#NON ERA IN RISPOSTA A NESSUNO
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C'era una volta la vacanza estiva che durava dai due ai tre mesi. Aveva un nome obsoleto ed in disuso, "la villeggiatura".
Tanti partivano addirittura ad inizio giugno od ai primi di luglio e tornavano a metà settembre. L' autostrada era una fila di Fiat 850, 600, 1100, 127, 500 e 128, Maggiolini e Prinz.
Non era guardato affatto chi aveva la Bmw la Mercedes o l'Audi, perché gli status symbol allora non esistevano.
Era tutto più semplice e più vero.
La vacanza durava talmente tanto che avevi la nostalgia di tornare a scuola e di rivedere gli amici del tuo quartiere, ed al ritorno non ricordavi quasi più dove abitavi.
La mattina in spiaggia la 50 lire per sentire le canzoni dell'estate nel juke box o per comprare coca cola e pallone.
Il venerdì chiudevano gli uffici e tutti i papà partivano e venivano per stare nel fine settimana con le famiglie.
Si mandavano le cartoline che arrivavano ad ottobre ma era un modo per augurare "Buone vacanze da..." ad amici e parenti.
Malgrado i 90 giorni ed oltre di ferie, l'Italia era la terza potenza mondiale, le persone erano piene di valori e il mare era pulito.
Si era felici, si giocava tutti insieme, eravamo tutti uguali e dove mangiavano in quattro mangiavano anche in cinque, sei o più.
Nessuno aveva da studiare per l'estate e l'unico problema di noi ragazzi era non bucare il pallone, non rompere la bicicletta e le ginocchia giocando a pallone altrimenti quando rientravi a casa ti prendevi pure il resto.
Il tempo era bello fino al 15 di Agosto, il 16 arrivava il primo temporale e la sera ci voleva il maglioncino perchè era più fresco.
Intanto arrivava settembre, tornava la normalità.
Si ritornava a scuola, la vita riprendeva, l'Italia cresceva e il primo tema a scuola era sempre.
"Parla delle tue vacanze". Oggi è tutto cambiato, diverso. La vacanza dura talmente poco che quando torni non sai manco se sei partito o te lo sei sognato.
E se non vai ai Caraibi a Sharm o ad Ibiza sei uno stronzo. O magari hai tante cose da fare che forse è meglio se non parti proprio, ti stressi di meno.
Una risposta certa è che allora eravamo tutti più semplici, meno viziati e tutti molto più felici, noi ragazzi e pure gli adulti. La società era migliore, esisteva l’amore, la famiglia, il rispetto e la solidarietà. Fortunati noi che abbiamo vissuto così.
La vita era quella vera insomma.
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La pizzeria è gremita e i tavoli sono occupati da precoci coppiette giunte ben prima dell'ora più consona alla cena, forse per finire velocemente e correre in casa ad accoppiarsi. O forse perché vivo a Vienna e qua cenano quando i comuni mortali normalmente fanno merenda. Inutile che sfotto, se sono entrato in pizzeria a quest'ora è perché pure io sto morendo di fame. Conosco la capo sala, ha letto il mio libro e dato che mi saluta ancora devo dedurre che non le ha fatto schifo. Le chiedo se posso mettermi al bancone, sono da solo, fuori fa freddo e ho fame, che mi basta una margherita e me ne vado. Annuisce e i suoi occhi si fanno compassionevoli. Non faccio in tempo a sedermi che il ragazzo al bancone, notando la mia condizone solitaria, mi porge una birra che non avevo ordinato. Mi sorprendo e dico che ci deve essere stato un errore, che ancora non ho chiesto nulla. Mi risponde che fa lui, posso stare tranquillo. Io desideravo una coca-cola e ora mi tocca bere una birra offerta accidenti. C'è una seggiola di fianco a me con una giacca poggiata, la proprietaria mi chiede se desidero che la sposti, le dico che non serve, tanto non arriva nessuno. Mi sorride e torna a limonare con un barbuto uomo di quasi due metri. Più passa il tempo più gli alti mi stanno sul cazzo e vorrei segargli le gambe mentre dormono. Poi mi ricordo di essere sopra la media in Italia (e anche in Sud America) e torno a concentrarmi sulla sala. Ci sono davvero solo coppie, uscite per festeggiare la ricorrenza amorosa. Noto con piacere un cospicuo numero di tavoli occupati da persone dello stesso sesso che si tengono per mano. Sorrido per loro. Che belli che siete, godetevi questo momento, vi lascerete anche voi, non temete. Il volume della musica è troppo alto, decido di mettere le cuffiette e ascoltare qualcosa di diverso, un concerto per orchestra a tema videogiochi giapponesi, tanto sono da solo, non devo interloquire con nessuno. Mentre divoro la mia margherita penso a San Valentino. Al fatto che come festa non serva a molto, a meno che tu non abbia 16 anni e bisogno di un pretesto per scopare. Ma è utile per chi come me la vede come un post-it, messo per ricordardati di essere grato a chi ti vuole bene. Anche se non te lo meriti perché fai schifo come essere umano. Anche se dovresti ricordartelo ogni giorno ma tra una cosa e l'altra ti passa per la testa e allora eccoti una data. Una volta all'anno, fai sto sforzo e scrivi a chi ti vuole bene, scrivi quanto ti ritieni fortunato ad avere qualcuno che ti sopporta. Servono a questo le feste. Natale per ricordarti di ringraziare la famiglia. Il compleanno per ricordarti dell'esistenza di qualcuno. L'onomastico per ricordarti pure come si chiama. Ferragosto per ricordarti che l'estate sta finendo. Pasqua boh, non lo so, per ricordarti che è possibile uccidere una divinità forse. Finisco la pizza e mi arriva un'altra birra che ancora non ho ordinato. Mi giro in sala per capire a chi ho fatto pena stavolta. Nessuno mi guarda. La finisco contro la mia volontà e mi dirigo a pagare il conto. Mi viene detto dalla capo sala che oramai faccio parte della famiglia, che posso considerarmi un cugino acquisito e che quindi mi basta darle la metà della metà di quello che avrei dovuto dare. Quanto adoro fare pena. È il mio superpotere. Birra gratis, pizza scontata e posso andare a letto con la pancia piena. Una coppia mi avrà notato e ora sarà nata una discussione, prima di fare l'amore. "Tesoro, voglio adottare un triste italiano solitario, hai visto quanto era carino mentre mangiava la sua pizza, starebbe così bene con il nostro arredamento". Qualcun altro avrà girato un video che diventerà virale su tiktok e dove magari vengo insultato. Poco mi interessa. Torno a casa dal mio gatto, gli dico che lo amo e che sono grato ci sia lui a volermi bene. Lui, per tutta risposta, vomita sul tappeto. L'amore è un linguaggio variopinto e maleodorante talvolta.
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Varcò la soglia di quel bar coi capelli legati e la mano sventolante vicino al viso: faceva caldo, troppo caldo, nonostante fossero appena le 8 di mattina. Le goccioline che le partivano dalla fronte scendevano giù lungo tutto il viso arrivando alla bocca rimpolpata da quel suo lipgloss appiccicoso che usava sempre. Il locale era pieno, le voci erano alte, tutti di fretta ma non troppo: va bene andare a lavoro, sì, ma con calma, ce n'è di tempo per lavorare, ma per esser felici e spensierati ce n'è troppo poco. Si avvicinò al bancone, a servirla c'era un bel giovane sorridente. «Non ti ho mai vista qui, sei nuova?» il sorriso si fece ancora più ampio, ma come risposta ricevette il sopracciglio inarcato e indispettito di lei. «Buongiorno, innanzitutto» rimbobò. Erano già due mesi che era lì, ma ancora non si era abituata a quella confidenza che chiunque si prendeva. Sapeva non fosse cattiveria, ma un po' l'infastidiva. Tutti conoscevano tutti e lei, a sentirsi dire sempre la stessa frase, si sentiva un po' un pesce fuor d'acqua. «Sì, sono nuova. Ma ricordate tutti coloro che passano o è proprio un vostro modo di approcciare?» continuò quindi lei. Il giovane si passò la mano tra i capelli lisci che gli cadevano sulla fronte «signorina, non mi permetterei mai di approcciarvi... O almeno, mi correggo, non così» rise, era bello. «Scusatemi se mi sono permesso o se vi ho dato fastidio... Diciamo che qui ci conosciamo tutti» botta secca «o comunque, più o meno mi ricordo chi passa, un viso così bello lo ricorderei». Le lusinghe erano tante, ma la pazienza la stava proprio perdendo. «Sì, capito, capito. Mi può portare un caffè, per favore?» «sì, certo, permettetemi di presentarmi almeno, io son-...» dei passi lenti dietro di lei la interruppero «Antò, e falla finita! Ti vuoi sbrigare? Non è cosa, non lo vedi? Portagli 'sto caffè e muoviti, glielo offro io alla signorina». La situazione stava degenerando, la ragazza in viso era ormai paonazza e non di certo per il caldo. «Scusatemi tutti, il caffè me lo pago da sola! Posso solo e solamente averlo?! Si sta facendo tardi, non pensavo che qui fosse un delirio anche prendere un caffè!» per un attimo calò il silenzio che non c'era mai stato, nella mente di lei passò un vento di leggerezza e sollievo, senza rendersi conto che, con quell'affermazione, si era di nuovo sentita come tutto ciò che non voleva sentirsi: un pesce fuor d'acqua. «Scusatemi» bofonchiò, poi di nuovo «potrei avere gentilmente un caffè? Grazie. Mi andrò a sedere al tavolo» il barista la guardò, un po' dispiaciuto «signorì, se permettete, cappuccino e cornetto, offre la casa. Sentitevi un po' a casa, vi farebbe bene» e si dileguò. Non disse nulla e si trascinò verso il tavolino, non poteva combatterli: erano tutti pieni di vita lì in quel posto. Che alla fine, un po' di gioia dopo anni di sofferenze, non sarebbe poi mica guastata.
Si sedette lì, ad un tavolino accanto ad un immenso finestrone: da lì si vedeva il mare, mozzafiato. Si guardò intorno. Il viavai di gente era irrefrenabile e la mole di lavoro assurda, ma la cosa più bella di quel posto è che nonostante le richieste più assurde dei clienti, venivano accolti tutti con il sorriso più caloroso del mondo.
Sorseggiava il suo cappuccino, lasciando vagare il suo sguardo di tanto in tanto, fin quando non si fermarono inchiodati su quello di un altro. Nell'angolo, in fondo, c'era un ragazzo. Gli occhi scuri tempesta bloccati nei suoi ciel sereno. I capelli un po' arricciati gli scappavano qua e là dalla capigliatura indefinita che portava. Un ricordo è come un sogno lucido, che però puoi toccare, sentire, annusare, vivere ad occhi aperti, vivere senza dormire. In quell'angolo di stanza, c'era lui. I battiti partirono all'impazzata all'unisono, nel bar non c'era più nessuno, solo loro. So potevano quasi toccare co mano, nonostante la distanza a separarli, le loro mani accarezzavano i rispettivi visi come a gridare “sei vera? Sei vero?”. Un impeto di emozioni, un vulcano in eruzione, la pioggia sul viso, il vento che porta il treno che sfreccia, il pianto di un bambino, la risata di un ragazzo. «Signorì, tutto apposto?» il tempo di sbattere le palpebre: lui non c'era più «sì, sì... Pensavo di aver visto qualcuno di mia conoscenza».
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Notoriamente Faurisson era un negazionista (l'etichetta è stata coniata proprio per lui) che sfidò gli storici a fornire prove dell'esistenza delle camere a gas. Le tesi di Faurisson sono talvolta
deliranti, ma solo per questo delirio avvengono condanne penali e licenziamenti.
L'esistenza storica di Gesù è stata contestata a lungo. Quella di Maometto assai più di recente, e su basi ancor più labili (dato che a 10 anni dalla sua morte i musulmani stavano già conquistando mezzo mondo in suo nome). Nessuno è stato arrestato o licenziato per negazionismo.
Semplicemente, si sono accumulati indizi ed elementi che dimostrano l'implausibilità di una determinata tesi. Il caso Faurisson, emerso nel 1979, scoppiò con la dichiarazione di 34 storici che rispondevano a un suo articolo su le Monde in cui negava le camere a gas.
Che cosa dovrebbe fare uno storico in questo caso? Portare tutti gli elementi che dimostrano che le camere a gas sono realmente esistite. Persino il revisionista Nolte scriveva che negare l'Olocausto sarebbe come negare l'esistenza di Napoleone.
Ma qualcuno è mai finito nei guari per aver negato l'esistenza di Napoleone? La risposta degli storici è indicativa del desideri di sottrarre l'Olocausto alla storia per portarlo nel mito.
Ecco un passaggio: "Non bisogna domandarsi come un tale assassinio di massa sia stato tecnicamente possibile. È stato tecnicamente possibile poiché ha avuto luogo. Questo è il punto di partenza obbligato di tutta l'indagine storica sull'argomento."
Cioè, se per ogni evento storico bisogna partire dalla necessità di dimostrare che abbia avuto luogo, in questo caso si parte da un dogma che non richiede spiegazioni tecniche.
Alla replica (non pubblicata: le Monde aveva già ceduto alle pressioni) con cui Faurisson chiedeva "Une preuve… une seule preuve", iniziò un processo, in cui fu imputato fra l'altro di "falsificazione della storia".
Il tribunale si rifiutò di considerare, per mancanza di competenza, quest'accusa fantastica e si limitò a condannarlo per "danni a terzi". In seguito Faurisson fu rimosso dall'insegnamento universitario e subì altri processi e lievi condanne.
Il pericolo insito nel processare le visioni anche assurde della storia fu individuato da Chomsky, che espresse pubblicamente solidarietà a Faurisson a prescindere dalle tesi sostenute, in nome della libertà di espressione.
Il pericolo insito nel processare le visioni anche assurde della storia fu individuato da Chomsky, che espresse pubblicamente solidarietà a Faurisson a prescindere dalle tesi sostenute, in nome della libertà di espressione.
Giuliano Lancioni
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Qualitativamente, la sensazione assomiglia al panico, ma quantitativamente è più un dolorino muscolare, di quelli che si portano appresso da anni e di cui si prende consapevolezza di tanto in tanto, fino alla prossima distrazione. L’essenza è che sta cambiando di nuovo tutto, che Valerio è morto, che sono morta io in un senso diverso, la stessa me che si impegna a ricordarsi che nessuna cosa (pochissime cose) può essere più spaventosa di quel che è oramai già successo. Il volo è fissato lunedì sera: mi dico che devo decidere, ma mi stupirei di me stessa se alla fine lo prendessi. Non lo prenderò. Ma sarebbe (stato) meglio prenderlo? Dovrei scegliere la pace. La stasi. Un po’ di stasi, almeno. Fermarmi per la prima volta in quanti, dieci anni? Io con Valerio ho vissuto la mia prima rivoluzione copernicana, con lui ho sentito la pace e la stasi e la sensazione di essere a posto col tempo, nonostante non poteva esserci illusione più grande. Valerio è morto ed io ho avuto la mia seconda rivalsa, e da quando sto qui io le cose le vedo chiarissime: la bambina di tredici anni per la prima volta da sola in un paese straniero, la rappresentate di classe al liceo classico, quella che piace alle nonne, la professoressa che tiene lezioni, la donna che non deroga mai alla propria bussola morale, e quella che in ultima battuta prende quell’altro aereo, tre giorni dopo il funerale, e parla alle riunioni di laboratorio in un inglese che non ricordava di saper usare, con una voce che non sapeva di essere in grado di far sentire, e piace, se la cava, esplora la città tutta sola. Sono io, non è uno strappo: mi mancava lo spiraglio di luce giusto per cogliere il quadro nel suo complesso e vedere i puntini unirsi da soli. In tutto questo, però, manca ancora il desiderio (dov’è il desiderio?), c’è una tempistica fangosa, una cattiveria del destino per cui, quando domani sarò finalmente ed ufficialmente libera, non potrò fare nulla di ciò che avevo rimandato, ma, al contempo, posso fare molto più di quello che abbia mai osato sognare. Del resto il lavoro non è il mio sogno. Quando sono in grado, io sogno la libertà assoluta, la stasi, la pace, l’incanto di poggiare la testa sulla spalla di Valerio. E forse non pensavo avrei potuto avere di meglio, ma per natura me lo chiedevo e la risposta era sincera: niente poteva essere tanto.
Poi ci si mette la fortuna, o il destino, o il grande principio di senso del mondo che mi gioca i soliti scherzi cui ancora soccombo: stamattina a lavoro c’erano delle casse da morto (vuote), ma poi una signora mi ha fermato per dirmi quale è il nome che i residenti hanno dato ad un certo scoiattolo. I miei se ne vanno, ma devo staccare da lavoro alle 19. Mi offrono il contratto, ma dovrò dividere l’appartamento con un’altra persona. Persino l’ultima puntata di quella serie tv del cazzo che ho iniziato a vedere quando sono arrivata, e che avevo messo in pausa senza sapere quanto mancasse. Tutto incerto, ambivalente. Un po’ di morte ed un po’ di bellezza, con me al centro a gestire il traffico con una divisa scintillante, col plauso degli astanti.
Domani i nodi vengono al pettine ed io decido. Finisco ufficialmente il dottorato e decido quanti e quali affitti pagare. Metto a posto le mie cose, nell’armadio che ho qui in prestito o nella valigia grande da stiva. Domani queste cose, quando vorrei soltanto dormire, o scrivere, o arrivare a guardare la morte premendo quel pulsantino di emergenza che nessuno sa che ho, che dice: fermate il mondo, voglio scendere!
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COVID = AIDS?
@heresiae mi ha chiesto di commentare QUESTO POST (commentare non del tipo 'Maestro, illuminaci!' ma più tipo '???????') e mi tocca dire che nonostante alcuni punti siano meritevoli di approfondimento (perché, di massima, corretti) le informazioni vengono sparate in stecca con un tono allarmistico e, a mio avviso, esagerato.
In sintesi, nel post linkato si paragona il covid all'aids perché sono venute fuori evidenze (come leggerete, comuni ad altre infezioni virali) che la malattia da Sars-CoV2 abbia un effetto indebolente sul sistema immunitario... senza scendere in spiegazioni dettagliate su cosa siano i Linfociti T (T Cells nell'originale), in sostanza si correla l'infezione con un'aumentata APOPTOSI (morte cellulare programmata, utile al rinnovo) di queste cellule del nostro sistema immunitario, col risultato che dopo la malattia quest'ultimo diventerebbe più 'debole' e quindi più suscettibile ad altre infezioni nonché tumori.
Per amor di precisione, il paragone con l'aids è stato estrapolato da un'osservazione specifica che è stata posta fuori contesto, infatti HIV e il Sars-CoV2 sono due virus COMPLETAMENTE differenti e il Sars-CoV2 NON SI COMPORTA COME L'HIV che invece si aggancia e gemma all'interno dei linfociti CD4, inattivandone completamente la capacità immunitaria; inoltre sono stati riportati solo articoli scientifici che parlano dell'aumentata apoptosi cellulare senza specificare che:
SI TRATTA DI UN FENOMENO TEMPORANEO
E' PROPORZIONALE ALLA GRAVITA' DELL'INFEZIONE
Risultati: L’estesa linfopenia delle cellule T osservata in particolare nei pazienti con COVID-19 grave durante l’infezione acuta si era ripresa 6 mesi dopo l’infezione, accompagnata da una normalizzazione delle risposte funzionali delle cellule T agli antigeni virali comuni. Abbiamo rilevato un’attivazione persistente delle cellule T CD4+ e CD8+ fino a 12 mesi dopo l’infezione, in pazienti con COVID-19 lieve e grave, misurata dall’aumento dell’espressione di HLA-DR e CD38 su queste cellule. L’attivazione persistente delle cellule T dopo COVID-19 era indipendente dalla somministrazione di un vaccino COVID-19 post-infezione. Inoltre, abbiamo identificato un sottogruppo di pazienti con COVID-19 grave che presentava una conta di cellule T CD8+ persistentemente bassa al follow-up e mostrava un fenotipo distinto durante l’infezione acuta costituito da una risposta disfunzionale delle cellule T e segni di eccessivo processo pro-infiammatorio. produzione di citochine. Conclusione: il nostro studio suggerisce che il numero e la funzione delle cellule T si riprendono nella maggior parte dei pazienti dopo COVID-19. Tuttavia, troviamo prove di attivazione persistente delle cellule T fino a 12 mesi dopo l’infezione e descriviamo un sottogruppo di pazienti affetti da COVID-19 grave con conteggi di cellule T CD8+ persistentemente bassi che mostrano una risposta immunitaria disregolata durante l’infezione acuta.
Fonte: [X]
Questi fenomeni non sono dicotomici e irreparabili come nell'infezione da HIV e nell'AIDS (che ricordo essere due cose diverse: si può essere positivi all'HIV e non sviluppare l'aids) e anche se nessuno (che abbia un QI perlomeno a due cifre) nega che ci possano essere queste complicazioni, esse NON SONO LA NORMA e condensare molteplici studi e osservazioni ancora in fieri in un unico post dandogli un taglio così netto e allarmistico a me pare controproducente ed esagerato.
Come avevo accennato all'inizio, sono parecchie le infezioni - spesso ritenute 'innocue' - che nel breve e nel lungo periodo possono potenzialmente dare GROSSI problemi al nostro sistema immunitario e all'organismo più in genere, però non ve le dico tanto non ci potete fare nulla e vivreste in un costante stato di paura che davvero non merita.
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Perché proprio i cimiteri?
Non lo so, non l' ho mai capito davvero. Forse perché la mia tata da piccola mi portava nel cimitero del paese, mi prendeva in braccio, e con me in collo camminava per i viali raccontandomi le storie di quelli che non c'erano più. "Vedi quella tomba lì ninnì? È di un soldato che è morto in guerra. E in quell' altra c'è una bara bianca, minuscola, è un bambino che è nato morto. Quella invece era la maestra del paese. Lì c'è un bambino monello che non ascoltava mai e così una volta finì sotto al trattore del padre e morì. Ma tu sei brava e ascolti sempre, vero?". Ecco, un cimitero è un posto pieno di storie che nessuno racconta più. Ho trovato su facebook un gruppo "Esploratori di cimiteri" e mi sono iscritta. Guardo quelle lapidi, quelle immagini, come se potessero svelarmi il segreto di chi non è mai tornato indietro, come se tra quei volti potessi trovare la risposta che tanto ansiosamente vado cercando, senza sapere nemmeno quale sia esattamente la domanda.
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Le Olimpiadi di cui nessuno può parlare male, se no arriva l’internazionale macroniana a spaccarti le palle e darti del putiniano.
È agosto, fa caldo, le redazioni sono piene di stagisti che fanno confusione sul sesso e gli opinionisti progressisti scrivono i loro articoli con le palle in acqua e un cocktail in mano. Solo così si spiega il delirio complottista di Repubblica & Co. di ieri, a cui degli sport olimpici frega tanto quanto a me frega del calcio femminile: la prima pagina di ieri era un’orgia di cazzate buone per una festa dell’Unità, anzi dell’Unit*: “il ko dei diritti” perché un’italiana abbandona un incontro contro un’intersex, i baci della judoka alla fidanza “davanti alla premier” come se fossero la risposta alle polemiche sulla pugile algerina, lo stop alla cannabis light.
Ma il capolavoro è dentro, roba da far impallidire terrapiattisti e seguaci di Qanon: “Dai russi a Elon Musk, la campagna organizzata dall’internazionale di destra per screditare i Giochi”. Ginori e Foschini parlano di “fasciosfera” e non gli scappa neppure da ridere. Il succo è che è vietato criticare le Olimpiadi organizzate dall’antifascista in chief Emmanuel Macron, che fa tutto benissimo, cambia il sesso degli atleti con la sola imposizione delle mani e ha ripulito la Senna pisciandoci dentro.
E se qualcuno critica è perché glielo hanno detto Putin, Musk e la Rowling (fossi in Aldo Cazzullo mi farei qualche domanda, a questo punto).
Io me ne sbatto allegramente i coglioni, penso a tenere in fresco la bionda e faccio il conto alla rovescia per l’inizio della Premier League: sabato prossimo c’è il Community Shield, e quello dopo comincia il campionato più bello del mondo. Anche se comunque il calcio non mi è mai piaciuto.
grande Jack O'Malley, via https://www.ilfoglio.it/sport/2024/08/03/news/ma-e-vietato-parlare-male-delle-olimpiadi-di-macron--6818518/
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Nido Oscuro
Parte 1 -> Parte 2
L'incontro
1890
Contea di Marvalia, Inghilterra nel palazzo del Re Taurus tutto sembra procedere
perfettamente per le nozze del figlio, il prossimo in successione al trono, Wilder con la principessa Kassandra.
"É arrivato il grande giorno figliolo, ora questo regno dipenderà da te, devi essere pronto a governarlo con coraggio"
"Si padre, cosí com'è scritto" seguí in risposta. Il ragazzo si guardava nello specchio che poggiava sul banco della sua camera illustre con aria sconsolata, Kassandra non era certo ciò che voleva, mentre dal potere si faceva sedurre e non si faceva neanche lo scrupolo di nasconderlo. Poco dopo entrò nella stanza il suo lancillotto a occuparsi di lui e della sua bellezza. Nessuno poteva immaginare che di lì a poche ore sarebbe cambiato tutto.
Oggi
Un'epidemia si diffonde rapidamente nel regno di Marvalia, Dominick, giovane
aristocratico, viene mandato nella notte dai genitori, amici della famiglia reale, in ritiro
nel palazzo gotico di quello che viene chiamato "L'incantatore della notte", questo perché distante dal regno così da proteggerlo.
Il ragazzo viene scortato dalle guardie reali fino al castello di questa figura misteriosa. Nel tragitto percorre strade tortuose e cupe in cui nota strane ombre dalla tunica nera e con grandi maschere a gas, alcune si facevano luce con delle lanterne.
Dopo ore di viaggio in cui Dominick si faceva impaziente e timoroso, la macchina nera si fermò davanti a un grande campo lasciato a sé stesso in cui poggiava con imponenza il palazzo dallo stile grottesco.
"Siamo arrivati signore."
"Oh si certo, immagino che debba scendere".
Apre la portiera e con estrema classe scende dall'auto per poi innalzarsi davanti alla facciata principale della dimora, era sicuramente spaventato.
Si accinge al portone e bussa, la macchina se ne va ma poco dopo nessuno apre. Dominick è capace di aspettare perché troppo pudico per ritentare ancora, avendo lo scrupolo di disturbare, poco dopo si rende conto di una lieve fessura che portava con sé della luce laterale alla porta, la quale non era di fatti del tutto chiusa, così pone poca resistenza e si decide a tirare la porta in avanti così da poter entrare
"Permesso…" Disse titubante
"Son..sono Dominick" Il ragazzo percorse l'atrio e poi ancora
Si imbatté in delle maestose scale di legno che conducevano al piano di sopra ricco di stanze immacolate, si fece strada da solo intento a trovare l'uomo. Iniziava a sentire dei rumori, voleva tornare indietro ma le gambe lo spingevano a continuare, pensò anche che aveva lasciato la sua vecchia valigia all'ingresso.
D'un tratto i rumori cessarono e da una delle stanze uscì lui, questa alta figura dal corpo esile, sembrava un uomo la cui stravaganza ti strega, aveva una raffinata eleganza e un dolce profumo sulla pelle, aveva indosso un bellissimo completo scuro che sembrava disegnato su di lui, era ricoperto di gioielli, le sue scarpe erano lucide, sotto la giacca aveva una lunga camicia con maniche larghe e con gli sbuffi, erano merlettate e sul collo poggiava un grande fiocco bianco e a cospetto di questo poggiava sul petto una vecchia collana di perle che portava larga, aveva poi sulle mani dei guanti neri e poi non poteva non notare il suo mosso e lungo capello rosso, era eccentrico l'aveva capito
ma era anche affascinante, era semplicemente quello con cui tutte le cattiverie del regno iniziavano "L'incantatore della notte".
Sempre con fare elegante ma allo stesso tempo con simpatia, l'uomo porge la mano al ragazzo in un inchino, intento a fargli strada
verso la sua stanza, ricordandogli di andare a recuperare i suoi averi.
"C'è un brutto male là fuori eh? voglio dire a Marvalia."
"Sta succedendo tutto così in fretta, è destabilizzante"
"Beh si potrebbe dire che essere condannato a stare qui si è rivelata la mia fortuna"
"Lei è condannato a stare qui?"
"Mi piace la premura con cui ti rivolgi a me, ma te ne prego non ce n'è bisogno, voglio che tu ti senta libero qui"
"Non le piace parlarne?"
"L'hai fatto di nuovo"
"Cosa?"
"Questa distanza, non mi piace, non mi è mai piaciuta"
"Scusa non volevo..."
"Oh non scusarti trovo questa tua insistenza deliziosa" Il ragazzo si sentì il cuore in gola, quella casa e quella figura lo facevano sentire così impotente eppure era sempre stato visto come un uomo tutto d'un pezzo, questo dovuto anche alla sua corporatura, era leggermente robusto ed era bellissimo, la sua stazza andava in contraddizione con il suo viso pulito, puro, dolce aveva un mosso capello biondo e nei suoi occhi ci si poteva perdere, aveva i modi e il vestiario di un signore e aveva di certo un cuore nobile, nobile come lui.
"Sistemati pure in quella stanza, tra poco mangiamo, spero tu gradisca della carne ma ho idea che tu sia troppo ligio alle buone maniere perché tu mi dica il contrario, non oseresti"
il ragazzo si limitò a sorridere e si affrettò a prepararsi per la cena.
I due cenarono nella sala da pranzo, piena di ornamenti d'oro e con un grande lampadario di cristalli che poggiava sopra la lunga tavola antica. L'incantatore aspettò già in sala con ansia il ragazzo che tanto gli piaceva, e una volta che questo si era presentato alla porta, lui lo seguí con fare scherzoso:
"Dopo di lei? dovrei dire forse così?" Il ragazzo era divertito dalla sua ironia, ma aveva il costante timore di deluderlo anche se non lo conosceva, sentiva di aver già investito tanto in lui.
Una volta seduti iniziano entrambi a mangiare di gusto e prendendo il suo amato calice di quello che sembrava essere del vino, l'uomo esordí dicendo:
"Allora ti piace il mio palazzo?"
"Si mi piace perché è diverso"
"E questo ti fa paura?"
"Il palazzo?"
seguí immediatamente l'altro
"Il diverso..."
"Mi affascina, perché è qualcosa di nuovo, e le cose nuove ti fanno sentire eterno"
"E con tutta la gente che sta morendo, forse ce n'è anche bisogno, diventa un vizio immorale, una perversione, ma é pur sempre un desiderio"
"Non ti senti solo in un palazzo tanto grande?"
"Oh ma io non sono sempre solo"
"Avete qualcuno?"
"No di certo non quello, ma a volte vengono a farmi visita degli aristocratici come te o meglio non proprio come te"
"Che vuoi dire?"
"Intendo dire che non sono tutti cosí discreti o piacevoli come lo sei tu"
"Ti ringrazio"
"Non ringraziarmi, è quello che penso di te da quel poco che ti conosco"
"Non ha buoni rapporti con questi uomini?"
"No non é questo, é che mi fa sorridere come nonostante la tua giovane età tu sia più rispettoso di tanti signori la cui età ha portato via l'onore" Ripresero poi a mangiare in silenzio e poi ancora.
"Ah Dominick c'è una cosa che devi sapere" Il ragazzo s'irrigidí
"Non vorrei sembrarti scortese ma preferirei non entrassi nella mia stanza, che si trova alla porta dove ci siamo presentati, certe cose preferisco tenerle per me"
"Certo, certo capisco…”
"Certo che capisci" disse con fare amorevole l'uomo sorridendogli e parlando con una mano sotto il mento il giovane si faceva nervoso e fece finta di voler andare a dormire, così l'incantatore lo accompagnò e poi quando questo si mise a letto fece finta di dormire e la figura rimase ferma qualche secondo a contemplarlo, fece per giocare con i suoi capelli e con strazio pronunciò un nome "Ricardo" e se ne andò.
Ma Dominick l'aveva sentito, era ancora sveglio e stava iniziando a farsi delle domande "Perché era stato condannato a stare in quel palazzo? Perché non ha risposto alla mia domanda? Qual'era il suo titolo? E se non fosse riservatezza ma nascondesse qualcosa in quella stanza? Chi era Ricardo?"
Tutto questo mistero lo rendeva ancora più intrigante, voleva conoscerlo veramente anche se in parte si sentiva intimorito da lui, e l'idea di scoprire tutto di lui gli faceva pensare che potesse rovinare la sua bellezza.
#romanzogay#mascxfem#apocalisse#ahs#fantastico#elegante#estetico#passionale#oscuro#mistero#gay men#ossessione
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Dedicato alle capre antisemite.
LA VERITA' SUGLI EBREI IN ERETZ ISRAEL, O PALESTINA
Di Indro Montanelli
Nel 1876, assai prima dunque della nascita del sionismo, vivevano a Gerusalemme 25.000 persone, delle quali 12.000, quasi la metà, erano ebrei, 7500 musulmani e 5500 cristiani. Nel 1905 gli abitanti erano saliti a 60.000. Di questi 40.000 erano ebrei, 7000 musulmani e 13.000 cristiani. Nel 1931 su 90.000 abitanti, gli ebrei erano 51.000, i musulmani 20.000 e i cristiani 19.000. Nel 1948, alla vigilia della nascita dello Stato ebraico, la popolazione di Gerusalemme era quasi raddoppiata: 165.000 persone, di cui 100.000 ebrei, 40.000 musulmani e 25.000 cristiani. La presenza ebraica a Gerusalemme ha sempre costituito il nucleo etnico numericamente più forte. Di nessun altro popolo Gerusalemme è mai stata capitale. E’ quindi una leggenda l’affermazione che gli ebrei siano stati assenti da Gerusalemme per quasi venti secoli o che costituissero una insignificante percentuale della popolazione.
Prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, il nazismo in Germania già perseguitava i suoi 500.000 cittadini ebrei. Le disperate richieste di quegli ebrei di essere accolti nei paesi democratici al fine di evitare quello che già si profilava chiaramente come il loro tragico destino, vennero respinte.
Nel luglio 1938, i rappresentanti di trentuno paesi democratici s’incontrarono a Evian, in Francia, per decidere la risposta da dare agli ebrei tedeschi. Ebbene, nel corso di quella Conferenza, la risposta fu che nessuno poteva e voleva farsi carico di tanti profughi. Dal canto suo la Gran Bretagna, potenza mandataria della Palestina, venendo meno al solenne impegno assunto verso gli ebrei nel 1917 di creare una National Home ebraica in Palestina, nel 1939 chiudeva la porta proprio agli ebrei con il suo Libro Bianco, nel vano tentativo d’ingraziarsi gli arabi.
E’ stata questa doppia chiusura a condannare a morte prima gli ebrei tedeschi e poi, via via che la Germania nazista occupava l’Europa, gli ebrei austriaci, cechi, polacchi, francesi, russi, italiani, e così via. Il costo per gli ebrei d’Europa, che contavano allora una popolazione di dieci milioni, fu di sei milioni di assassinati, inclusi un milione e mezzo di bambini. Appena finita la seconda guerra mondiale i 5/600.000 ebrei superstiti, in massima parte originari dell’Europa orientale, si trovarono senza più famiglia, senza amici, senza casa, senza poter rientrare nei loro paesi, dove l’antisemitismo divampava (in Polonia ci furono sanguinosi pogrom persino dopo la guerra, e nell’Unione Sovietica Stalin dava l’avvio a una feroce campagna antiebraica).
Tra il 1945 e il 1948 nessun paese occidentale, Gran Bretagna e Stati Uniti in testa, volle accogliere neanche uno di quel mezzo milione di ebrei “displaced persons”, come venivano definiti dalla burocrazia alleata. La Palestina, malgrado la Gran Bretagna e il suo Libro Bianco, sempre in vigore anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, non fu quindi una scelta, ma l’unica speranza, cioè quella del “ritorno” a una patria, all’antica patria, una patria dove da tempo si era già formata una infrastruttura ebraica.
Nel passato la vita degli ebrei nei paesi islamici e negli stessi paesi arabi è stata nell’insieme sopportabile. Di serie B, ma sopportabile. Gli arabi hanno incominciato a sviluppare in Palestina un odio “politico” nei confronti degli ebrei pochi anni dopo l’inizio, nel 1920, del Mandato britannico. L’odio, sapientemente fomentato dai capi arabi, primo tra i quali il Gran Muftì di Gerusalemme (che durante la seconda guerra mondiale avrebbe raccolto volontari per formare una divisione SS araba andata poi a combattere a fianco dei tedeschi contro l’Unione Sovietica), doveva culminare, dopo molti altri gravi fatti di sangue antiebraici, nella strage perpetrata a Hebron nel 1928 contro l’inerme, antica comunità religiosa ebraica.
Chiunque abbia viaggiato e vissuto nei paesi arabi durante le guerre del 1947-1973, sa che l’intera coalizione araba (Egitto, Siria, Iraq e Giordania) con il sostegno dei paesi arabi moderati, avevano un solo scopo che non veniva tenuto celato: il compito non era dare una patria ai palestinesi. Era cancellare ed annientare lo Stato di Israele. Le tragiche vicende che hanno successivamente tormentato il popolo palestinese sono state sempre per mano araba. Due i fatti impossibili da dimenticare: lo sterminio dei palestinesi in Giordania per mano di re Hussein e delle sue artiglierie, dove, solo il primo giorno del terribile “Settembre Nero” si contarono 5.000 morti; le stragi nel Libano, dove i palestinesi sono stati assediati ed attaccati, distrutti e costretti alla fuga dai miliziani sciiti di “Amal” e dai siriani.
Così scriveva Montanelli: “Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c’è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d’Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta. Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato fedain scarica su Israele l’odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell’altro, bisognerà pure risolverlo. Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli «usurpatori» ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso.”
(Dal «Corriere della Sera», Indro Montanelli, 16 settembre 1972).
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Uno se ne sta lì, tranquillo, per i cazzi suoi, e quello è il momento in cui arriva una sciocchezza a far riaffiorare i ricordi, che poi sono bastardi e si collegano uno all'altro. Come nel caso di quel vinile.
Io sono cresciuto in una famiglia in cui la musica c'era sempre, che fosse in sottofondo o a tutto volume. Tra mia madre e i miei zii, nelle casa di campagna avevano accumulato oltre 5000 vinili e a me era stato insegnato ad usare il giradischi. Avevo solo un divieto, uno solo ed era di quelli che non ammettono scusanti di nessun tipo: l'unico disco che non potevo assolutamente toccare era "Nebraska" di Bruce Springsteen. Ogni volta che chiedevo il perché la risposta era sempre la stessa: "perché no!" e si cambiava immediatamente discorso.
Io poi quel disco l'ho ascoltato, o meglio, non ho ascoltato il vinile ma avevo trovato il cd in un negozio e lo avevo comprato tenendolo nascosto alla vista di mia madre.
La sera dopo del mio venticinquesimo compleanno ci siamo trovati nella casetta in campagna. Grigliata tra amici, zii e cugini. Mia nonna e mia madre a spiattellare, chiacchierare e ridere. Ma avevavo qualcosa negli occhi che le intristiva un po'. Sapevo che era un giorno particolare per loro e non avevo mai avuto il coraggio di chiedere.
A fine serata, quando se ne erano andati quasi tutti, al tavolo sotto la tettoia c'eravamo io, i miei due fratelli due dei miei zii e mia madre. Mia nonna ci aveva lasciato la chiave della cantina e tra una caraffa di rosso e una chiacchiera è comparsa una scatola di Risiko. Abbiamo iniziato a giocare e siamo andati avanti tutta la notte.
Verso le due del mattino uno dei miei zii è entrato in casa ed è tornato con una bottiglia di Jhonny Walker etichetta nera, l'ha aperta, ne ha verso un goccio a terra ed ha versato dosi molto generose a tutti.
Mio fratello ha chiesto perché il primo goccio era stato versato e mia madre ha detto che era in ricordo di chi era assente seppur sempre presente.
Allora ho fatto le fatidiche domande: mi raccontate che è successo quel giorno? E che cavolo c'entra quel disco che non si può ascoltare?
È calato un attimo di silenzio.
Mio zio, quello più anziano, si è verso un cicchetto, se l'è scolato a schioppo e ha iniziato a raccontare che suo fratello, che lavorava nelle forze dell'ordine, aveva da tempo dei problemi con la sua ragazza (che poi è la mia madrina di battesimo) e quando la pressione di tutta la situazione e la disperazione per averla beccata a letto con un altro, ha deciso di farla finita. Ci aveva già provato due volte: una volta aveva cercato di andare giù da un dirupo con il vespone, in modo che sembrasse un incidente e la seconda volta con una corda, ma non ne aveva avuto il coraggio fino alla fine e quindi era riuscito a liberarsi. Quel giorno, stando a quanto mi stava raccontando mio zio, io ero in viaggio verso casa dei miei bisnonni in Umbria. Lui si è chiuso a chiave nella sua stanza al terzo piano della casa in cui abitavano i loro genitori, ha messo su quel vinile, a palla, ha estratto la sua arma di ordinanza e si è sparato in fronte. I primi ad entrare in camera, dopo aver sfondato la porta a spallate, sono stati mio nonno e quel mio zio che stava parlando. La puntina aveva finito i sui immensi giri, gracchiava e basta. Il corpo di mio zio era appoggiato con la schiena al muro, la pistola ancora stretta nella mano sinistra.
Mio nonno dovette aspettare che noi arrivassimo dai miei bisnonni, a 4 ore di macchina da casa, erano i primi anni 80 e si parlava solo coi telefoni di casa. Appresa la notizia, mia madre mi ha ricaricato in macchina e siamo tornati indietro. Io ero troppo piccolo, non ricordo nulla di quanto mi stavano raccontando.
Nessuno era più entrato lì fin dopo il funerale. Fu mia madre a prendere il vinile dal giradischi, lo rispose nella sua copertina, lo chiuse in una busta di plastica e lo mise nello scaffale dei dischi e nessuno ebbe mai più il coraggio di toccarlo di nuovo.
A casa custodisco alcuni oggetti di quel mio zio, che io non ricordo ma che ogni volta che salta fuori il discorso, mi viene detto che gli somiglio caratterialmente e fisicamente. Il coltello che usava quando andava a caccia, una maglietta e una sciarpa della nostra Magica Roma, il suo accendino zippo. Ho una sua piccola agenda del 1983, su ogni pagina aveva scritto qualcosa, un pensiero suo o una frase di una canzone o di un film. L'ultima volta che ci aveva scritto era stato il 18 agosto, il giorno del mio compleanno. Una frase dedicata a me: "hai ancora un mondo da scoprire, ti voglio bene, N."
Il giorno dopo si è suicidato.
Quel disco ormai l'ho imparato a memoria, ho cercato di capire traducendo le parole delle canzoni, come mai avesse scelto proprio quel vinile in mezzo alla miriade di dischi che avevano. Ma questa è una cosa che potrà dirmi solo lui, quando ci rivedremo, dall'altra parte della strada.
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i cccp salgono sul palco e mi chiedo se sono ancora fedeli alla linea quella linea a cui mi piacque pensare d’esser fedele anche io ma che non seppi davvero mai tracciare o spiegare o spiegarmi e forse come tanti convenuti come me a questa gigantesca festa di classe operaia di chi era vivo negli anni ottanta non mi frega poi troppo della risposta perché giovanni lindo ferretti di adesso fa di tutto per interpretare al meglio il giovanni lindo ferretti di allora ed in fondo è questo quello che volevo quello che volevamo e queste le aspettative che abbiamo prodotto e questo che vogliamo consumare in attesa di crepare e certo non che il magone non sia presente e che sia dovuto al pensare invece alle aspettative che avevamo in quegli anni distanti di mondo da cambiare e di mondo poi in cambiamento quando crollò il muro ed una linea almeno ed intendo quella che separava l’est dall’ovest venne cancellata e dicevo il mondo in cambiamento ed adesso che innegabilmente è cambiato ma non come avremmo voluto cambiarlo noi e lo vediamo cambiato e ce lo diciamo come sei cambiato quando incontriamo qualcuno di quei vecchi amici e lui lo dice a noi ed allora se non altro consapevoli che è un carnevale una festa in maschera una interpretazione alziamo i pugni chiusi al cielo quando compare una bandiera del pci e balliamo e non studiamo non lavoriamo non guardiamo la tv non andiamo al cinema non facciamo sport e chiediamo di essere curati e ammettiamo la paranoia emiliana mentre invitiamo yuri a sparare e se ne vanno due ore e con loro tanto lo strato di polvere che avevamo su certi ricordi quanto l’illusione d’aver contato qualcosa di aver fatto qualcosa ed invece forte sale un gusto amaro di chi ha fallito come uomo e come generazione e del fatto che non ne frega nulla a nessuno noi compresi però tu amami ancora e fallo dolcemente un giorno un mese un’ora che la vita la mia non è ancora finita e ci sarà forse tempo per dare un senso a tutto quanto o se non altro a farsene una ragione che il senso manchi come qui manca la punteggiatura
#la verità ed altri disastri#cccp fedeli alla linea#concerto#senza punteggiatura#senza maiuscole#senza senso#amami ancora
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Selvaggia Lucarelli
@stanzaselvaggia
Nel 2018 era uscita una mia inchiesta in due puntate sul Fatto in cui sostenevo che Doppia Difesa, la fondazione in difesa delle donne della senatrice leghista Giulia Bongiorno e della conduttrice Michelle Hunziker, fosse più spot che reale aiuto alla donne.
Perché lo sostenevo?
Nessuno mi rispondeva negli uffici della fondazione, non rispondevano alle mail, le pagine social di Doppia difesa erano piene di commenti di protesta, c’era pochissimo personale e dopo mie verifiche ho scoperto che a rispondere alle donne (quando rispondevano) c’era una segretaria che si alternava ad un’altra e talvolta addirittura la madre di Michelle Hunziker. Una ragazza mi raccontò addirittura di essere andata a citofonare nella sede per un’urgenza e le fu risposto: mandi una mail.
Bongiorno e Hunziker tuonarono da tv, social e giornali che avevo scritto solo falsità e che mi avrebbero querelata portando la testimonianza delle migliaia di donne che avevano aiutato.
Le indagini hanno invece appurato che tutto quello che avevo scritto era vero, sono stati addirittura controllati i tabulati telefonici della linea intestata a Doppia difesa per vedere se avessi provato a telefonare dal mio numero. Era vero anche quello.
“Appare difficile ritenere che, a fronte di migliaia di richieste di assistenza, la Fondazione potesse dare tempestiva risposta a tutte potendo contare su una sola segretaria a tempo pieno e su un’altra a tempo parziale”, ha scritto il giudice nel decreto di archiviazione. Dunque, “Tutte le circostanze di fatto riportate nell’articolo dalla Lucarelli hanno trovato riscontro”. E infine, “la Fondazione appariva scarsamente operativa rispetto alla quantità di richieste e alla tempestività di risposte che le stesse avrebbero richiesto”.
Dunque possiamo dire che dal 2007 al 2018 Doppia difesa è stata più spot per che aiuto alle donne. E che Hunziker e Bongiorno mi abbiano accusata ingiustamente di aver scritto il falso, costringendo me e il Fatto a difenderci nei sei anni che hanno preceduto l’archiviazione.
E questo è molto triste.
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"Mi aveva colpito, al culmine dell'isteria social sul fatto del giorno, la dedica di una donna tra i miei contatti al suo compagno ovvero quanto si ritenesse fortunata ad averlo incontrato, perché lui, fra tutti i degni (cioè indegni) rappresentanti del patriarcato, si distingueva per probità e virtù. Naturalmente mi aveva fatto sorridere l'ingenuità della dichiarazione e mi aveva un po' indispettito l'arroganza, la presunzione manichea di riconoscere e sapersi accaparrare il grano, mentre il loglio toccherebbe alle altre. Queste altre, chi sarebbero. Io, per esempio. Credo di potermi dire emancipata, sono indipendente economicamente, non soffro di deficit affettivi conclamati, e vengo considerata persona dal carattere forte, a torto o a ragione. Questo anche anzi soprattutto vent'anni fa, quando ero in formazione come studiosa, cominciavo a guadagnare da poterci vivere certo senza fasti e avevo una famiglia ancora integra, genitori vivi etc. Eppure. Eppure avevo un fidanzato ossessivo, geloso, qualche volta violento. Per lo più con le cose, che usava sbalestrare sul pavimento o scaraventare contro il muro, ma qualche volta anche contro di me. Mi strattonava, per lo più. Piatti rotti, ogni tanto. Mi controllava il telefono? Sì. Mi permetteva di avere accesso al suo? No. Una volta finse di essere a Roma (abitava in un'altra città) intimandomi di tornare a casa (ero a cena con due amiche). Io gli obbedii. Non c'era nessuno ad aspettarmi al portone. Invece c'era, eccome, la volta in cui mi prese a calci. Uno solo, per la verità, ma con vistoso ematoma, formularmente. Perché lo racconto? Perché questo fidanzato non era affatto un troglodita paracadutato nella civiltà direttamente dalle caverne. Era un intellettuale, colto, raffinato, con una educazione affettiva nutrita di classici e poesia contemporanea. Ora ha un lavoro, una famiglia, figli, vedo dai social. Ma io perché sopportavo le sue scenate, ne subivo il controllo, le scariche di rabbia? Perché ero fragile, debole, vittima del patriarcato insieme a lui? La risposta è molto banale, e anche, mi rendo conto, pericolosa. Perché ero innamorata di questa persona. Non della violenza, logicamente. Non del controllo, che mi esasperava. Ma di tutti gli altri aspetti della sua vita e della nostra relazione che violenti non erano, e tutt'altro. Bianco bianco no, e nero nero nemmeno. Mi avrebbe potuto uccidere, in un accesso di ira? Non lo so, chi può dirlo. Posso dire perché me ne sono andata. Non per istinto di sopravvivenza, ma perchè le cose alle volte si aggiustano da sole, alle volte serve una spinta (una persona a me vicina con diplomazia churcilliana parlò con entrambi e ci convinse ad allontanarci perche insieme eravamo "un sistema instabile"). Lui trovò subito un'altra (che vidi, spero per puro accidente, con una stampella, in un'occasione pubblica). Con questo non voglio sostenere e rappresentare nessuna posizione e nessuna idea definita meno che mai assiomatizzare. Solo riflettere sul fatto che nessuno può dire se non in falsa coscienza ''io no''. Perché io sì, invece, e quasi tutti, nella vita affettiva, abbiamo avuto a che fare con la violenza (controllata, certo, ma forse è anche peggio perché se si ha questo potere, di tenerla sotto la soglia di rischio, si avrebbe anche quello di non lasciarle alcun margine, penso) e non necessariamente in un contesto estremo, retrogrado o patriarcale. La passione è violenta, le relazioni hanno sempre qualcosa di terrificante e patologico (citofonare Groddeck). Io, mio, tuo: moratoria anche su aggettivi e pronomi possessivi? Tutto da rifare, nel discorso soprattutto. La scompostezza, l'egolalia, l'accoramento emotivo e compulsivo. E togliersi i sassetti dalla scarpa, con la trave nell'occhio."
Gilda Policastro
Sempre bravissima.
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"Buonanotte luna bella... vorrei essere lì con te e vivere il tuo tempo". Si illumina il cellulare, era un suo messaggio dopo che lo avevo ignorato per qualche giorno dopo quell'incontro, dopo che ero scappata da casa sua. Luna era il mio soprannome perché ne ero da sempre stata affascinata.
Decisi di continuare a ignorarlo, inutile dire che comunque quella sera a casa sua aveva scaturito in me qualcosa, ma ero troppo imbarazzata, mi ero comportata da ragazzina e non trovavo coraggio di fare nulla. Quella notte non dormii, per cui decisi di andare a mare il giorno dopo, lì riuscivo a schiarirmi le idee. Ogni volta che avevo pensieri, in qualunque stagione, al tramonto mi recavo sulla spiaggia, mi mettevo in riva, a tre passi dal toccare l'acqua, mi sedevo e guardavo le onde del mare. I miei pensieri venivano presi man mano che ogni onda si infrangeva sulla spiaggia: l'onda arrivava, prendeva il mio pensiero, lo portava con sé e me lo restituiva più leggero, in modo che io potessi accettarlo, sopportarlo o risolverlo.
Dalla gioia e dal senso di benessere che mi recava quel posto, postai una foto di quel bellissimo mare mosso al tramonto. In pochi minuti un messaggio: "ti raggiungo?", era lui, "lo riconosci?" gli risposi, perché era una spiaggia molto grande, collegata a quella di una città turistica per mezzo di un bosco, io mi infilavo tra tutti quegli alberi senza mai perdermi. Lí non sapeva mai arrivarci nessuno senza di me, per questo da ragazzina lo chiamavo "il mio posto". "Arrivo" risponde prontamente. Non sapevo bene cosa fare, come comportarmi, cosa dire, in risposta ai suoi comportamenti e alle sue parole. Il cuore prese a battermi forte, il tempo passava veloce, sentii una macchina poco lontana, ero sicura che fosse già arrivato: mi girai, era dietro di me. Rimasi rannicchiata seduta a terra, tenendomi le ginocchia con le braccia, lui si siedette dietro di me, con le gambe aperte per farmici stare in mezzo e stare più vicino a me. Mi toccò la spalla a mo' di carezza leggera, forse anche lui non sapeva cosa fare ma sentivo il suo desiderio, quello che avevo spezzato e lasciato in sospeso qualche giorno prima. Si accorge e mi fa presente che avevo il cuore che batteva all'impazzata allora mi giro e mi prende la mano "so che in questi momenti hai bisogno di un contatto con la realtà, ci sono io qui, mi senti?". Mise la mia mano sul suo petto, continuava a sfiorarla, ad accarezzarmi le dita, il mio sguardo si addolcì e con l'altra mano mi accarezzava la spalla, poi scese giù verso la schiena e un brivido mi percorse tutta, lui sorrise. Pian piano il suo viso si avvicinò al mio, mi baciò il collo, poi la mandibola e, passando per la guancia, si fermò all'angolo destro della mia bocca. Sapeva che il mio punto debole era quello, lasciarmi con la voglia per farmela crescere dentro. Si allontanò e io lo guardai con l'espressione di chi sta per toccare il paradiso con un dito ma non ci arriva... Mi avvicinai alla sua bocca perché ne volevo ancora, ma fece una cosa che non mi sarei mai aspettata: mi baciò appassionatamente sulle labbra. Lui non baciava mai la bocca, credo che in vita sua l'abbia fatto poche volte, lo vedeva come un atto molto intimo e solo quando pensava di essere totalmente innamorato e perso di quella persona si lasciava andare.
Gli chiesi perché in quel momento, perché a me e lì... "mi sono ricordato di quello che mi avevi detto del toccarsi le mani. Ti ho sfiorato le dita perché so che per te è più intimo di una scopata. L'ho fatto perché stava crescendo in me il desiderio di averti addosso e so che questo è il modo di fartelo capire, sto cercando di avvicinarmi al tuo linguaggio, di avvicinarmi a te. Voglio che inizi a desiderarmi come ti desidero io perché da quella sera io ho perso la testa, non faccio altro che pensarti, in questi 10 anni io non ho smesso di pensarti, sapevo che in te c'era qualcosa di diverso, di speciale. C'era un motivo se non c'è mai stato un punto tra noi, solo tante pause più o meno lunghe". Mi guardò neglio occhi, in modo profondo e penetrante, io non sapevo cosa dire, cercavo anche di distogliere lo sguardo affinché nessuno dei miei pensieri potesse essere colto da lui. Interruppe il silenzio: "Ti va di venire di nuovo da me questa sera?".
Continua
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"In queste nove stagioni di Formula 1 alle quali Max Verstappen ha preso parte, abbiamo conosciuto un ragazzo poco incline alla socializzazione, parzialmente freddo, distaccato e spesso irriverente anche nei confronti di chi - come Lewis Hamilton o Sebastian Vettel - ha scritto la storia recente della Formula 1.
A dirla tutta, Max non è mai stato tenero nei confronti di nessuno. O quasi.
Spesso accusato dalla stragrande maggioranza dei tifosi di essere saccente ed arrogante anche nei confronti degli stessi colleghi, il venticinquenne di Hasselt sembra infatti riservare (nelle dichiarazioni e non solo) un rispetto fuori dal comune nei confronti di un solo ed unico pilota: Charles Leclerc.
Tantissimi sono stati infatti gli attestati di stima espressi da Super Max nei confronti del coetaneo monegasco negli ultimi anni.
Da bambini si sono letteralmente odiati e non hanno mai avuto problemi ad ammetterlo.
Crescendo, tuttavia, si sono resi conto che il talento osservato nel rispettivo piede destro non ha forse eguali nel mondo delle competizioni motoristiche.
Una consapevolezza reciproca che ha portato i due non solo a rispettarsi, ma a difendersi vicendevolmente dagli attacchi giunti nei loro confronti da parte dei media.
E in questo Max è semplicemente straordinario.
Al termine del Gran Premio svoltosi in Austria poco meno di una settimana fa, alcuni giornalisti, nel tentativo di elogiarlo, hanno sottolineato come lui si fosse preso una bella rivincita nei confronti di Charles, vittorioso un anno fu sul circuito di Spielberg.
Max non ci sta, e attacca:
"Charles sa come battersi e ve lo ha dimostrato. Non posso considerare il nostro duello un vero duello. Le nostre auto hanno un ritmo diverso, e in quel momento avevano anche mescole diverse".
A Baku era accaduta la medesima cosa. A chi gli chiedeva se fosse sorpreso dalla pole del collega di Monaco, Max rispose così:
"Se sono sorpreso dal passo di Leclerc? No, di Charles non sono affatto sorpreso. Lui qui è sempre molto veloce, anzi, è sempre veloce ovunque. A Baku sono tre pole position consecutive se non mi sbaglio, giusto?".
Nel corso della scorsa stagione, Verstappen aveva invece speso le seguenti parole nei confronti di Leclerc:
"Penso che Charles sia uno dei piloti più talentuosi in Formula 1 e vincerà molte gare. Lui è davvero un bravo ragazzo. Abbiamo la stessa età, penso ci dividano solo settimane. Lo rispetto enormemente, è un piacere lottare con lui e con un team come la Ferrari".
Questi due ragazzi, per concludere, hanno tra le proprie mani le chiavi del futuro della Formula 1. La speranza (condivisa da entrambi e da tutti i tifosi) è che possano presto passarsele di mano in mano, dando vita ad un duello indimenticabile capace di durare a lungo.
Quello che tuttavia resta, delle parole di Max, è la lezione di vita offerta dal Campione del Mondo agli odiatori seriali, a chi segue la Formula 1 in modo superficiale, a chi commenta senza cognizione di causa inondando i social di insulti e opinioni che non meriterebbero alcuna visibilità.
Ecco, questa è la risposta più bella.
Ph. Red Bull Content Pool ©"
Articolo tratto da Hammer Time
A splendid article in Italian of how Max adores Charles and always defends him, which in his case rarely happens towards someone else because he tends to attack rather than protect others.
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