#La società degli Etruschi
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stilouniverse · 2 years ago
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La società degli Etruschi
di Giovanni Caselli Sarcofago degli sposi (520 a.C.) La società etrusca era patrilineare e patriarcale, tuttavia la relativa libertà della donna, che nella società etrusca poteva partecipare ai banchetti assieme agli uomini, scandalizzava gli altri popoli mediterranei che tenevano le loro donne in stretta clausura, come del resto accade ancora oggi nella maggior parte del Mediterraneo o…
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cinquecolonnemagazine · 10 months ago
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Gli Etruschi: Un popolo affascinante e misterioso
Gli Etruschi, noti anche come Tusci dai Romani, sono stati un'antica civiltà che ha prosperato nell'Italia centrale tra il IX e il I secolo a.C. La loro regione, denominata Etruria, comprendeva approssimativamente le odierne Toscana, Umbria settentrionale e Lazio settentrionale, con insediamenti che si estendevano anche in Emilia-Romagna, Campania e Lombardia. Origini e misteri Le origini degli Etruschi rimangono ancora avvolte nel mistero. Diverse teorie sono state proposte, tra cui una migrazione dall'Asia Minore o una lenta evoluzione da popolazioni italiche preesistenti. La loro lingua, non indoeuropea, non ha ancora trovato una completa decifrazione, ostacolando una comprensione profonda della loro cultura e storia. Società e governo Gli Etruschi si organizzavano in città-stato indipendenti, ognuna governata da una monarchia o da una repubblica oligarchica. Le loro città erano centri di commercio e cultura, caratterizzati da un'architettura monumentale e da una ricca vita sociale. La religione etrusca era complessa e politeista, con divinità associate a vari aspetti della natura e della vita umana. Arte e cultura Gli Etruschi erano abili artigiani e artisti, producendo opere di grande raffinatezza in ceramica, bronzo, oro e avorio. La loro scultura, caratterizzata da un realismo espressivo e da una profonda attenzione al dettaglio, rappresentava divinità, eroi e scene della vita quotidiana. La pittura etrusca, decorava tombe e templi con affreschi che narravano miti, leggende e rituali. Influenza e declino Gli Etruschi ebbero un'influenza significativa sulla civiltà romana, trasmettendo conoscenze in vari campi come l'ingegneria, l'architettura, la religione e il diritto. Tuttavia, a partire dal IV secolo a.C., la loro potenza iniziò a declinare a causa dell'espansione romana e di conflitti interni. L'ultima città etrusca, Volsinii, cadde nel 264 a.C., segnando la fine di questa affascinante civiltà. Eredità Nonostante la loro scomparsa, gli Etruschi hanno lasciato un'eredità duratura. La loro arte, la loro cultura e le loro conoscenze hanno influenzato profondamente il mondo romano e continuano a ispirare studiosi e artisti ancora oggi. Le loro città sepolte, come Veio, Tarquinia e Cerveteri, conservano ancora tesori archeologici di inestimabile valore, offrendo una finestra su un mondo antico ricco di mistero e fascino. Etruschi, popolo e civiltà misteriosa Gli Etruschi, con la loro cultura elaborata, il loro talento artistico e la loro influenza sulla storia italiana, rappresentano un capitolo fondamentale della civiltà mediterranea. La loro storia, seppur frammentata e ricca di enigmi, continua ad affascinare e ad incuriosire, invitandoci a scoprire i segreti di un popolo che ha lasciato un'impronta indelebile sul nostro passato. Foto di Giampaolo Ciurli da Pixabay Read the full article
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lpelo2000 · 2 years ago
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La società degli Etruschi — tuttatoscana
La società degli Etruschidi Giovanni CaselliSarcofago degli sposi (520 a.C.)La società etrusca era patrilineare e patriarcale, tuttavia la relativa libertà della donna, che nella società etrusca poteva partecipare ai banchetti assieme agli uomini, scandalizzava gli altri popoli mediterranei che tenevano le loro donne in stretta clausura, come del resto accade ancora oggi nella maggior parte del…
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freedomtripitaly · 5 years ago
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Bologna è l’antico capoluogo dell’Emilia-Romagna e una delle mete più amate dai turisti stranieri. I primi insediamenti risalgono agli Etruschi e ai Celti, fino a quando diventò un comune libero sotto il dominio dei Romani. Nel corso dei secoli, l’evoluzione intellettuale, favorì la penetrazione delle idee illuministe e ad oggi, Bologna, è una delle poche città che ancora vive di rendita, con un passato glorioso che ha investito molto nel futuro. Il Palazzo dei Congressi, il quartiere fieristico, insieme a tutte le altre strutture ricettive e le aziende, rendono Bologna un importante centro nevralgico. La città di Bologna, ad oggi, è un importante nodo di comunicazioni ferroviarie e stradali, oltre a essere un’importante area per il settore elettronico, alimentare e meccanico. Bologna, adagiata su dolci colline, è una delle destinazioni preferite in Italia dai turisti stranieri e non: rimarrete positivamente impressionati dalla sua vitalità, dal suo patrimonio culturale e dalla sua storia. Questa città farà breccia nel vostro cuore e non vi lascerà più! Dall’alto, Bologna, appare come una vasta distesa di tetti rossi, i quali danno vita ad una tavolozza di colori che armoniosamente si mischiano tra loro. Bologna è una città che va visitata a piedi o in bicicletta in modo da poter godere pienamente della bellezza del luogo. Inoltre, Bologna, è conosciuta come la città dei portici: si contano circa 38 km di portici nel perimetro cittadino, ma il numero sale a 53 se consideriamo anche quelli fuori dal centro. I portici, eleganti ed antichi, fungono tutt’ora da ampliamento dello spazio cittadino ed il più lungo è sicuramente quello di San Luca. I musei di Bologna da visitare assolutamente A Bologna sono oltre cinquanta i musei che conservano il patrimonio e la preziosa ricchezza della città. L’Istituzione Bologna musei, attraverso le sue collezioni, racconta la storia di questa antica città, dai primi insediamenti preistorici, fino alle dinamiche scientifiche, artistiche ed economiche della società contemporanea. Sono moltissimi, infatti, i musei di Bologna che raccontano il percorso di questa città, articolato su temi differenti. Di grande interesse, inoltre, sono le collezioni storiche di anatomia ed ostetrica, le opere militare del Muse Poggi, le cere anatomiche, così come i manoscritti del giovane Mozart e gli unici strumenti del Museo Internazionale e Biblioteca della musica. Avrete la possibilità di costruire un percorso personalizzato, sulla base delle vostre preferenze e sorprendervi, minuto dopo minuto, nei più famosi musei di Bologna. MAMbo Bologna Il MAMbo, nato nel 2007, è il Museo d’Arte Moderna di Bologna, il quale comprende anche Museo e Casa Morandi, Museo per la Memoria di Ustica, Villa delle Rose e Residenza per artisti Sandra Natali. Il MAMbo di Bologna è in continuo aggiornamento e rinnovamento ed è molto famoso in quanto ripercorre la storia del secondo dopoguerra ad oggi. Questo museo nacque come un’entità totalmente indipendente nella seconda metà degli anni Novanta sotto la presidenza di Lorenzo Sassoli de Bianchi, noto per essere un grande collezionista d’arte ed innovatore. Grazie al lavoro e all’impegno di De Bianchi, il museo è riuscito a posizionarsi in un preciso ruolo culturale, non solo a Bologna ma in Italia. In questo modo, dunque, il MAMbo di Bologna, è riuscito ad acquisire un nuovo ruolo: non solo quello di spazio espositivo, ma di vero e proprio crocevia sperimentale ed informativo per giovani artisti emergenti. All’interno dell’edificio, spesso, vengono organizzate interessanti mostre monografiche dedicate a famosi artisti italiani e stranieri. Il MAMbo di Bologna possiede, inoltre, un importante dipartimento educativo atto a far avvicinare i visitatori alle forme di espressione del nostro tempo. Molto recentemente, nel 2016, il MAMbo di Bologna ha ospitato, nel mese di luglio, la mostra di David Bowie dedicata interamente al cantautore britannico. La mostra è stata tra le più visitate nel 2016 in Italia. Museo Civico Archeologico di Bologna Il Museo Civico Archeologico di Bologna ha sede nel Palazzo Galvani e nasce dall’antica fusione di due musei: l’Universitario, erede della “Stanza delle Antichità” dell’Accademia delle Scienze fondata da Luigi Ferdinando Marsili, ed il Comunale, arricchitosi della collezione del pittore Pelagio Palagi. Questo museo è altamente rappresentativo della storia locale di Bologna, dalla preistoria all’età romana e la sua collezione di antichità egizie è fra le più famose in Italia. Dal 2011 il Museo Civico Archeologico di Bologna è parte dell’Istituzione Bologna Musei, un importante organismo che, attraverso le sue collezioni, racconta l’intera storia dell’area metropolitana bolognese. L’area disciplinare del museo ha lo scopo di valorizzare il patrimonio archeologico della città, grazie anche all’ausilio di programmi e convenzioni con altri enti ed istituzioni. Museo della Musica di Bologna Tra i più importanti musei di Bologna vogliamo ricordare quello della musica. Esso è stato inaugurato nel 2004 e ha sede proprio nel centro storico di Bologna, più precisamente presso Palazzo Sanguinetti. Le sale di questo storico museo sono davvero splendide: sono accuratamente affrescate e custodiscono una delle raccolte più prestigiose per il repertorio di musica a stampa dal Cinquecento al Settecento. Oltre a questa esposizione, il Museo della Musica di Bologna, ospita una ricostruzione fedele del laboratorio del celebre liutaio Otello Bignami. Oltre ad una sala per eventi, laboratori didattici, un bookshop e postazioni multimediali. Palazzo Poggi a Bologna Palazzo Poggi a Bologna venne costruito nel XVI sotto le direttive di Pellegrino Tibaldi, autore anche degli affreschi interni. All’interno del palazzo è possibile ammirare la preziosa collezione dell’Istituto delle Scienze, composta da sale tematiche, la sala dedicata all’arte d’Oriente e l’aula Carducci. Nel corso del Settecento fu aggiunta al palazzo la famosa “Aula Magna”, ossia l’originale biblioteca dell’Istituto delle Scienze; più tardi, inoltre, venne innalzata la cosiddetta “Torre della Specola”. La peculiarità del Museo di Palazzo Poggi consiste nell’essere la ricomposizione delle collezioni dell’antico Istituto di Scienze, il quale operò in maniera pratica fino al 1799. Da ricordare è sicuramente La Quadreria, ossia un’importante collezione di circa 700 ritratti di uomini illustri dal Medioevo fino ai primi anni del Novecento. Il nucleo più ricco consiste in 403 dipinti di teologi, cardinali e scienziati e risale al lascito testamentario del cardinale bolognese Filippo Maria Monti. Negli anni l’istituto ha anche raccolto una serie di collezioni pittoriche, come la wunderkammer di Ferdinando Cospi e la collezione di Ulisse Aldrovandi. Museo Civico Medievale di Bologna Gli appassionati di storia non potranno non fare un salto al Museo Civico Medievale di Bologna. Questo museo ha sede presso l’antico Palazzo Ghisilardi ed espone principalmente testimonianze medievali della città stessa. Potrete ammirare una serie di antiche sculture e materiali risalenti al Trecento e Cinquecento, importanti testimonianze dell’epoca rinascimentale che risalgono ad importanti artisti, quali Jacopo della Quercia, Francesco del Cossa, Vincenzo Onofri. Il museo, inoltre, conserva antiche opere di età longobarda: un’acquamanile di bronzo, la statua di Bonifacio VIII in rame e legno, il piviale della Basilica di San Domenico. Un’interessante raccolta di codici e libri, poi, testimonia la tradizione della miniatura. Bologna: un mix di cultura, shopping e cucina “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli, col seno sul piano padano”, così la definisce Francesco Guccini in una sua canzone. Se siete amanti della storia, Bologna è la città che va per voi: ve ne innamorerete perdutamente! La sua storia è lunga secoli ed è nota per la sua arte, per le moltissime attività culturali, così come per l’ottima cucina. Bologna è sicuramente uno dei centri culturali più attivi in Italia, con una popolazione mediamente giovane grazie alla presenza di moltissimi studenti. Queta città, infatti, possiede un importante primato: ospita la più antica università dell’Occidente, ossia la Alma Mater Studiorum fondata nel 1088. Qui hanno studiato molti personaggi noti come per esempio papa Alessandro VI, Michelangelo Antonioni, Pascoli, Copernico e molti altri. Ancora oggi questo importante ateneo è meta di moltissimi visitatori ed è un centro culturale davvero attivo. Famosissimo a Bologna è anche il Quadrilatero: una volta era conosciuto come il Mercato di Mezzo, ovvero un luogo avvenivano i più importanti scambi commerciali. Le vie centrali di questa zona, pur ospitando negozi moderni e alla moda, ci riportano alla mente il fascino di un tempo. Bologna, infatti, è la città più ricca d’Italia e basta dare uno sguardo alle vetrine dei negozi che costeggiano i suoi portici di marmo per rendersene conto. Se siete di bocca buona, a Bologna troverete moltissime alternative soddisfacenti: i tortelli sono sicuramente il pezzo forte della gastronomia bolognese, ma non dimentichiamoci delle lasagne, assolutamente imperdibili, della pasta fresca all’uovo, disponibile in moltissimi formati. Insomma, la città di Bologna è uno dei tesori più preziosi d’Italia dove potrete gustare piatti deliziosi della cucina italiana, ma anche immergervi in un bagno culturale non di poco conto: non solo musei e antichi edifici, anche eleganti e graziosi portici che rendono Bologna davvero unica nel suo genere. Concedetevi una rilassante passeggiata sotto il portico più lungo del mondo fino alla Basilica di San Luca: una camminata un po’ impegnativa, ma una volta in cima potrete godere di un panorama davvero mozzafiato. https://ift.tt/2VBWFf3 Musei di Bologna: i più belli da visitare Bologna è l’antico capoluogo dell’Emilia-Romagna e una delle mete più amate dai turisti stranieri. I primi insediamenti risalgono agli Etruschi e ai Celti, fino a quando diventò un comune libero sotto il dominio dei Romani. Nel corso dei secoli, l’evoluzione intellettuale, favorì la penetrazione delle idee illuministe e ad oggi, Bologna, è una delle poche città che ancora vive di rendita, con un passato glorioso che ha investito molto nel futuro. Il Palazzo dei Congressi, il quartiere fieristico, insieme a tutte le altre strutture ricettive e le aziende, rendono Bologna un importante centro nevralgico. La città di Bologna, ad oggi, è un importante nodo di comunicazioni ferroviarie e stradali, oltre a essere un’importante area per il settore elettronico, alimentare e meccanico. Bologna, adagiata su dolci colline, è una delle destinazioni preferite in Italia dai turisti stranieri e non: rimarrete positivamente impressionati dalla sua vitalità, dal suo patrimonio culturale e dalla sua storia. Questa città farà breccia nel vostro cuore e non vi lascerà più! Dall’alto, Bologna, appare come una vasta distesa di tetti rossi, i quali danno vita ad una tavolozza di colori che armoniosamente si mischiano tra loro. Bologna è una città che va visitata a piedi o in bicicletta in modo da poter godere pienamente della bellezza del luogo. Inoltre, Bologna, è conosciuta come la città dei portici: si contano circa 38 km di portici nel perimetro cittadino, ma il numero sale a 53 se consideriamo anche quelli fuori dal centro. I portici, eleganti ed antichi, fungono tutt’ora da ampliamento dello spazio cittadino ed il più lungo è sicuramente quello di San Luca. I musei di Bologna da visitare assolutamente A Bologna sono oltre cinquanta i musei che conservano il patrimonio e la preziosa ricchezza della città. L’Istituzione Bologna musei, attraverso le sue collezioni, racconta la storia di questa antica città, dai primi insediamenti preistorici, fino alle dinamiche scientifiche, artistiche ed economiche della società contemporanea. Sono moltissimi, infatti, i musei di Bologna che raccontano il percorso di questa città, articolato su temi differenti. Di grande interesse, inoltre, sono le collezioni storiche di anatomia ed ostetrica, le opere militare del Muse Poggi, le cere anatomiche, così come i manoscritti del giovane Mozart e gli unici strumenti del Museo Internazionale e Biblioteca della musica. Avrete la possibilità di costruire un percorso personalizzato, sulla base delle vostre preferenze e sorprendervi, minuto dopo minuto, nei più famosi musei di Bologna. MAMbo Bologna Il MAMbo, nato nel 2007, è il Museo d’Arte Moderna di Bologna, il quale comprende anche Museo e Casa Morandi, Museo per la Memoria di Ustica, Villa delle Rose e Residenza per artisti Sandra Natali. Il MAMbo di Bologna è in continuo aggiornamento e rinnovamento ed è molto famoso in quanto ripercorre la storia del secondo dopoguerra ad oggi. Questo museo nacque come un’entità totalmente indipendente nella seconda metà degli anni Novanta sotto la presidenza di Lorenzo Sassoli de Bianchi, noto per essere un grande collezionista d’arte ed innovatore. Grazie al lavoro e all’impegno di De Bianchi, il museo è riuscito a posizionarsi in un preciso ruolo culturale, non solo a Bologna ma in Italia. In questo modo, dunque, il MAMbo di Bologna, è riuscito ad acquisire un nuovo ruolo: non solo quello di spazio espositivo, ma di vero e proprio crocevia sperimentale ed informativo per giovani artisti emergenti. All’interno dell’edificio, spesso, vengono organizzate interessanti mostre monografiche dedicate a famosi artisti italiani e stranieri. Il MAMbo di Bologna possiede, inoltre, un importante dipartimento educativo atto a far avvicinare i visitatori alle forme di espressione del nostro tempo. Molto recentemente, nel 2016, il MAMbo di Bologna ha ospitato, nel mese di luglio, la mostra di David Bowie dedicata interamente al cantautore britannico. La mostra è stata tra le più visitate nel 2016 in Italia. Museo Civico Archeologico di Bologna Il Museo Civico Archeologico di Bologna ha sede nel Palazzo Galvani e nasce dall’antica fusione di due musei: l’Universitario, erede della “Stanza delle Antichità” dell’Accademia delle Scienze fondata da Luigi Ferdinando Marsili, ed il Comunale, arricchitosi della collezione del pittore Pelagio Palagi. Questo museo è altamente rappresentativo della storia locale di Bologna, dalla preistoria all’età romana e la sua collezione di antichità egizie è fra le più famose in Italia. Dal 2011 il Museo Civico Archeologico di Bologna è parte dell’Istituzione Bologna Musei, un importante organismo che, attraverso le sue collezioni, racconta l’intera storia dell’area metropolitana bolognese. L’area disciplinare del museo ha lo scopo di valorizzare il patrimonio archeologico della città, grazie anche all’ausilio di programmi e convenzioni con altri enti ed istituzioni. Museo della Musica di Bologna Tra i più importanti musei di Bologna vogliamo ricordare quello della musica. Esso è stato inaugurato nel 2004 e ha sede proprio nel centro storico di Bologna, più precisamente presso Palazzo Sanguinetti. Le sale di questo storico museo sono davvero splendide: sono accuratamente affrescate e custodiscono una delle raccolte più prestigiose per il repertorio di musica a stampa dal Cinquecento al Settecento. Oltre a questa esposizione, il Museo della Musica di Bologna, ospita una ricostruzione fedele del laboratorio del celebre liutaio Otello Bignami. Oltre ad una sala per eventi, laboratori didattici, un bookshop e postazioni multimediali. Palazzo Poggi a Bologna Palazzo Poggi a Bologna venne costruito nel XVI sotto le direttive di Pellegrino Tibaldi, autore anche degli affreschi interni. All’interno del palazzo è possibile ammirare la preziosa collezione dell’Istituto delle Scienze, composta da sale tematiche, la sala dedicata all’arte d’Oriente e l’aula Carducci. Nel corso del Settecento fu aggiunta al palazzo la famosa “Aula Magna”, ossia l’originale biblioteca dell’Istituto delle Scienze; più tardi, inoltre, venne innalzata la cosiddetta “Torre della Specola”. La peculiarità del Museo di Palazzo Poggi consiste nell’essere la ricomposizione delle collezioni dell’antico Istituto di Scienze, il quale operò in maniera pratica fino al 1799. Da ricordare è sicuramente La Quadreria, ossia un’importante collezione di circa 700 ritratti di uomini illustri dal Medioevo fino ai primi anni del Novecento. Il nucleo più ricco consiste in 403 dipinti di teologi, cardinali e scienziati e risale al lascito testamentario del cardinale bolognese Filippo Maria Monti. Negli anni l’istituto ha anche raccolto una serie di collezioni pittoriche, come la wunderkammer di Ferdinando Cospi e la collezione di Ulisse Aldrovandi. Museo Civico Medievale di Bologna Gli appassionati di storia non potranno non fare un salto al Museo Civico Medievale di Bologna. Questo museo ha sede presso l’antico Palazzo Ghisilardi ed espone principalmente testimonianze medievali della città stessa. Potrete ammirare una serie di antiche sculture e materiali risalenti al Trecento e Cinquecento, importanti testimonianze dell’epoca rinascimentale che risalgono ad importanti artisti, quali Jacopo della Quercia, Francesco del Cossa, Vincenzo Onofri. Il museo, inoltre, conserva antiche opere di età longobarda: un’acquamanile di bronzo, la statua di Bonifacio VIII in rame e legno, il piviale della Basilica di San Domenico. Un’interessante raccolta di codici e libri, poi, testimonia la tradizione della miniatura. Bologna: un mix di cultura, shopping e cucina “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli, col seno sul piano padano”, così la definisce Francesco Guccini in una sua canzone. Se siete amanti della storia, Bologna è la città che va per voi: ve ne innamorerete perdutamente! La sua storia è lunga secoli ed è nota per la sua arte, per le moltissime attività culturali, così come per l’ottima cucina. Bologna è sicuramente uno dei centri culturali più attivi in Italia, con una popolazione mediamente giovane grazie alla presenza di moltissimi studenti. Queta città, infatti, possiede un importante primato: ospita la più antica università dell’Occidente, ossia la Alma Mater Studiorum fondata nel 1088. Qui hanno studiato molti personaggi noti come per esempio papa Alessandro VI, Michelangelo Antonioni, Pascoli, Copernico e molti altri. Ancora oggi questo importante ateneo è meta di moltissimi visitatori ed è un centro culturale davvero attivo. Famosissimo a Bologna è anche il Quadrilatero: una volta era conosciuto come il Mercato di Mezzo, ovvero un luogo avvenivano i più importanti scambi commerciali. Le vie centrali di questa zona, pur ospitando negozi moderni e alla moda, ci riportano alla mente il fascino di un tempo. Bologna, infatti, è la città più ricca d’Italia e basta dare uno sguardo alle vetrine dei negozi che costeggiano i suoi portici di marmo per rendersene conto. Se siete di bocca buona, a Bologna troverete moltissime alternative soddisfacenti: i tortelli sono sicuramente il pezzo forte della gastronomia bolognese, ma non dimentichiamoci delle lasagne, assolutamente imperdibili, della pasta fresca all’uovo, disponibile in moltissimi formati. Insomma, la città di Bologna è uno dei tesori più preziosi d’Italia dove potrete gustare piatti deliziosi della cucina italiana, ma anche immergervi in un bagno culturale non di poco conto: non solo musei e antichi edifici, anche eleganti e graziosi portici che rendono Bologna davvero unica nel suo genere. Concedetevi una rilassante passeggiata sotto il portico più lungo del mondo fino alla Basilica di San Luca: una camminata un po’ impegnativa, ma una volta in cima potrete godere di un panorama davvero mozzafiato. Bologna è una città bella ed accogliente dove coesistono bellezze architettoniche, storiche e gastronomiche oltre a numerosi musei da visitare.
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aneddoticamagazinestuff · 6 years ago
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Orazio intellettuale nel principato augusteo
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Orazio intellettuale nel principato augusteo
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  “Mi trovavo a passare per la via Sacra”. E’ il famoso inizio di un’altrettanto famosa satira (la IX del I libro), nota come satira del seccatore. In sintesi, mentre se ne va per fatti suoi, tutto perduto nelle sue divagazioni della mente, gli si avvicina uno, a lui noto solo di nome. E questi, per farla breve, lo sollecita ad introdurlo nella cerchia di Mecenate. “Io e te faremo squadra, e gli altri li metteremo tutti quanti all’angolo.
“Ma lì, in quella casa, ci si muove in modo del tutto diverso da quello che pensi: chi ha valore, se lo vede riconosciuto in base ai meriti. Non ci sono trame, né congiure, né lotte per il potere. Se vali, sei apprezzato. Est locus unicuique suus: a ciascuno il posto che merita. Punto e basta.”. nel frontespizio dell’organo vaticano L’osservatore romano, sotto la testata c’è scritto “Unicuique suum”, “A ciascuno il suo.”, una promessa di obiettività, ben servita di solito. Ed è anche il titolo di un bel romanzo di Sciascia, da cui è stato tratto l’omonimo film, con Gian Maria Volonté, Irene Papas, Gabriele Ferzetti e tanti altri bravi attori. Un film veramente film, e non una pellicola modulata sui ritmi ed i gusti della TV.
Insomma i frequentatori della casa di Mecenate sono legati tra loro da vincoli di solidarietà e stima reciproca, non c’è proprio spazio per guerre di posizione e di ambizione. Sono veramente amici tra loro e con Mecenate. Una cosa ben diversa da Amici di Maria (De Filippi)!
Ma chi era Mecenate? Di stirpe etrusca, di famiglia di altissima nobiltà tra la sua gente (nella prima ode del primo dei tre e poi quattro libri delle odi, quindi in posizione di rilievo nell’opera di Orazio, la prima parola – ed anche questa è una scelta di rispetto – è ‘Maecenas, atavis edite regibus’, o Mecenate, discendente di antichissimi re) era il consigliere numero uno di Ottaviano/Augusto per gli affari interni, in primis la propaganda: per questo aveva legato a sé con vincoli di amicizia e stima i migliori ingegni letterari del tempo: Orazio, Virgilio, Livio, Vario, Tucca eccetera. Le loro opere, frutto del loro libero modo di pensare, erano perfettamente in linea con l’ideologia del principato augusteo. Ricordo che ‘ideologia’ è vocabolo che indica un ‘modo di leggere il mondo, la vita, la società’. Quando leggo o sento parlare di ‘morte delle ideologie’ nei nostri anni critici, mi viene da sorridere, e capisco che spesso è una volgare azione di propaganda, tesa a spiazzare gli uomini, ad isolarli e renderli disponibili ad accettare nuove proposte, che, vagliate con la Storia, sono quanto di più retrogrado si possa concepire ed accettare.
Mecenate dunque era di origine nobile ed etrusca, e tra i suoi sarebbe stato un lucumone, un re. L’Etruria però come entità politica non esisteva più, e gli etruschi si erano del tutto omologati e mescolati ai romani, al punto di aver perduto la loro cultura nazionale. E Mecenate apparteneva alla seconda classe di cittadini a Roma, quella dei Cavalieri, gli equites. Dal punto di vista economico gli equites erano mercanti, latifondisti, banchieri (=usurai) ed esattori delle imposte nelle terre delle province romane (sono i pubblicani di evangelica memoria). A loro competevano anche i tribunali nei processi contro i governatori delle province, una volta usciti di carica. Il compito era stato affidato a loro dal tribuno della plebe Caio Gracco. Precedentemente questi tribunali erano stati affidati ai patrizi. Di solito i governatori delle province erano anch’essi di estrazione patrizia, per cui i processi finivano tutti con l’assoluzione del denunciato. Caio Gracco, per garantirsi il favore dei provinciali e degli equites, aveva cambiato la composizione dei tribunali. Ma aveva sbagliato i calcoli, come spesso succede, quando non si resta con i piedi per terra: gli equites, come ho detto, erano gli esattori delle imposte nelle province. Se dalla provincia X, ad esempio, Roma si aspettava 100, il cavaliere che si aggiudicava l’appalto versava a Roma i 100 previsti, e Roma stava a posto. Poi, però, l’esattore si rifaceva con gli interessi ai danni dei provinciali, ricavando con il taglieggiamento almeno 200. Ed i pubblicani sono narrati dal Vangelo come esseri spregevoli. Come dargli torto? I governatori, di estrazione patrizia, non osavano moderare le prepotenze degli equites, sapendo che a termine del mandato sarebbero finiti davanti ad un tribunale composto da equites. Quindi Gracco sbagliò completamente il calcolo, e si ritrovò contro gli equites (ostili alla plebe, di cui Gracco era tribuno), i patrizi ed i provinciali. Quando gli misero contro pure la plebe, fu ucciso.
Ma Mecenate era ricco di suo, e poi stava gomito a gomito con Augusto, imperatore e ricchissimo (si è calcolato che nelle zone della transumanza tra Abruzzo Molise e Puglia possedesse la bellezza di un milione di pecore, ricchezza straordinaria in una economia non industriale). Quindi si dedicò al ruolo di consigliere numero uno del principe, protagonista e propagandista dell’ideologia augustea. Ma qual era questa ideologia? Iniziamo a leggere dalle realizzazioni, per risalire ai piani.
Nel 31 a.C. , grazie all’abilità del generale Agrippa, divenuto poi suo genero, ed artefice del Pantheon a Roma, Ottaviano aveva sconfitto la coalizione Antonio-Cleopatra, restando l’unico protagonista di Roma. Nell’epodo IX (gli epodi sono la prima opera poetica di Orazio) il poeta è tutto trepidante per le sorti di Ottaviano: la battaglia è imminente, o forse è appena avvenuta, e non è chiara la portata o addirittura l’esito. Orazio ha addirittura la nausea per la preoccupazione: una eventuale vittoria di Antonio avrebbe conseguenze pesantissime sul destino di Roma: l’ex luogotenente di Cesare si è sottomesso ad una ‘femmina’ (Cleopatra), come dice con disprezzo, ed ha sottoposto il glorioso soldato romano al potere di ‘rugosi eunuchi (spadones)’. Non solo: al sole tocca vedere nel campo dei rudi soldati romani l’oscenità delle zanzariere!!! Insomma Orazio esemplifica qui una delle accuse propagandistiche di Ottaviano contro Antonio: il progetto di trasformare in senso orientale il costume romano. E di trasferire ad Alessandria la capitale del mondo, declassando Roma.
L’anno dopo Orazio scrive la famosa ode sulla morte di Cleopatra (Nunc est bibendum, ora ci si deve ubriacare). Ma la nemica di Roma è tratteggiata in atteggiamenti fieri e virili. E si capisce! Il nemico vinto DOVEVA essere grande, per un cavalleresco omaggio del vincitore, ma soprattutto perché da questo viene la valutazione dell’importanza della vittoria e della grandezza del vincitore: mandare KO un bambino di sei anni non è proprio la stessa cosa che mandarci Tyson! Aveva avuto l’ambizione di distruggere Roma, ma la cavalleria gallica e l’intero occidente, che aveva giurato con l’Italia nelle mani di Ottaviano, l’avevano riportata a più adeguati pensieri. Però aveva saputo scrutare con sguardo sereno la reggia rasa al suolo, e senza paura aveva maneggiato i serpenti (forse dei cobra) , con cui si era suicidata, per sottrarsi al destino di essere esibita a Roma trainata dal carro del vincitore. Gigantesca Cleopatra, ma ancor di più il suo vincitore.
Ottaviano, divenuto ormai Augusto (=l’accresciuto) nel 27 a.C. si è dato ad un’opera di restaurazione dei valori romani, con particolare attenzione ai decaduti costumi. Fece una serie di leggi, contro l’adulterio, contro la facilità nei divorzi, a favore della natalità (ius trium liberorum, il diritto dei tre figli), contro il celibato, contro la facilità dei testamenti a vantaggio di estranei alla stirpe romana. Ma il costume regolato per legge è una pia illusione: dovette mandare in esilio perfino sua figlia Giulia, scandalosa e scostumata, ed il poeta erotico Ovidio.
Alla nobiltà patrizia restituì le antiche cariche (cursus honorum), illusoria soluzione, visto il primato a vita dell’imperatore; ai plebei diede tanta retorica (ho ereditato una città di legno, e l’ho ricostruita in marmo). Chi veramente ebbe vantaggio fu la classe degli equites, dei mercanti: mise pace nel Mediterraneo e nelle terre che vi si affacciano, garantendo un sterminato territorio per i traffici ed i mercati. In oriente si diffuse l’immagine ermetica (da Hermes, dio dei mercati dei viaggi e dei traffici) di Augusto. Ma Hermes era anche il messaggero, la parola degli dèi, e la cultura cristiana non mancò di farlo diventare ‘la parola di Dio’ incarnata : Et verbum caro factum est (la parola divenne persona).
Nella satira 6 del primo libro Orazio fa un elogio amoroso di suo padre: se, o Mecenate, ti vado bene, il merito è suo. Mi portava sempre con sé, e ragionava con me. Mi indicava le vicende di questo o quel vicino, esortandomi a riflettere sui comportamenti. Le cose vanno così e così! Vuoi sapere come faccio a dirlo? Me lo insegna la cultura millenaria del contadino. E’ così, ed io non so dirti perché. Te lo spiegheranno da grande i professori. Non volle mandare il figlio alla scuoletta di paese a Venosa, ma ebbe l’ambizione e l’amore di mandarlo a Roma. A Roma!, capite? E dal magro campicello ricavava tanto da garantirmi abbigliamento adeguato e servitori tanti, che, chi mi vedeva passare con il loro codazzo, si domandava di quale riccone fossi figlio. Il padre contadino e povero ambisce a dare il figlio un destino diverso. E lo manda a studiare, e non a fare comparsate in TV! E la cultura affranca Orazio dal destino di contadino, quale era il padre. Una lezione di pedagogia e di ruolo genitoriale, sulla quale meditare anche oggi, ed a pienissimo titolo.
Ma torniamo ai due topi. Quello di città è la personificazione dell’edonismo estenuato, sfarzoso, certo, ma carico di pericoli ed esigente grandi fatiche, che nella sostanza frustrano le mire edonistiche. Il topo di campagna interpreta bene la filosofia cinica (= che si ispira ai cani, che mangiano ciò che trovano, dormono dove capita, e non si fanno troppi problemi). E’ la filosofia del “Me magno pane e cipolla, ma vivo tranquillo. E’ già tanto se la porta di casa ce l’ho, ma senza la serratura. Tanto, che mi possono rubare? Non possiedo nulla e vivo senza pensieri.”.
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seanselmi · 3 years ago
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Lo scrittore Salvatore Enrico Anselmi presenta il suo romanzo "Passaggi di proprietà", domenica 30 gennaio 2022
Il prossimo fine-settimana vedrà ancora una volta il complesso architettonico della Rocca Albornoz di Viterbo, sede del Museo Archeologico Nazionale Etrusco, ospitare due importanti eventi a corredo della mostra in fototempismo di Enzo Trifolelli Il Risveglio degli Etruschi, a cura di Salvatore Enrico Anselmi.
Sabato 29 gennaio, alle ore 16.30 la dott.ssa Francesca Ceci, archeologa – Musei Capitolini di Roma, terrà una conferenza sugli Usi e costumi nei banchetti etruschi.
L’appuntamento risulta di particolare interesse e pregnanza scientifica in accordo con il calendario di incontri culturali, svoltisi fino a oggi in concomitanza dell’esposizione, che hanno reso possibile una serie di approfondimenti sulla civiltà etrusca analizzata da diverse prospettive. Dall’approccio strettamente tecnico a quello divulgativo, infatti, gli eventi, che a tutt’oggi hanno cadenzato il programma, hanno suscitato grande partecipazione e interesse.
Domenica 30 gennaio, alle ore 16.30, il curatore della mostra prof. Salvatore Enrico Anselmi presenterà il suo nuovo romanzo Passaggi di proprietà, LINEA edizioni, Padova 2021, che sta riscuotendo grande consenso di critica e di pubblico. Già segnalato, tra gli altri, dalla Società Dante Alighieri, da «Juliet International Contemporary Art Magazine» e dalla stampa nazionale, il libro può essere considerato la storia di un dipinto manierista attraverso i secoli, dal Cinquecento ai giorni nostri fino a una dimensione distopica proiettata nel futuro.
A colloquio con l’autore due studiosi noti al pubblico: la dott.ssa Elisabetta Gnignera, storica del costume e saggista, e il prof. Luca Salvatelli, storico dell’arte e docente.
Concluderà l’incontro il finissage nel corso del quale si trarrà un bilancio della mostra e si comunicheranno le anticipazioni della prossima edizione di SorianoImmagine.
Divenuti ormai un appuntamento ricorrente tra il dicembre scorso e questo primo scorcio del 2022 gli incontri promossi in concomitanza dell’esposizione hanno visto lo svolgersi di conferenze, presentazioni al pubblico di campagne archeologiche di scavo, ricerche fotografiche rivolte anche alla tradizione pertinente le civiltà locali. Il carattere coerente e colloquiante delle iniziative ha rafforzato nelle ultime settimane il legame di appartenenza del territorio a uno dei luoghi storici simbolo della città, ovvero la Rocca Albornoz, sede del Museo Nazionale Etrusco, il che ha reso particolarmente orgogliosi e soddisfatti dei risultati raggiunti gli organizzatori, e la direzione del Museo viterbese e dei Musei del Lazio.
Anche per partecipare alle manifestazioni del 29 e del 30 gennaio sono obbligatori la mascherina e il green pass.
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fedelando · 3 years ago
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GEMELLAGGIO CON CIVITELLA PAGANICO, CI SARA’ ANCHE IL ROTARY CLUB VALLE TELESINA
Una tre giorni che guarda al futuro e con l’intento, ancora una volta, teso alla valorizzazione della Valle Telesina. Si terrà dal 24 al 26 settembre prossimo un gemellaggio culturale organizzato dall’associazione Istituto Storico Sannio Telesino, in collaborazione con il Rotary Club Valle Telesina, con il comune grossetano di Civitella Paganico-Casale di Pari.
"L’unione e la sinergia tra associazioni e comuni della valle – sottolinea Ciro Palma, Presidente del Rotary Club Valle Telesina - possono solo migliorare la conoscenza di un territorio bellissimo e fino ad oggi sconosciuto ai più ma che fa sempre innamorare per le sue bellezze artistiche, architettoniche e naturali.
"Il nostro sodalizio è onorato di essere parte attiva di questo gemellaggio che valorizza questi luoghi e che ci permette di proseguire nel solco dello sviluppo della conoscenza dei nostri principi e dei nostri intenti in questo anno sociale. Il confronto fra due culture dell'ospitalità molto sviluppate non può che accrescere la familiarità e creare altre occasioni di incontro, alle quali il Rotary Club parteciperà perché l'amicizia e la condivisione sono alla base di ogni rapporto".  
Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano anche Michele Selvaggio ed Emilio Bove, presidente e fondatore dell’Istituto storico del Sannio Telesino: “Siamo lieti di ospitare gli amici ‘etruschi’ – affermano - e guidarli alla conoscenza del Sannio Telesino. Un’occasione per allargare la visione storica e culturale oltre i nostri confini, che è poi uno degli scopi fondanti dell’istituto.
“Nati in coincidenza del periodo Covid – aggiungono -, in questo primo anno e mezzo di vita abbiamo comunque prodotto cultura, fondato una casa editrice e pubblicati diversi studi. Saremo lieti di illustrare quanto fatto in presenza di un pubblico così prestigioso. Un ringraziamento al Rotary Club Valle Telesina e alla Società di Mutuo Soccorso di Cerreto Sannita per il supporto e l’impegno che profondono nell’aiutarci a far conoscere le nostre radici. E, infine, un grazie alla Pro Loco di San Salvatore Telesino e all’amministrazione comunale di Telese Terme per la disponibilità e sensibilità all’accoglienza”.
Del ricco programma fanno parte, oltre agli incontri tra delegazioni dei comuni di Civitella Paganico-Telese Terme e delle associazioni: Rotary Club Valle Telesina-Istituto Storico del Sannio Telesino-Odysseus-Società di Mutuo Soccorso di Cerreto Sannita, la visita all’Abbazia di San Salvatore Telesino e all’antica Telesia, quella guidata al Museo della Ceramica (ospiti del Comune di Cerreto Sannita) e, sempre nella cittadina titernina, alla Società di Mutuo Soccorso; e ancora, a Pietraroja al museo di “Ciro” (Scipionyx samniticus) e all’antica Saepinum.
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edicolaelbana · 5 years ago
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ALLA RICERCA DEI SEGRETI DELLE ANTENATE ELBANE
Questo progetto ha per obiettivo l’empowerment delle donne elbane, che hanno alle spalle una storia in gran parte ignota, ma di cui possiamo ricostruire la struttura, l’ossatura. In senso letterale, visto che le ossa erano considerate dai nostri antenati il luogo dell’anima, quella parte di anima che resta nel fisico, sulla terra.
Lì ci sono strutture mentali, modi di pensare, sentire, percepire la realtà che sono specifici, caratteristici dell’isola. Le ricerche compiute sulle donne elbane, in particolare le donne di Rio (Peria 2012), mostrano le specificità della cultura femminile isolana che si distingue da quella, per esempio, dell’Italia centrale, grazie alla relativa autonomia e al riconoscimento sociale delle levatrici, orticultrici, erboriste, “medichesse”, la cui rappresentante più significativa è Margherita Bonci, legittimata nelle sue pratiche e terapie degli Anziani della Comunità di Rio (Peria 2012: 125 e sgg.).
Tuttavia, le arti e i saperi delle donne elbane - che gli studiosi descrivono come indipendenti, creative, coraggiose e guerriere – non sono soltanto la ricaduta dei processi storici che hanno reso la popolazione dell’isola una popolazione di vedove e vedove bianche. La precarietà di un mondo in cui gli uomini sono costantemente impegnati in mestieri pericolosi, come la pesca e le guerre, è stata aggravata dal continuo conflitto con pirati e corsari, eserciti di invasori, episodi bellici.
Eppure, non fu solo la contingenza storica a creare il carattere femminile elbano, caratterizzato da autostima e intraprendenza. Alcune scoperte archeo-antropologiche – realizzate all’inizio e alla fine del secolo scorso - rivelano la presenza su questo territorio di siti antichissimi, ricchi di indizi circa culture materiali e spirituali di tipo matrifocale. La cultura Villanoviana è un caso esemplare, perché rappresenta un tipo di società, in cui la donna poteva assurgere a posizioni di grande potere, socio-economico, politico e religioso, essendo considerata come il più naturale e spontaneo canale di comunicazione con il divino.
I Villanoviani erano antenati diretti degli Etruschi, che hanno continuato a coltivare – in una società rinnovata ma saldamente incardinata in quelle radici simboliche – una visione e quindi una politica culturale di tolleranza, libertà e onore nei confronti della donna. La donna etrusca si permetteva cose che la donna romana non osava sognare. Ella poteva coltivare i mestieri artigianali e commerciali, prendere decisioni e, soprattutto, essere un punto di riferimento operativo per la spiritualità femminile: le erano affidati in autonomia, culti e cerimoniali che a Roma escludevano la presenza femminile.
In questo percorso attingeremo a tempi antichissimi a quelle culture degli antenati e delle antenate delle donne elbane che rappresentano la base genetica, il nucleo duro del DNA mitocondriale, quello che si tramanda solo in via femminile. Risaliamo a un tempo che non ha potuto lasciare documentazione perché basato sulla comunicazione orale e non scritta, ha lasciato tracce riconducibili, con i metodi dell’archeo-antropologia, alle ricerche di Momolina Marconi, Uberto Pestalozza, Marija Gimbutas, che dimostrano l’esistenza di culture matrifocali a dominanza spirituale femminile nelle popolazioni tirrene, pelasgiche, dolicocefaliche fino a circa il 1000 a.C.
Il nostro progetto mira a ricostruire e ricomporre frammenti della cultura femminile elbana, in particolare di Rio Elba, cultura che ha attraversato molte epoche e che ha subito minacce e ridefinizioni nel corso dei secoli. Proponiamo di ripercorrere a ritroso il fil rouge che connette le elbane moderne alle loro antenate più arcaiche, attraverso uno spettro di metodi esperienziali e di consapevolezza, che si basano sulla relazione diretta, intensa e profonda con l’ambiente naturale circostante.
Ciò che ha reso l’Elba quella che è, e le elbane quello che sono – in termini di fermezza, coraggio, indipendenza – è un sapere che risale alla notte dei tempi ma è latente nella coscienza dei contemporanei, in attesa di essere risvegliato. Proponiamo un percorso, adatto a tutte le età e diretto a entrambi i sessi, che ci ricongiunga con le nostre radici attraverso il contatto non mediato con il mondo naturale, con la rigogliosa e potente natura che avvolge e incornicia la cittadina di Rio.
Gli elementi naturali su cui focalizzeremo l’attenzione sono: il mare e l’abbondanza di acque dolci; la vegetazione (orti, boschi, erbe, alberi); il ventre della miniera, che rappresenta simbolicamente la grotta, il grembo, l’utero. Fu in questo contesto naturale che, nei tempi antichi, iniziarono a forgiarsi quei caratteri isolani specifici e riconoscibili nelle donne elbane. La storia (di dominazioni, soprusi e miseria) contribuì solo ad accentuare configurazioni simboliche e mentali già presenti nel corpo sociale. Vorremmo andare alla scoperta e alla sperimentazione di quegli antichi germogli da cui si sviluppò il modo di vita e di pensiero tipicamente elbano e squisitamente femminile.
E’ sufficiente prestare attenzione al territorio per rilevare i punti forti dei saperi femminili. Le acque dolci, il mare, il lavatoio. L’orto, le erbe, le medicine, la foresta, la miniera, la grotta. Il percorso è caratterizzato dall’esplorazione di figure e ruoli femminili, codificati storicamente, che si radicano in mentalità di lunga durata e affondano le radici nei tempi preistorici (Italici, Villanoviani, Etruschi). Le principali figure archetipiche femminili che emergono dalle ricerche storiche, antropologiche e archeo-antropologiche sono: la levatrice, la “medichessa” o medicine woman, l’erborista, la sacerdotessa, la poetessa/musicista/artista. Si tratta di ruoli distinti, ma spesso fusi nella stessa persona, che vogliamo esplorare separatamente.
La Levatrice, colei che conosce il segreto della vita (ma anche del controllo delle nascite), e lavora con i misteri dell’acqua, delle grotte, del latte, del lavatoio, del mare.
La “Medichessa” guaritrice, colei che conosce il corpo, sa interpretare la malattia, la sa circoscrivere ed estrarre, sa convogliare le energie sulla parte malata e accresce le forze di guarigione, colei che recupera la salute sia fisica che psichica.
L’Erborista, colei che conosce il potere delle piante e del calderone in cui prepara decotti, infusi, elisir di lunga vita.
La Sacerdotessa, colei che conosce il sacro ed è in grado di officiare per conto della comunità; l’accompagnatrice dei morenti, colei che benedice i nascituri e che celebra i matrimoni.
La poetessa/musicista/artista, colei che conosce i segreti del canto, del ritmo, della parola; il canto delle sirene; il potere terapeutico del tamburo e dei sonagli.
Vorremmo scoprire queste dimensioni del femminile con lo scambio, la riflessione, la condivisione, ma anche con il rapporto con la natura circostante e grazie all'attivazione del respiro consapevole, attraverso le tecniche dello yoga.
https://elbapercaso.blogspot.com/
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navigamus-blog-a-vela · 5 years ago
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SAIL 2017 - I giovani timonieri della Scuola Vela Valentin Mankin verso Crotone - 2017
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24 agosto 2017 - Viareggio/Crotone. Appena rientrati dal Meeting AVIS riservato alle scuole vela Optimist - VI Trofeo Michela Righi organizzato lunedì scorso a Rosignano Solvay dal Circolo Canottieri Solvay in collaborazione con Circoli Velici Costa Etruschi (dopo il rinvio dello scorso 24 luglio a causa delle avverse condizioni meteomarine, anche in questa occasione non è stato possibile disputare le regate ma la manifestazione si è trasformata in una coinvolgente giornata di giochi sulla spiaggia), alcuni giovani timonieri della Scuola Vela Valentin Mankin (quelli che hanno superato le selezioni) si stanno preparando alla lunga trasferta che fra pochi giorni li porterà a Crotone per l’appuntamento clou della stagione agonistica 2017 della Classe Optimist. Dal 27 agosto al 3 settembre, infatti, la Federazione Italiana Vela in collaborazione con il Club Velico Crotone organizzeranno nelle acque del mar Ionio la 32° Coppa Primavela e i Campionati Nazionali Giovanili per le classi in singolo, una vera festa della vela per 1200 ragazzi provenienti da tutta Italia, un vero record di partecipazione dovuto al fatto che oltre ai tradizionali Optimist, Laser 4.7 e Radial, e Windsurf Techno 293 saranno presenti anche gli O'pen Bic e la specialità emergente del Kiteboarding che esordirà nella vela alle Olimpiadi Giovanili del 2018 a Buenos Aires, ma anche un grande impegno agonistico ed emotivo per i piccoli grandi velisti. “Venerdì 25 partiremo per Crotone in modo tale da avere un po' di tempo per ambientarci e, soprattutto per gli Juniores, allenarci sul campo di gara di Crotone. La nostra spedizione coinvolgerà i cadetti Manuel Scacciati e Federico Querzolo (2008) e i tre Juniores Federico Lunardi, Tommaso Barbuti e Margherita Pezzella. Purtroppo, Attilio Carraro (anche lui del 2008), anche se si era selezionato, ha preferito rinunciare.- ha spiegato Stefano Querzolo, responsabile del progetto Vela Scuola per la Scuola di Vela Valentin Mankin. -Con sei timonieri ci siamo piazzati al primo posto per il maggior numero di selezionati della nostra II Zona Fiv e questo, per tutti noi è già motivo di grande orgoglio. Sono molto soddisfatto di come i nostri piccoli grandi timonieri si sono comportati sui campi di regata fino ad oggi e dei risultati che la Scuola Valentin Mankin, creata lo scorso anno dall’impegno del Club Nautico Versilia, del Circolo Velico Torre del Lago Puccini e della Società Velica Viareggina, sta dando, a riprova della validità del lavoro svolto sino ad ora. Con noi partirà anche il giovane livornese Adalberto Parra che dal prossimo anno farà parte della Squadra della Scuola Vela Valentin Mankin.” Della spedizione faranno parte anche Massimo Bertolani presidente del CVTLP e Muzio Scacciati, Consigliere del CNV e promotore del Progetto “Per i nostri giovani velisti, questa trasferta è sicuramente un grande impegno agonistico ma deve essere anche un bel momento di aggregazione e di confronto con tanti altri ragazzi e ragazze degli altri Circoli.- ha spiegato Scacciati -La volontà di creare un ricambio generazionale nello sport della Vela è da sempre uno degli obiettivi della nostra Scuola Mankin, oltre a quello di proporsi come un importante volano turistico. Unendo le forze e le potenzialità dei tre circoli in questo progetto, infatti, desideriamo insegnare ai giovani non solo ad andare in barca ma anche amare e rispettare il mare, il lago e il territorio, creando una bella opportunità per il futuro dello sport e del turismo versiliese.” "La 32° Coppa Primavela si terrà nelle giornate dal 27 al 29 agosto, mentre dal 31 agosto al 3 settembre sarà la volta dei Campionati Giovanili per le classi in singolo. Inoltre, dal 26 al 30 agosto, si svolgerà il primo Meeting nazionale delle scuole di vela, un nuovo format FIV: 45 bambini faranno la loro prima esperienza armando e disarmando, navigando e scuffiando al fianco dei giovani campioni che puntano ai titoli italiani.- ha spiegato Francesco Verri, Presidente del Club Velico Crotone che lo scorso anno aveva ospitato i Campionati Europei Optimist più affollati di sempre con 290 atleti di 46 nazioni. -Il campo di regata di Crotone, le strutture e le straordinarie condizioni meteomarine, sono ideali per la vela. Per l'occasione il Circolo ha integrato la propria sede nel nuovo Marina, ristrutturato e ampliato nel cuore del porto turistico e dotato di tutti i servizi per i diportisti e gli sportivi. Le location tecniche saranno due: il porto turistico per Optimist e Laser, e il Club Velico Crotone Sport Beach affacciato su un mare caraibico dedicato alle tavole e agli O' Pen Bic. Sarà un fine agosto di sport tutto dedicato ai giovani, dove lo spettacolo sarà assicurato e dove verrà coinvolta tutta la città con il supporto del Comune di Crotone, Regione Calabria, Camera di Commercio e Autorità Portuale di Gioia Tauro, Kinder+Sport, BPER Banca e Audi Zentrum di Lamezia Terme.”
FROM http://www.navigamus.info/2017/08/i-giovani-timonieri-della-scuola-vela.html
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stilouniverse · 1 year ago
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I top ten di Gennaio 2024
I 10 articoli più letti nel mese di gennaio 2024 Cinque leggende toscane Il Pantheon degli Etruschi Il castello di Bibbiano Firenze in antiche mappe La Pieve di Santa Innocenza e la grancia di Piana La “risciacquatura dei panni in Arno”: Manzoni a Firenze nell’estate del 1827 San Quirico d’Orcia La società degli Etruschi Piatti tipici toscani, la loro storia e le loro ricette Lungo…
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cinquecolonnemagazine · 2 years ago
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Ulisse e gli Etruschi: cosa li unisce?
Ulisse e gli Etruschi cosa hanno in comune? Il grande eroe mitologico e il popolo preromano sono collocati in epoche storiche diverse e diversi sono i luoghi che hanno attraversato. A unirli oggi è un personaggio televisivo e divulgatore molto apprezzato dal pubblico: Alberto Angela. Figlio del noto Piero, anche lui famoso divulgatore, Alberto ha ideato diversi format televisivi grazie ai quali ha portato il grande pubblico alla scoperta del nostro passato più antico. Il programma televisivo dal titolo "Ulisse", ispirandosi alla curiosità, alla voglia di scoprire dell'antico eroe greco, ha contato tra gli episodi più seguiti quello sulla civiltà etrusca. Ulisse e gli Etruschi Chi era il popolo etrusco? Con i suo programma Alberto Angela ha come rispolverato, ma anche arricchito, le nostre conoscenze ferme ai tempi della scuola. Grazie ai numerosi reperti rinvenuti negli ultimi anni, infatti, sappiamo molto di più su questo antico popolo. La civiltà etrusca si sviluppò nell'antica Etruria, la regione dell'Italia centrale situata a nord della città di Roma, e che comprendeva parti dell'odierna Toscana, Umbria e Lazio. L'antica civiltà visse tra l'VIII e il III secolo a.C. fino a quando non fu assimilata alla cultura dell'impero romano. I rapporti tra etruschi e romani furono complessi e variegati nel corso della storia. Inizialmente, i Romani subirono l'influenza culturale degli Etruschi, ma in seguito divennero sempre più indipendenti e potenti. Durante il periodo repubblicano romano, i rapporti con gli Etruschi furono caratterizzati da alleanze, conflitti e scambi commerciali. Gli Etruschi fornirono ai Romani innovazioni tecniche, come la costruzione di archi e volte, e appoggiarono le campagne militari romane. In seguito, poi, Roma divenne sempre più potente, conquistò gradualmente i territori etruschi e li assimilò nella propria cultura. Com'era organizzato il popolo etrusco? Il popolo etrusco era organizzato in città-stato indipendenti con una classe governante di aristocratici chiamati lucumoni, guidati da un re o un principe. La società etrusca era divisa in classi sociali, con la classe aristocratica al vertice e gli schiavi alla base. L'economia era organizzata in modo prevalentemente agricolo e commerciale. L'agricoltura era la principale fonte di sostentamento ed era praticata su appezzamenti ben irrigati grazie all'uso di avanzati sistemi idraulici. I principali prodotti agricoli erano il grano, l'orzo, l'uva, l'olio e i legumi. Il commercio era altrettanto importante per gli Etruschi, che vantavano una posizione strategica lungo le principali rotte commerciali del Mediterraneo. Gli Etruschi commerciavano soprattutto in materiali di lusso come il marmo, l'avorio, gli specchi di bronzo e i gioielli in oro e argento. Altrettanto importante era l'estrazione di minerali come il rame, l'argento e il ferro, che venivano utilizzati per la produzione di utensili e oggetti in metallo. Gli Etruschi, infatti, erano anche abili artigiani e realizzavano tessuti, ceramica, vasi e oggetti in legno di alta qualità, molti dei quali erano esportati. Chi erano gli dei degli Etruschi? Gli Etruschi seguivano una religione politeista, che comprendeva numerose divinità e riti religiosi. Le loro credenze religiose erano strettamente legate alla vita quotidiana, alla natura e alla morte. Gli Etruschi credevano nell'immortalità dell'anima e nel destino, che orientava la vita di ogni individuo. La figura principale della religione etrusca era Tinia (Zeus), la divinità suprema, che governava il cielo e le tempeste. Altre divinità importanti erano Uni (Giunone), che rappresentava la fertilità e il matrimonio, e Charun, il guardiano dell'Oltretomba. Gli Etruschi facevano ampio uso della divinazione per discernere la volontà degli dei e prendere decisioni importanti. In copertina foto di M W da Pixabay Read the full article
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istanbulperitaliani · 8 years ago
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Gli Etruschi erano turchi
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Mario Alinei é un glottologo italiano tra i più grandi linguisti di questa epoca. Nel corso delle sue vaste e profonde ricerche ha dimostrato l’esistenza di una continuità plurimillenaria risalente quantomeno al Paleolitico Superiore (40mila anni fa), tanto delle lingue quanto dei dialetti parlati oggi. Un concetto alla base della teoria della continuità paleolitica. Una teoria che tra sostenitori e oppositori é oggi l’oggetto di interessanti discussioni tra i vari studiosi.
La caratteristica dei lavori di Mario Alinei é quella di essere accessibile anche al grande pubblico. Tra le tante pubblicazioni dall’autore voglio segnalare “Gli Etruschi erano turchi. Dalla scoperta delle affinità genetiche alle conferme linguistiche e culturali”(2013).
Questo lavoro parte da una ricerca genetica del 2007 realizzata dal dott. Alberto Piazza, genetista dell'Università di Torino, e presentata alla conferenza annuale della Società europea di genetica umana a Nizza. La ricerca ha dimostrato l'affinità genetica degli Etruschi con i Turchi anatolici. Confermando la tesi dello storico Erodoto che descriveva gli Etruschi provenienti dall’antica Lidia. Inoltre vengono presi in esame altri studi genetici intrapresi da altri ricercatori. Uno addirittura sui bovini etruschi geneticamente affini a quelli turchi.
Partendo da questa affinità genetica Mario Alinei prende in considerazione anche la linguistica e la storia culturale dei due popoli. Nella lettura del volume scoprirete che la fonetica, la morfologia e il lessico dei due popoli mostrano numerose e notevoli corrispondenze, e ancora più numerose e significative sono le corrispondenze culturali come: nel mito della lupa come animale totemico, nella pittura e ritrattistica, nell'architettura, nell'oreficeria e gioielleria, nell'equitazione, nella lotta, nella musica, nella danza, nel banchetto rituale, nell'abbigliamento.
Un libro consigliatissimo.
- Compra su Amazon il libro: Gli Etruschi erano turchi. Dalla scoperta delle affinità genetiche alle conferme linguistiche e culturali
La mia Vita a Istanbul: consigli e informazioni turistiche. Disponibile come GUIDA per delle ESCURSIONI in città. Scrivi una e-mail a: [email protected] Seguici anche su www.facebook.com/istanbulperitaliani
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viendiletto · 7 years ago
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Maria Bellonci wrote many history books as well as historical fiction. Her Lucrezia Borgia is the best biography you can read about her. Her Milano Viscontea and Segreti dei Gonzaga are also excellent history books, while Rinascimento Privato is an excellent historical fiction about Isabella D'Este. I also recommend you Tu vipera gentile, three fictional stories set in 17th century Mantua and 15th century Milan.
Another historian I deeply love is Carlo Ginsburg. His I Benandanti, about the agrarian cults and witchcraft in 16th/17th century Friuli is one of my favourite books. He also wrote Storia notturna - Una decifrazione del sabba, about the history of witchcraft and the Sabbah. Il formaggio e i vermi is an essay about a Friulan miller, Menocchio, who was accused of heresy by the Inquisition because of his views on the cosmos and the soul.
Additionally, beloved paleontologist, writer, journalist and science populariser Alberto Angela (if you like documentaries I highly recommend Ulisse - Il piacere della scoperta, which he presents) wrote Una giornata nell'antica Roma, Impero - Viaggio nell'Impero di Roma seguendo una moneta and Amore e sesso nell'antica Roma about ancient Rome, I tre giorni di Pompei - 23-25 ottobre 79 d.C. - Ora per ora, la più grande tragedia dell'antichità, about Pompeii's last three days before the eruption, Viaggio nella Cappella Sistina - Alla scoperta del più grande tesoro artistico di tutti i tempi, about the Sistine Chapel, San Pietro - Segreti e meraviglie in un racconto lungo duemila anni, about Saint Peter's basilica, Gli occhi della Gioconda - Il genio di Leonardo raccontato da Monna Lisa, about Leonardo da Vinci's works and La Gioconda and Alberto Angela racconta i Bronzi di Riace - L'avventura di due eroi restituiti dal mare, about the Riace bronzes.
Andrea Carandini is a professor of archeology you should check out if you're interested in ancient Rome as he wrote many monographies about it. His La nascita di Roma - Dèi, Lari, eroi e uomini all'alba di una civiltà, Remo e Romolo - Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani and Roma - Il primo giorno are good works you can start with. I particularly liked his Il fuoco sacro di Roma -Vesta, Romolo, Enea, about the cult of Vesta and Her priestesses, the Vestals, and Rome's sacred fire.
Mario Torelli is a scholar of Italic culture and has written many works about Etruscan and Roman history and culture. If you're interested, I'd recommend Necropoli dell'Italia antica, about Italian necropolises, Storia degli etruschi, about Etruscan history, L'arte degli Etruschi, about Etruscan art, La Società etrusca: l'età arcaica e l'età classica, about Etruscan society, and Studi sulla romanizzazione d'Italia, about the Romanisation of Italy.
If you're interested in Italian classics some of my favourite authors are Gabriele D'Annunzio (his three trilogies: La Trilogia della Rosa, La Trilogia del Giglio and La Trilogia del Melograno), Antonio Fogazzaro (Malombra, Piccolo Mondo Antico), Ugo Foscolo (Ultime lettere di Jacopo Ortis), Dante Alighieri (La Divina Commedia, Vita Nova) and Emilio Salgari.
Other important authors and novels every Italian knows even if they haven't read them are Alessandro Manzoni (I Promessi Sposi), Giovanni Boccaccio (Decameron), Francesco Petrarca (Canzoniere), Ludovico Ariosto (Orlando Furioso), Torquato Tasso (Gerusalemme Liberata), Giacomo Leopardi (Operette Morali), Giovanni Verga (I Malavoglia, Tigre Reale, Novelle Rusticane), Luigi Pirandello (Il fu Mattia Pascal, Uno, nessuno e centomila), Italo Svevo (La coscienza di Zeno), Umberto Eco (Il nome della rosa), Elsa Morante (La storia, L'isola di Arturo), Edmondo De Amicis (Cuore), Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo), Primo Levi (Se questo è un uomo, La tregua), Italo Calvino (Le città invisibili), Grazia Deledda (Canne al vento), Sibilla Aleramo (Una donna), Alberto Moravia (La Ciociara, La Romana), Cesare Pavese (Dialoghi con Leucò) and Dino Buzzati (Il deserto dei Tartari). Vamba's Il giornalino di Gian Burrasca, Carlo Collodi's Pinocchio and Gianni Rodari's Le avventure di Cipollino are three children's books.
Hey Emma! I'm learning Italian and I was wondering, are there any Italian books which you or your followers recommend? Preferably history books or historical fiction, but anything at all would be great! I love your blog, hope you're well (and if you do get to go to London I hope you enjoy it! I'm from England and I love visiting the capital!) 💕💕
Hi anon!  So the first book I read in Italian was the translated Le Petit Prince, which I thought was a really good way to start.  As for historical fiction, there are two books in Italian by Bruno Nardini about Michelangelo and Leonardo - I haven’t read them yet, but they’re supposedly very good.
Maybe @francescadaferrara and @viendiletto have some more suggestions - and to my other followers, please comment if you have anything to add~
Also thanks!  I’m sure I love it when I come!
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fiamma-e-il-caneciccio · 4 years ago
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Storie del sottobosco
https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2011/5/107938.html
Tra i 140 faldoni sequestrati nel 2001 a Gianfranco Becchina (il mercante di antichità recentemente rinviato a giudizio per associazione a delinquere dal gup del Tribunale di Roma, cfr. n. 307, mar. ’11, p. 2, Ndr) nella sede e in tre magazzini della sua Palladion Antike Kunst a Basilea (lo spazio di memoria di 16 film: due carabinieri hanno impiegato due mesi per fotografarli), quelli numerati dall’87 all’89 sono intestati al re del rame George Ortiz Patiño. Boliviano nato a Parigi 84 anni fa, sotto la villa di Ginevra possiede un museo inaccessibile: della collezione in esso ospitata sono noti soltanto 280 capolavori che sono andati in mostra a metà degli anni Novanta alla Royal Academy di Londra, all’Altes Museum di Berlino, all’Ermitage di San Pietroburgo e al Puskin di Mosca (Philippe de Montebello, che dirigeva il Metropolitan, ha declinato l’ospitalità). Nel faldone 87, Ursula Juraschek detta Rosie, moglie di Gianfranco Becchina nata a Rostock, allora Germania Orientale, registra dare e avere. A fine 1986 gli invia un «conteggio riassuntivo» (i due erano in società al 50 per cento, capitale di 5 milioni di franchi svizzeri, quasi 4 milioni di euro) e acclude il resoconto del venduto: «Corredo guerriero bronzo» (370mila dollari), «cinque vasi bronzo pompeiani» (120mila franchi), «affresco pompeiano Dionysos» (150mila), e così via. Ovviamente, nessuna provenienza: quella degli scavi clandestini, non è possibile declinarla. È solo uno dei 13mila documenti confiscati a Becchina, con sentenza del Gup di Roma; con 6.315 reperti, 4 mila fotografie e 3.416 immagini digitali dell’archivio, stando ai conti dell’archeologa Daniela Rizzo della Soprintendenza per l’Etruria meridionale, consulente dei magistrati. Un compendio di 30 anni di commerci, fino al 2000, il cui acuto è il famoso kouros ceduto al Getty nel 1984 forse per oltre 7 milioni di euro: quello per cui Federico Zeri non volle più collaborare con il museo, e che, se fosse vero, sarebbe uno dei 13 esemplari intatti al mondo. Ma probabilmente non lo è (oltre a Zeri, lo disconobbero anche il celebre restauratore Pico Cellini e Thomas Hoving, già direttore del Metropolitan); come falsi sono alcuni dei documenti che lo scortavano: una lettera del 1952 ha un codice postale di 20 anni successivo; un’altra, del 1955, un conto bancario aperto nel 1963. Quattro passi in questo archivio sono assai istruttivi: insegnano tantissimo sulla Grande razzia che, soltanto in Italia, ha comportato lo scavo clandestino di un milione di oggetti e indagini su 10mila persone, ma ben poche restituzioni da sei musei e da una collezionista americana (Shelby White; a lei e al marito Leon Levy è intitolata la nuova ala greco-romana del Metropolitan, finanziata con 20 milioni di dollari), e dai galleristi-venditori Jerome Eisenberg, della Royal-Athena Gallery a New York (una decina di pezzi, alcuni sottratti a musei) e (300 reperti) il giapponese Noriyoshi Horiuchi, con base in Svizzera. Quello con Ortiz è un rapporto privilegiato, anche se non il solo. Comprende, ad esempio, un «lotto» di cinque «tombe del Sud Italia» (600mila euro) e un «corredo 12 vasi, Lucania» (poco di più); ricevute «per acquisto» di interi «corredi di tombe del Sud Italia», o di una «grande pelike con iscrizioni».  Talora, si dice altro: un pugnale ha manico d’osso, misura 31 centimetri e allegata è una polaroid prima del restauro, a scavo di frodo appena avvenuto; un «corredo di tomba Sud Italia» è composto da un «vaso dorato e innumerevoli altri»; un altro, da «grandi crateri a volute, corazza con gambali e decorazione cavallo». Acquisti e vendite «alla grande»: tra le ricevute intestate a Ortiz per i due corredi (200mila euro la prima e 110mila la seconda), corrono esattamente sette giorni, ad agosto 1986. E due settimane prima, un terzo corredo costa 160mila euro: «Innumerevoli vasi di cui alcuni di pregevole fattura, la maggior parte frammentata ma completa». Vale meno, 60mila euro, un «ritratto di Adriano, marmo, romano», mostrato da tre foto; come ci sono le immagini di cinque «vasi pompeiani in bronzo», o di una «collana d’oro falisca». La provenienza illegale è sottintesa: non se ne indica mai una legittima, né il luogo dello scavo, o la data. Del resto, Ortiz non ha problemi: colleziona dal 1950; a Roma va sotto processo già nel 1961 (se la cava con la condizionale, come un altro grande mercante, Herbert Cahn che non c’è più); la «Triade Capitolina» estratta da Pietro Casasanta e restituita al confine svizzero nel 1993, per gli investigatori era sua: l’aveva comperata da un altro trafficante, Mario Bruno, e la offriva a un museo americano per 25 milioni di euro (è l’unica scultura in cui le tre maggiori divinità di Roma siano ancora assieme). Proprio Casasanta, «il re dei tombaroli» secondo il «Wall Street Journal», spiega ai pm: «Ho i miliardi e avevo un cliente dei più importanti al mondo; una spalla come Mario Bruno, uno grosso, con il cliente dietro, George Ortiz, che dice “con voi due ci prendiamo l’Etruria; i soldi li ho io, non esiste problema”; e noi già progettavamo l’ira di Dio; compreso un negozio a Cerveteri, per comprare dai tombaroli. Un negozio civetta». Ortiz chiarisce che ha iniziato a collezionare «dopo aver perduto la fede ed essere divenuto marxista» (trova la verità, e l’arte, in un viaggio in Grecia); da «umanista e collezionista» contesta le convenzioni Unesco 1970 e Unidroit 1995, che vincolano gli Stati alla lotta ai clandestini: per lui sono «frutto dell’utopia che ogni oggetto abbia una naturale collocazione e debba restare in situ; l’arte, se come in passato disseminata nel mondo, è tra i maggiori fattori di progresso, sviluppo intellettuale e comprensione tra i popoli». Torniamo all’archivio di Becchina, in cui non manca nessuno dei più bei nomi. Né tra quanti lo riforniscono, né tra quanti comperano da lui. Ad aprile 1992 subisce una perquisizione, in un’indagine di mafia della Dia di Palermo; l’avvocato romano Bruno Leuzzi lo cava dai guai: dimostra anche che Becchina ha ben altre fonti di reddito. Elenca la Palladion (nel 1976, i 150 pezzi maggiori del negozio valevano due milioni di dollari); la ditta di cementi Atlas, di cui Becchina è a lungo amministratore unico (solo nel 1993, compera 131 tonnellate di cemento dalla Grecia); la tenuta di ulivi e l’olio verde con cui Clinton e Bush hanno condito l’insalata; alcuni dei musei suoi clienti. L’Ashmolean di Oxford nel 1975; la Columbia University, il Louvre e il Ninagawa di Hurashiki, in Giappone, nel 1976; il Boston e il Metropolitan nel 1979; l’archeologico di Utrecht l’anno dopo; quelli dell’Università di Washington e di Kassel nel 1981; poi, la Princeton University e quella di Yale, ovviamente il Getty, perfino il Limc, il Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, che però è un’enciclopedia con sede a Zurigo, cui partecipano 40 Paesi. Tra queste carte, tante prove di transazioni di oggetti non proprio immacolati. Anche con le grandi case d’asta, che non andavano per il sottile, finendo per «lavare» i reperti senza origine, quindi clandestini, come si fa con i «narcodollari». Il 31 maggio 1988 il mercante invia a Sotheby’s a Londra una fattura di 320 franchi svizzeri per altrettante foto a colori, foto non restituite, evidentemente di oggetti posti in vendita; e un’altra identica fattura reca la data di un anno prima. Se Sotheby’s l’abbia onorata, non si sa; ma il documento vale a indicare (un franco per ogni immagine) l’entità del commercio. Andare a passeggio tra queste carte fa scoprire l’origine di tanti oggetti di un altro strano mercante, Horiuchi che, a sentire qualche collega, non aveva neppure i soldi per sedersi a tavola con gli altri «trafficanti», e si accontentava di un sandwich al bar di fronte, finché non è incaricato da madre e figlia Koyama, Mihoko e Hiroko, di costituire il Miho Museum vicino a Kyoto, l’edificio di Ieoh Ming Pei aperto nel 1997 a Shiga con una spesa di 750 milioni di dollari, 350 dei quali per formarne le collezioni. Dopo una perquisizione degli inquirenti italiani nei suoi depositi svizzeri che certificò il suo possesso di 15mila reperti, Horiuchi ne ha restituiti 300 all’Italia. Fino al 1990 sono documentate transazioni per oltre 3,5 milioni di euro con Becchina. Ma anche ingenti debiti. Nel 1991 Becchina stipula un accordo davanti a un legale con Horiuchi e altri quattro creditori (Aldo Crivelli e Djamshid Daftary, di Basilea e Ginevra, e le ditte Serpe e Bodo Shöps, di Zug e Gstaad): in attesa di saldare il debito, Horiuchi eviterà almeno i maggiori acquisti, ma intanto Becchina cataloga a suo nome foto e vendite di vasi e piatti, a figure rosse, del Pittore di Sacco e di quello di Baltimora. In questo formidabile archivio si dissolvono svariati misteri. Nel 1992, per le tre mostre sugli Etruschi a Venezia, Parigi e Berlino organizzate da Palazzo Grassi (un capolavoro di Paolo Viti ai tempi Fiat), Massimo Pallottino (come Mario Torelli nella sua mostra del 2000) vuole un’hydria a figure nere del museo di Toledo, Ohio. Alta 52 centimetri, raffigura la fine del rapimento di Dioniso raccontato da Omero: il dio trasforma i pirati tirrenici colpevoli in delfini (foto 1); e gli uomini-pesce che si tuffano nel Tirreno sono un hapax, un unico che anticipa perfino le Metamorfosi di Escher. L’oggetto è in mostra con provenienza ignota: troppo bello perché uno studioso resista alla tentazione di esporlo. Reca un’attribuzione dubbia: forse, il Pittore del Vaticano; la data è tra il 510-500 a.C.; il museo l’ha acquisito nel 1982. Nel 2001, dopo la perquisizione nei depositi di Becchina a Basilea, si scopre dove: agli atti ci sono lettere, fatture, fotocopia dell’assegno. Trasportato dalla British Airways; pagato non molto: 90mila dollari; un certificato con cornice istoriata lo accredita al Pittore di Micali e «giustifica» (si fa molto per dire) la provenienza: «Comprato sul mercato da un collezionista privato svizzero, dal cui erede l’ho rilevato nel 1980; era stato da poco pubblicato da una rivista di Monaco». Avalla l’origine una dichiarazione firmata da Karl Haug, su carta intestata dell’Hotel Helvetia, che egli ha venduto a Becchina, come la Palladion; ma i Carabinieri trovano analoghi documenti in bianco nell’archivio, con lo stesso timbro già stampato a metà facciata: facile riempirli a posteriori. «È forse il più bel vaso di Vulci», commenta Daniela Rizzo. Già, perché proviene proprio da lì e, quando in Italia sono iniziate le indagini, viene ritirato di corsa dalla mostra veneziana di Torelli, aperta da poco, per timore di un sequestro. Chissà perché mai finora non è stato restituito all’Italia. Come un cratere del Pittore di Ixion, o Issione, attivo a Capua dal 350 al 325 a.C., con il massacro dei pretendenti da parte di Ulisse (foto 2), alto 45 cm, che è al Louvre e di cui Becchina conserva tutta la documentazione: dalle visite a Basilea di Alain Pasquier, allora direttore del dipartimento delle antichità, alle trattative per cederlo a Boston (dice il curator, John Hermann, che il direttore è rimasto «sconvolto» dalla cifra richiesta; ma egli mostrerà l’opera a Levy), alla vendita, forse per 290mila dollari, nel 1987 a Parigi dove, a dicembre, approda anche una psykter del VI sec. a.C. del Gruppo di Lisippide, «decorata con Dioniso, menade e satiri», per 350mila euro; a madame Guide, capo servizio delle Opere d’arte della Réunion des Musées nationaux, il mercante scrive che il vaso, alto 40 centimetri, è integro, con pochi restauri. Poi, emette una fattura a 60 giorni e registra il saldo a tre mesi dalla consegna. Ci sono anche singolari dilemmi. Sia Medici sia Becchina hanno sempre smentito, quasi con reciproco sdegno, qualsiasi contatto tra loro. Ma come ha scoperto Maurizio Pellegrini, un altro dei periti, possiedono immagini coincidenti di pezzi clandestini. Un’anfora attica a figure rosse con Eracle e Apollo in lotta per il tripode di Delfi del pittore di Geras (foto 5), alta 45 cm, è stata restituita dal Getty che l’aveva comperata nel 1979, con tanto di fattura, da Becchina, ma figura anche, ancora sporca di terra, nelle polaroid di Medici. Come un askos a forma di anatra del Gruppo Clusium (foto 4), analogamente tornato e proveniente da Becchina, anche se, per il museo, era ufficialmente «dono di Vasek Polak». Becchina ha la foto di un piatto attico a figure rosse di 22 centimetri di diametro, prima e dopo il restauro: uno dei 21 (un «servizio» unico al mondo decorato con guerrieri, servitori, danzatrici, satiri, pescatori) proposti al Getty da Medici tramite Robert Hecht (che cede al Metropolitan il cratere di Eufronio con La morte di Sarpedonte nel 1972: il primo pezzo pagato da un museo un milione di dollari), e trattati per due milioni di dollari dal curator Marion True. Lei scrive dispiaciuta a Medici che, per la prima volta, il direttore del museo le ha detto di no: non intende investire una tale somma «in 21 opere dello stesso autore» (quando si dice la sapienza scientifica!). I Carabinieri li ritroveranno nel 1995, nel sancta sanctorum di Medici, nel Porto franco di Ginevra (molto è iniziato da lì), e ora sono, finalmente, al museo di Villa Giulia, a Roma. Tra i 140 faldoni di Becchina abbondano quelli del fornitori: middleman e trafficanti in contatto con chi scavava, ma anche tombaroli in proprio. Ci sono fatture pagate a Casasanta nel 1986, per un cratere apulo frammentato e un’antefissa di terracotta (ma kratere e terrakotta sono scritti con la kappa), e per 12 pezzi, di cui «tre affreschi pompeiani». Ben cinque fascicoli sono intestati a «Raf», Raffaele Monticelli di Taranto: il primo, in queste vicende, sottoposto a misura di prevenzione e confisca del patrimonio in cui figura anche un intero stabile a Firenze, certo non frutto del lavoro di maestro. Sulla sua Volvo, trovati sei milioni di lire, vari telefoni e schede non solo italiane, la fotocopia di un interrogatorio a Roma per l’export di «enormi fortune archeologiche», quando è sorpreso nel Foggiano, vicino ad Ascoli Satriano, dove erano stati segnalati nuovi scavi clandestini dopo quello che, nel 1978, ha fruttato il trapezophoros, ormai restituito dal Getty: il sostegno di tavolo rituale in marmo policromo con due grifoni che sbranano una cerva. In quell’occasione, i pezzi finirono a Medici (che ne aveva anche le foto dopo lo scavo) e poi a due grandi mercanti come Hecht e Robin Symes di Londra: Monticelli si sarebbe risentito per la violazione del territorio. Frida Tchacos, un’altra antiquaria-mercante (galleria Nefer di Zurigo) arrestata nel 2002 a Cipro, parla all’allora Pm Ferri di «un preciso triangolo tra Hecht, Becchina e Monticelli», fornitore «di ogni cosa si trovasse nel Sud Italia, vasi apuli, terrecotte, bronzi»; la stessa moglie di Becchina, arrestata in Svizzera nel 2001, lo qualifica come uno dei maggiori fornitori della «casa». È esperto soprattutto di monete: Becchina lo stipendia ogni mese, ufficialmente per la pulizia delle stesse; le ricevute dei versamenti arrivano fino al 1994. Ma un decennio più tardi, Monticelli è condannato a 4 anni: al processo si scopre che alcuni tombaroli non sono pagati in base ai ritrovamenti, come di solito, bensì salariati mensilmente. Comunque sia, ad esempio nel luglio 1968 Raf vende a Becchina 20 vasi apuli assieme; ci sono conti da 120 e 275mila franchi svizzeri, anche due dozzine di anfore al mese. Da Monticelli ha origine uno dei grandi misteri irrisolti di queste vicende. Tra i documenti di Becchina ci sono la foto di una grande arula arcaica in terracotta decorata con scene mitologiche rilevata da Monticelli nel 1993 e un appunto di Hecht del 16 ottobre 1995: «Domani sapremo se il Met l’acquista». Non l’ha fatto, ma il reperto è sparito, non risulta tra quelli sequestrati a Becchina. In una polaroid l’arula è appena scavata, ancora con notevoli incrostazioni, manca della parte superiore e di una delle due figure femminili laterali, misura 70 cm per lato, conserva tracce di policromia e riporta la sigla «Raf-132» e la data «13.10.93». Il pezzo risulta in uno degli elenchi (il 132 appunto, ma quanti sono?) dei materiali spediti da Monticelli, in cui se ne precisa anche il valore, 150mila franchi svizzeri, 115mila euro. Altre foto della stessa arula sono nel faldone dedicato a Hecht: prima e dopo il restauro, con appunti, note e disegni che indicano l’interesse per lo straordinario oggetto. Per conferirgli parvenza di legittimità, Hecht lo pubblica in un catalogo della sua Atlantis Antiquities. Scavato in Sud Italia, chissà dov’è ora. Allo stesso modo non si sa dove sia sparita (anche se i Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale ammettono di avere qualche idea) un’antichità davvero eclatante: il terzo esemplare al mondo di Sarcofago degli sposi estratto da Cerveteri, non bello come quello esposto a Villa Giulia a Roma, ma più integro di quello conservato al Louvre. Ecco la storia di questo reperto datato al 530 a.C.: il 10 febbraio 1992 un corriere specializzato di Basilea di cui si serve Becchina, la Haller, consegna un carico spedito da Lugano da parte del trafficante Mario Bruno. È indicato come top secret, pesa 525 chili; contiene l’oggetto ritratto in una polaroid in un magazzino (forse quello Haller) appena sballato. È il coperchio del sarcofago con due sposi sdraiati sul fianco sinistro. La prima volta che vede la foto Antonio Giuliano, grande archeologo, sentenzia: «Falso». Perché? «Non può essere vero». Poi, i bravissimi Carabinieri per la Tutela, e i giudici, mi hanno spiegato che Giuliano sbagliava. Segnalato l’avvenuto scavo clandestino a Cerveteri, inizio anni Novanta, il giorno dopo si fa il «ripasso» del luogo. Archeologi e militi rinvengono i piedini degli sposi mancanti sul coperchio che, periziati, ne dimostrano l’autenticità. Ma sempre nell’archivio Becchina, in uno dei due nutriti faldoni dedicati a Bruno, già socio anche di Medici proprio a Cerveteri, v’è traccia di lunghe attività di scavo in comune e i due sembrano paritari, anche con «secondi fornitori» che setacciano il terreno a caccia dei frammenti mancanti: evidentemente non sempre li recuperano tutti. Da tempo i Carabinieri sono sulle tracce dell’oggetto; Becchina dice d’averlo rispedito a Bruno, intanto defunto, ma nell’archivio non un solo pezzetto di carta suffraga l’ipotesi. È stato restituito all’Italia il Cratere a calice a figure rosse alto 70 cm venduto al Getty da Becchina (con lui è costato il processo al tombarolo che l’ha scavato) per 550mila dollari nel 1988. Si tratta del più grande cratere firmato da Assteas (al centro della fascia a palmette che corre sotto la scena), celebre artista attivo a Paestum nel IV sec. a.C. È stato estratto a Sant’Angelo dei Goti, in provincia di Benevento, dove, a fine Settecento, furono trovati grandi vasi «venduti a William Hamilton e poi confluiti nel British Museum», ricorda Stefano De Caro; in una polaroid si intravede la faccia dello scavatore che, felice, lo mostra appena trovato. Ritrae una delle prime effigi di Europa (foto 3), la giovane donna che Zeus, fattosi toro e tutto bianco, rapisce in riva al mare e porta a Creta, tra due donne-tritone meravigliate. Il pezzo, inedito, viene ceduto a Becchina per un milione di lire e «un porcetto da latte» che incuriosirà gli inquirenti e i legali americani, poco avvezzi al tradizionale pagamento in natura. Nel 1987 lo pubblica il Getty, ma nel 2005 lo deve restituire. La polaroid si trovava (con un’«Artemide marciante», altro splendido recupero) sull’automobile di Pasquale Camera, ex ufficiale della Guardia di Finanza che «dirazza» e lavora con i «predatori dell’arte perduta». Camera muore nell’agosto 1995 su un rettifilo dell’autostrada Napoli-Roma mentre va a Fiumicino dove ha appuntamento con Frida Tchacos che i Carabinieri stanno intercettando («ascoltiamo in diretta perfino le condoglianze», dice uno di loro), e l’indagine comincia. Camera aveva raccontato a un altro predatore, Danilo Zicchi, una storia mai chiarita: «Ai tempi del Mundial di calcio del 1990», dice questi, qualcuno che «lo porta senza problemi in Svizzera approfittando dell’evento», vende «un tesoro di oltre 100 pezzi d’argenteria» da Pompei che può rivaleggiare con gli unici due noti: quello donato da Edmond de Rothschild al Louvre, scavato nel 1895 a Villa Pisanella di Boscoreale e quello conservato al Museo archeologico di Napoli, dissepolto dalla Casa del Menandro a Pompei nel 1930, 118 pezzi, il massimo numero mai rinvenuto. Il misterioso tesoro del 1990 sarebbe stato scavato da un «anziano» insiema a «centinaia di monete d’oro e d’argento, della dinastia Giulio Claudia». Ceduto a un tombarolo legato a Monticelli, Benedetto D’Aniello, che «lo vende a Medici», dice sempre Zicchi. E gli argenti prendono la solita via della Svizzera, «approfittando del viavai per il Mundiàl». In parte finiscono a Londra: a Symes, che per pagarli deve farsi finanziare in banca; e in parte a un inglese d’origine persiana noto come Batman. D’Aniello riceve qualche milione di euro, e Symes sborsa cinque volte tanto, continua Zicchi; Medici si assicura il guadagno maggiore; Camera mostra anche un paio di foto di quel tesoro sparito. Basta con i misteri irrisolti, parliamo dei mille e mille affari, tutti ben documentati, di Becchina. Uno studioso chiede se certi oggetti vengano da Pompei, e Rosie ne protocolla anche il ringraziamento «perché avete girato la mia missiva a chi ha scavato». Nel 1990 Becchina cede per 4 milioni di euro alla Merrin Gallery di New York 32 bronzi nuragici dal IX al VI sec. a.C. (sacerdotesse, guerrieri, navi e animali). Lavora molto con Mario Bruno, poi con il figlio Ettore: oltre 300 reperti in pochi anni. Ha stretti contatti con Elia Borowsky, che ormai non c’è più: dai suoi reperti è nato, a Gerusalemme, davanti a quello dei Rotoli del Mar Morto, il Museo delle Terre bibliche, infarcito di oggetti assai dubbi. Poi litigano e seguono denuncia e  condanna di Becchina. Umberto Guarnaccia, suo prestanome, propone perfino affari al Vaticano, ma Oltretevere allerta i Carabinieri. Becchina i clienti non li attende, se li cerca. Scrive e manda foto all’armatore greco Niarchos, che era in affari con Medici e aveva acquistato, pare per 3 milioni di dollari, una bella hydria ceretana con una pantera e una leonessa, ma questi ringrazia e rifiuta. Offre materiali ai Levy-White, che gli replicano di non essere «interessati alle teste d’oro», ma alla ceramica: nel 1987, comprano cinque pezzi, tra cui un’hydria di mezzo metro del Pittore di Priamo. È in rapporto con tutti i «grandi» del mestiere: cede «diversi frammenti» a von Bothmer con l’expertise di Jiri Frel, il predecessore di Marion True al Getty, che quando è costretto a lasciare va ospite di Becchina a Castelvetrano (trovata una sua carta d’identità), e poi vive a Roma fino alla morte; offre per 250mila euro a Tokyo una copia in marmo di mezzo metro dell’Apoxoumenos. Dal tombarolo romano Paolo Martinelli compra, tutti insieme, «90 piccoli vasi a figure rosse, 25 bronzetti, 3 vasi attici, 5 teste in terracotta, un affresco del I sec.» e altro. Manda sei affreschi all’Acanthus Gallery di New York; la dogana di Chiasso gliene sequestra altri sette, larghi due metri, nel 1978: prova a dire che sono libanesi, ma vengono da Paestum (dove tornano nel 1980) e l’affare sfuma. Al Getty, 19 cessioni nel 1979, 16 nel 1980, 13 nel 1982 (ma una sono «20 teste di terracotta»). Nel 1983, 50 pezzi apuli, da Canosa e Taranto, a Ortiz: vetri romani, lekythos e kylix attiche a figure nere. Nel 1994, passa anche, forse per Ortiz, una non meglio specificata «testa di bronzo» per 1,2 milioni di franchi svizzeri. Ne è trascorso di tempo da quando Becchina faceva l’emigrante in Sardegna, nel bar di uno zio, o quando raggiungeva la Confederazione come inserviente all’Hotel Helvetia, poi divenuto suo. L’archivio è uno dei documenti più illuminanti di questa orribile storia: ci si potrebbe scrivere sopra un intero libro. Contiene l’avventura completa di un mercante dei più famosi; nel 1990, per ottenere contanti necessari alla sua attività, tratta la cessione in pegno di una raccolta di monete antiche del valore di 800 mila dollari. Vent’anni dopo si ritira dagli affari (garantisce) e vive a Castelvetrano; vede sullo sfondo i templi di Selinunte, il suo luogo natale. Che fosse un predestinato?
Fabio Isman, da Il Giornale dell'Arte numero 309, maggio 2011
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fondazioneterradotranto · 5 years ago
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Erano Sallentini o Salentini?
di Nazareno Valente
  Poi alla fine qualcuno di noi scoprirà che i suoi avi erano più precisamente Calabri, e che con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — avevano solo comunanza di stirpe. Comunque sia intriga ugualmente il quesito posto dall’amico Armando Polito nel suo recente interessante intervento, “Salentini o Sallentini?”, su quale di questi due termini debba considerarsi corretto.
Premetto che, per me, la forma da preferirsi è Sallentini.
E cercherò di avvalorare questa mia scelta partendo, visto che si tratta di antichità, da lontano.
La prima volta che le fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata. È infatti riportato che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.
Erodoto — che, mi piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra terra. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi anche la penisola che noi chiamiamo salentina.
Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire la nostra terra ed i nostri antenati. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.
Quando i colonizzatori greci alfine arrivarono, causarono una piccola grande rivoluzione nella società iapigia che incominciò a differenziarsi e, nel corso del tempo, finì per formare al proprio interno gruppi etnici con differenti specificità.
Al riguardo la tradizione maggiormente accolta è quella di matrice greca che prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi i quali ultimi occupavano la Messapia, i cui confini erano appunto all’incirca delimitati a nord dall’istmo che collega Brindisi a Taranto.
Tale percezione divenne sempre più esplicita in età ellenistica fino a trovare una sua compiuta definizione nella tradizione divulgata da Nicandro di Colofone2 il quale narra come Licaone, che ebbe per figli Iapige, Dauno e Peucezio, raccolto un grosso esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni. Effettuata la conquista, divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominati in base al nome di chi li comandava, Dauni, Peucezi e Messapi, e la regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi fu chiamata Messapia.
In definitiva la ripartizione canonica della regione Iapigia, vale a dire grosso modo dell’attuale Puglia, in Daunia, Peucezia e Messapia, accolta anche da storici del calibro di Polibio3 e da geografi tipo Strabone4, e che soggiace di fatto alla visione egocentrica con cui i Greci erano soliti vedere tutto ciò che era di là dai propri confini.
Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.
In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a dirci Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, senza averne cognizione, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.
Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.
Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ»). Successivamente6 ci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).
In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.
In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentinoi è attorno a Capo Iapigio («τὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»7) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentinoi sono limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione è abitato dai Calabroì. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei8.
Senza dilungarci, riassumiamo le conclusioni cui si è pervenuti.
Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, Rudiae, Statio Miltopes (forse San Cataldo), Fratuentum, Portus Tarentinus, Otranto.
Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.
  Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini.
Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra, solo quando essa entrò nell’orbita romana e, a differenza delle fonti letterarie greche – che, come visto, privilegiavano termini di propria ideazione – facevano in maniera quasi esclusiva uso della terminologia indigena.
Di fatto il mondo latino accantonò i termini di matrice greca per divulgare solo quelli d’origine autoctona.
Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.
Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti composto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.
Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera diffusa i vocaboli indigeni.
La nostra terra fu quindi conosciuta nel mondo antico con il nome di Calabria9, che era il coronimo di derivazione locale creato dai nostri antenati, ed i popoli che vi abitavano venivano chiamati Calabri10 e Sallentini, anch’esse voci di origine autoctona.
In effetti occorre ricordare che quest’ultimo termine era privilegiato dagli storici e dai letterati latini che l’usavano in prevalenza anche per definire chi in effetti era più propriamente Calabro11. Sicché i Brindisini venivano, a volte, detti Sallentini, sebbene fossero in realtà Calabri.
In definitiva il termine in origine era di matrice indigena. E, nella traslitterazione in lingua greca, era stato reso con una lambda — corrispondente alla “l” latina — (Σαλεντῖνοi, Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini).
Pertanto, constatato che il vocabolo è autoctono, il quesito può essere posto in questi termini: quale di queste due trascrizioni è più corrispondente alla voce originaria?
Già per il fatto stesso che i Romani, a differenza dei Greci più propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni, fossero in genere rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui venivano a contatto, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina. E quindi con una doppia “l”.
Si aggiungono poi due ulteriori considerazioni che avvalorano ancor più questa ipotesi.
Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone12 e Cicerone13. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta.
Ma quel che più conta è che quando il vocabolo s’impose veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.
Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.
Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine Ελλάδα (Elláda) lo pronunciano Eláda.
Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri avi, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne traslitterato in greco Σαλεντῖνοi (Salentinoi), con una sola lettera lambda.
Mi pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario. E che, quindi, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri avi.
  Note
1 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.
2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.
3 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo A.C.), Le Storie, III 88, 3.
4 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.
5 Ibidem, VI 3, 1.
6 Ibidem, VI 3, 5.
7 Ibidem, VI 3, 1.
8 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.
9 L’aspetto un po’ curioso è che molti cronisti brindisini – al pari dei redattori di Wikipedia – ritengono tuttora che Calabria è denominazione d’invenzione romana.
10 Altro aspetto curioso è che molti cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi. Questo è l’etnico degli abitanti della Calabria attuale; gli abitanti della Calabria di epoca romana erano detti Calabri. Il termine Calabresi, infatti, neppure faceva parte del latino classico.
11 Per una più ampia analisi, si veda: VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, pp. 104 e 105. Consultabile al link https://www.academia.edu/35875669/La_penisola_salentina_nelle_fonti_narrative_antiche
12 CATONE (III secolo a.C. – II secolo a.C.), De Agricultura, VI 1.
13 CICERONE (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Pro Sesto Roscio Amerino, 132.
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levysoft · 5 years ago
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Il balcone è un oggetto architettonico che si trova sulla facciata di un edificio: può sporgere o meno, può essere munito di ringhiere in ferro o in parapetti in muratura, essere lungo fino a comprendere una o più finestre, oppure essere piccolo e con un affaccio solo. La storia del balcone risale all’epoca dei fasti dell’antico Oriente. Furono infatti i Persiani e gli Egizi ad utilizzarlo a scopo cerimoniale, come luogo dal quale i regnanti o i sacerdoti potevano essere visti facilmente. Questo è stato l’utilizzo certamente più comune e abusato, fino ai giorni nostri. Nel tempo i balconi, però, assunsero nuove funzioni e dalle funzioni derivarono anche nuovi usi.
La prima funzione che decreta tutt’ora una netta differenza tra un tipo di balcone “aperto” e un altro tipo “chiuso” è di tipo climatico: nei paesi mediterranei e temperati i balconi assolvono una funzione di aerazione degli interni e quindi sono “aperti”; viceversa nei paesi troppo freddi o troppo caldi i balconi di solito sono coperti – con vetrate, pannelli a foratura molto fitta, ecc… – in modo tale che impediscano al caldo o al freddo di entrare, ma allo stesso tempo permettano a chi è all’interno di poter godere della vista sull’esterno.
In quest’ultimo caso, non si tratta più di un “affaccio” ma di una “vista” su ciò che è al di fuori e questa differenza non è secondaria. Il verbo affacciare, infatti, ha un significato particolarmente ricco: il più immediato è quello di esporre ad una finestra qualcuno o qualcosa; a seguire, in senso figurato, vuol dire presentare e/o avanzare un’idea, un dubbio; più desueto è il significato di mettere (mettersi) faccia a faccia, affrontare qualcuno o qualcosa, trovarsi di fronte a qualcuno o qualcosa.
Benché desueto nell’uso, quest’ultimo è quello che meglio delinea la natura del balcone: esso è un affaccio sull’esterno che consente di entrare in contatto con ciò che c’è fuori rimanendo però in casa propria; inoltre, a proposito del “trovarsi di fronte a”, non a caso, soprattutto in città se si ha un balcone si ha anche un “dirimpettaio”, ossia il vicino che sta dal lato opposto al nostro.
La posizione liminale del balcone lo rende un luogo particolarmente sensibile per la socialità, sia perché attraverso di esso si è a contatto con l’esterno (e viceversa), sia perché è particolarmente adatto ad un uso politico, come noi italiani dovremmo ben sapere. La sindrome da balcone che si pretende sia una sorta di ammirazione da parte degli italiani di un oratore che si affacci, appunto, da un balcone, ce la siamo cucita addosso come retaggio di un periodo nero della nostra storia, ma siamo sicuri che ci rappresenti appieno?
I balconi, da che nacquero come palcoscenico per le cerimonie dei potenti, ebbero una grande diffusione anche nelle case private, come attestato nell’antica Grecia; anche Etruschi e Romani adottarono questo oggetto architettonico, ma questi ultimi ne sfruttarono la funzione anche in ambito pubblico: risale infatti al 318 a.C. l’uso di un loggiato ligneo che affacciasse sul Foro affinché l’uditorio potesse assistere agli spettacoli (Festo, 134b, 22). Lo stesso meccanismo venne adottato e rielaborato secoli dopo nella costruzione dei teatri – con il cosiddetto loggiato e i palchetti costruiti come tanti piccoli balconcini – e delle sale per i congressi ai giorni nostri, dove non è raro trovare balconate su uno o due ordini. Questo uso pubblico del balcone è generalmente identico ovunque: è necessariamente gerarchico, se lo spettatore guarda dal basso verso l’alto e a tal proposito ricordiamo che costruire balconi belli e monumentali durante il Rinascimento e il Barocco indicava uno status sociale elevato, tanto che a Firenze il Ponte alla Rovescia fece parlare si sé oltre che per la forma anche per la strana storia di “disobbedienza” ad esso legata.
Infatti, nel 1533 il duca Alessandro De’ Medici aveva disposto un nuovo regolamento per la sistemazione dell’urbanistica fiorentina che prevedeva il divieto di costruire balconi e mensole che si affacciassero sulla pubblica via per evitare che si accalcassero gli uni sugl’altri. Un tal Baldovinetti, però, voleva a tutti i costi costruirsi un balcone e, dopo aver ripetutamente chiesto che gli fosse accordato il permesso, il duca sembrò che gli volesse dare l’assenso a patto che… lo costruisse al contrario! Il Baldovinetti non si scoraggiò e lo costruì proprio sottosopra, come ancora oggi lo vediamo per le strade del quartiere Ognissanti. Così è raccontata la bizzarra storia, ma sembra che il possesso del palazzo non fosse dei Baldovinetti all’epoca di Alessandro De’Medici, ma dei Vespucci.
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Un balcone “alla rovescia”
Tornando, però, alle funzioni, l’uso di questi amati e odiati balconi diventa dialettico nel caso del teatro dove il pubblico legittima o meno chi è al centro della scena (non a caso lo spazio del teatro è stato anche politico nell’Ottocento); è didattico, nel caso più recente delle sale per congressi, lezioni o seminari.
Ma la dimensione puramente pubblica del balcone si stempera nel caso dei balconi privati, sui quali ognuno può fare ciò che vuole – nei limiti del consentito e della decenza – e che pone noi paesi Mediterranei in una sfera culturale diversa, grazie all’uso dei balconi “aperti”.
La vita di un paese o di una città, fino a poco tempo fa, era scandita dalle chiacchiere da balcone, ossia dai discorsi, dalle litigate, dai convenevoli che il vicinato si scambiava affacciandosi sulla strada per mezzo del balcone. Non è un’usanza che sia stata del tutto abbandonata e non solo perché nel nostro immaginario alcune città sono pervase da questo chiacchiericcio, ma perché questo scambio di socialità esiste ed è radicato se i The Jackal ancora possono costruirci sopra uno sketch di satira (cercate su YouTube le Vrenzole se volete farvi quattro risate).
La puntata dei The Jackals sui balconi
Sul balcone si stendono i panni (una cosa molto privata), ma allo stesso tempo ci si può esporre una bandiera che esprima la nazionalità degli abitanti di quel determinato appartamento o la squadra per la quale tifano: è l’espressione pubblica di un’appartenenza ad una comunità. I quadri o le stampe risorgimentali spesso mostrano i balconi addobbati con il tricolore, come non è raro oggi che quest’ultimo si esponga in occasione delle Olimpiadi.
Durante una festa di paese era usanza andare da un conoscente o un familiare che avesse un balcone ben esposto sulla strada per vedere meglio la processione e la cerimonia; viceversa, si invitavano conoscenti, familiari e amici per l’occasione. Quindi il balcone privato diventava, nuovamente, un’occasione di socialità e, in altri tempi, di appartenenza ad una famiglia o ad un’altra. Ancora oggi questa dimensione del balcone “sociale” sussiste nei paesini. Dal balcone una signora “ordina” la spesa (affare privato, addirittura femminile) al fruttivendolo, al panettiere, al commerciante al piano terra e questi per mezzo di una carrucola gliela fa salire, scambiandosi nel frattempo notizie fresche di giornata.
Su uno dei balconi più famosi d’Italia, a Verona, Romeo e Giulietta si scambiarono la loro promessa d’amore: poco importa che essa non sia avvenuta veramente, se non nella mente di Shakespeare, ma il sentimento profondamente privato che accomunava i due giovani assunse una valenza universale. Si ipotizza, inoltre, che di balcone non si parlasse nella stesura originale del dramma: infatti, la storica Lois Leveen nel saggio Romeo and Juliet has no Balcony, pubblicato su The Atlantic, sostiene che in Inghilterra il balcone non fosse affatto conosciuto – infatti non è un clima particolarmente mite quello britannico –  e che la parola balcony non fu in uso almeno fino al 1618, due anni dopo la morte del drammaturgo. Fu quindi un atto deliberato quello di introdurre il famoso balcone: un luogo nel quale Giulietta si rifugia per sfuggire all’opprimente casa paterna, il luogo in cui cova l’amore proibito, un luogo quasi trasgressivo che però la divide ancora da Romeo.
Fu talmente forte il messaggio proposto dalla storia d’amore di questi due giovani che il restauratore Antonio Venna, tra il 1932 e il 1935, decise di costruire il balcone di Giulietta nella forma che conosciamo noi oggi: infatti, prima di questo intervento, il balcone della casa che si pretendeva fosse di Giulietta si presentava lungo, a nastro e con una comune ringhiera nera.
La casa di Giulietta a Verona: come appariva alla fine dell’Ottocento
L’uso del balcone privato ha così tante sfumature quotidiane che nemmeno ce ne rendiamo conto, e solo ultimamente, con l’affaire degli striscioni anti-Salvini, si è tornato a parlare di balconi e di quanto sia inopportuno da parte delle forze dell’ordine rimuoverli. Ma la socialità dei balconi non potrà essere cancellata dalla Digos perché è una forma di cultura troppo radicata e non perché su un balcone di Piazza Venezia per una ventina d’anni si affacciò un dittatore. Anzi, l’intervento delle forze dell’ordine ha fatto sì che chi volesse comunque esprimere il suo dissenso, si ingegnasse e trovasse metodi alternativi di scrittura che, in alcuni casi, hanno mutuato dalla tradizione (come la Smorfia a Napoli o 751A a Palermo).
Cercando la definizione di balcone, in nessuna delle enciclopedie italiane mi è capitato di rilevare un accento particolare nell’uso dei balconi come luogo di socialità e mi è sembrato ancora più strano dal momento che il termine che si utilizza per descrivere l’atto di uscire sul balcone – affacciarsi – rimandi anche ad un significato che esprime un confronto fra due o più persone, l’esternazione di un parere, l’incontro tra persone diverse. Sebbene questi significati siano segnati come desueti sul vocabolario, sono quelli che definiscono la funzione dialettica che il balcone instaura tra un dentro e un fuori; tra una dimensione privata ed una pubblica; tra il pensare (attività interna al sè) e il discutere (apertura verso l’esterno). Questa mi sembra la dimensione più interessante, anche perché – ironia della sorte – sono spesso i balconi “privati” i principali avversari dei balconi “pubblici”.
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