die?
Il Dr infatti prende in considerazione per i testi il mondo dei disturbi mentali. E lo fa cercando di ricreare strutture che possano richiamare lo stato d’animo dei pazienti. Se ce l’abbia fatta o meno è un punto di vista del tutto personale. Come personale è la reazione e la gestione dei disturbi. Entrando nel merito più strettamente musicale. Il disco apre con Brain Fog. Le carte sono subito scoperte.
Riff di chitarra incalzante, scream, ritmo elevato. Ma è solo l’intro. Dopo questa manciata di secondi il brano si arresta. Subentrano atmosfere trap, molto urbane. Cantato sospeso tra hipo hop e voce melodica. Questa tiene campo anche al rientro del ritmo delle chitarre e dei ritmi spezzati. I crismi djent sono tutti rispettati e perfettamente mixati a strutture più leggere. Elettronica, suoni distorti, effetti sonori, tutti elementi che si fondono a delineare un’atmosfera fluida.
Il finale è affidato alla voce in growl alternata a scream e pulito. Molto azzeccata l’alternanza di diversi tempi in puro stile mat. La seguente title track apre con un arpeggio di tastiera su cui poggiano note di chitarra. Il ritmo è moderato per offrire il giusto supporto al cantato rappato. A metà strada tra Linkin Park e Limpbiskitz il brano decolla sul ritornello con aperture iperdistorte. Si rientra in ambito più morbido ma solo per sgomberare la strada al nuovo assalto sonoro.
Questa volta si aggiungono anche le due covi più cattive a dare manforte. L’atmosfera non si alleggerisce neanche sulla ripresa del frangente più melodico. Se l’intento è far sentire il disagio all’interno della mente dell’ascoltatore, il risultato è raggiunto. Anger inizia lenta, introdotta da suoni lunghi di tastiera. Il riff arriva come un fulmine. Pieno, cattivo, sincopato, come il ritmo seguente. Si alternano due voci. Melodica e scream fino all’apertura più urban.
Su un tempo lento l’ingresso delle chitarre segna un appesantimento notevole del brano. Si accelera leggermente per dare la possibilità alla chitarra di produrre riff su riff. Il break centrale è davvero notevole. L’ambiente sonoro si apre. Visivamente si può immaginare un giovane ragazzo fermo in tarda sera in una piazza mentre si guarda attorno smarrito. Lo smarrimento si accentua quando la canzone deflagra con i soni delle chitarre e la voce in growl. Ottima la scelta di tenere il mid tempo come portante.
In questo modo tutti gli interventi strumentali sono intellegibili e godibili. Si passa a Gaming disorder. Qui la struttura della precedente si ripropone in un prosieguo stilisti che diventa anche narrativo. Forti sono i contrasti come le emozioni che si avvicendano. La contrapposizione di melodia e suoni spigolosi è perfetta per la narrazione. Nel break centrale la voce in growl viene doppiata da una in scream. L’effetto è assolutamente coinvolgente.
Allo stesso modo i cori che accompagnano il passaggio successivo. Nuovamente voce growl e scream, quasi a simulare un dialogo tra due entità interne alla mente del protagonista. Fino all’epilogo. Daydream è un brano d’atmosfera. Apre con una base trap molto notturna. Questa si interrompe per dare spazio ad una chitarra in accordi. Subito dopo un’esplosione elettrica di pura potenza. Nuovamente le due parti in perfetta contrapposizione si scambiano battute.
Nonostante questa corsa in due, a dominare è sempre l’atmosfera. Si è persi in un vortice di sensazioni accentuato dal continuo passaggio da una tecnica vocale all’altra. L’operato della sezione ritmica è più che notevole. Non deve essere facile darsi il cambio con le parti elettroniche e allo stesso tempo essere così inarrestabili. Il brano successivo è We are digital. Questa volta si parte subito in quarta. Ritmo incalzante, wall of sound, voce sporca. Cala leggermente l’atmosfera generale sul primo break.
La vera sopresa arriva successivamente con l’utilizzo di un cantato ‘lungo’ contrapposto al ritmo serrato di base. Nuovo cambio circa a metà. Si rallenta, ma solo prendere la rincorsa verso la potentissima sezione successiva. Le due chitarre si distaccano. Una rimane sul ricamo su note acute mentre la seconda esegue ritmiche sincopate su note basse. Ennesima accelerazione, quasi in blast bit. Frenata improvvisa, apertura acustica. Si torna a suoni pieni. Ritmica serrata, non veloce con cassa in ottavi su china in quarti. Di nuovo suoni aperti per il finale non distorto.
Hikikomori è un brano dedicato ad un nuovo disturbo che sta prendendo piede tra i giovani soprattutto in Giappone. Persone che decidono di non uscire più di casa, se non direttamente dalla propria stanza. Un isolamento volontario dovuto alla paura di affrontare il mondo. Tenendo presente il concetto si riesce a seguire musica e cantato alla perfezione. Soprattutto da un punto di vista emotivo.
I cambi, come negli altri brani sono incalzanti. Le voci si alternano ora per dare fiato alle paure, ora alla coscienza, ora alla speranza e alla rassegnazione. La lotta appare impari. Il protagonista non riesce a venire a capo delle proprie paure. E porta l’ascoltatore tra esse. Ultima canzone, nell’ordine Spotify, è Comet. Un arpeggio di piano introduce al viaggi interstellare. È quasi come se Bowie avesse incontrato il Djent (si passi il paragone forte).
Le ritmiche sono sempre poco ortodosse, spezzate. Le voci si affastellano, si scambiano il testimone mentre la nostra fantasia è portata sulla coda della cometa. Ad assaporare il paesaggi e, soprattutto, il disagio. Il contesto non va mai dimentica in questo disco. La struttura circolare ripropone l’arpeggio iniziale.
Concludendo. Un disco impegnativo, quello del Dr. Schafausen. Impegnativo sia per i suoni, sia per la struttura dei singoli brani, sia per i testi. Non si potrebbe ascoltare con leggerezza. Ha dalla sua una complessità rilevante a livello tecnico, tuttavia possiede quella vena catchy e di contemporaneità che potrebbero portarlo lontano.
Non rimanere fermi e attendere che strada farà da solo.
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I ritratti dei Medici alle Gallerie degli Uffizi: il libro
Il libro che vi propongo oggi è una sorta di guida riccamente illustrata che ci porta alla scoperta dei ritratti dei medici alle Gallerie degli Uffizi. Pubblicato da Officina Libraria, diventa un prezioso strumento di consultazione per apprezzare al meglio i ritratti medicei appartenenti alle collezioni degli Uffizi. Il volume è caratterizzato da una narrazione fluida e coinvolgente che mette…
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Espérance Hakuzwimana
https://www.unadonnalgiorno.it/esperance-hakuzwimana-ripanti/
È da tutta la vita che sono una persona nera. Non l’ho scelto ma so benissimo cosa vuol dire. Spesso però sono gli altri a non saperlo, a dimenticarlo. Sono nera, italiana, donna, e scrivo.
Espérance Hakuzwimana Ripanti, scrittrice e attivista che usa la narrazione come strumento per portare avanti la sua lotta di donna nera in paese che le ricorda il colore della sua pelle da quando ci ha messo piede.
Fa parte di Razzismo brutta storia, movimento che lavora con giovani, associazioni, scuole, carceri e biblioteche per smontare gli stereotipi alla base di tutte le discriminazioni. Ha un programma che parla di libri e attualità a Radio Beckwith Evangelica.
Nata in Ruanda il 9 settembre 1991, negli anni del genocidio, ha vissuto in un orfanotrofio per tre anni prima di essere portata in un centro di accoglienza improvvisato nella provincia di Brescia da dove è stata poi adottata da una famiglia italiana.
Nel percorso di crescita e ricerca della sua identità, sin da bambina, i libri sono stati il suo rifugio e conforto. Le parole il suo mezzo espressivo, il bisogno e il dovere di raccontare.
Ha studiato Scienze Politiche all’Università di Trento e nel 2015 si è trasferita a Torino per frequentare la Scuola Holden dove si è specializzata in giornalismo, media e comunicazione.
Dopo una vita trascorsa a rispondere a domande e curiosità altrui, sulle sue origini, sulla sua pelle, sulle sue opinioni, ha iniziato a servirsi della scrittura come strumento per riappropriarsi del suo spazio ed esporsi, rivelarsi, a modo suo, nei suoi termini, alle sue condizioni.
Il suo debutto letterario è stato col racconto Lamiere nell’antologia curata da Igiaba Scego dal titolo Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, del 2019. La narrazione di undici donne italiane afrodiscendenti che raccontano il loro passato per creare un legame con il futuro.
Nello stesso anno è uscito il suo primo libro E poi basta. Manifesto di una donna nera, edito da People, che racconta i passaggi che l’hanno portata a scoprire chi è e chi può essere.
Racconta di come ha vissuto sul proprio corpo le conseguenze del razzismo, di come è stata dissuasa a prendere parola e impegnarsi pubblicamente, di come ha scoperto che cosa significhi essere donna e nera in Italia, attraverso episodi minuti, quotidiani, usando prosa, lettere, citazioni, pezzi di diario, elenchi, attraverso le frasi che si è sentita ripetere in ogni luogo e attraverso i libri di altri e altre. Un saggio, una biografia, una ballata, un manifesto: la storia della sua lotta contro i pregiudizi e la ricerca di soluzioni, tra il buio e la luce del sole.
È del 2022 il suo secondo romanzo, Tutta intera, edito da Einaudi. Storie d’identità, paura del diverso e desiderio di appartenenza. Di discendenze lontane e di un domani che si esige nelle proprie mani. Raccontate da Sara, un’insegnante che credeva di vedersi tutta intera, invece si accorge di dover ancora mettere insieme molti pezzi. Uno sguardo sul mondo completamente nuovo e urgente.
Espérance Hakuzwimana ha una scrittura fluida, coinvolgente, necessaria e una dialettica virtuosa, sa dosare le parole giuste per comunicare e raccontarsi, come stilettate che costringono a bagni di realtà. Una piccola grande donna, minuta e potente che, parafrasando una sua affermazione, non rappresenta i nuovi cittadini, ma i prossimi.
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Dalle stelle...alle stalle.
Quest'oggi ho deciso di parlare di due drama che mi hanno lasciato emozioni alle antipodi.
Uno l'ho trovato stupendo. L'altro mi ha fatto domandare se anziché vederlo non avessi potuto fare cose più produttive. Tipo che so'...cogliere pinoli.
Mad For Each Other
Ho iniziato questo drama convinta che mi sarei vista una commediola da ridere piena di personaggi strambi e cose senza senso. D'altronde il trailer andava in questa direzione ed io ci ho creduto pienamente.
Sono perciò rimasta piacevolmente sorpresa quando mi sono accorta che sì, la serie aveva delle parti divertenti e esilaranti...ma raccontava anche tematiche molto interessanti ed intense.
Soprattutto ho trovato perfetto il modo in cui Mad of each other lo abbia fatto: il mixer tra momenti più introspettivi e pesanti si sposa perfettamente con i momenti comici, tirando fuori una narrazione fluida, naturale che non annoia mai. Merito anche delle 13 puntate da 30 minuti l'una che consente di non allungare il brodo con cose inutili o ripetere questioni, ma di andare sempre dritto al punto senza mai annoiare.
Mad for each other parla " di due persone con le loro storie dolorose che attraversano un complicato processo di dolore e guarigione mentre si innamorano l'una dell'altra. No Hwi Oh è un detective della divisione crimini violenti della stazione di polizia di Gangnam. Pensa di stare bene finché la sua vita non prende una svolta e diventa una persona "pazza" che non riesce a trattenere la rabbia. Lee Min Kyung è una donna che è presa dalle proprie delusioni e compulsioni. Aveva avuto una vita normale come una bella donna con un lavoro rispettabile fino a "quell'incidente" che fece crollare tutto nella sua vita. Di conseguenza, non è stata in grado di fidarsi di nessuno ed è imprigionata in una cella mentale di sua creazione. Le sue delusioni hanno anche lo sfortunato effetto collaterale di far arrabbiare tutti gli altri intorno a lei. (Fonte: Soompi)
Ho amato la storia proprio perché tratta di dolore, problemi e... piano piano di guarigione. Una storia che proprio perché intrinseca ad ognuno di noi, più colpire facilmente l'anima dello spettatore e "costringerlo" a svariati spunti di riflessione. Detta così sembra che Mad For Each Other sia un pippone tragico ma in realtà, grazie a scene comiche ed esilaranti sapientemente piazzate, il mixer che ne esce risulta equilibrato e di facile scorrevolezza. Inoltre presenta altre storyline che rendono il tutto molto più vivace.
Sicuramente gran parte della sua bellezza questa serie la deve ai personaggi principali, alle loro caratterizzazioni ed introspezioni. La serie fa un lavoro encomiabile nel raccontare i loro turbamenti e problematiche in un modo onesto e credibile. Il tema dei "problemi mentali", delle ferite del passato, dell'identità di genere, dei traumi, della guarigione vengono affrontati così bene che sembra tutto molto naturale.
Anche i personaggi minori per quanto non troppo importanti ai fini della trama, sono stati caratterizzati bene e spingono fuori qualche pensiero e risata. La loro bella presenza rende il micro mondo di Mad For each other ancora più vero e realistico.
Ultima cosa: Ho amato il fatto che TUTTI i personaggi fossero essenzialmente dei perdenti. Nessun riccone bello come il sole, nessuna fotomodella o CEO con traumi alle spalle. Qui i personaggi sono degli sfigati, delle persone comuni con problemi attuali e con qui qualsiasi spettatore può empatizzare.
Voto: 8,4
lcuni possono dire che l'aver risolto i problemi dei due lead tramite la storia dell'amicizia e fiducia sia troppo semplicistico ma in realtà era esattamente quello che mi aspettavo mentre andavo avanti con la storia. Per quanto l'inserimento della psichiatra sia encomiabile per rispettare il realismo, stiamo comunque parlando di un drama, dove le emozioni e la storia devono pur avere sfogo.
Hwi Oh e Min Kyung sono due personaggi feriti, arrabbiati e delusi, le cui problematiche affondano nel passato, nelle loro relazioni con le altre persone e che facendosi forza uno con l'altro, ricostruiscono piano piano le loro vite. E come lo facciano, il percorso, i passi avanti e indietro, i dubbi, le incertezze ed i risultati fanno davvero piacere allo spettatore.
Ho altresì amato come nel loro percorso di guarigione non tutto sia andato sempre liscio: alcune volte Min Kyung è sprofondata di nuovo nell'insicurezza e Hwi nella rabbia. E questo l'ho trovato così credibile! E' realistico il fatto che si possano avere delle ricadute e che si abbia la forza per affrontarle.
Mi sono anche tanto piaciuti i personaggi comprimari che proprio comprimari non erano: tramite loro la serie tratta tematiche importanti come l'identità di genere, l'haters sul web, i pettegolezzi, il precariato ecc ecc. Ma la serie li ha portati su schermo con freschezza ed un pizzico di leggerezza senza mai essere irrispettosa.
Uno dei migliori drama visti quest'anno!
Back To 1989
Dopo aver parlato di cose belle è ora di tornare con i piedi per terra.
Back to 1989, ossia un drama il cui sottotitolo dovrebbe essere all'incirca" Luke...sono tuo padre. Forse."
Si parte male già dall'inizio: la storia del lead che fa un viaggio nel passato per conoscere l'identità del padre e le origini della sua nascita è un incipit troppo povero per farci una serie da 20 episodi e passa. A meno che tu non sia Gesù.
Ma questo è: Chen Che ( Marcus Chang ) è un uomo di 30 anni - all'incirca...la sua età precisa è un Mistero della Fede - che non ha mai conosciuto suo padre e che proprio per questo motivo ha attriti con sua madre. Chen Che negli anni ha implorato sua madre, ha indagato sull'identità del papà ma la madre si è sempre opposta ad ogni sua domanda sul dirgli la verità. Dopo una litigata pesante con la madre proprio per questo motivo, Che Chen fa un incidente in moto e si ritrova nel 1989. L'anno prima della sua nascita. Amen. Appena giunto nel passato, fa la conoscenza di Ye Zhen Zhen ( Ivy Shao ) allegra e spensierata ragazza che è nientepopòdimeno sia collega di lavoro della madre di Chen Che sia sua migliore amica. Quale modo migliore di scoprire le sue origini se non questo? Riuscirà Chen Che a scoprire chi sia suo padre e perché sua madre non vuole nemmeno che sia nominato?
Come detto sopra, trovo pesante il fatto di dedicare 20 episodi a questa storia. Per quanto interessante e fulcro della vicenda, venti episodi da un'ora sono decisamente troppi. E se ne devono essere accorti anche gli sceneggiatori che hanno ben pensato di allungare la serie con storie e momenti di cui non frega nulla a nessuno. Diciamo che la serie entra nel vivo dal 13° episodio in poi. I primi 12 episodi sono skippabilissimi.
Devo dire che invece il mistero di chi sia il padre del lead e cosa sia successo nel passato della madre è intrigante e mi ha tenuta incollata allo schermo. La curiosità morbosa di sapere cosa e perché mi ha fatto andare avanti anche quando avrei tanto voluto droppare. il fascino del gatto morto?
Un'altro motivo per non droppare è stata la giovane madre del lead - uno dei due unici personaggi sani di mente - ed il chitarrista. Loro due sono stati gli unici personaggi credibili e abbastanza interessanti che abbiano attirato la mia attenzione e di cui mi è veramente fregato qualcosa. Soprattutto la madre del lead è stata un davvero un bel personaggio, credibile e realistica con reazioni e processi di pensiero verosimili e per cui sono riuscita ad empatizzare davvero.
Ed in motivi per cui droppare invece?
Innanzitutto la protagonista femminile. Zhen Zhen è forse una delle peggiori lead che io abbia mai visto e perciò si piazza nel mio podio personale delle lead peggiori grazie ad una combo micidiale di inutilità, immaturità, infantilismo ed egoismo.
Oltre a ciò, il finale è qualcosa di terribile dal punto di vista logico ed emotivo. Non dirò di più qui perché non è il posto adatto...ma la fine mi ha fatto fare delle grosse e grasse risate per la sua eccessiva semplicità e povertà di scrittura.
Voto: 7,5 ( e sono stata generosa )
Da dove comincio?
Partiamo dalla lead.
Zhen Zhen ha tra i 22 e i 26 anni. Lavora come agente di borsa ed ha una famiglia amorevole e molto presente. Ha molti amici, una migliore amica adorabile ed una vita tutto sommato invidiabile. Sopratutto rispetto alle solite lead dei drama che sembrano tutte uscite dal mondo della disgrazia.
E' quindi ovvio che gli sceneggiatori abbiano deciso di affibbiargli disgrazie per vie traverse: caratteriali e intellettuali per la precisione.
Zhen Zhen infatti, si comporta come una tredicenne. Ma posso io vedere una che a 22 anni e passa, fa quiz sul Cioè taiwanese per capire se le piace il lead? Una specie di test " 15 domande per scoprire se sei innamorata" .
Cosa ho fatto di male per sorbirmi 10 minuti di puntata dove la protagonista femminile sbuccia mele allo specchio perché le hanno detto che se lo fa, a mezzanotte vedrà la faccia del suo futuro marito?!
Zhen Zhen è talmente matura e responsabile che decide di andare nel futuro con il suo amato senza dire manco CIAO alla sua famiglia, senza salutare niente e nessuno perché accecata dall'amore. e dagli ormoni Decide così, su due piedi, di mollare la sua vita attuale per partire sulle ali dell'amore ed iniziare una nuova vita nel 2016. Senza manco dirlo a lead.
Zhen Zhen è talmente accecata dall'amore e talmente poco stratificata e interessante che mentre il protagonista lotta e soffre internamente per aver scoperto di essere frutto di uno stupro [tematica profonda e pesante] lei compra tartarughine perché siano simbolicamente i loro figli.
E che dire della storia d'amore? Ora, io amo Marcus Chang e non nego che soprattutto all'inizio io abbia continuato la visione perché Marcus aveva sto vizio di togliersi la maglia ogni due per tre. Ma nemmeno l'amore per lui ha potuto togliermi dalla mente la sua recitazione e la chimica con la protagonista femminile. La sua prova attoriale infatti, l'ho trovata poco convincente - soprattutto se penso a Lost Romance - e poco coinvolto nella storia d'amore. Se infatti per la lead esisteva solo Cheng Che ed il suo personaggio ruotava tutto attorno ad esso, il protagonista aveva una storyline sulla sua nascita che doveva seguire. Ed è questo pensiero che occupava la mente di Cheng Che per gran parte del drama. Quindi tu avevi la lead che moriva appresso al protagonista e lui che pensava solo a chi potesse essere suo padre. Estraniante a dir poco.
E possiamo parlare dell'amico/ Fratellone? Colui che una volta scoperto che la ragazza di cui era innamorato era stata violentata, le fa credere che sia stato lui a stuprarla perché così avrebbe sofferto di meno. Meglio che a violentarla sia stato uno di cui si fida, un fratello e amico piuttosto che un tizio random per la via. E quando viene fuori questa balla, gli amici e fidanzato della ragazza, anziché ammazzarlo di botte...lo ringraziano. Non commento neanche.
Poi c'è la questione del padre del protagonista. Dici te: siamo andati nel passato apposta. Verrà analizzato, amplificato, raccontato. No?! No. Ci viene detto chi è, come si è svolta il concepimento e stop. Ciao. Il padre del protagonista viene arrestato e di lui non si saprà più nulla. C'è di buono che "il gioco delle tre carte "con i potenziali tre padri di Cheng Che gli è riuscito bene.
Ed infine il finale. Io me lo sentivo che sarebbe finito a merda. Mentre mi avvicinavo al finale pensavo :-" Lui tornerà di sicuro nella sua epoca. Ma lei? Come gestiranno una storia d'amore divisa nel tempo?"
Ma niente...la gestiscono così: lui torna nel presente, scopre che lei è morta tre anni dopo il suo ritorno al 2016 e dopo vari giri di peppe, lui se la ritrova davanti bella ventenne. A quanto pare Zheng Zheng nell'incidente in cui è "morta" non è deceduta ma tramite un complesso sistema di specchi e leve[CIT] - leggi sceneggiatura - ha viaggiato fino al 2016, apparendo di fronte al suo amato bella come quando aveva vent'anni anche se la differenza d'età tra i due è di venti e più. E voglio vedere mo' come lo spiegano alla famiglia e amici! XD
#mad for each other#kdrama#korean drama#back to 1989#tw drama#taiwanese drama#marcus chang#ivy shao#chen che#zhen zhen#oh yeon seo#lee min kyung#jung woo#no hwi oh
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VIRTUAL ART EXHIBITION- EMOTION INSIDE ___ @alessandroandreuccettiart Amazzone Tecnica: Acrilici su piastra di ceramica 60x60 cm ___ Intensa è la narrazione emozionale che si cela nell'opera Amazzone di Alessandro Andreuccetti. L'artista indaga sulla commistione fra natura ed essenza umana, essenziali per la vita spirituale e fenomenica del singolo individuo. Interessante la lavorazione materica che prende vita dallo sfondo evanescente su cui si libra la figura femminile sul cavallo, essa risulta libera, dinamica, evoca quella spensieratezza primordiale della vita umana. La lavorazione su piastra di ceramica fa vibrare le cromie plasmando una narrazione fluida e armonica che si anima mediante campiture dinamiche nella coesistenza fra lo studio lineare delle figure e la valenza astratta delle cromie che evocando quelle nature emozionali tipiche della poetica di Andreuccetti. L'opera si pone come una narrazione introspettiva che riverbera nella simbologia dell'amazzone quale donna guerriera, libera, caratterizzata da un'anima battagliera e dallo slancio vitale dell'essenza umana. . . . . . #art #explore #explorepage #explorepageready #explorer #explorerpage #exploretheworld #foryou #fyp #landscape #likeforlikes #love #music #naturephotography #reels #tiktok #travelgram #travelphotography #trending #viral #wanderlust #اكسبلور #instagood #instareels #trend #reelsdaily #foryoupage #reelsdance #instagramreels #fashion via @hashtagexpert (presso Maremma Tuscany) https://www.instagram.com/p/CWTcip0NkT8/?utm_medium=tumblr
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The Tatami Galaxy; Masaaki Yuasa; 2010.
“Si tratta di una stramberia”, questa è la prima cosa che mi verrebbe da dire su The Tatami Galaxy. Ma allo stesso tempo forse si tratta di una delle più accurate descrizioni dell’esistenza umana. Come infinito miscuglio di possibilità che si intrecciano e si escludono le une con le altre e come continuo e costante alternarsi tra idealizzazione e realizzazione. Quello che questo anime mi ha trasmesso profondamente è che non esiste una via rosea, unica e totalizzante della vita, ma piuttosto un fitto groviglio di sentieri che si dipanano davanti ai nostri occhi alla stessa maniera di quanto non succeda nella nostra mente. Praticamente come a dire che dentro di noi esistono tante persone, con i loro interessi, con le loro dedizioni e i loro tempi, passati e futuri. E che magari ci portiamo dietro (pure inconsapevolmente) anche tutte le scelte che non abbiamo compiuto o che non abbiamo mai neanche immaginato. Insomma un labirinto di pensieri, idee, emozioni a volte discordanti delle quali noi siamo l’unica vera concretizzazione.
Il tutto è condito con un’estetica frizzante e un cast di personaggi assolutamente peculiari, che incarnano, in maniera un pochino iperbolica, una vasta gamma di indoli e comportamenti tipicamente umani. Menzioni speciali poi all’aspetto del colore, praticamente protagonista aggiunto della narrazione con la sua brillantezza e varietà e all’aspetto dell’animazione: fluida, dinamica e accattivante.
(Ah, la trovate comodamente su Netflics e sono solo 11 episodi, per cui non avete scuse per non vederla)
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la mia vita al tempo del COVID-19 (giorno 25)
Qualche giorno fa mi ha scritto Alice S. una giovane laureanda che sta preparando una tesi su:
IL CORPO DELLA DONNA TRA STEREOTIPI E CLICHÉ IN AMBITO PUBBLICITARIO E LA RAPPRESENTAZIONE NELL’AMBITO ARTISTICO CONTEMPORANEO.
“Gentile Andrea,
Le allego le domande per l’intervista che vorrei inserire all’interno della mia tesi di laurea magistrale; intervista con Lei concordata ...
Può rispondermi per mail con tutta calma, quando troverà un po’ di tempo da dedicarmi.
Nel frattempo La ringrazio infinitamente per la disponibilità e in anticipo per il tempo che mi dedicherà.
Cordiali saluti” Alice S.
Cara Alice, ho letto con attenzione le domande della tua intervista, e dal momento che non si prestano a lapalissiane risposte (complimenti), ho deciso di rispondervi in quiete… per questo motivo mi permetto di non seguire l’ordine (perdonami), in cui me le poni, mi atterrò a un mio personale disordine che mi consentirà alla fine di sviluppare un unico discorso in divenire.
“Qual è la Sua percezione del corpo femminile? Come avviene il passaggio dall’immagine immaginata di un corpo alla seguente trasposizione su tela? Quali sono i tratti femminili che vuoLe mettere in risalto?”
Prima di approfondire il discorso vorrei precisare che nella mia arte non c’è limite. La mia arte è il superamento del limite stesso. Anche quando scrivo (posso dare l’impressione di essere autobiografico anche quando parlo di una sogliola), in realtà il fine non è di raccontarsi, spiegare o peggio ancora di giustificare, ma il tentativo estremo di ridefinire.
Tu mi domandi della mia percezione e della seguente trasposizione del soggetto, del corpo femminile… Be’ devi sapere che spesso le mie figure vengono definite dalla critica con termini tipo: ambigue, adolescenziali, androgine… in realtà si tratta di una lettura epidermica, non esauriente ai fini dei contenuti. Io sento e vedo le mie figure, anche quelle maschili, come piccole isole alla deriva in un oceano donnesco. Muliebre. L’identità è qualcosa di sghembo per me che non si confronta e non è facilmente, comodamente riconducibile al senso di appartenenza di una persona al genere con il quale essa si identifica. Non è esplicitamente etero, ma nemmeno, LGBT non è intersessuale, non è asessuale e non si tratta nemmeno di sessualità fluida. Semplicemente non ha un costrutto. Piccole isole che nuotano, attraverso cicli di identità sovrapposti.
Può apparire maschile, poi diviene incorporea, poi decisamente femminile, eroticizzata, femminile in modo schiacciante. Capita così, e viceversa, nella mia pittura.
Una persona una volta mi ha detto: “ho sempre l’impressione che le donne trovino le tue opere più interessanti degli uomini”… si trattava di una donna… Credo di aver compreso cosa volesse dire, ma i miei dipinti sono gesti che riguardano uomini e donne; una volta percepiti (e non solo guardati), ci si rende conto che ciò che è femminile include anche ciò che è maschile, e viceversa. C’è qualcosa che impedisce di percepirli in modo distinto, opposto. Mi piace pensare che tutti possano tracciare la propria strada, la propria inclinazione di genere entrando nei miei quadri.
Non so se nel mio approccio, nel mio tipo di lavoro si possa parlare di veri e propri “tratti” che amo mettere in risalto rispetto ad altri. Il mio modo di intendere la nudità, ad esempio… La nudità, sia maschile che femminile ci induce a pensare in termini elementari: NUDO = sprovvisto di abiti. Ma per quanto concerne il mio concetto, il mio modo di concepire e poi di mettere su tela un corpo nudo, c’è sempre tutto un guardaroba che affolla i miei pensieri. Qui, nella mia testa. Il guardaroba per me, è uno strumento concettuale e psicologico. Il guardaroba dei miei soggetti può comprendere, una scarpa, una bottiglietta di profumo, un frutto o la luna piena …mi viene in mente una raffigurazione della dea Shiva in cui è rappresentata completamente nuda, o per meglio dire: vestita solo di una luna tra i capelli…
Per spiegarti meglio cosa intendo per psicologia del guardaroba a proposito dei miei soggetti dipinti ti farò un esempio che a che fare con la mia quotidianeità. Spesso, anzi, praticamente sempre, io non mi vesto pensando al mio aspetto, tenendo conto della praticità o della mera estetica di ciò che vado ad indossare. A volte non mi vesto nemmeno a seconda delle stagioni, del meteo… questa mattina sono andato a prendere le sigarette in ciabatte, nonostante la neve. Io mi vesto a seconda di come mi sento. La stessa cosa accade quando dipingo una figura. La nudità dei miei soggetti non è mai un tratto “in risalto”, esibito, ma pretende di mostrare all’osservatore uno Stimmung, una disposizione d’animo. Uno stato d’essere. Nelle tradizioni contemplative anche il corpo è considerato un vestito, un indumento che dovrebbe essere messo al momento appropriato.
Qualcosa che ha a che fare con la staticità e il movimento interiori… questa donna nuda che ho dipinto recentemente: plastica, statica, ma in un certo senso è come se costringesse lo spettatore a “muoversi”, a vestirla, appunto… per poterla realmente comprendere.
Si tratta di argomenti imprescindibili nel mio modo di concepire e intendere il corpo nudo dipinto. I miei corpi nudi devono essere la narrazione di un epopea, ispirazioni, citazioni e aspirazioni intime e letterarie, anche. Sono simboli. Un torso appoggiato al mare, un volo tra le stelle, un corpo purpureo nei riflessi dell’autunno, un singhiozzo di neve sulla neve… corpi femminili che emergono dall’ombra e dalla luce insieme, dal nero, dal blu, dal fuoco dei miei dipinti.
Mi fanno pensare a Dio. Per me, Dio è una donna.
Mi auguro di non esser stato oltremodo esuberante nel risponderti. Mi succede quando devo argomentare il mio lavoro artistico… la mia vita. In pittore che scrive è perseguitato dall’immaginazione, dal senso del teatro. Ama l’illusione, e prova un irrazionale affetto per il naufragio. È solo. Perché è più naufrago il naufrago che è più solo
Fine giorno25
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[Di quesiti esistenziali e della ricerca di responsi.]
Interrogarsi
Ci sono domande scomode con le quali prima o poi tutti noi ci confrontiamo. Lo facciamo quando qualcosa è già accaduto e vorremmo tornare indietro o quando sentiamo che qualcosa di nuovo sta per succedere e ci sentiamo impreparati, quando siamo assaliti dai dubbi, quando la tristezza e la frustrazione che ci portiamo dentro iniziano ad apparire anche in superficie, quando siamo incerti sul percorso da seguire. Lo facciamo in momenti diversi, per motivazioni diverse.
Nonostante tutti gli sforzi compiuti per evitare il confronto, quel momento arriva per tutti: la resa dei conti si ripresenta con il suo carico abnorme di interrogativi e ci ritroviamo a guardarci dentro. Investighiamo i nostri pensieri, indugiando in cerca di risposte o di prese di coscienza improvvise.
«Sono chi vorrei essere? Riesco ancora a riconoscermi? Cosa ne ho fatto di me e dei miei sogni? Ho dato uno scopo alla mia esistenza? Sto vivendo la vita che vorrei o solo un surrogato?» - ci chiediamo.
Il punto è che, spesso, la risposta non rientra nel sistema diadico del sì e no. La maggior parte delle volte rimane intrappolata nella nebbia dell’incertezza del “sì ma…” o “no però…”, come se fossimo sempre in lotta tra la felicità ottenuta e i rimasugli di sogni o i resti di noi che abbiamo abbandonato per strada, tra l’illusione adattativa del sé che ci siamo costruiti e la consapevolezza delle conquiste raggiunte nonostante le deviazioni di percorso.
C’è stata una svolta significativa nella mia vita, una sorta di spartiacque tra la me decisa, determinata, focalizzata solamente sulla riuscita e quella piena di insicurezze. Da quel punto in poi, ho percepito una sorta di irresolutezza in me. Sia chiaro, non sono mai stata brava ad indagare la mia geografia esistenziale, a capire come spostarmi, quando farlo, con quali compagni di viaggio, quale equipaggiamento portare ogni volta - l’intero bagaglio emotivo ed esperienziale, solo in parte o viaggiare leggera -. Non sono riuscita a interpretare in maniera corretta le coordinate dei miei sogni né a seguire la bussola delle mie ambizioni per sapermi orientare o creare un microcosmo a me caro. Non ho mai vissuto solo di certezze o di convinzioni solidificate - ne ho sempre avute poche - né tantomeno sono riuscita a rimanere lucida quando era necessario scegliere. Non sono mai riuscita a contrapporre il piglio razionale e far prevalere la determinazione disarmante degli inizi.
Le mie conclusioni erano sempre provvisorie o in conflitto con la realtà. Per la loro natura fluida e flessibile, non persistevano nel tempo, tranne una. Avevo un solo scopo. La sua natura era l’unica a rimanere costante e a ispirarmi gli stessi pensieri di felicità. Era intatto. Essenziale, tutt'altro che iperbolico. Mi aspettava. Oltre gli ostacoli e le interruzioni. Dovevo solo muovermi verso quello. Facile, no? Se è quello che vuoi, basta imporre la giusta direzione ai tuoi passi in modo da raggiungerlo. Peccato che negli anni non ho fatto altro che allontanarmici.
Ho provato a rimettermi in discussione. Ho provato a rafforzare la passione singolare degli esordi e perseguire la mia personale battaglia di affermazione. Molte volte, mi sono ritrovata a chiedermi: “Sono davvero una narratrice consapevole della mia storia? La mia narrazione del passato, del presente e delle mie prospettive future è coerente tanto da dare senso all'intera storia della mia vita? La coerenza, l’adesione alla storia sono poi di così vitale importanza o la mia vita avrebbe comunque senso se io, ad un certo punto, mi discostassi interamente dalla mia rappresentazione iniziale, dai miei obiettivi prefissati, dai miei sogni, da quell'unico scopo rimasto costante, e rivoluzionassi completamente la trama?
Queste domande si riproponevano ad intervalli regolari, con uno strano accanimento.
Di risposte non ne ho mai avute. Avevo solo quello scopo. Molte volte, ci ha pensato la vita a fornirmele. Non erano quelle che avrei voluto ricevere, certo.
Ho sempre creduto però di poter cambiare la storia che mi riguardava.
Ora che sono qui ad osservare lo scorrere del tempo della mia narrazione, mi chiedo:
«È davvero così? Si è sempre in tempo per cambiare la propria vita o si arriva ad un punto in cui è irrimediabilmente tardi per rivoluzionarla, per far sì che la narrazione ideale corrisponda a quella reale?»
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⚠️ NOVITÀ IN LIBRERIA ⚠️
Vietato vietare! Era questo lo slogan che, nel nostro ’68, i giovani dell’allora “sinistra alternativa” urlavano per le strade. In realtà, proprio in quegli anni, la sinistra occidentale stava subendo una mutazione antropologica che l’avrebbe portata, da sedicente vessillifera dei “diritti delle masse e dei lavoratori”, a farsi interprete degli interessi delle piccole minoranze.
Abbandonati i retaggi del socialismo reale, la sinistra si arenò nella palude ideologica di una “rivoluzione sessuale” che rientrava a pieno titolo nel soft-power culturale dello sradicamento globale: i gay pride e le teorie gender presero il posto del sindacalismo di base e delle lotte operaie, mentre la mentalità della “società aperta” – tipica del mondo liberal – impose una nuova narrazione: dall’attacco alle identità di genere all’ideale di un’umanità fluida, dalla sessualità come “scelta intercambiabile” all’affossamento della famiglia naturale, dalla proposta di un “femminismo radicale” allo sdoganamento della pedofilia.
In merito a quest’ultima, sta prendendo piede un pericoloso percorso di “normalizzazione” che investe il diritto, le norme sociali e il dibattito politico, secondo una “erotizzazione dell’infanzia” che non lascia spazio alla fantasia.
Questo saggio – frutto di una profonda ricerca sul tema – ripercorre le tappe dell’evoluzione culturale e metapolitica del progressismo, riallacciandosi all’attualità. Un viaggio, coraggioso, lucido e controcorrente, che si conclude con l’analisi dei vergognosi abusi del Forteto e di Bibbiano: un tema scomodo e scottante, che mette in luce i subdoli esperimenti sociali e le violente manipolazioni psicologiche perpetrate ai danni dei minori, regalandoci una impietosa radiografia del contesto ideologico – oggi inserito nel verbo del “pensiero unico” – che mira alla sovversione dei capisaldi tradizionali.
INFO & ACQUISTI
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Blusex, un ottimo disco di esordio
Non si possono che fare in complimenti ai Blusex, giovanissimo combo salentino, per il loro album d’esordio. Certo, non è raro trovare gruppi che fin dal primo disco si esprimono già molto bene. Un po’ più difficile è ascoltare band davvero ispirate. I Blusex rientrano in questa casistica. Base rock, in italiano, ma contaminato da mille influenze diverse. Ci sono canzoni con richiami più diretti, come il caso di Baby lo sai, loro primo singolo (recensione), andamenti più reggeaggianti, indie, blues, con venature funky, rythm and blues. Tutto senza il minimo problema di coerenza stilistica. Che in ogni caso c’è. Solo che è dettata dallo stile complessivo dei nostri. Uno stile pensa solo ad esprimersi. E per farlo non teme di mettere le mani in situazioni diverse. Anche molto distanti tra loro.
Si ascolti Uccidimi ora. Una falla buia, scura, pesante, claustrofobia, completamente agli antipodi rispetto alla maggior parte del disco. Una plauso alla voce. Riesce ad adattarsi ad ogni contesto con estrema naturalezza. È calda ed evocativa, così come arrabbiata e urlata. I brani al loro interno mantengono la coerenza dei cambi. I suoni stessi mutano. Da crunch si fanno acidi. Ora acustici, si abbassano i toni, poi impennano improvvisamente. Il tutto contribuisce a creare un disco variegato, stimolante. Sono anche presenti accenni agli anni ’70. In barcollo, una semiballad lisergica, fa capolino un suono di tastiera inconfondibile. Anche in questo caso è la voce a fare la differenza.
È perfettamente nel personaggio narrato dal testo. Quindi, di conseguenza, melodia strascicata, non troppo lineare. Gli omaggi agli anni di piombo proseguono con Occhi blu. Una ballata più classica che molto deve ai Fab four. Tutto li richiama. La strumming della chitarra, l’arrangiamento, la successione degli accordi. Sia ben chiaro che non è un plagio. È un omaggio a quel modo di fare musica. Si torna su coordinate più contemporanee con la seguente Il vino. Un brano poprock con sfumature indie. Molto azzeccato l’accompagnamento diviso tra chitarra acustica sovrapposta ad un’altra con un leggero crunch. Un brano leggero, ma non per questo banale. Fuori dai coglioni è un altro omaggio.
Questa volta ad un grande della musica italiana, Rino Gaetano. Dalla base strumentale alla metrica del cantato, tutto lo richiama. Soprattutto il testo. Ed è proprio questo che arriva in faccia come uno schiaffo nell’ultimo brano, Pensa. Rimane la leggerezza della base, fluida che passa da un andamento rock/funk alla fusion con naturalezza. Il testo invece è un sasso in uno stagno. La narrazione da intima si fa di denuncia sociale. Affronta un mondo che nella vita dei Blusex non deve essere lontano.
Parla di Cosa nostra, di persone che sparano, di gente che lotta, di libertà. Racconta dell’importanza, appunto, del pensare. Del fermarsi prima di agire e capire. Capire quello che sta succedendo, quello capita nella vita. Spiega come si importante riuscire a capire prima di tutto. Di quanto è fondamentale non giudicare senza conoscere. Sottolinea l’inalienabile diritto ad essere liberi pensatori. Cittadini che devono potersi fare un’opinione. Soprattutto a fronte e di fronte a chi ha perso la vita lottando contro un sistema corrotto e un altro colluso, infiltrato, radicato.
Concludendo. Si possono solo ribadire i complimenti ai Blusex. Bravi, in tutto. Non cercano mai di strafare. Gli strumenti non vogliono dimostrare nulla a nessuno. Solo a se stessi. Fanno bene il proprio lavoro. La produzione è pulita quanto basta senza per questo essere fredda. Anzi. I suoni sono avvolgenti. Nella capacità di scrittura c’è anche molta intelligenza. La capacità di miscelare ritmi saltellanti a testi non banali anche quando affrontano temi saturi come l’amore. Quello che è emerge dai solchi è una band affiatata, che si diverte. Che ha ben presente il compito della musica: non solo divertire ma far anche pensare.
Un disco consigliato a tutti. Un lavoro che ha diversi piani di lettura. Nessuno meno importante degli altri. Lo si può lasciare andare come sottofondo o lo so può ascoltare con attenzione. Quello che trasmette è la sensazione che si può provare in un giorno di primavera, sdraiati sotto un albero a guardare le nuvole che cambiano forma. Con i pensieri che vagano con leggerezza. Gli stessi pensieri che poi, non si sa per quale motivo, diventano seri, pregni di domande fondamentali. Un passaggio comune ai tutti, tuttavia non per questo per tutti uguale. Ed è questa la chiave di lettura di questo ottimo lavoro.
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Con la conformazione delle economie e degli assetti di potere politico emersa nell’epoca della globalizzazione, (...) sono venute drasticamente meno la base ideologica e quella sociale che per più di un secolo (...) avevano caratterizzato le sinistre: il socialismo marxista (...) e la base di consenso costituita dalle classi operaie, e da parte di quelle contadine e del ceto medio impiegatizio-intellettuale. I partiti socialisti hanno, da allora, in massima parte abbracciato un progressismo fondato soprattutto sul soggettivismo dei diritti e sul culto delle minoranze, diventando sostanzialmente i rappresentanti politici delle classi dominanti (...): la borghesia cosmopolita che raccoglie insieme alta burocrazia, dirigenza delle istituzioni internazionali/sovranazionali, imprenditori dell’economia digitalizzata, intellettuali accademici, operatori dei mainstream media, artisti attivi nei settori dell‘entertainment di massa. Una classe che quantitativamente oscilla tra il 10 e il 20% della popolazione, e a cui (...) si può sommare una parte dei ceti marginali che aspirano ad entrare nel giro della nuova élite, raggiungendo comunque al massimo il 30%. (...). Così, nel gioco democratico occidentale i partiti della sinistra sono divenuti strutturalmente minoritari. Un fenomeno accentuatosi ulteriormente a partire dalla grande crisi economico-finanziaria globale del 2007-20(11). Da allora, si è creata una frattura sempre più evidente tra le classi dominanti (...) e i ceti medi e medio-bassi impoveriti dalla concorrenza al ribasso del capitalismo (per modo di dire, ndr) asiatico (...) e smarriti dalla perdita di sicurezza e identità in società multiculturali sempre più conflittuali. Questi ultimi strati sociali, largamente maggioritari, si sono volti in misura crescente verso le forze sovraniste, conservatrici, identitarie accreditatesi proprio come scudo di protezione e stabilità contro le sperequazioni e le incertezze del “nuovo disordine mondiale”. Ma le élites progressiste detengono un’egemonia schiacciante nel mondo dell’informazione, della cultura, della formazione scolastica e universitaria, dell’intrattenimento di massa. Questo fa sì che esse puntino gran parte delle loro carte politiche sulla “narrazione”, sulla propaganda pervasiva e multiforme in favore di un modello di società “fluida” dipinta come un destino necessario di progresso in contrapposizione alla “barbarie” di ogni identità fissa e di ogni tradizione, oltre che come una infinita sorgente di opportunità di realizzazione dei desideri individuali. E’ questo il “catechismo” moralista, censorio che viene definito “politicamente corretto”: studiato per forgiare sistematicamente la mentalità conformemente alle categorie dettate dai ceti dominanti, e per delegittimare sistematicamente i loro oppositori, dipingendoli come portatori di “odio” e discriminazione, cercando regolarmente di espellerli dall’area del dibattito pubblico, invocando per essi la censura, e persino condannando le stesse procedure della democrazia quando (...) essi guadagnano la maggioranza dei consensi elettorali. I fenomeni movimentisti che di continuo nascono, muoiono, si rigenerano nelle sinistre occidentali sono funzionali esattamente a questa giuntura tra classe, ideologia e propaganda. (...) Hanno la funzione di indurre nell’opinione pubblica la convinzione che (...) in quell’area politica alberg(hi) tuttora una forza vitale indirizzata a cambiare il mondo, a realizzare degli ideali. (...) In tal modo quei movimenti tentano (...) di riagganciare alle forze politiche espressione delle classi dominanti quella già menzionata fascia di “aspiranti élites” (...). Una fascia che in Italia (si incarna) nell’ancora consistente ceto medio-basso del pubblico impiego (insegnanti, dipendenti dell’amministrazione statale e di quelle locali), convinto di godere di una superiorità culturale rispetto ai ceti produttivi e non garantiti . E’ in questo contesto che va inserita e compresa anche la genesi delle “sardine”, come degli altri analoghi nuclei aggregativi “spontanei” della sinistra che le hanno precedute (nell'ultimo trentennio: dalla “pantera” ai “no global”, dalle marce pacifiste “arcobaleno” ai “girotondi”, dal “popolo viola” fino al neo-ecologismo apocalittico adolescenziale di Greta Thunberg, ndr). Si tratta, come si vede, dell’ennesimo ritorno di un incessante moto illusionistico (...) in base (al) quale la dialettica politica (...) viene dipinta come uno scontro tra sinistre “colte” e destre “ignoranti”.
Grande puntuale analisi di E.Capozzi: questi sono gli schieramenti sociali in Occidente - mini minoranze vittime della “Narrazione” imposta, contrapposte alla maggioranza vittima della “Percezione” (né Darwin nè tantomeno Leonardo da Vinci avrebbero dubbi da che parte stare, per principio non per via della consistenza numerica; ma ognuno scelga per se, sempre se ne ha contezza). Tutto il resto, con buona pace di furbetti del Palazzino e dei Buromagistrati barbagianni, è solo noiosa tattica quotidiana.
via https://loccidentale.it/la-sardinizzazione-estremo-illusionismo-di-una-sinistra-sempre-piu-elitaria/
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