#appena successo mentre andavo a mangiare in cucina
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#Storia 7 pt.2
Un film per ricominciare
il film era veramente il più palloso della storia, colonne sonore tristi, era pure in bianco e nero, davvero non vedevo l’ora che finisse.
Ovviamente durò 2 ore e mezza.
Uscimmo dalla sala e mi chiese: “é bellissimo il messaggio di questo film non trovi?”
Io volevo solo sparire, non avevo minimamente seguito il filo logico di un film con una ragazza che piangeva, un ragazzo che piangeva, la mamma che piangeva, tutti che piangevano.
Mi venne in mente anche la volta in cui tu piansi, sulla porta...
Di getto le risposi una frase scomposta, senza arrivare ad un punto preciso, temporeggiavo insomma, mentre le lampadine al neon dell’uscita ci illuminavano di una luce rossastra.
Arrivati appena fuori dal cinema ci perdemmo in 4 chiacchere, ma non riuscivo a capirla del tutto, cosi mi giocai un jolly..
“senti, ci andiamo a mangiare qualcosa, un amico ha un ristorante molto carino a pochi km da qui, che ne pensi?”
“verrei volentieri, purtroppo ho l’autobus per tornare a casa ed è l’ultimo è anche molto tardi...”
Avete presente quella sensazione di completa impotenza di fronte a una risposta che non lascia via di scampo? ECCO.
Non volle nemmeno che la accompagnassi alla fermata dell’autobus, non capivo davvero, eppure mi salutò con un sorrisone e un bacio sulla guancia. Non capivo dove avevo sbagliato.
Avevo la faccia da psicopatico? o con 5 dollari pensava che la volessi comprare?
MARTEDÌ
Arrivo in ufficio, John sta distruggendo in sala riunione Paul, indovinate perchè?
Si era dimenticato di chiamare la JYNK Corp., nota azienda giapponese che ci aveva commissionato un’altra app per 5 milioni di dollari.
Affare saltato. Paul saltato. Piano finanziario saltato.
John esce sbattendo la porta imprecando e urlando di prendersi due giorni di pausa, Melanie la sua assistente lo insegue raccogliendo tutti i documenti che lancia per aria, gli stagisti non alzano nemmeno lo sguardo, qualcuno ride, qualcuno fa finta di niente, Kate, la mia segretaria mi fissa come se aspettasse un cazziatone...
Non dico nulla e vado nel mio ufficio mentre Paul...se ne va.
Mi siedo sulla poltrona e sento la pelle della poltrona tirarsi sotto il mio peso, inclino un pò il capo e tiro un lungo sospiro, che settimana di merda mi aspetta.
MERCOLEDÌ
Sono le sei e mezzo, il sole sta tramontando su Charleston, tutti stanno andando via, John non risponde nemmeno al cellulare, Kate mi chiede un permesso per il giorno dopo, annuisco senza nemmeno guardarla.
Rimango solo nel mio ufficio, gli ultimi tiepidi raggi del sole entrano dalle finestre del mio ufficio.
L’ho preso apposta qui, con visuale su un parco, mi mette tranquillità.
Mi vieni in mente, quante volte abbiamo fatto sesso su questo tavolo quando andavo via tutti, quante volte eri dall’altra parte del telefono e mi dicevi di tornare presto a casa, quante volte ancora ti penso.
Non farò mai più il tuo nome.
GIOVEDÌ
Orario di pranzo, Kate non c’è, è in ferie, massacro gli stagisti di compiti per la giornata e mi prendo 3 ore per andare a NY. Devo sbrigare delle commissioni.
Mentre guido sono stranamente felice.
Per un momento ripenso a Caroline, chissà se la vedrò ancora.
Anche questa giornata passa in fretta, sto quasi cadendo nella monotonia, non passo nemmeno dall’ufficio, chiamo il guardiano e gli dico di chiudere tutto.
Era fidato. Un signorotto di 58 anni che veniva dal Texas, poche passioni, belle donne e birra. ma sopratutto birra.
Arrivo a casa, finalmente, mi faccio una lunga doccia, mentre mi rilasso sento squillare il telefono, cerco di asciugarmi alla buona e corro.
“Ehi abbiamo chiuso un affare milionario, quelli di Goklm hanno saputo dell’affare saltato e si sono proposti al doppio della cifra! dobbiamo festeggiare!”
Era John che mi chiamava in delirio di onnipotenza, era a las vegas, festeggiava ancora prima della firma del contratto, ma portava sempre bene quindi glielo facevo fare, mi dice che prenota dei biglietti anche per me e devo raggiungerlo subito, c’è un’amica di Celine per me.
Rido e dico a John che avremmo festeggiato al ritorno.
Mentre accendo il proiettore, mi arriva un messaggio automatico dalla banca, accredito di 150.000 dollari dal conto della società.
Rido, John festeggiava cosi in anticipo dandomi e dandoci delle quote su affari ancora non chiusi.
Mi siedo sul divano e affondo i piedi nel tappeto orientale che mi comprò mia madre, si ha arredato la casa con me, figuriamoci. sono riuscito a scegliere solo location e toni delle stanze.
Vivevo in un loft all’ultimo piano di una palazzina borghese, era un pò la mia tana, open space, finestre stile americano sulla 54esima strada, parquet italiano, cucina nera e quadri di vario tipo.
Ero molto minimalista, poche cose ma ordinate, mi piaceva il lusso non visibile, contando che solo l’appartamento mi era costano quasi 800.000 dollari tra acquisto e ristrutturazione.
Ma i soldi, come detto prima non erano un problema e li gestivo bene, non avevo vizi ne grilli per la testa, bella casa, bella macchina e vacanze nei posti giusti, una vita tranquilla nel mio letto ad acqua preso in Giappone in un momento di completa pazzia.
Bene sono un 22enne annoiato con 150.000 dollari freschi sul conto cosa faccio? NIENTE
Apro facebook. Cazzeggio, commento foto, guardo video di gatti...
Finchè non mi viene un idea...CAROLINE.
Posso cercarla su facebook! Ovviamente la ricerca solo del nome mi porta a milioni di risultati, cosi cerco di fare una geolocalizzazione, sperando almeno di restringere il campo, ovviamente tra le ragazze di Charleston non la trovo.
In realtà ancora non sapevo perchè mi incuriosisse cosi tanto, Sapevo solo che avevo ancora il suo profumo di pesca ancora in testa.
Ora, non so voi, ma io credo nel destino, dopo quasi 1 ora di ricerca, ancora non la trovavo, mi ero quasi arreso.. finchè...
AGHATA, quel film ultra palloso che mi ero sorbito solo per lei, sicuro sarà tipo fan della pagina, o dell’autore, o dello sceneggiatore o di qualsiasi persona che ha partecipato alla creazione di quel film.
MIRACOLO.
Scorgo un viso quasi noto tra le valutazioni del film sulla pagina ufficiale
Caroline Westrem, eterocromica, capelli legati e studentessa. Trovata.
Profilo più blindato di una banca, va bene lo stesso. La aggiungo immediatamente agli amici.
Era molto tardi e sapevo che non sarebbe successo niente di li a poco, cosi vado a letto speranzoso l’indomani di leggere una sua notifica.
VENERDÌ
Il cinguettio degli uccellini mi sveglia 5 minuti prima della sveglia, il sole entra da uno spiraglio della finestra che avevo lasciato scoperto.
Mi alzo e vado verso la cucina, mi preparo un buon caffè brasiliano aromatizzato alla vaniglia, eh si, qualche chicca lasciatemela, e addento un cornetto al cioccolato.
Mi ricordo della richiesta inviata a Caroline, prendo il cellulare, ancora niente, solo messaggi di lavoro. Uffa.
In ufficio il clima è sereno, John ha un nuovo schiavetto, Jimmy, sembra più sveglio, speriamo, Kate mi saluta sorridendo, la trattavo come un’amica e lei era felice e lavorava bene per me, eravamo tutti contenti per il nuovo affare che avrebbe lanciato la società ancora più in alto.
Finisco la riunione delle undici e mezza, ormai è pranzo, mi slego la cravatta, faceva veramente caldo, era afoso in ufficio, batteva perennemente il sole, decido di mangiare qualcosa in un bar e approfittarne per farne una passeggiata e chiamare mia madre per organizzare il week end.
Come al solito mia madre mi tiene al telefono più del dovuto, mentre cerco di camminare tra i bambini che escono dalla scuola sulla 3 strada, non sentivo nemmeno cosa mi diceva, rispondevo solo “ok” “si domani torno” “si ho mangiato” “Ok” “si” e ancora “Ok”... classica telefonata.
Ad un tratto dell’altra parte della strada, in un bar con il free wifi scritti a caratteri cubitali sulla facciata, noto una ragazza con i capelli raccolti...non ci credo è CAROLINE.
Riaggancio a mia madre senza pensarci, e attraverso la strada.
Ma perchè poi? cosa pensavo di fare? mi aveva già mezzo rifiutato una volta perchè continuare...già perchè continuare..mi dicevi.
Entro nel bar e lei era seduta nei tavoli rettangolari che danno sulla strada, stava scrivendo al computer.
“ehi Caroline, ma che ci fai qui?”
“Dylan! ma che piacere! Sto scrivendo un articolo e tu?”
ma come si ricorda ancora il mio nome? poi mi snobba, va bhè, le donne.
Mi siedo e parliamo del più e del meno, di cosa studia lei, giornalismo, di quanto sia difficile e altre cose su di lei, noto che non mi fa domande.
Cosi le chiesi: “Ieri ti ho aggiunto su facebook.. ma forse non hai visto!”
SBAM, altra figura di merda, ma come fai a non vedere che il sito ti invia una notifica anche sul cellulare.. partiamo malissimo.
“No l’ho visto invece. Però Dylan, mi dispiace ma..siamo troppo diversi, non so nemmeno come spiegartelo, è complicato.”
Era surreale, non c’era modo e mi bloccava anche solo per una richiesta di amicizia, davvero non sapevo nemmeno cosa risponderle.
le chiesi un minimo di aiutarmi a capire o se avessi sbagliato qualcosa nei comportamenti e potevo averla offesa in qualche modo.
“No Dylan, figurati tu sei stato sempre carinissimo con me, ma davvero preferirei cosi, non voglio crearti problemi.”
Davvero ero scioccato, ma di fronte a tanto ostinazione e nessun’altra informazioni non potevo fare altro che arrendermi.
“Ok, non posso sapere chi sei, ma almeno se hai voglia di parlare o anche vedere un film noiosissimo di cui ancora non ho capito niente, scrivimi.”
Mentre le scrivevo il numero su un pezzettino di un tovagliolo, scorsi un sorriso frenato sul suo volto, si sposto i capelli dietro le orecchie e mi disse “Lo farò.”
Passarono 4 giorni, niente.
Non ho avuto nessun cenno da parte sua, eppure quegli occhi mi nascondevano qualcosa.
Noi uomini siamo così, quando non capiamo una cosa, cominciamo ad impazzire, specialmente un rifiuto non spiegato.
Caroline aveva quel non so che, classe, femminilità nelle movenze, lessico di una persona che aveva studiato, occhi profondi come l’oceano, aveva qualcosa da raccontarmi e io volevo saperlo.
E in più mi piaceva un casino, guanciotte piene, mento appena appena marcato, i capelli le cadevano perfettamente sugli zigomi e avevano dei riflessi dorati vicino alle punte, aveva delle mani bellissime e curate, e ancora mi ricordo di quel vestito nero del cinema, sottolineava le sue forme.
Non capivo perchè portasse sempre i capelli legati.
Era semplice, anche nell’abbigliamento mi colpiva molto.
Rigorosamente stivaletti neri, leggins neri e una camicia celeste con una canotta bianca, portava un bracciale sottilissimo e dorato al polso sinistro, mentre al destro aveva una specie di corda, quelle per i bracciali per intenderci, ma legata più volte intorno al polso.
Ma io riuscivo solo a perdermi nel suo maledetto profumo che mi colpiva dritto al cuore ogni volta.
Dicono che i profumi che ti colpiscono entrano dritti dentro fino all’anima e penso che lei abbia fatto esattamente questo con me.
i suoi sguardi mi colpivano nel profondo, come quando visiti un posto per la prima volta e rimani a fissare il panorama imbambolato, io mi sentivo cosi ogni volta che lei mi guardava, nei suoi occhi vedevo le emozioni che mi erano mancate da tempo.
Basta devo avere un’altra occasione. Sono ricco e ho i mezzi, è ora di usarli e da chi vado subito secondo voi?
“Kate, come faccio a conoscere una ragazza di cui so solo il nome e nient’altro senza finire in galera per stalking?”
“Ehm.. Dylan, in che senso?”
“Mi servono informazioni su una ragazza, non importa come o quanto costa, devo sapere” sembravo un pazzo psicopatico.
Nel giro di due ora nel mio studio si presenta un tizio che afferma di avere una società di spionaggio matrimoniale e quindi può ottenere facilmente informazioni. Non ho voluto sapere nient’altro. Io chiesi solo l’indirizzo di casa, volevo presentarmi la e parlare con lei. Quindi niente di troppo illegale no?
Due giorni dopo, di rientro da una sessione dal massaggiatore, trovo dei documenti sulla mia scrivania.
“risultato indagini” erano le informazioni che avevo chiesto. Finalmente.
Non so bene se fosse una cosa giusta o sbagliata, ma mi ero ripromesso di non perdere più occasioni, di volermi bene e seguire il mio cuore, mi ero ripromesso di inseguire le mie emozioni e non di soffocarle. Questa volta non volevo mollare, non come hai fatto tu con me.
Esco dall’ufficio alle otto e tre quarti, fuori è buio ed è ormai sabato, non avevo niente da fare e cosi decisi di andare all’indirizzo scritto nei documenti.
Sarà uscita, al rientro forse se sono fortunato potrei incontrarla per sbaglio, mi piazzo in qualche bar, qualche locale che ci sarà li vicino e aspetto.
Mi sbagliavo alla grande.
L’indirizzo indicato non esisteva sul mio navigatore, mi trovava la cittadina, Hamden, ma non la via, girovago per qualche minuto, ma era tutto chiuso, ero un pò spaesato e anche incosciente, recarmi ad un’indirizzo datomi da un fantomatico investigatore, da solo, essendo a capo da una società milionaria.
Trovo una signora ad un distributore automatico e chiedo informazioni, mi dice che l’indirizzo che sto cercando è ai confini della città dove inizia la statale.
Bene mi reco subito sul luogo, non mi ero accorto che avevo gia fatto due ore di strada ed erano quasi le 11.
Mentre esco dalla città, noto un certo degrato, non era come Charleston, qui era davvero quasi tutto abbandonato, cosa ci faceva una come Caroline qui?
Intravedo una stradina quasi sterrata che imbocca nella statale, vedo anche un cartello di legno “ bredley street”.
Ecco era l’indirizzo, almeno credevo. Di fronte a me una casa in legno, decisamente messa male, un capanno semi distrutto e oggetti sparsi ovunque per il giardino.
Era l’ultima casa in fondo alla statale che usciva da Hamden e andava a Tuchson, praticamente lontano da tutto.
Non trovavo il collegamento tra quella studentessa che non usciva dalla mia testa e tutto questo contesto. Era strano.
Parcheggio all’inizio del vialetto con il muso rivolto alla statale, sia per scappare sia per vedere se Caroline si fosse materializzata, e spengo la macchina.
Dopo circa mezz’ora di noia e rumori abbastanza molesti tutt’intorno, scorgo una sagoma nera che cammina nella mia direzione lungo la statale, capisco che è una ragazza e cosi accendo i fari dell’auto che illuminano la sagoma e scendo.
Era lei, Caroline, capelli arruffati, giubbotto chiuso fin sotto il mento e tuta, non il massimo ma era comunque carina.
Più che altro sembrava davvero distrutta, ma cosa fa questa ragazza la super eroina a caccia di criminali?
“Ehi caroline! ciao sono Dylan!”
“Dylan?? ma sei pazzo? che cazzo ci fai qui?”
Bhè non era esattamente l’accoglienza che avevo previsto. Pensavo le facesse piacere una sorpresa
“Sei impazzito? come mi hai trovato? ti avevo detto che....”
“ehi ehi calmati, visto che non mi hai chiamato avevo piacere a vederti, tutto qui! pensavo fosse un gesto carino”
“Carino un cazzo Dylan! tu non sai nulla, non dovresti nemmeno essere qui!”
Avevo fatto un errore madornale, ma cosa pensavo di ottenere presentandomi a casa di una sconosciuta?
“Dylan devi andare via sul serio, non puoi stare qui”
Discutemmo per qualche minuto, volevo solo farle capire che non ero uno psicopatico, ma volevo solo vederla.
I suoi occhioni metà verdi metà nocciola, immersi nelle lacrime mi implorarono di andarmene subito, non avevo scelto, acconsentii.
Se ne andò senza nemmeno guardami in faccia, ero distrutto, la vita mi aveva messo di fronte a una cosa cosi bella dopo tanto tempo e ora me la toglieva in questo modo meschino.
Salgo in auto, non parto, sto fisso con gli occhi sulla strada.
nella mia mente un susseguirsi di pensieri contorti, non ho un focus preciso, sono in preda ad emozioni contrastanti, non riesco a pensare lucidamente.
Eppure c’era qualcosa che non quadrava, che mi diceva di non andarmene da lì.
Decisi per la scelta che poteva distruggere tutto, anche la mia vita.
Scesi dall’auto e in preda ad un’adrenalina pazzesca, decisi di spiare dalla finestra, se piangeva c’era un motivo, doveva essere un motivo.
Mi avvicino lentamente, cercando di non fare rumore, mi accosto alla finestra della cucina dal lato sinistro della casa, un piccola lampadina illumina la cucina di piastrelle rosse bianche con una strana fantasia, sul tavolo qualche frutto e due piatti, c’erano scatole e barattoli aperti ovunque, e due casse di birra al fianco del frigorifero. Ma non vedevo nient’altro, dalla porta scorgevo solo un’angolo del divano e un mobile.
Capisco che il salotto è dall’altra parte e mentre cerco di fare il giro della casa sento un tonfo proveniente dal piano di sopra, mi paralizzo, silenzio, ancora silenzio, riprendo a camminare, avevo quasi finito il giro intorno alla casa ero a pochi metri dalla finestra, quando sento sbattere violentemente una porta.
Iniziale le urla, un casino assordante, non so cosa fare, mi avvicino piano alla finestra.....è un’inferno.
La tele è accesa, c’è sporcizia ovunque, dalla finestra chiusa trapassa un odore nauseabondo di umido e chiuso, ci sono cartoni della pizza a terra e anche qualche bicchiere rotto, era come se nessuno mettesse piede in quel salotto da settimane, forse mesi.
Mi appoggio con le spalle al muro per calmare la respirazione, ero in ansia, avevo paura e non capivo cosa stessi facendo, le urla al piano di sopra si fanno davvero pesanti ma non capisco cosa dicono, dalle scale sento dei passi, sbate violentemente una porta, mi accuccio per terra, sento il van che si accende mette in moto e va via di fretta.
Silenzio, nessun rumore per qualche minuto, altri passi dalle scale interne, mi accosto leggermente alla finestra giusto per intravedere qualcosa.
L’immagine che sta per seguire, turba ancora i miei sogni, come un fulmine a ciel sereno, qualcosa che non ti aspetti.
Caroline è seduto sul divano, con la testa tra le mani, in lacrime.
Non vedo altro, piange, li da sola, ma non capisco il motivo, finchè non si tira su e mentre si asciuga le lacrime con le maniche della felpa noto sul suo volto un livido rosso vicino alla tempia destra.
Panico, non so cosa fare, entrare potrebbe anche essere violazione di domicilio, se quello fosse stato il suo ragazzo? magari avevano litigato, magari ha sbattuto contro la porta (certo) un susseguirsi di ipotesi che mi fecero uscire pazzo, corsi alla mia Bmw e misi immediatamente in moto, grazie a dio il mio parcheggio ai bordi del vialetto non risulto sospetto e non diede nell’occhio.
Mentre guido non riesco nemmeno a pensare, anzi si, penso solo a una cosa, quello di Caroline non era un rifiuto ma una richiesta di aiuto.
fine parte 2
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FISARMONICA Parte 3
Il suo negozio si trovava ad un isolato di distanza dal vicolo. Ma mi stai ad ascoltare? Vuoi che mi fermi? Sei stanco? Continui a non rispondere. Bevi un altro goccio. Bene. Ti stavo dicendo? A si, il negozio di articoli musicali del signor Lissou. Lo raggiunsi senza difficoltà. Un vecchio negozio pieno di cianfrusaglie ammucchiate qua e là senza alcun ordine. Devo ammettere che non mi fece una grande impressione. Comunque entrai, varcai quella soglia. Il tintinnio di un campanello avvertì il signor Lissou che qualcuno era entrato nel suo negozio. Mi venne incontro un uomo molto vecchio, che si sosteneva in piedi grazie all’aiuto di un bastone. Nonostante l’età molto avanzata aveva ancora tutti i capelli, molto lunghi, completamente bianchi. Anche la barba era molto lunga, bianca anch’essa. Estremamente magro, dal corpo scheletrico, tremante nella sua andatura. Mi accolse in malo modo, con un’intonazione della voce tutt’altro che amichevole. Appena gli feci il nome di Marco Olmi, cambiò immediatamente atteggiamento nei miei confronti. Divenne improvvisamente gentile, e cominciò ad elogiare quel grand’uomo dell’Olmi. Sembrava che si conoscessero molto bene quei due. Anche se non capivo come questo fosse possibile. La differenza di età fra di loro era abissale, non era possibile che fossero amici. Ma la cosa non aveva nessuna importanza per me. L’unica cosa che aveva un valore in quel momento era la possibilità di prendere una fisarmonica e tornare a suonare per strada. Glielo dissi al signor Lissou qual era il motivo della mia visita. E lui fu ben felice di aiutarmi. Mi portò nel retro, in uno stanzino buio nel quale gli oggetti erano sistemati in modo ancora più disordinato di quanto non fossero nel negozio. “Ho quello che fa al caso tuo” mi disse. Si chinò, molto faticosamente, e raccolse da terra una fisarmonica. Era completamente impolverata, dovevano essere secoli che stava adagiata lì per terra. Me la porse. “Con questa le porte del mondo ti si apriranno” disse. Lo ringraziai e uscii dal suo negozio. Ero impaziente di cominciare a suonare. Raggiunsi correndo i miei vecchi luoghi, quelli in cui ero cresciuto, nei quali avevo cominciato a suonare. Mi appoggiai ad una colonna e cominciai a suonare. Dopo tutti quegli anni non avevo assolutamente dimenticato come si facesse! Ero bravo, maledettamente bravo. Nemmeno io mi ricordavo di essere mai stato così bravo. Una folla di gente si dispose intorno a me. Restarono ad ascoltarmi mentre suonavo per l’intera giornata. Non una delle persone che si fermava se ne andò prima che avessi smesso di suonare. E smisi di suonare solo a notte inoltrata. Ricevetti i complimenti da parte di tutti i presenti, proposte di lavoro, e feci un mucchio di soldi. Tutto questo nell’arco di una sola giornata. Declinai ogni offerta di lavoro, ringraziai dei complimenti e mi riempii le tasche di soldi. Sembrava che tutto girasse per il meglio, che avessi risolto tutti i miei problemi. Ma non era affatto così. Mentre mangiavo in una creperie lì vicino, senza che io lo avessi invitato, un uomo si sedette al mio tavolo, proprio di fronte a me. “Ti ho sentito oggi”, mi disse “Ho visto come hai attirato a te chiunque fosse in grado di ascoltare la tua musica”. Io non dissi niente, continuai a mangiare. “Ti starai chiedendo cosa voglio da te, vero? E’ molto semplice. Abbiamo l’occasione di fare un sacco di soldi. Il mio piano è semplice. Tu ti metti a suonare dove ti dico io, attiri a te tutta la gente in grado di udire il suono della tua fisarmonica. Io mi introduco nelle case, nei negozi, nelle banche, negli uffici, e prendo tutto ciò che mi è possibile prendere. Soldi a palate amico, non hai nemmeno idea di quanti soldi potremo fare”. Continuai a rimanere in silenzio e a mangiare. L’uomo di fronte a me interpretò questo mio comportamento in tono di sfida, come se volessi ottenere più di quello che mi stava offrendo. La verità era molto più semplice: avevo fame, una stramaledetta fame. Solo quando finii ciò che avevo nel piatto gli risposi. “Ci sto” gli risposi, in onore alla promessa che mi ero fatto appena uscito dal tombino. Fu così che divenni un delinquente. Non che facessi del male alla gente, almeno non in senso fisico. Io mi limitavo ad allietare il saccheggio delle loro case, dei loro negozi, dei loro uffici. Io mi limitavo a questo, a rendere più piacevole questa spiacevole situazione. Facemmo veramente molti soldi. Anche se ero convinto che a me spettasse sempre la parte meno cospicua del bottino, che mi stesse fregando, che mi stesse usando. Certo è che non eravamo molto svegli. Continuammo ad utilizzare lo stesso metodo per anni, sempre nelle stesse vie, sempre a danno della stessa gente. Dovevamo intuire che la polizia fosse sulle nostre tracce. Come era possibile che tutte queste rapine avvenissero sempre in concomitanza con la mia presenza per le strade? Non ci voleva certo un genio per capire. E nonostante la polizia non fosse particolarmente sveglia, finirono per incastrarci. Lo fecero utilizzando dei tappi per le orecchie. In quel modo riuscirono ad evitare che il suono della mia fisarmonica li stregasse, permettendogli di pedinare il mio socio e di coglierlo sul fatto. E fu inevitabile che durante il suo interrogatorio saltasse fuori il mio nome. Venne la gendarmeria a prendermi e a portarmi in carcere. Ma era quello che mi meritavo e non mi importava molto. Non perdevo niente là fuori, non avevo nessuno al mondo, ero solo. Qualunque posto mi sarebbe andato bene, anche il carcere. E fu così che venni rinchiuso fra quattro mura, con un’unica inferriata posta troppo in alto per permettermi di guardare fuori. Ma che problema poteva essere per me, abituato a vivere fra le tenebre per quasi cinque anni? Rimasi chiuso fra quelle quattro mura per tre anni. Durante l’ultimo anno mi permisero perfino di suonare la mia fisarmonica. Mi trovavo talmente bene da non desiderare più di uscire. Ma allo scadere del terzo anno di prigionia, sebbene contro la mia volontà, venni buttato fuori. Come potrai ben immaginare, continua a fare ciò che era l’unica cosa che ero in grado di fare. Ripresi a suonare la fisarmonica per strada. Il magico influsso che il mio strumento aveva sulle persone, non era ancora svanito. Quando cominciavo a suonare, la gente che si trovava intorno a me si fermava e rimaneva ad ascoltarmi fino a che non decidevo di smettere. Devi sapere che circa venti anni fa Parigi è stata invasa da milioni di topi. I parigini se li trovavano ovunque, in cucina, nel proprio letto, in bagno. Era scoppiata una vera e propria caccia al topo. Ma il problema non era stato risolto. Troppi erano i topi che circolavano per le strade di Parigi, e troppo veloce era la loro capacità di riprodursi. Un giorno il sindaco di Parigi stava passeggiando in prossimità della piazza nella quale ero solito suonare la mia fisarmonica. Anche lui, come tutti gli altri, rimase stregato dal suono dello strumento. E mentre era lì fermo immobile, incapace di andarsene, osservò come non solo gli esseri umani, ma anche gli animali si immobilizzassero quando mi sentivano suonare. Fu così che venni contattato dal sindaco di Parigi. Ricordandosi della vecchia storia del pifferaio magico, quello che era riuscito a fare in modo che tutti i topi della città lo seguissero liberando in questo modo la città dalla loro sgradita presenza, mi chiese di provare a fare la stessa cosa con la mia fisarmonica. Raggiunsi uno dei posti maggiormente infestati dai topi e cominciai a suonare. Effettivamente i topi si immobilizzarono, ma camminare con una fisarmonica in mano non è esattamente come farlo con un piffero! Spiegai il problema al sindaco. Il tutto si risolse in uno sterminio generale dei topi. Mentre se ne stavano immobili, stregati dalla mia musica, gli abitanti di Parigi si divertivano a schiacciarli, utilizzando qualsiasi attrezzo a loro disposizione. Fu una carneficina. In poche ore le strade di Parigi erano tinte di rosso, e per camminare bisognava calpestare i corpi fatti a pezzi di milioni di topi. Come potrai ben immaginare il problema che ne nacque fu molto più grave rispetto a quella di una pacifica invasione. Le condizioni igieniche della città, infestate da milioni di corpi di topi in decomposizione, si rivelarono l’ambiente propizio al propagarsi di malattie e pestilenze. Decine di migliaia di persone morirono. Solo a distanza di mesi si riuscì a riportare la situazione alla normalità. Cinque anni vissuti sotto terra, immerso nelle fogne di Parigi, avevano potenziato i miei anticorpi permettendomi di superare indenne quella pestilenza. Ma non era facile vivere in quel periodo. La gente era diventata più povera, decimata dalla malattia. Mesi di inattività economica, con gli esercizi commerciali chiusi, non aiutarono certamente il progresso e la stabilità economica. Mi ritrovai a vivere in una città degna del terzo mondo, dove si vedevano donne tenere in braccio bambini che non riuscivano a sollevare la propria testa, tanto era la loro debolezza fisica. Ci vollero cinque lunghissimi anni per uscire da quella carestia. La maggior parte dei cittadini di Parigi abbandonarono la città, cercando fortuna da qualche altra parte. Io no, rimasi fedele alla mia amata Parigi, non me ne andai. Forse tu puoi capirmi. Sei di Parigi anche tu, vero? Ma certo, non può essere altrimenti. Non me la passai certamente bene. Ma quella era la condizione di tutti quanti. Nel mio piccolo potevo anche considerarmi fortunato. Potevo cibarmi di terra, l’avevo fatto per quattro anni. Quando avevo bisogno di qualcosa di più nutriente, rientravo nel tombino e andavo alla ricerca di qualche serpente, qualche alligatore. Ero decisamente una persona in grado di abituarsi a qualsiasi condizione. Una carestia di qualche mese non poteva certo rappresentare una minaccia per me. Alla luce di quanto era successo durante la carestia, la mia facilità di sopravvivere, la capacità di superare qualsiasi difficoltà, cominciai a pensare di essere dotato di poteri soprannaturali. Presi ad allenarmi duramente. Correvo tutti i giorni per cinque ore, facevo molta attività fisica, spiavo le lezioni di arti marziali che venivano tenute in una palestra di Parigi. Nell’arco di due anni ero diventato abbastanza bravo per cominciare ad essere di aiuto alla mia tanto amata città. C’era troppa delinquenza per le strade in quel periodo. Io non avevo mai avuto problemi. Potevo dormire nelle fogne, cercarmi un posto tranquillo sotto terra, sicuro che nessuno sarebbe mai riuscito a raggiungermi. Ma adesso era arrivato il momento di reagire. Non potevo più subire tutta quella violenza. Cominciai a vagare durante la notte, alla ricerca di qualche delinquente da redimere. Mi accorsi ben presto di non avere nessun problema a trovare lavoro. Bastava che mi guardassi intorno per notare qualcosa che non andava. Scippi, rapine, spaccio di droga, prostituzione, omicidi. Portai avanti la professione del super eroe per la durata di due anni. Fu un lavoro duro, ma molto gratificante. Tutti i parigini onesti mi erano riconoscenti. Peccato solo che i cittadini onesti di Parigi fossero un numero quasi insignificante di persone. Per farla breve, divenni il personaggio più odiato di Parigi, quello che la quasi totalità della popolazione avrebbe voluto eliminare. Fu per questo motivo che smisi i panni del super eroe e ripresi a suonare la fisarmonica. Un giorno, durante una delle mie esibizioni, incontrai Francoise, un pittore che lavorava per strada. Dipingeva ciò che i suoi occhi erano in grado di vedere. La cosa che mi stupì era che i suoi quadri erano in movimento. Non so se riesci a capirmi. Le immagini sulle tele non erano statiche, si muovevano, esattamente come accadeva mentre lui osservava la scena che aveva intenzione di ritrarre. Rimasi sbalordito da quel modo di dipingere. Decisi che dovevo impadronirmi in qualche modo di quella tecnica. Fu così che io e Francoise divenimmo amici. C’era la passione che ci univa. La mia passione per la musica e la sua per la pittura. E c’era anche una curiosità morbosa nel voler carpire i segreti l’uno dell’altro. Ma c’era bisogno di fiducia per arrivare a questo. Fu per questo motivo che decidemmo di cercare un appartamento, una casa, qualcosa che avesse un tetto sopra di sé, nel quale poter condividere tutto il nostro tempo. Impiegammo un anno intero prima di raggiungere quell’intesa perfetta che ci avrebbe permesso di parlare con l’anima e non con la lingua. Quando finalmente decidemmo di svelarci i nostri reciproci segreti, scoprimmo che non ne esistevano. Io suonavo la fisarmonica in quel modo senza che ci fosse un vero motivo, una tecnica particolare, un fine, un obiettivo. Semplicemente la suonavo. E a chi stava ad ascoltarmi, piaceva. E lo stesso discorso valeva anche per Francoise. Lui dipingeva solo ciò che osservava. La sua mano era così veloce a riprodurre la scena, che i suoi personaggi continuavano a muoversi sulla tela. Nessun segreto. Solo pura passione per ciò che facevamo. Decisi quindi di provare a dipingere mettendoci la stessa passione che infondevo nella musica. E lo stesso provò a fare Francoise. Ciò che riuscimmo a fare aveva dello straordinario. Francoise riusciva a trasmettere l’idea del movimento al suono dello strumento. Quando osservava una persona e suonava, quella persona non poteva fare a meno di ballare. E riusciva a tenere il tempo in modo perfetto, come se venisse trascinato dalla musica che stava ascoltando. L’idea del movimento associato alla musica e non più alla pittura. E io? Bè, io riuscivo a dipingere quadri musicali, tele che lasciavano trasparire note dai colori. E la cosa stupefacente era che ogni persona che osservava una mia tela riusciva ad udire una melodia diversa, a seconda delle emozioni che quella tela era in grado di trasmettere. Diventammo la principale attrazione di Parigi. Tutti ci conoscevano. E tutti ci cercavano. Quella fu, per così dire, la parte bohemienne della mia vita. Affittammo uno spettacolare appartamento in Mont Martre, vestimmo indossando gli abiti più alla moda e costosi di Parigi, eravamo presenti a tutti gli avvenimenti mondani di maggior interesse. I due personaggi di Parigi più ricercati dalla nobiltà parigina. Non ci mancava niente. Alcool, droga, donne, tutto ciò che di piacevole un uomo può cercare in questa vita, noi ce l’avevamo servito su un piatto d’argento. Quello fu un bel periodo della mia vita. Non il più felice in assoluto, nemmeno il più spensierato, ma comunque un buon periodo. Però mi accorsi che stavo perdendo di vista ciò che rappresentava veramente la mia vita, la mia fisarmonica, il mio più grande amore alla pari di mia madre. Non potevo abbandonarla, avrebbe significato la fine della mia vita. E mi accorgevo che bella vita e piacere nel suonare il mio strumento per puro divertimento, erano due concetti incompatibili. Presi la mia decisione. Abbandonai Francoise al suo ricco e felice destino, gli lasciai tutti i soldi che avevo guadagnato fino a quel momento rendendolo la persona più ricca di Parigi, e ricominciai a vagare per le vie della mia amata città. Cosa non si fa per amore, vero? Ma non ti sarai addormentato? Fammi un cenno, dimmi qualcosa. Vuoi che ti versi ancora un goccio? Va bene, basta chiederlo. Ti dicevo che continuai a vagare per Parigi. Anche se ben presto mi accorsi che non sapevo più cosa fare. Pensavo di aver sperimentato tutto ciò che fosse possibile provare. Ero stato poverissimo e ricchissimo, abbandonato al mio destino e ricercato per la mia arte, ero stato l’amante di buona parte delle belle donne di Parigi, mi ero reso utile aiutando la mia amata città nei momenti di bisogno, ero stato al centro della terra, avevo portato scompiglio nella terra dei giganti. Cosa mi rimaneva da fare? Cosa non avevo ancora sperimentato? Dalla tua faccia perplessa percepisco che non l’hai ancora intuito. Non avevo ancora provato l’amore, quello nei confronti di una donna, quello diverso dall’amore per uno strumento o per la propria madre. Non ero mai stato in grado di amare nessuno. Chiunque era entrato a far parte della mia vita come se fosse stato una immagine, una singola nota, come qualcosa privo di senso, privo di qualsiasi contesto, senza scenario. Volevo che la mia vita venisse invasa dalla presenza di un’altra persona, che smettessi di pensare solo ed unicamente a me e cominciassi ad occuparmi anche della vita di qualcun altro. Mi sentivo solo, cominciavo a soffrire di solitudine. E la presenza della mia fisarmonica non era più sufficiente a farmi stare meglio. Ero solo, capisci? Ma come potevo fare? Non avevo mai amato nessuno in tutti quegli anni, avevo comprato il corpo di centinaia di donne senza provare nei loro confronti alcun tipo di sentimento. Cercai di innamorarmi, mi sforzai di farlo. Non avevo alcuna difficoltà a portarmi a letto una donna. Ero piacente, avevo una certa classe, ed avevo quel modo di fare tipico dell’artista che mandava in estasi le donne. In cinque anni tentai una ventina di relazioni. Solo con una sembrò funzionare. Era una donna di quarant’anni, anche se non ero sicuro della sua reale età, mai chiederla ad una donna. Il suo nome era Madeleine. Una gran bella donna. Fu con lei che provai per la prima volta qualcosa. Ma non potevo chiamarlo amore. Almeno non potevo farlo se cercavo di paragonarlo a quello provato nei confronti di mia madre. Sembrava che nessuna donna fosse degna del mio amore. Solo mia madre. E lei era morta. Non c’era modo che potessi innamorarmi di qualcun’altra. Non mi rimaneva altro da fare che restare solo, abbandonarmi al mio solitario destino. Alcool e droghe divennero i miei compagni. Abbandonai anche la mia fisarmonica. Stava diventando troppo doloroso suonarla. Non facevo altro che ricordare i momenti felici vissuti quando mia madre era ancora in vita. Non sono mai riuscito a perdonarmi il fatto di averla abbandonata, anche se era stato contro la mia volontà. Non le ero stato vicino negli ultimi giorni della sua vita, le avevo negato la mia presenza. Capisci qual è il mio problema? Ho abbandonato mia madre quando ne aveva bisogno. E tutto per cosa? Per suonare una maledetta fisarmonica. Se non avessi mai cominciato a farlo, adesso non sarei qui a farmi tormentare dai rimorsi. Ma che importanza ha ormai? La pazzia si è impadronita di me. Come altro definire una persona che parla alla propria immagine riflessa da uno specchio? Sono un povero vecchio pazzo che non ha mai provato amore in tutta la sua vita. Il più miserabile fra i miserabili. L’essere più inutile che sia mai venuto alla luce. Ma nonostante tutto, non è così facile farla finita. Sono anni che ci provo. Giorno dopo giorno. Mi siedo qui, in bagno, appoggiato sul bordo della vasca da bagno a parlare alla mia immagine riflessa dallo specchio. Tutti i giorni mi racconto la stessa storia, nella speranza di trovare il coraggio necessario per farla finalmente finita. E tutti i giorni finisce allo stesso modo. Mi alzo dal bordo della vasca, esco dal bagno, spengo la luce e mi metto nel letto, cercando di prendere sonno, di non sognare, di non pensare a nulla, nella speranza di non riaprire gli occhi. Ma sembra che per me ci debba essere per sempre un giorno dopo!
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Parte 3
Evitammo di vederci con Mike per qualche giorno, incontrarsi con lui richiedeva molte energie, e comunque avevamo altre persone da vedere.
Io volevo cominciare a sistemarmi un po. Nonostante il viaggio e l’avventura non avevo mai abbandonato la mia voglia di routine. Volevo trovare una palestra per allenarmi ed organizzare una dieta sana.
Non so come giudicare questa scelta a posteriori, mi piace tenermi in forma e mangiare bene anche se so che toglie molto tempo al resto delle cose, soprattutto quando si è in viaggio. Ho trovato però con il tempo che restare in forma ti da la possibilità di affrontare molte sfide con entusiasmo. In Colorado feci molti “hike” sulle montagne ed andai molto in bici, in Australia andavo spesso in kayak e tutto mi venne molto più facile grazie all’allenamento. Nonostante tutto sono riuscito a non rinunciare a qualche nottata di baldoria, qualche bevuta ed al buon cibo, quindi mi ritengo abbastanza soddisfatto. Alison mi disse che frequentava una palestra che si trovava vicino al suo ufficio, “downtown”, ci andava spesso in pausa pranzo ed era un posto carino con gente piacevole. Decisi di provare e subito me ne innamorai. Il posto si chiamava “Old Town Athletic Club”, aveva quello che mi serviva, c’era il “Crossfit”, i ragazzi erano tutti simpatici ed era in una location favolosa. Alla fine del centro, poco prima di una pista ciclabile che portava direttamente a casa di Alison costeggiando il Poudre River, un fiume chiamato così perchè i francesi vi nascondevano la polvere da sparo durante la guerra. Ci feci il bagno una volta, l’acqua era gelata ma fu bellissimo.
Avevo sistemato la questione della palestra con la piena approvazione di Alison e il malcontento di mio zio che non sopportava questa vita disciplinata. Diverse volte a cena io, lui ed Alison avemmo lunghe discussioni sul “fitness”, lui ci dava degli ossessi, quasi psicopatici e noi ci battevamo forti per la nostra causa, dandogli probabilmente ancora più ragione.
Tutto sembrava stabilizzarsi e non mi restava che concedermi nuovamente alla vita sociale di FoCo. Ricordo questo periodo di assestamento in Colorado come uno dei più pieni e confusionari di questo viaggio, tanto che non riuscii neanche a riflettere sulla mia condizione. Le idee e i pensieri fecero posto alla vita e fu forse uno dei momenti più riusciti di tutta la mia avventura. La cosa che più mi piaceva era lanciarmi in nottate senza sapere dove andassero a finire. Più volte mi risvegliai a casa di persone che non conoscevo la sera prima. Ricordo che il momento più interessante era al mattino, dopo il risveglio. Andavo spesso alla ricerca di una colazione che sistemasse il mio stomaco quasi sempre provato dalle troppe birre della notte prima, quasi sempre però mi svegliavo riposato e il fatto di aver dormito con i vestiti e non doverli cambiare per uscire di casa aveva una sua strana comodità. Era bello fermarsi a pensare quanto fosse improbabile la situazione nella quale mi trovavo mentre mangiavo il mio bacon croccante con le uova. Spesso mi capitò di tornare a casa in bici, verso le otto del mattino, passando per Mountain all’ombra degli alberi e con una brezza leggera che mi risvegliava dolcemente mentre vedevo le persone uscire di casa per andare a lavoro. Spesso sorridevo ed accennavo un saluto con la testa e loro mi rispondevano, mi sentivo felice, ed in qualche modo importante.
Ogni week-end Cassi, la figlia di Alison, tornava a casa. In realtà il campus dove stava si trovava a pochi passi da lì, ma le piaceva comunque passare un po di tempo nel comfort della sua camera e ne approfittava per vedersi con i suoi amici di “Greyrock”. C’era un bel gruppo di ragazzi che erano cresciuti assieme lì, la loro età andava dai 20 ai 25 anni ed anche se si volevano tutti un gran bene, ormai avevano tutti vite molto differenti. Approfittavano dell’estate per delle “reunion” davanti ad una colazione per aggiornarsi sulle ultime novità ed io, tramite Cassi, fui invitato ad una di queste.
Era organizzata a casa di Izzy, a tre passi da dove stavamo noi, ci sarebbero stati un po tutti i ragazzi e si sarebbero cucinati pancakes ai mirtilli, bacon e patate. Noi fummo incaricati di portare i mirtilli.
Mentre ci organizzavamo per andare parlai molto con Cassi, cercai di avere qualche informazione in più su di lei e sui ragazzi e scoprii felicemente che era una di quelle persone con cui le conversazioni funzionano alla grande. Capii anche che il distacco che avevo riscontrato al nostro primo incontro era in realtà nient’altro che timidezza. Cassi era la prima figlia di Alison, aveva una sorella minore di nome Mila, aveva un fisico atletico dovuto alla corsa che praticava agonisticamente all’università ed un look acqua e sapone da brava ragazza. Era un ottima studente e molto intelligente ma non di quell’intelligenza che piace a me, quella sottile ed efficace che fa la differenza in ogni cosa. Arrivati da Izzy mi presentai ai ragazzi che erano lì, tutti sembravano incuranti della mia presenza e si aggiornavano sulle ultime novità. Izzy dopo la laurea in Economia, aveva deciso di andare in Australia per un anno, una delle sorelle Glebe stava finendo di studiare, Sara si era iscritta ad una scuola di cucina ed infatti cucinava la colazione per tutti, ci tenne a spiegarci che le patate vanno messe nell’acqua prima che raggiunga l’ebollizione altrimenti non si cuociono bene all’interno. Tra tutti c’era un ragazzo giovane, appena maggiorenne, un cugino di Izzy, aveva iniziato a studiare giornalismo mi pare in Michigan e faceva a tutti domande da intervista in modo un po imbarazzante, giustificandosi subito dopo dicendo che era vittima della sua passione. Cassi mi sembrò un po messa da parte, mentre tutte le ragazze parlavano in modo rilassato e divertito lei riceveva solo qualche domanda di cortesia ogni tanto, del tipo <<allora come ti va all’università?>>, <<com’è il tempo lassù in Canada?>>. Molte domande riguardavano la sorella più giovane Mila, che stava a Denver ed era la pecora nera della famiglia. Aveva deciso di lasciare il college e di lavorare un po, dicevano che cercasse sempre un ragazzo nuovo e che fosse un animale da festa. Non sapevo se fidarmi del giudizio di quelli che mi sembravano dei bravi ragazzi di ottima famiglia e decisi di non farmi altre domande.
Conobbi i genitori di Izzy, il padre Rust, era un tipo simpatico, parlammo del caffè a Fort Collins, mi consigliò un posto dove trovarne uno a suo parere buono, diceva che ci lavorava un ragazzo che sembrava sapere quello che faceva. Parlammo anche del caffè di Alison che oltre al suo lavoro da ingegnere aveva un piccolo bar “downtown” vicino alla palestra.
Dopo poco la situazione si fece abbastanza pesante, Cassi aveva un appuntamento e io ne approfittai per tagliare la corda.
I ragazzi di “Greyrock” mi erano sembrati a loro modo simpatici anche se poco svezzati e non ero sicuro che fossero il tipo di persone che cercavo in un avventura come questa.
Scoprire che mio zio aveva piani per la sera fu molto più eccitante dopo una mattinata con gli scolari e mi lanciai senza fare domande. Andammo in giro in diversi locali del centro, mio zio si doveva fermare a parlare con un conoscente ogni dieci metri, e la struttura della conversazione si ripeteva spesso.
<<Cosa ci fai qui!? Non eri in Florida?>>. <<Che progetti hai? Davvero, torni in Italia?>>.
<<Quante ne abbiamo passate inseme>>. <<Bevete qualcosa! Dai offro io, in memoria dei vecchi tempi!>>. <<Non perdiamoci di vista, fatti sentire!>>.
Conobbi parecchi proprietari dei locali più interessanti e di successo della città, molti avevano cominciato lavorando per la mia famiglia ed avevano un autentico senso di riconoscenza. Uno di questi era Thai, un ragazzo che aveva cominciato come cameriere nel ristorante di mio zio, poi divenne sommelier ed ora aveva aperto un locale tutto suo molto chic, era sottoterra, al centro di Fort Collins, si chiamava Social e serviva grandi Drink, buoni vini e vari antipasti. C’era un affettatrice Berkel rossa che si vedeva dalla sala e l’atmosfera era ricercata ma amichevole. Thai si sedette a bere con noi della falanghina di Feudi San Gregorio che importavano dall’Italia, lì era considerato un vino di grande importanza, anche se non riuscivano mai ad avere l’annata corrente, così bevono quello dell’anno prima che noi in Italia consideriamo già vecchio. Lo commentammo insieme ricordando anche uno dei diversi viaggi di Thai in Italia per fare esperienza sui vini. Ci salutammo affettuosamente e Thai ci invitò a bere tequila una di quelle sere con lui e altre vecchie conoscenze e ci disse di farci vedere più spesso. Fu bello constatare che avere il mio cognome a Fort Collins significasse qualcosa nei posti giusti. Eravamo soliti finire la serata con una camminata fino alla macchina commentando le storie delle persone che avevamo incontrato. In Colorado la sera fa sempre fresco, anche ad agosto, e l’aria tersa ci aiutava a riprenderci un po dall’alcol. Non tornavamo mai a casa prima che fossimo davvero stanchi e soddisfatti, non ci risparmiavamo mai e credo che io fui l’unico ad esaurire le energie e l’entusiasmo più di qualche volta. C’erano tanti pianoforti per la città e spesso mi fermavo a suonare qualcosa prima di tornare. Le nottate erano lunghe eroiche e romantiche, i risvegli comodi e pieni di impegni e Fort Collins mi stava regalando un periodo fantasticamente riuscito.
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