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In Friuli si va al voto: rinnovo degli organi regionali, consiglio regionale e la presidenza della regione
In Friuli si va al voto: rinnovo degli organi regionali, consiglio regionale e la presidenza della regione. Il Friuli-Venezia Giulia, tra ieri -domenica 2 aprile- ed oggi -lunedì 3 aprile- va al voto per il rinnovo degli organi regionali, il consiglio regionale e la presidenza della regione, ma anche per la rielezione delle amministrazioni in 24 comuni. Per la carica di governatore sfida a quattro tra l’uscente Massimiliano Fedriga, Giorgia Tripoli, Alessandro Maran e Massimo Moretuzzo. Per le regionali l’affluenza alle ore 23 era al 34,95%, 387.762 votanti di 1.109.395 iscritti. Lo scrutinio inizierà oggi alle ore 15 con la chiusura dei seggi, quello delle comunali invece inizierà immediatamente dopo. Sarà eletto Presidente della Regione colui che ottiene il maggior numero di voti validi espressi -maggioranza relativa- . Alle liste collegate al presidente eletto spetta il 60% dei seggi se il candidato ha ottenuto più del 45% dei voti validi, oppure il 55% dei seggi, se il candidato ha ottenuto il 45% o meno dei voti validi. Il governatore uscente del centrodestra Massimiliano Fedriga scommette sulla propria “Lista Fedriga” per riuscire a mantenere sotto il proprio controllo le redini del centrodestra regionale. Fanno parte della coalizione anche Forza Italia e Autonomia responsabile, già presenti in Consiglio con numeri minoritari. Lo sfidante principale di Fedriga è Massimiliano Moretuzzo, consigliere regionale uscente e segretario del Patto per l’autonomia, scelto dalle forze che gravitano attorno al Pd e appoggiato anche dalla lista del Movimento 5 Stelle. Della coalizione fanno parte anche le liste di Open-Sinistra, Alleanza Verdi-Sinistra e Slovenska skupnost (Unione slovena). Alessandro Maran, terzo sfidante, rappresentante del Terzo Polo, già parlamentare e segretario regionale dei Ds, poi due volte con il Pd e con Scelta civica. Lo sostiene in un’unica lista, dentro la quale vi sono Italia viva, Azione e la costituenda Lde (Liberali democratici europea) oltre a +Europa. Giorgia Tripoli, sostenuta dalla lista Insieme liberi, raccoglie numerose esperienze politiche, civiche e associative della minoritaria galassia dei No green pass, No-euro e No-vax. Si è votato , tra ieri e oggi -3 aprile-, anche ad Udine, comune più popoloso. La sfida qui si gioca tra il sindaco uscente Pietro Fontanini, leghista, con il Pd che risponde presentando Alberto Felice De Toni. Il M5S punta su Ivano Marchiol, mentre Stefano Salmè rappresenta il mondo no Vax con la lista Liberi Elettori.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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I fatti ci hanno dato ragione. I timori che avevamo espresso fin da quando fu istituito il giorno del ricordo si sono puntualmente avverati. Anche dalle più alte cariche dello Stato si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, l’unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale. [...] Non era difficile prevedere che collocare la celebrazione a due settimane dal Giorno della Memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno l’unico denominatore comune di appartenere tutte all’esplosione sino allora inedita di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile e ambiguo pentitismo, non contribuisce [...] a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando parliamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese. Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d’Aosta) addirittura da prima dell’avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all’Italia il monopolio strategico ed economico dell’Adriatico. Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega? Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria. Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l’origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell’educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale. Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale (Msi) un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionalistico e della guerra fredda. I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci ha esortato Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bisogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornavano (i più fortunati) dai campi di concentramento – di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari – centinaia di migliaia – che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione? La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.
Enzo Collotti
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Venerdì 12 dicembre 1969 alle 16.37 scoppiò una bomba all’interno della Banca Nazionale dell’ Agricoltura in piazza Fontana a Milano. Rimasero brutalmente uccise sul colpo 14 persone, altre due morirono poco dopo e la diciassettesima vittima morì anni dopo in seguito alle lesioni riportate, i feriti furono 87. Quello stesso giorno furono piazzate altre quattro bombe, tre scoppiarono a Roma (alla BNL, all’Altare della Patria e al Museo del Risorgimento), mentre la quarta, depositata nella Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala a Milano, non esplose. La bomba inesplosa venne subito fatta brillare, nonostante fosse considerata ormai innocua anche dagli artificieri, perdendo così preziosissime informazioni per le indagini. LE INDAGINI NELL’AMBITO DELLA SINISTRA La questura subito diresse le sue indagini verso la “pista rossa”. La sera stessa della strage il commissario Luigi Calabresi, conversando con il giornalista Giampaolo Pansa, si disse convinto che la responsabilità degli attentati era da attribuire ai gruppi dell’estrema sinistra. Il questore Marcello Guida subito asserì che la strage era da ricollegare a degli attentati compiuti il 25 aprile per i quali erano stati tratti in arresto alcuni anarchici. Il prefetto Mazza telegrafò al presidente del consiglio Mariano Rumor dicendo che l’ipotesi più attendibile da formularsi era quella anarcoide. Nei giorni successivi ci furono 244 fermi, 367 perquisizioni domiciliari e 81 irruzioni nelle sedi di gruppi e organizzazioni politiche. Il presidente della repubblica Saragat convocò le più alte cariche dell’ordine pubblico per valutare l’opportunità di proclamare lo “stato di pericolo pubblico”. Grazie al quale i prefetti avrebbero potuto ordinare l’arresto di qualsiasi persona e il Ministro dell’Interno avrebbe potuto revocare leggi vigenti. Nelle ore immediatamente successive all’attentato fu arrestato Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, animatore del circolo culturale “Ponte della Ghisolfa”. Trattenuto illegalmente oltre le ore consentite dal fermo di polizia, interrogato senza sosta precipitò dal quarto piano dei locali della questura. La sentenza su come e perché Pinelli volò fuori dalla finestra del quarto piano è una delle pagine più nere della storia della “giustizia” italiana. Ci furono molti punti oscuri nella conduzione delle indagini, incongruenze con le perizie dei medici legali, discordanze tra le versioni dei fatti fornite dagli agenti che parteciparono all’interrogatorio. Il 15 dicembre Pietro Valpreda, convocato al tribunale di Milano come testimone di un procedimento per offese al pontefice, venne arrestato e accusato della strage di piazza Fontana. Le accuse si basavano sulle rivelazioni di un finto anarchico, Mario Merlino (in realtà militante di Avanguardia Nazionale, infiltratosi nei movimenti di sinistra in seguito ad un istruttivo viaggio nella Grecia dei colonnelli con Pino Rauti e Stefano Delle Chiaie) e di un tassista: Cornelio Rolandi. Rolandi, cambiando un paio di volte versione, raccontò la strana storia di un suo passeggero alto circa 1,73 con capelli non appariscenti e senza particolari inflessioni nel parlare, che da Piazza Beccaria (distante circa 135 metri dalla Banca dell’Agricoltura) prese il suo taxi fino in via Santa Tecla allontanandosi dalla banca, un atteggiamento davvero strano per uno che vorrebbe passare inosservato. Inoltre Valpreda non corrispondeva alla vaga descrizione del tassista, infatti era un capellone alto 1,66 e con una forte difetto di pronuncia, una erre “arrotata”. Rolandi in seguito a dei riconoscimenti poco ortodossi realizzati nella questura di Milano intascò i 50 milioni della taglia. LE RADICI DELLA STRAGE Il 7 dicembre 1969 (cinque giorni prima della strage) i settimanali inglesi The Guardian e The Observer pubblicarono un dossier partito dal Ministero degli Esteri ad Atene e diretto all’ambasciatore greco a Roma. Nel dossier datato 15 maggio si parlava approfonditamente di un agente dei colonnelli, il “Signor P” (Pino Rauti, capo di Ordine Nuovo e futuro parlamentare del MSI) e dei suoi preparativi per organizzare in Italia un colpo di stato sul modello greco. In effetti, i mesi precedenti a quel drammatico dicembre del 1969 erano stati costellati di attività terroristiche messe in atto da elementi delle destre radicali e per la precisione da Ordine Nuovo. 15 aprile, Padova: bomba al rettorato dell’università; 25 aprile: stand della FIAT alla fiera a Milano; 12 maggio: tre bombe inesplose, due a Roma (Uffici della procura e Corte di Cassazione) e una al Palazzo di Giustizia di Torino; 24 luglio Milano: ordigno scoperto e disinnescato al Palazzo di Giustizia; Tra l’8 e il 9 di agosto otto bombe esplosero su vari convogli ferroviari, altre due furono ritrovate su treni in Stazione Centrale a Milano e alla stazione di Venezia Santa Lucia; per finire il fallito attentato alla scuola slovena di Trieste (tenuto nascosto dalle autorità fino al gennaio del 1971), di cui sappiamo tutto grazie alle rivelazioni, fatte nel 1996, dell’ex di Ordine Nuovo Martino Siciliano. Il commando era composto da lui, Zorzi, la fidanzata di Zorzi e un altro camerata, la macchina era stata messa a disposizione da Carlo Maria Maggi (reggente di Ordine Nuovo per il Triveneto), l’esplosivo era stato recuperato da Zorzi e l’innesco fatto da Carlo Digilio. In questi attentati pur cercando e rischiando spesso la strage si sono ottenuti “solo” molti feriti. I tipi di esplosivi, i detonatori, i contenitori e le modalità di preparazione e realizzazione non lasciano molti dubbi sul fatto che a fare e collocare quelle bombe fossero sempre state le stesse mani. Il Sid, in una nota del 13 dicembre redatta sulla base di informazioni raccolte dal maresciallo Gaetano Tanzilli, indicava Stefano Delle Chiaie (leader di Avanguardia Nazionale) e Mario Merlino (il falso anarchico) quali responsabili degli attentati di Roma. L’ordine gli sarebbe arrivato da Guerin Serac e Robert Leroy (due ex Waffen-SS) attraverso “l’Aginter Press”. Un’agenzia di stampa con sede a Lisbona che fungeva da copertura per il reclutamento, da parte dei servizi segreti portoghesi e statunitensi, di elementi delle destre radicali per “operazioni coperte” nell’ambito della guerra fredda. Il rapporto del Sid passò per diverse mani subendo numerose modifiche, fino alla stesura definitiva del 17 dicembre, da dove scompariva il perché dell’infiltrazione di Mario Merlino tra i gruppi anarchici, ma sopratutto dove Leroy e Serac venivano presentati come pericolosi anarchici! Le precise volontà di depistaggio da parte degli apparati statali saranno testimoniate da un altro documento riservato del Sid datato 11 aprile 1970, dove si scriveva che Serac e Leroy non erano anarchici, ma appartenevano ad una organizzazione anticomunista, però si suggeriva di tacere questa informazione alla pubblica sicurezza. Un’ennesima prova delle “coperture” di cui i neofascisti disponevano è stata la vicenda del commissario Pasquale Juliano della squadra mobile di Padova. Incaricato dal questore di indagare sulla bomba al Rettorato dell’università del 15 aprile 1969, arrivò in breve tempo a raccogliere informazioni sulla cellula di Ordine Nuovo di Padova. In particolare indagò sull’avvocato padovano Franco Freda e sul Trevigiano Giovanni Ventura. Arrivò ad arrestare un estremista di destra, tal Riccardo Patrese, mentre usciva dalla casa di Massimiliano Fachini (uno stretto collaboratore di Freda) con una pistola e una bomba. Juliano fu subito allontanato dalla questura con l’accusa di aver precostituito le prove, solo nel 1979 gli verrà riconosciuta dai giudici l’infondatezza di tali accuse. LA SVOLTA DELLE INDAGINI: L’APERTURA DELLA “PISTA NERA” Il 15 dicembre 1969, Guido Lorenzon, un insegnante di francese vicino alla DC e amico di Giovanni Ventura, disse al suo avvocato di essere stato informato, da parte di Ventura, dell’esistenza di un’organizzazione eversiva impegnata nell’instaurazione di un regime sul modello della Repubblica Sociale Italiana di Salò. Disse in oltre che Ventura affermò “di saperla lunga sulle bombe di dicembre a Milano”, e “di aver finanziato gli attentati sui treni avvenuti in agosto”. Dalle sue rivelazioni partirono delle indagini da parte del giudice istruttore di Treviso, ne fu informato anche il giudice istruttore di Roma (a cui era stata assegnata la competenza per le bombe di dicembre). Si ebbe una svolta nell’inchiesta con il ritrovamento di due depositi di armi ed esplosivi appartenenti ad organizzazione eversiva che faceva capo a Freda e Ventura. Purtroppo ancora una volta i 35 candelotti esplosivi rinvenuti vennero fatti immediatamente brillare senza fare prima analisi per stabilire se fossero stati utilizzati anche per le stragi. Sui due vennero effettuati controlli e indagini e si scoprì, attraverso intercettazioni telefoniche, che Freda aveva acquistato 50 timer marca “Diehl” con temporizzatore a 60 minuti, dotati di un particolare dischetto segnatempo prodotto in esclusiva da Targhindustria, e che questi erano identici ai timer usati nelle stragi. Se questo non bastasse, il giornale “L’Espresso” segnalò che in una valigeria di Padova erano in vendita borse dello stesso modello e colore delle borse usate per piazzare le bombe. In seguito a questa segnalazione del settimanale, si scoprì l’esistenza di un appunto “dimenticato” della questura di Padova datato 16 dicembre 1969, in cui il commerciante di borse “Al Duomo” dichiarava di aver venduto 4 borse (modello 2131, prodotte in germania dalla ditta Mosbach e Gruber) uguali a quella rinvenuta a Milano contenente l’ordigno inesploso della Banca Commerciale Italiana. Per concludere il quadro probatorio con cui si aprirà il primo processo sulla strage di piazza Fontana restano da ricordare due elementi: il primo fu una riunione avvenuta a Padova in data 18 aprile 1969 con un esponente di spicco dell’eversione nera romana, all’inizio si pensò essere Pino Rauti di Ordine Nuovo, salvo poi appurare che era Stefano Delle Chiaie di Avanguardia Nazionale. Il secondo fu il ritrovamento, in una cassetta di sicurezza di proprietà della madre di Giovanni Ventura, di alcuni documenti riguardanti la politica interna e internazionale provenienti dai servizi segreti. Si scoprirà in seguito (grazie a dei difetti grafici nella scrittura) che quei documenti furono scritti con la macchina da scrivere di Guido Giannettini. Giannettini, noto come “l’agente Z”, era un’agente segreto del Sid. Per sua stessa ammissione svolse un ruolo di contatto con i neofascisti per conto del generale Maletti. LO SVILUPPO DELLE VICENDE GIUDIZIARIE La prima inchiesta partita a Milano fu spostata per un cavillo a Roma già verso la fine di dicembre, nel 1971 questa era già conclusa sul versante della pista rossa e rimandava a giudizio per strage gli appartenenti al gruppo anarchico “22 marzo”. Dopo poche udienze il procedimento venne rispedito a Milano per incompetenza territoriale, da qui fu mandato a Catanzaro adducendo le motivazioni di “pericolo per l’ordine pubblico e legittima suspicione”. Nel passaggio milanese si aggiunsero tra gli imputati alcuni dei neofascisti. Poi anche alcuni esponenti dei servizi. All’inizio del processo il 23 febbraio 1979 si ritrovarono alla sbarra gli anarchici Pietro Valpreda, Emilio Borghese, Roberto Gargamelli, Olivio de Salvia, Enrico di Olimpia Torri e l’infiltrato fascista Mario Merlino (rimasto fregato nel suo stesso doppio gioco), i neofascisti Franco Freda, Giovanni Ventura, Stefano Delle Chiaie, Marco Pozzan, Piero Loredan di Volpato del Montello e Stefano Serpieri e gli ufficiali dei servizi Guido Giannettini, Giandalio Maletti, Antonio Labruna e Gaetano Tanzilli. La corte condannò in primo grado Freda, Ventura e Giannettini all’ergastolo per strage, mentre Maletti, Labrune e Tanzilli vennero condannati per favoreggiamento. Gli anarchici, tutti assolti per la strage, furono condannati per associazione a delinquere. Nel 1981 la Corte di appello di Catanzaro assolse tutti, condannando solo Freda e Ventura per associazione sovversiva in riferimento agli attentati dell’aprile e dell’agosto 1969, ma non per piazza Fontana. La Cassazione annullò la sentenza, assolvendo definitivamente il solo Giannettini e rinviando tutto a al tribunale di Bari. Nel 1985 il tribunale di Bari confermò la sentenza di secondo grado di Catanzaro. Nel 1987 la cassazione confermò la sentenza di Bari Per la strage di piazza Fontana non c’erano colpevoli! Un nuovo processo si intentò per Stefano delle Chiaie e Massimo Fachini, ma furono entrambi assolti. L’ultima inchiesta prende il via nei primi anni ’90 dall’unione di più filoni investigativi riguardanti le attività di Ordine Nuovo, una partita di 36 bombe a mano un tempo appartenute al gruppo milanese dell’organizzazione neofascista (noto come “la Fenice”) usate durante un corteo del MSI a Milano nel 1973, ed un documento, attribuibile a Nico Azzi, in cui si parla della disponibilità rimasta di timer dopo gli attentati del 12 dicembre 1969. Due collaboratori permisero lo sviluppo delle indagini, Martino Siciliano, ex di Ordine Nuovo nel Triveneto, e Carlo Digilio, noto come “zio otto”, infiltrato dalla CIA nell’organizzazione. Nome in codice “Erodoto”. Siciliano, coinvolto con Delfo Zorzi nell’attentato alla scuola slovena di Trieste e nel confezionamento della bomba che nel 1971 esplose all’Università Cattolica di Milano, ricostruì al giudice Salvini l’organigramma di Ordine Nuovo. Descrisse gli incontri del 1966 tenutisi a Mestre per rilanciare Ordine Nuovo nel Triveneto, dove si definì la situazione italiana prerivoluzionaria e di conseguenza la necessità di attrezzarsi affinchè il PCI non prendesse il potere. Nella struttura, Delfo Zorzi come capocellula di Mestre, riferiva direttamente a Carlo Maria Maggi, il quale a sua volta riferiva a Roma a Paolo Signorelli che era in contatto con Rauti che dirigeva la struttura. In questo periodo Ordine Nuovo accumulò armi ed esplosivi anche nella sede di Mestre, che Zorzi utilizzava come seconda casa. Siciliano, nella primavera del 1969, partecipò anche ad una riunione avvenuta nella libreria Ezzelino di Padova (proprietà di Freda) dove si definì la strategia stragista: infatti grazie al suo contatto con Rognoni, Zorzi poté organizzare il gruppo di Ordine Nuovo “la Fenice” di Milano. Infine Siciliano raccontò della cena di capodanno del 1969 a casa di Giancarlo Vianello a Mestre, dove Zorzi parlando di piazza Fontana disse: “SIAMO STATI NOI A FARE QUELLA ROBA, NOI COME ORGANIZZAZIONE”. Carlo Digilio era l’armiere del gruppo, lo “zio otto” fu infiltrato per permettere il salto di qualità al gruppo, in particolare nel campo degli esplosivi, in modo da farli operare attivamente nel quadro della strategia della tensione. Digilio dichiarò di essere stato “infiltrato” nel gruppo tramite Lino Franco, un ex repubblichino animatore del gruppo Sigfrid (un’articolazione dei nuclei di difesa dello stato, un’organizzazione parastatale anticomunista). Franco lo fece incontrare con Ventura che lo portò subito nel deposito di armi ed esplosivi del gruppo in un casolare nel comune di Paese. Digilio raccontò le fasi precedenti alla strage. Carlo Maria Maggi lo avvisò che vi sarebbero stati gravi attentati e che lo avrebbero presto contattato. Zorzi gli diede appuntamento l’8 dicembre e gli fece vedere nel cofano della 1100 di Maggi tre casse militari con dell’esplosivo dicendogli che i timer li aveva innescati un elettricista. Gli disse che doveva andare con quelle casse fino a Milano, e si fece rassicurare sulla possibilità di non saltare in aria lungo il tragitto. L’elettricista che preparò i congegni era Tullio Fabris, che nel 1994 decise di parlare (sostenne di non averlo fatto prima per le minacce ricevute da Fachini e Rauti), raccontando sia delle prove fatte con gli inneschi nello studio legale di Freda, sia delle proposte di collaborazione con Ordine Nuovo, sia delle protezioni che gli sarebbero state garantite da “alte sfere”. Digilio riferì infine alcuni discorsi di Maggi in cui disse che “per gli attentati del 12 dicembre erano partiti alla volta di Milano Delfo Zorzi e i mestrini di sua fiducia viaggiando con la Fiat 1100”, che Giovanni Ventura aveva coordinato l’intera operazione, che “i fatti del 12 dicembre erano solo la conclusione di quella che era stata la nostra strategia”, che “c’era una mente organizzativa al di sopra della nostra, che aveva voluto questa strategia”e infine che “l’incriminazione degli anarchici era una mossa strategica studiata dai servizi segreti”. Alle dichiarazioni di Maggi aggiunse quella di Zorzi in cui diceva che nonostante tutti quei morti “era stata importante perché aveva dato forza alle destre e colpito la sinistra del paese”. L’8 giugno 1999 iniziò il processo per strage contro Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni che in primo grado furono condannati all’ergastolo. Il 12 marzo 2004 la Corte di Appello assolse tutti, motivando che, pur ritenendo attendibili Siciliano e Digilio, non aveva abbastanza elementi contro Zorzi e gli altri. Il 3 maggio 2005 la Corte di Cassazione confermò tutto. Nelle motivazioni della sentenza vengono riconosciute due cose: la colpevolezze di Freda e Ventura (purtroppo senza effetti perché già processati e assolti per la strage) e l’implicazione del gruppo Ordine Nuovo nella pianificazione e attuazione degli attentati. Anche stavolta nessuno ha pagato per la strage! LA VERITA’ SULLA STRAGE La guerra fredda ha avuto un’influenza diretta nella storia Italiana. Era impensabile dagli accordi di Yalta in poi che l’Italia potesse diventare socialista, cosi all’indomani della seconda guerra mondiale una serie di operazioni furono avviate nel paese per impedire questa ipotesi, dal finanziamento alla DC, alla rottura dell’unità sindacale fino alla costituzione di reti parallele di “autodifesa” in caso di un tentativo insurrezionale comunista. Così nacquero i Nuclei di Difesa dello stato, Gladio e la strategia della tensione. La strategia della tensione fu il tentativo di generare panico nel paese, possibilmente attribuendo le colpe alle sinistre, in modo da permettere svolte autoritarie o addirittura golpiste. Il sistema “democratico” Italiano a tratti non sembrava offrire la garanzia di mantenersi allineato al blocco occidentale, così si sono strutturate campagne per “raddrizzare” in senso autoritario la stato. La prova degli intrecci messi in piedi dai servizi segreti Italiani e statunitensi sta nella vicenda di piazza Fontana. Ventura e Freda erano legati attraverso Giannettini al Sid, Digilio per sua stessa ammissione era l’agente “Erodoto” della CIA, Delfo Zorzi tramite Elvio Catenacci, questore di Venezia, era vicino all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, Maggi era vicino ad A.Magi braschi un ex-Sifar esperto di guerra non ortodossa, Fachini era legato al capitano Labruna del Sid e Pino Rauti è stato vicino al Sifar e al Sid come collaboratore dell’ammiraglio Henke: una strage attribuita alla sinistra, orchestrata da apparati dello Stato e eseguita da neofascisti reclutati dai servizi segreti italiani e stranieri. (da Antifa Milano )
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TERAMO – Piano d’Accio di nuovo amaro per la Samb. E’ il Teramo ad aggiudicarsi il derby per 2-1 al termine di una gara in cui sono stati i biancorossi a credere di più nel successo, con i rossoblù che non hanno ripetuto la prestazione di domenica scorsa sia per intensità che sotto il profilo tecnico. Sanderra conferma uomini e atteggiamento tattico di domenica scorsa con il tridente offensivo formato da Mancuso-Sorrentino e Di Massimo.
Il tecnico, alla vigilia, aveva chiesto grinta e determinazione alla sua squadra ma nel primo tempo si è vista una Samb molto attendista anche per il fatto che il Teramo non ha iniziato il match a spron battuto. Insomma si è giocato al piccolo trotto che in un certo senso poteva agevolare i rossoblù. Dall’ altra parte l’ex Ugolotti presenta un Teramo con il 4-2-3-1 con il chiaro intento di sfruttare la velocità di Spighi e Paolantonio sugli esterni, con la fantasia di Fratangelo a supporto di Sansovini.
Rare le emozioni nella prima frazione di gioco con un possesso palla maggiore da parte del Teramo. La Samb si affaccia dinanzi a Narciso al 5’ pt con una conclusione di Di Massimo che sfiora di poco l’incrocio dei pali. Al 17’ occasionissima per i padroni di casa con Speranza che di testa dal limite dell’ area piccola spedisce incredibilmente sul fondo. Il gol del vantaggio biancorosso arriva alla mezzora. Errore in disimpegno di Di Massimo che innesca Fratangelo che dal limite dell’area indovina la parabola giusta che non dà scampo ad Aridità.
Ad inizio ripresa, arriva il pari della Samb. Al 10’ Corner di Mancuso, Bacinovic svetta più in alto di tutti e di testa batte Narciso. Si tratta della prima rete in rossoblù per il centrocampista slovena ed anche la prima su azione diretta da calcio d’angolo. Passa solo un minuto ed il Teramo sfiora il vantaggio. Di Paolantonio dalla sinistra trova Sansovini che di testa colpisce la traversa ad Aridità battuto. I rossoblù si riaffacciano dalle parti di Narciso al 19’ con l’ex Lulli la cui conclusione viene blocca a terra dall’estremo difensore di casa.
Sanderra inserisce Bernardo per Sorrentino, mentre Ugolotti Tempesti e Masocco pere Fratangelo e Di Paolantonio. Ma il leit motiv del match non cambia. Il Teramo cerca di sfondare, cercando di sfruttare le palle inattive ma la difesa rossoblù è attenta. Alla mezzora scocca l’ora di Vallocchia che prende il posto di un impalpabile Di Massimo. Al 38’ gran sinistro di Ilari, bloccato centralmente da Aridità. Grande agonismo in campo con le due squadre alla ricerca del gol vittoria che arriva per il Teramo al 2’ di recupero con Speranza che di testa su corner di Amadio batte Aridità, riscattando così l’erroraccio del primo tempo.
In tribuna al Bonolis, in compagnia del massimo dirigente biancorosso Luciano Campitelli anche il presidente del Pescara Daniele Sebastiani, molto interessato alla prestazioni di Mancuso e Di Massimo. Il primo ha già firmato un precontratto fino al 2020 con il club del Delfino, il secondo rientrerà a fine stagione per fine prestito alla casa madre biancoazzurra. Con Sebastiani anche i diesse Giuseppe Pavone e Leone. E poi ecco l’ex tecnico biancoazzurro Giovanni Galeone. Al Piano d’ Accio anche il procuratore di Verratti e Di Massimo Donato Di Campli e il diesse dell’ Ascoli Cristiano Giaretta e l’ex Samb Massimo Loviso.
TERAMO (4-2-3-1): Narciso; Sales, Caidi, Speranza, Karkalis; Amadio, Ilari; Spighi, Fratangelo 7 (15’ st Tempesti), Di Paolanonio (24’ st Masocco); Sansovini (34’ st Barbuti). A disp. Calore, Altobelli, Palladini, Camilleri, Scipioni, Carraro, Cesarini, Baccolo. All. Ugolotti
SAMB (4-3-3): Aridità; Rapisarda, Mori, Mattia (48’ st Latorre), Pezzotti; Lulli, Bacinovic, Damonte; Mancuso, Sorrentino (22’ st Bernardo), Di Massimo (30’ st Vallocchia). A disp. Pegorin, Di Pasquale, Radi, Di Filippo, Sabatino, N’ Tow, Agodirin, Ferrara, Candellori. All. Sanderra
ARBITRO: Mastrodonato di Molfetta (Mazzei-Di Stefano)
RETI: 30’ pt Fratangelo, 10’ st Bacinovic, 47’ st Speranza
Note: Spettatori oltre duemila con 526 tifosi provenienti da San Benedetto. Amm. Speranza (Te), Bacinovic (S), Mori (S). Angoli 6-3 per il Teramo. Rec. 1° tempo 1’, 2° tempo 3’
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Sabato 10 febbraio. Siamo a Lucento, zona popolare di Torino. Qui c’è il villaggio santa Caterina: i nomi delle vie ricordano quelli dei paesi e delle città da cui arrivavano istriani e dalmati, che presero la via dell’esilio dopo la seconda guerra mondiale. Quelli che arrivarono a Torino finirono alle Casermette di Borgo San Paolo, un campo profughi che ospitava persone fuggite anche da Grecia, Francia, Libia, Montenegro, Africa orientale italiana. Le guerre sospingono tanta gente lontana dal posto dove viveva. L’impero del Duce e del Re si dissolse, il confine orientale si spostò nuovamente verso ovest. Questa vicenda ha radici lontane. Dopo la prima guerra mondiale, l’Italia si sedette da vincitrice al tavolo delle trattative. Il trattato di Rapallo, che perfezionò le condizioni stabilite durante la conferenza di Versailles, sancì l’annessione all’Italia di Trento, Trieste, Istria, e Dalmazia. Luoghi dove almeno un milione di persone parlava lingue diverse dall’italiano venne obbligata parlarlo in tutte le situazioni pubbliche e, soprattutto, a scuola. In oltre cinquantamila lasciarono Trieste dopo l’annessione: funzionari dell’impero austroungarico o semplici cittadini di lingua austriaca o slovena, per i quali non c’erano prospettive di vita nella Trieste “italiana”. Una città poliglotta e vivace stava smarrendo la propria peculiarità di luogo di incontro e intreccio di culture diverse. Il fascismo accentuò la repressione nei confronti delle popolazioni di lingua slovena e croata, l’occupazione tedesca e italiana della Jugoslavia fu accompagnata da atrocità indelebili. Le foibe e l’esodo sono uno degli ultimi momenti di una guerra durissima. Nella seconda guerra mondiale in Jugoslavia morirono un milione di persone, altrettante persero la vita nell’Italia del Nord. Nelle fucilazioni dei partigiani titoisti caddero molti fascisti, anche se i gerarchi più importanti fecero in tempo a trovare scampo a Trieste. Caddero anche molte persone le cui collusioni dirette con il fascismo erano molto più impalpabili. L’equiparazione tra fascismo e italianità, perseguita con forza dal regime mussoliniano, costerà molto cara a chi, in quanto italiano, venne considerato tout court fascista. Oggi gli storici concordano sul fatto che le cifre reali sugli infoibati sono molto lontane da quelle proposte dalla retorica nazionalista, ma per noi anche uno solo sarebbe troppo. Sloveno, italiano, croato che sia. Più significativo fu invece l’esodo dall’Istria e dalle coste dalmate. Città come Pola e Zara persero oltre il 80% della popolazione. Accolti bene dalle popolazioni più vicine, vennero trattati con disprezzo ed odio altrove. Ad Ancona vennero presi a sputi e trattati da fascisti in fuga. Qui a Torino erano guardati con diffidenza. Per la gente comune, con involontaria ma feroce ironia, erano “gli slavi”. La radice del male, oggi come allora, è nel nazionalismo che divide, separa, spezza. I profughi delle Casermette di via Veglia, una zona isolata, priva di trasporti pubblici, vivevano ammassati nelle camerate trasformate in tendopoli: una corda e un telo garantivano una precaria intimità. Il villaggio Santa Caterina venne ultimato tra il 1956 e il 1959: undici blocchi di palazzine di edilizia popolare furono costruite per le famiglie di profughi dell’Istria e della Dalmazia. Allora quella zona di Torino era ancora campagna: strade, autobus, negozi, scuole sarebbero arrivati nei due decenni successivi. La storia del villaggio si fonde con quella del quartiere e della città. Nel 2004 venne istituita la giornata del Ricordo dell’esilio istriano e dalmata e delle vittime delle Foibe. Poco dopo il comune di Torino fece apporre su una delle case del villaggio una lapide commemorativa. La memoria della guerra fascista sul fronte orientale, l’invasione della Jugoglavia e della Grecia, la feroce occupazione militare, i campi di concentramento dove si moriva di fame e sevizie, gli stupri, le torture non sono mai entrati nella memoria collettiva. Il mito degli “italiani brava gente”, assunto in modo trasversale a destra come a sinistra, fonda il nazionalismo italiano, un nazionalismo che si nutre di un’aura di innocenza e bonarietà “naturali”. In Italia la memoria è la prima vittima del nazionalismo, che impone una sorta di ricordo di Stato, che diviene segno culturale condiviso. Una sorta di marchio di fabbrica. Si sacrificano le virtù eroiche ma si eleva l’antieroismo dei buoni a cifra di un’identità collettiva. Nonostante le ricerche storiche abbiamo mostrato la ferocia della trama sottesa al mito, questo sopravvive e si riproduce negli anni. Un mito falso e consolatorio, che apre la via al revisionismo fascista. La giornata del Ricordo viene cavalcata ogni anno dalla destra xenofoba e razzista. La gestione delle giornate della “memoria” e del “ricordo”, assunte in modo bipartisan dalle varie forze politiche, ha contribuito ad alimentare questa favola rassicurante, impedendo una riflessione collettiva che individuasse nei nazionalismi la radice culturale del male. Quest’anno sia Forza Nuova che Casa Pound si sono ritrovate due ore l’una dall’altra, al villaggio Santa Caterina. Gli antifascisti torinesi si sono dati appuntamento nella zona del mercato di corso Cincinnato, all’angolo con via Valdellatorre. Uno striscione con la scritta “nazionalismo cancro dei popoli” era affisso al camion di testa. Un imponente schieramento di polizia difendeva i fascisti. Il corteo ha tentato più volte di aggirare la polizia, senza tuttavia riuscirvi. In una viuzza laterale la testa del corteo è stata caricata ed un compagno, Fabrizio, è stato preso, buttato a terra, manganellato e portato in questura e, da lì, al carcere delle Vallette. Il corteo ha fronteggiato a lungo la polizia prima di avviarsi all’Edera Squat. La fiaccolata di Casa Pound si è snodata per corso Toscana e il villaggio, protetta dalla polizia. I quotidiani del giorno successivo hanno tratteggiato un improbabile scenario di guerriglia. Martedì il giudice ha convalidato l’arresto di Fabrizio, che è stato scarcerato con obbligo di firma.
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