#rito pagano benaugurante
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BRUSA LA GIOEBIA, ADDIO INVERNO
Ultimo giovedì di gennaio arriva la Giobia, con i suoi falò propiziatori e la tradizione del risotto con la luganiga. Gibiana, Giubbiana, Giubiera, Gioeubia, Gioebia, Giobbia, Giobbiana, Zobia, Zobiana, Ul Ginèe fino anche a Zenerù, tutte le declinazioni di quest’antichissima tradizione popolare che viene celebrata a fine gennaio, in diverse zone dell’Insubria e non solo.
Una memoria del passato che stava andando lentamente e inesorabilmente scomparendo, sotto i colpi di “modernizzazione” e “globalizzazione” e che invece, negli ultimi quindici anni ha avuto un forte impulso vitale. Una riscoperta delle “radici” che in molti luoghi ha portato a un vero e proprio “rinascimento”, di feste e usanze che appartengono al nostro passato, anche a quello più ancestrale. In molti luoghi oltre alla celebrazione della festa in piazza, negli anni si è affiancata nelle scuole dell’obbligo un’adeguata “preparazione” didattica con temi, disegni e ricerche per tenere ulteriormente viva la fiamma della memoria.
Una tradizione quella dei fuochi propiziatori molto sentita da sempre, con le sue diverse celebrazioni, che partono dal Solstizio d’inverno (21/22 dicembre), giorno più corto dell’anno e si protraggono fino ai primi giorni di febbraio. Passando per l’Epifania, i falò di Sant’Antonio e per quelli della Gioebia (Giubiana o Zobia che dir si voglia), fino a quella che era la festività di celtica di Imbolc (ora Candelora) d’inizio febbraio che segnava il passaggio tra l’inverno e la primavera ovvero tra il momento di massimo buio e freddo e quello di risveglio della luce.
Si celebra in pratica il ritmo naturale della Terra, il periodo in cui per le popolazioni più antiche, il sole al solstizio d’inverno scompariva nell’oscurità per poi tornare in vita più luminoso di prima. Dalla giornata più corta, a quelle d’inizio febbraio, in cui in circa un mese, si guadagna circa un’ora di luce e la natura è pronta a riprendere vita. Un vecchio proverbio nostrano lo dice chiaro: “Ul genar al fa i ponti e ul febrar i u rompi”.
Nelle cascine c’era una vera gara a chi faceva durare di più il fuoco, la Giobia che durava più a lungo dava prestigio a chi l’aveva costruita. Finito il rogo, sulle braci appena raffreddate si facevano passare gli animali, una sorta di benedizione pagana, poi le ceneri andavano sparse sui campi per fecondarli in vista della ripresa primaverile.
Tradizione molto sentita in tutta la Lombardia nordoccidentale, dove è l’occasione conviviale pubblica per eccellenza che viene celebrata con le specialità culinarie tipiche. In particolare in tutta la Brianza dove è la “Giubiana”, nel Seprio come “Gioebia”, in alcune zone della Bergamasca, ma si espande fino ad arrivare alle zone nord orientali del Piemonte (la Giobia Grass a Santhià), nel piacentino a Fiorenzuola d’Arda con la “Zobia”. Manifestazioni simili però coinvolgono tutto il territorio dell’Insubria, l’ultima settimana di gennaio con nomi diversi. Si va da Locarno, Ascona e alla Val Leventina con “Bandir gennaio”, all’Oltrepo’ con i fuochi della Merla, dalla Valtellina e Valchiavenna, in particolare si alternano diversi riti da “Tirà li tòli” a “L’è fö l’urs de la tana”, cioè è uscito l’orso dalla tana dopo il lungo inverno. “Fora l’ours” è anche il nome delle stesse celebrazioni nei medesimi giorni nell’arco alpino del Piemonte.
Tratto particolare da segnalare è che l’usanza della Gioebia, nell’alto-milanese, parte dal Ticino in quel di Turbigo, continua sulla linea Bienate-Magnago, Castellanza e Rescaldina, nulla invece nella confinante Legnano e nel suo territorio, solo una traccia a Inveruno. Tracciando una vera e propria linea invisibile a marcare ancora una volta la differenza tra un territorio simile, vicino, conurbato e osmotico, ma profondamente diverso non solo nel dialetto.
LE RADICI CELTICHE
Per comprendere lo spirito vero di questa festa, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, quando la vita in Insubria era di stampo decisamente più rurale, caratterizzata prevalentemente dall’agricoltura e dall’allevamento, integrata poi anche dalla produzione della seta.
L’inverno, in questo tipo di società, era decisamente lungo e spesso inoperoso, un vero letargo, non solo produttivo. La fine della stagione fredda, era attesa con ansia e preoccupazione, in vista dei raccolti dell’anno che stava per iniziare. Nel mondo celtico, che tanta influenza ebbe sulle feste e sui rituali anche in Insubria, quest’attesa culminava nell’accensione di fuochi rituali, che avevano la funzione da un lato di combattere e distruggere le tenebre e le influenze negative, e dall’altro di propiziare la fecondità dei campi e del bestiame e di salutare l’arrivo della bella stagione. Un rito importante era costituito dai falò propiziatori di Imbolc che si tenevano all’inizio febbraio, che appunto celebravano la fine dell’inverno e il ritorno della vita nella terra. Venivano bruciati dei fantocci in paglia o effigi che rappresentavano il maligno e gli spiriti negativi, allo scopo di esorcizzarli.
Effigi antropomorfe e falò, spesso di dimensioni notevoli, che ricordano anche i “Wicker Man” dei sacrifici druidici citati anche da Giulio Cesare (De Bello Gallico, VI, 16) o nei rituali sacrificali umani che i Galli facevano in varie occasioni festive come nella festa Beltaine (o Beltane) il primo giorno di maggio. Riportati anche da Marco Anneo Lucano: “Viene bruciato un certo numero di uomini in una gabbia di legno”. Strabone afferma che i Galli “…fabbricavano un colosso con del legno e del fieno, vi chiudevano degli animali selvaggi e domestici come pure degli uomini (nemici), e bruciavano il tutto”.
Il rituale vede manifestazioni simili che si ripetono dai tempi dei Celti nello stesso periodo in Spagna, in Francia, in Lombardia, in Veneto e nelle Alpi. In questi sin fanno risalire i roghi dei “Brusa la vecia, pan e vin” che si tengono un po’ in tutto il Veneto.
Di millenaria memoria sono i falò giganteschi del 5 gennaio che si tengono a Colloro di Premosello in Val d’Ossola. Si fanno risalire a questa epoca celtica anche quelli delle Alpi Orientali, un tempo abitati dalle tribù celtiche dei Reti, e in particolare in Friuli a Paularo (Udine), si brucia la “Femenate”, secolare e antica tradizione molto sentita in tutta la Carnia, il cui nome, indica donnaccia o strega. Spettacolare rito pagano si ripete da secoli sempre e solo il 5 gennaio nel comune carnico, conservando integre le sue finalità religiose e propiziatorie. L’intelaiatura portante dell’altissima struttura è costituita da un supporto a forma di rombo o croce celtica, realizzato con lunghe e robuste stanghe d’abete stagionato. Sempre risalente ai Reti in Engadina e, a Vinschgau in Tirolo, si tiene la Scheibenschlagen la sera della prima domenica di Quaresima. Dopo il lancio di dischetti incandescenti di legno di betulla, viene appiccato il fuoco a una struttura antropomorfa chiamata Hexe, ovvero strega.
Roghi in cui le fiamme dovevano e devono essere più alte e visibili possibile, poiché l’effetto benaugurante sarà corrispondente all’estensione del riverbero, oltre che alla direzione delle fiamme e del fumo, elementi da cui ancor oggi, si usa trarre auspici per l’anno iniziato. Se le ardevano completamente, restando in verticale durante la combustione e poi cadevano in avanti, l’anno e il raccolto si preannunciavano buoni; se invece la distruzione dei fantocci non era completa, oppure se essi cadevano prima di finire di ardere, era prevista un’annata difficile.
L’ORIGINE DEL NOME
Con questo stesso spirito veniva celebrata anche la festa della Gioebia, che proprio per le sue caratteristiche rimanda alle sue lontanissime origini celtiche. Con le invasioni romane, questi riti non erano visti molto bene, in quanto rimarcavano le identità locali. Fu però con l’avvento del Cristianesimo che molti riti pagani come questo, vennero rivestiti di significati religiosi cristiani, oppure vennero cancellati, repressi o stravolti. Con l’avvento del monopolio culturale e religioso del Cristianesimo, la Chiesa trasformò la Giubiana dalla figura benefica e propiziatoria, simbolo di fecondità, che era in origine, in strega, simbolo di tutti i mali: distruggendola col fuoco, il contadino si sarebbe messo al riparo da eventuali rischi e la collettività sarebbe stata protetta dagli influssi negativi e avrebbe goduto di salute e prosperità per tutto l’anno. La Chiesa in effetti contribuì molto allo snaturamento di molte altre feste tradizionali antichissime e di origine pagana. Uno degli esempi è la festa celtica di Imboloc è diventata quella cristiana della Candelora letteralmente festa delle candele con relativa benedizione e conseguentemente della luce, che si è sostituita nel carattere rurale e ne ha certamente preso anche il folclore. Tra cui anche il famoso proverbio “A’ la Candelora da l’Invern sem fora”.
Il Cristianesimo, trasformò le pratiche propiziatorie in riti demoniaci, e i personaggi celebrati in maghi e streghe, snaturando il loro aspetto iniziale. Questo sembra essere il caso della Gioebia.
Il nome “Gioebia o Giubbiana” ha origine incerta. Alcuni sostengono che derivi dal culto alla divinità di Giunone (da cui deriverebbe appunto il nome Joviana, e quindi Giubiana). Altri ancora lo ricollegano a Giove (il nome deriverebbe dal dio latino “Jupiter-Jovis”, da cui l’aggettivo Giovia e quindi Giobia). Una trasposizione del latino. A favore di quest’ultima ipotesi vi sono diverse prove, ad esempio Bruno Migliorini, nel suo volume “Dal nome proprio al nome comune” (Genova, 1927), mostra come il suffisso –ana indichi la sopravvivenza di Diana presso le varie nazioni di lingua neolatina nel significato di strega o fata, mentre secondo Cherubini, autore di un vocabolario milanese-italiano pubblicato tra il 1839 e il 1843, “Giubiana” significa “fantasma”, così come riporta anche il “Vocabolario etimologico italiano” del linguista Prati, pubblicato nel 1951. Riportato da Gian Luigi Beccaria, che nel suo libro “I nomi del mondo” del 2000, chiarisce che “il nome italiano è Gibigiana, voce di origine lombarda (giubiana = fantasma, significa anche riverbero), dove gianna, strega, viene probabilmente dal nome della dea Diana che in tanti dialetti sopravvive col senso di fata o strega”.
Il termine insubrico è inoltre accostabile al trentino “zobiana”, strega, al bresciano “zobiana”, sgualdrina, e deriverebbe dal milanese “gioebia”, giovedì, ovvero il giorno creduto delle streghe. Infatti, la sera dell’ultimo giovedì di gennaio le famiglie insubri si radunavano davanti ad un grosso falò per bruciare un fantoccio fatto di paglia e stracci vecchi chiamato, a seconda delle zone, “Gibiana”, “Gioebia”, “Giubiana”. Durante la giornata le ragazze giravano per il paese indossando una gobba finta (interessante anche qui il raffronto tra il nome della Gibiana e il latino “gibba”, gobba) e una latta da percuotere con un bastone; i ragazzi trascinavano per le strade delle latte vuote urlando a squarciagola alcune filastrocche in dialetto per allontanare il malocchio.
MOGLIE E MARITO…
In alcune zone della Brianza, accanto alla Giubiana era presente anche un personaggio maschile, il “Gianèe” (personificazione di Gennaio – Giano).
L’ultimo giovedì di gennaio, secondo la tradizione, la Giubiana e il Gianèe facevano visita alle cascine danzando e cantando filastrocche, percuotendo il terreno con bastoni o pertiche ricavate da grossi rami tagliati. Una volta entrati nella stalla, erano soliti sfiorare con il bastone il soffitto, sul quale erano posti i bozzoli dei bachi da seta. Si trattava di un gesto rituale, quasi una benedizione per incentivare la produzione della seta, così importante per il sostentamento delle famiglie, ancora fino a pochi decenni fa. Durante la loro visita alla cascina, la Giubiana e il Gianèe ricevevano come ricompensa una cucchiaiata di risotto, che veniva versato solitamente nel cappello del Gianèe. Il piatto veniva di solito preparato dalla donna più anziana e più autorevole della casa. Dopo l’assaggio della pietanza, i due partivano alla volta di un’altra cascina, poi di un’altra, poi di un’altra ancora, fino a terminare il giro.
Altra tradizione propiziatori legata alla “Giubiana e al Gianèe” e al loro “matrimonio”, riguardava la fertilità e l’unione delle coppie. Le ceneri del falò venivano usate dai ragazzi per creare le cosiddette “strüse”, delle scie che univano le porte di casa dei sospettati di unioni segrete o di chi non aveva il coraggio di dichiararsi alla persona amata, quando ancora i fidanzamenti avvenivano nelle stesse cascine o comunque nelle vicinanze. La festa della Giubiana diventava così il termine limite per la ricerca di un marito entro l’anno: con l’inizio della primavera, infatti, molti giovani della comunità partivano per i lavori stagionali magari anche all’estero, per fare ritorno solo in autunno inoltrato.
Ancora oggi è molto sentita anche dai più giovani è l’usanza di bruciare biglietti su cui scrivere nomi, parole dai significati negativi che si vogliono distruggere (di nuovo una forma d’incanalamento magico) o al contrario, desideri che vengano realizzati durante la bella stagione. Frequente è il riferimento agli auspici amorosi e matrimoniali.
LA LEGGENDA
La Gioebia, nell’immaginario tramandato è una strega, molto alta, magra e ossuta, dal naso ricurvo con lunghe e grandi calze rosse che viveva nei boschi. Grazie alle sue lunghe gambe, non mette mai piede a terra, ma si sposta in alto, passando di albero in albero camminando sui rami. Così, dall’alto, senza essere vista, osserva tutti quelli che entrano nel bosco con lo scopo di spaventarli o farli prigionieri.
Al suo passaggio, tutt’intorno muore, venendo ricoperto da un improvviso vento freddo, pungente e gelido. Tutto poi diventava ghiaccio. I fiori appassiscono, i prati vengono coperti completamente dalla brina, i primi germogli spariscono congelati. Nelle sue ampie calze rosse, la Gioebia camminava su per i boschi, cercando anche quello di cui era più golosa: i bambini. Di certo non avrebbe rinunciato a un buon piatto caldo come un “risotto con la luganega” oppure a un piatto di polenta abbrustolita, ma non era capace di cucinare.
La leggenda narra che la Gioebia terrorizzasse un villaggio e di notte entrava nelle case e prendeva i bambini per nutrirsene e distruggere così anche la felicità delle famiglie. Le donne la conoscevano bene e sapevano che diventava ancora più cattiva nelle ultime sere di gennaio, quando il freddo dell’inverno si preparava a lasciar spazio alla primavera e la Gioebia, quindi, avrebbe dovuto abbandonare i boschi. E così fu anche alla fine di un mese di gennaio, quando la Gioebia, mentre correva per i boschi, trovò una bambina che era andata a fare legna. La strega la prese e le disse: “Stasera verrò a casa tua e, se non ci sarà nulla per me, ti prenderò e ti porterò nel bosco con me”. La bambina corse verso casa e raccontò tutto alla mamma che, da quella sera, lasciò sempre un po’ di polenta sul tavolo della cucina. Una notte, però, si dimenticò di lasciare il piatto per la Gioebia che si vendicò subito. Prese la bambina e scappò nei boschi, arrabbiata per l’affronto.
Alla mattina seguente, quando la donna si accorse che era sparita la figlia, chiamò subito a raccolta tutte le altre mamme del villaggio che iniziarono a pensare a un modo per salvare la bambina.
La donna le tese quindi una trappola. Preparò una gran pentola piena di risotto giallo con la luganega, tanto quanto da sfamare un intero villaggio e lo mise sul davanzale della finestra. Il profumo era invitante, la fame tanta. La Gioebia sentì il buon odore, corse così verso la pentola, trovando però solo un piccolo cucchiaio e cominciò a mangiare.
Il risotto era tanto, ma era così buono che la strega non si accorse che stava per arrivare il sole, il quale, una volta sorto, le fu letale. Un raggio di sole la colpì alle spalle e, quasi istantaneamente, le fiamme la avvolsero completamente riducendola in un mucchio di cenere. Così anche il freddo e il gelo che l’accompagnavano sempre, lasciarono spazio al sole, al caldo e alla luce con la natura che rinacque. Dal bosco, intanto, si vide la bambina rapita dalla strega, correre sana e salva verso la mamma. La Gioebia cessò così di terrorizzare la gente.
LE TRADIZIONI
Il “Risotu cunt’ a lüganiga” è ovunque riconosciuto il piatto tradizionale della Gioebia.
Il riso col suo forte valore beneaugurante, la “luganega” di maiale simbolo di opulenza.
Però questa è un’introduzione del Medio Evo, perchè il riso nelle terre di Insubria, viene coltivato a partire solo da quel periodo. Inizialmente ai tempi dei Celti, il piatto tipico tradizionale per questo evento importante era la carne di maiale o cinghiale, con minestre o zuppe a base di farro, miglio o segale, senza dimenticare le lenticchie.
Alcuni dettagli distinguono le diverse formule celebrative della Gioebia, ancora fortunatamente vive nei territori insubrici. Come detto il risotto con la luganega è presente ovunque, ma non manca nemmeno la polenta. In Brianza si celebra anche un sentito processo in dialetto con cortei in maschera e trovano spazio nel menù, anche le castagne.
Nel varesotto la Gioebia è nota anche come la “Pusc��na (Purscèna) di donn” letteralmente dopocena delle donne (dal lat. post cenam), era un ritrovo serale al femminile, in cui le donne si radunavano, senza gli uomini. La cena spesso era fatta dai prodotti tipici nostrani. Fagioli, un’insalata di verze con l’aggiunta di pesce conservato sotto sale (saracch), carne di maiale, polenta abbrustolita e talvolta la büsecca; per dolce erano previste delle frittelle chiamate “marenditt”.
A loro volta gli uomini usavano regalare per quest’occasione alle loro spose un dolce a forma di cuore: “Cör da bunbun”, per ringraziarle dell’impegno nell’accudire la famiglia. Questo dolce doveva essere regalato alle proprie donne, pena un’estate invasa dai moscerini, pessima prospettiva per chi lavora nei campi: “Ai donn ca mangian mia di bunbùn par la Giöbia, d’estaa ga tacan tütt i muschìtt”.
Una tradizione particolarmente viva a Varese e dintorni, con il dolce che viene ancora preparato nelle pasticcerie. Persa un po’ negli ultimi anni, in favore delle più commerciali “San Valentino” e “8 Marzo-Festa della Donna”.
Questa cena prendeva anche il nome di “Festa degli addii” proprio perchè cadeva dopo la sosta di pieno inverno e segnava la partenza degli uomini che tornavano ai campi anche lontani, oppure in epoche più recenti verso cantieri e alle fabbriche all’estero per ritornare dopo mesi e mesi. Al penultimo giovedì di gennaio si celebrava anche la “Puscéna di omm”, ormai caduta in disuso.
Molto simile a questa tradizione varesina declinata al femminile è la “Pula di Fumni” legata alla “Giobia Grass” del Carnevale di Santhià. In cui le donne vivevano una giornata di festa e da protagoniste, nel giorno di Sant’Agata il 5 febbraio.
A Busto Arsizio e Gallarate “La Gioeubia” è da sempre molto sentita, anche nel rito del “Ul di scenin”ovvero una cena conviviale in segno di buon augurio per la bella stagione prossima a venire. Piatto obbligatorio il tipico e classico “.
“risotu cunt’ a lüganiga”. Non sono ammesse deroghe. Negli anni scorsi il comune di Busto Arsizio fece distribuire gratuitamente in piazza il piatto tipico bustocco “Polenta e bruscitt” e ne nacque una mezza rivolta degli storici e dei puristi, così da due anni si è tornati al “Risotto e luganega”. Puristi che da anni disquisiscono anche sul nome esatto della tradizione. Giöbia con la dieresi sulla “o” oppure “Gioeubia”. Gioeubia bustocca che viene accesa in diversi orari serali e in tutti i quartieri da Beata Giuliana al Redentore, Sant’Edoardo, Sant’Anna e nelle frazioni di Borsano e Sacconago. Nella centrale piazza San Giovanni, nei primi anni 2000 con il falò della “Gioeubia” iniziò la distribuzione gratuita di “Polenta e bruscitt” con poche decine di persone, negli anni diventate poi centinaia. Nel 2010 furono 800 le porzioni servite. L’anno scorso, con il ritorno al piatto della tradizione, furono oltre 2000 quelle di “Risotu cunt’ a lüganiga” per 120 chili di riso accompagnati da 85 di salsiccia. Quest’anno chi vorrà gustare in piazza un fumante piatto di risotto con la luganiga, accompagnato da un bicchiere di vino rosso e dalle chiacchiere, dovrà sborsare almeno due euro. A Gallarate, la Gioeubia, viene bruciata ogni anno in un rione diverso a rotazione, la Pro Loco cucina il risotto in una pentola da guinnes dei primati.
Nella vicina Castellanza, falò nei vari rioni, la festa vede tranquillamente convivere il risotto con luganega con la polenta e bruscitt, oltre alla distribuzione del “pane di San Giulio”. Fagnano Olona, viene celebrata lungo le rive del fiume, mentre in centro sarà il tradizionale “uccello di fuoco” che, dalla torre di osservazione, scorrendo su un cavo d’acciaio andrà ad accendere il “Falò della Gioeubia”,
A Inveruno, dopo la ‘sfilata della Giobia” e il suo rogo, segue ‘Scinin da Giobia’, ovvero la cena a base di salame cotto e fagioli con l’occhio. In quel di Arsago Seprio prima del falò della Giobia, si svolge una grande fiaccolata nel bosco fino alla Palude Pollini. Al ritorno dopo il rogo, si mangia la busecca (trippa). Ad Albavilla, il rogo è preceduto da un corteo di carri allegorici, da cui viene distribuito il “Pane della Giubiana, che altro non è che il dolce locale, “Cutiscia”.
Molto sentita a Cantù, con migliaia di persone che si riversano nel centro città. A essere simbolicamente bruciato è un fantoccio raffigurante una giovane, una castellana che, secondo la leggenda, tradì la città nel passato. L’ultimo giovedì di gennaio di oltre settecento anni fa, bussò a uno degli ingressi del borgo di Canturio facendosi consegnare con l’inganno le chiavi della città, così da poter aprire i pesanti battenti della porta ai Visconti che conquistarono il paese. Un evento che la città ricorda ogni anno. Prima del falò si organizza un corteo con costumi storici: su un carro trascinato a mano viene caricata la Giubiana. Durante il corteo, viene letta una lettera della condanna.
Anche a Giussano la Giubiana, ha il suo corteo, solo che non è solo una, ma è penta. Sono infatti cinque Giubiane, una per ogni frazione del paese, portate nel corteo mascherato, alle quali verrà dato poi fuoco al termine della manifestazione.
A Canzo si tiene l’ultimo giovedì di gennaio, la celebrazione è molto curata e partecipata. E’ una rappresentazione che vede coinvolti un vasto numero di figuranti mascherati, snodandosi per le vie del centro, in cui la Giubiana, legata a un carro, viene portata prima in processione al ritmo dei tamburi fino alla piazza del mercato, dove avviene il processo che è tenuto rigorosamente in dialetto. Celebrato da parte dei “Regiuu”, ovvero gli anziani autorevoli del paese, e altri personaggi simbolici. Una volta giudicata, sempre ovviamente colpevole, vengono date le fiamme al fantoccio. Anche a Barzago, viene celebrata con un corteo e processo in piazza in dialetto, con a seguire il falò.
A Olginate, Varenna come a Mandello Lario, sono da sempre i bambini i protagonisti, con un corteo per le vie del centro, in cui battono tamburi, latte e tutto quello che server a fare un gran rumore, per scacciare via il freddo, prima di dare via al falò sulle spiagge.
Molto sentita ad Ardesio (Bergamo), in alta Val Seriana, dove il rito si chiama “Scasada del Zenerù”. Il 31 Gennaio, sin dai tempi antichi migliaia di partecipanti si uniscono per “scacciare” l’inverno, facendo un gran baccano con campanacci, latte e tutto ciò con cui si può far rumore, in un corteo per le vie del paese che segue il fantoccio. Dopo averlo processato sulla pubblica piazza, lo si brucia. Lo stesso giorno a Olda in Valtaleggio (Bg), si ritrova la comunità della valle per “l’è fò génèr”.
Sempre la sera 31 gennaio un po’ ovunque Valtellina e nel Canton Ticino, si tengono manifestazioni simili, con lo stesso rito propiziatorio, ma con nomi diversi. Stessa cosa e stesso giorno anche nella parte fluviale d’Oltrepò, dove si accendono falò. Ad Arena Po, fino a qualche decennio fa, c’erano dei luoghi “fissi” per i roghi. La frazione in cui il rito è ancora partecipato e collettivo è Montacuto, dove gli abitanti si ritrovano davanti ai fuochi.
DOVE SI FESTEGGIA
Albate (fraz. di Como) – Festa della Giubiana, ultimo sabato di gennaio
Albavilla (CO) – Festa della Giubiana, 27 gennaio 2018
Albizzate (VA) – Festa della Giobia, 25 gennaio 2018
Anzano del Parco (CO) – Festa della Giubiana, 26 gennaio 2018
Alzate Brianza (CO) – Festa della Giubiana, 20 gennaio 2018
Arosio (CO) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Arsago Seprio (VA) – Gran falò della Giöbia, 28 gennaio 2018.
Ardesio (BG) – Scasada del Zenerù, 31 gennaio
Azzio (VA) – La Gioebia, ultimo sabato di gennaio
Barzago (LC) – La Gibiana, 25 gennaio 2018
Barni (CO) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Besana Brianza (MI) – Festa della Gibiana, 25 gennaio 2018
Bregnano (CO) – Festa della Giubiana, 27 gennaio 2018
Brenna (CO) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Briosco (MI) – Falò della Giubiana, 25 gennaio 2018
Bulciago (LC) – Festa della Giubiana, ultimo sabato di gennaio
Busto Arsizio (VA) – Festa della Gioeübia, in tutti i rioni, anche nelle frazioni di Sacconago e Borsano, 25 gennaio 2018.
Cabiate (CO) – Giubiana, 25 gennaio 2018
Cadorago (CO) – Rogo della Giubiana, 25 gennaio 2018
Cairate (VA) – Falò della Giobia, 25 gennaio 2018
Cantù (CO) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Canzo (CO) – Giubiana, con corteo allegorico e processo in dialetto, 26 gennaio 2018
Cardano al Campo (VA) – Falò della Zobia, 25 gennaio 2018
Carimate (CO) – Rogo della Giubiana, 25 gennaio 2018
Carnago (VA) – Gioebia, 25 gennaio 2018
Caronno Varesino (VA) – Brüsa la Giöbia, 25 gennaio 2018
Carugo (CO) – Falò della Giubiana, 25 gennaio 2018
Casale Litta (VA) – Giobia, 25 gennaio 2018
Casatenovo (LC) – Festa della Gibiana, 25 gennaio 2018
Casorate Sempione (VA) – A brüsà la Gioebia, 25 gennaio 2018
Cassano Magnago (VA) – La Gioeubia, 25 gennaio 2018
Cassago Brianza (LC) – Ul foec de la Gibiana, 25 gennaio 2018
Castellanza (VA) – Festa della Gioeubia, 25 gennaio 2018
Castano Primo – La Giobia, 25 gennaio 2018
Castiglione Olona – Falò della Giobia, 25 gennaio 2018
Cavaria con Premezzo (VA) – Festa della Giobia o Giubiana, 25 gennaio 2018
Cazzago Brabbia – Falò della Gioebia, 25 gennaio 2018
Cermenate (CO) – Falò della Giubiana, 25 gennaio 2018
Civate (LC) – La Gibiana, 25 gennaio 2018
Costa Masnaga e Parco di Brenno (LC) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Cremella (LC) – Falò della Gibiana, 25 gennaio 2018
Cucciago (CO) – La Giubiana, 25 gennaio 2018
Dolzago (LC) – La Gibiana, 25 gennaio 2018
Esino Lario (LC) – Festa della Gibbiana (detta anche La Bjibjerè), ultimo sabato di gennaio
Fagnano Olona (VA) – Festa della Gioeubia, 25 gennaio 2018
Ferno (VA) – Brucia la Gioeubia, il 31 gennaio
Figino Serenza (CO) – Rogo della Giubiana, 25 gennaio 2018
Fiorenzuola d’Arda (PC) – Festa della Zobia – Brüsa la vecia (inizio del Carnevale)
Gallarate (VA) e in tutti i rioni – Festa della Giobia, gennaio
Galliate Lombardo (VA) – Falò della Gioeubia, 25 gennaio 2018
Giussano (MB) – Corteo e Falò della Giubiana, 21 gennaio 2018
Gorla Maggiore (VA) – Festa della Gioeubia, 25 gennaio 2018
Gorla Minore (VA) – Festa della Gioeubia, 25 gennaio 2018
Guanzate (CO) – Rogo della Giubiana, 25 gennaio 2018
Inverigo (CO) – La Giubiana, 25 gennaio 2018
Inveruno (MI) – La Gioebia, 25 gennaio 2018
Lambrugo (CO) – La Giubiana. Tradizionale corteo serale, 26 gennaio 2018
Laveno (VA) – Falò della Giöbia, 25 gennaio 2018
Lazzate (MB) – Falò della Giubiana, 20 gennaio 2018
Lentate sul Seveso (MI) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Lesmo (MI) – Rogo della Giubiana, 25 gennaio 2018
Lissone (MB) – La Giubiana e Ul Gianèe, 25 gennaio 2018
Lomazzo (CO) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Lonate Pozzolo (VA) – In centro e nella frazione di Sant’Antonino – La Giobia, 25 gennaio 2018
Longone al Segrino (CO) – Falò della Giubiana, penultima domenica di gennaio
Lurago d’Erba (CO) – Festa della Giubiana, ultimo sabato di gennaio
Macherio (MI) – Festa della Giubbiana, si tiene il 31 gennaio
Magnago (MI) – Falò della Giobia, 25 gennaio 2018
Malnate (VA) – Falò della Giobia, 25 gennaio 2018
Mandello Lario (LC) – Ul Ginèe, si tiene il 31 gennaio
Mariano Comense (CO) – La Giubiana, 25 gennaio 2018
Marnate (VA) – Festa della Gioeubia, 25 gennaio 2018
Marcallo con Casone (MI) – Falò della Giobia, 25 gennaio 2018
Meda (MB) – La Giubiana e Ul Gianèe, 25 gennaio 2018
Merate (LC) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Merone (CO) – Brucia la Giubiana, 25 gennaio 2018
Misinto (MI) – Falò della Giubiana, 25 gennaio 2018
Monguzzo (CO) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Montevecchia (LC) – Falò della Gibiana, 25 gennaio 2018
Nibionno (LC) – Falò della Giubiana, ultimo sabato di gennaio
Oggiona Santo Stefano (VA) – Falò della Gioebbia, 26 gennaio 2018
Olgiate Olona (VA) – Falò della Gioeubia nei vari rioni, 25 gennaio 2018
Olginate (LC) – Brusa ul Ginèe, al 31 gennaio
Plesio (CO) – El Giünee, al 31 gennaio
Premana (LC) – Casciada del Ginèe, 25 gennaio 2018
Rescaldina (MI) – Rogo della Giöbia, ultima domenica di gennaio
Samarate (VA) – La Gioebia, 25 gennaio 2018
Santhià (VC) – La Giobia Grass (inizio Carnevale), 8 febbraio 2018
Saronno (VA) – Falò della Giubiana, 25 gennaio 2018
Seregno (MB) – Rogo del Gianè e della Giubiana. Ultimo sabato di gennaio.
Seveso (MB) – Festa della Giubiana, 25 gennaio 2018
Sirtori (LC) – Ul falò della Giubiana, rappresentazione dialettale.
Solbiate Olona (VA) – Falò della Gioeubia, 25 gennaio 2018
Somma Lombardo (VA) – Falò della Gioebia, 25 gennaio 2018
Triuggio (MI) – Rogo della Giubiana, 25 gennaio 2018
Turbigo (MI) – Falò de la Giobia, 25 gennaio 2018
Vanzaghello (VA) – La Gioebia, 25 gennaio 2018
Varedo – Rogo della Giubiana, 25 gennaio 2018
Varallo Sesia (VC) – Rogo della Giubbianasca, ultimo giovedì di Carnevale
Varenna (LC) – La Giubiera e Ul Ginèe, 25 gennaio 2018
Varese – Festa de la Giöbia, 16 gennaio 2018
Vedano Olona (VA) – Festa della Giobia, 25 gennaio 2018
Verano Brianza (MB) – Rogo della Giubiana, con processo in dialetto.
Veduggio con Colzano (MB) – Falò della Giubiana, 25 gennaio 2018
Vertemate con Minoprio (CO) – La Giubiana, 25 gennaio 2018
Gioebia, tra storia e leggenda BRUSA LA GIOEBIA, ADDIO INVERNO Ultimo giovedì di gennaio arriva la Giobia, con i suoi falò propiziatori e la tradizione del risotto con la luganiga.
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Il canto della Befana: memorie lontane. Dai precristiani, passando dal Rinascimento, fino ai giorni nostri
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Il canto della Befana: memorie lontane. Dai precristiani, passando dal Rinascimento, fino ai giorni nostri
“…Vi ringrazia la Befana che l’avete favorita, Dio vi lasci lunga vita, buone gente state sana …”
Così si conclude il tradizionale canto della Befana, quando i cosiddetti questuanti ringraziano del dono ricevuto. Il canto della Befana è una delle tradizioni più diffuse e radicate in tutta la Garfagnana, non c’è paese o paesino dove la sera del 5 gennaio sulla porta di casa non vengano cantate queste folcloristiche strofe.Le origini di questi canti si perdono nella storia più antica, fanno parte di quel bagaglio ancestrale di riti pagani e che i secoli(e qualche Papa furbone…) trasformeranno in religiosi.
Ma partiamo dall’inizio e tutto è da ricondurre a quelle feste che prima del Cristianesimo indicavano le scadenze di un periodo agricolo (una infatti cadeva proprio in questi giorni), tutto era legato indissolubilmente al buon andamento del raccolto e alla sopravvivenza della comunità che per favorirsi nuovi e floridi raccolti procedeva liturgicamente con dei canti propiziatori e lo scambio di doni che significavano l’abbondanza, segno inequivocabile di ricchezza nella quantità di frutti che la terra avrebbe (forse) generato in quell’anno. Le cose cambiarono e nel II secolo dopo Cristo, fu istituita la festa dell’Epifania e la gente imparò a tenere il piede in due staffe (un po’ come si fa oggi…) da una parte si festeggiava il suo significato religioso,ma dall’altra continuava il suo rito pagano benaugurante. Arriviamo così nel periodo rinascimentale e vediamo ancora che questi canti della Befana sono più che mai presenti nella Valle, si parla in certi documenti che addirittura dopo i canti di questua vengono donate carni di maiale, infatti erano i giorni riconducibili all’uccisione dell’animale e alla conseguente abbondanza di carni che venivano poi redistribuite meticolosamente alle persone più povere.
Canti della Befana (foto di Keane tratta da “Il giornale di Barga”)
Eccoci così arrivare ai giorni nostri (per “giorni nostri” intendo dire da un paio di secoli ad oggi…) e guardiamo come si svolgevano e si svolgono adesso le befanate. La vigilia dell’Epifania verso il tramonto giovani e meno giovani si riuniscono nella piazza principale del paese per partire per il giro di questua,naturalmente dopo che uno di loro aveva indossato i vestiti da Befana e si era cosparso il viso di cenere per non farsi riconoscere. Ma vi siete mai domandati perchè poi la Befana nella stragrande maggioranza dei casi è sempre interpretata da un uomo? Qui si cade nel maschilismo e nel proibizionismo dei secoli cosiddetti “oscuri”, quando alle donne era vietato assolutamente sia recitare che mascherarsi. Ma torniamo però allo svolgimento di questo rito. Almeno uno dei partecipanti doveva avere con se almeno uno strumento musicale, indispensabile per accompagnare il canto, nella maggior parte dei casi una fisarmonica o un violino, fondamentale era anche la presenza dell’ asinello che nelle grandi ceste che portava avrebbe conservato i doni ricevuti nella serata. Aveva così inizio il giro del paese e anche questo non si svolgeva a caso ma aveva un preciso itinerario , prima si cominciava dalle autorità locali e dal prete. Il tutto era guidato da un suonatore che precedeva di pochi passi la Befana e il somaro e dietro stava tutta la compagnia dei befanotti, ci si fermava così di porta in porta e si attaccava con il canto, al termine del quale il padrone porgeva omaggi appositamente preparati per l’occasione: costante era la presenza di noci,nocciole,mandarini e arance. L’ultima parte del rituale prevedeva il canto di una o più strofe di augurio o ringraziamento.
Le befanate (foto di Feliciano Ravera, Fotocine Garfagnana)
Il cerimoniale era, ed è abbastanza consolidato ma poteva (e può) variare per alcuni situazioni particolari. Nel caso che la casa visitata fosse abitata da ragazze in età da marito, i cantori venivano fatti entrare e generalmente si improvvisava qualche giro di danza con le giovani. Anche se si capitava nelle osterie e nei bar la situazione era soggetta a piccole variazioni, il proprietario faceva accomodare il gruppo e dopo aver fatto i doni offriva da bere a tutti.Il caso era totalmente diverso se la famiglia da visitare era stata colpita da un lutto. Giorni prima ci si informava se il padrone di casa avrebbe gradito la visita dei cantori, se la risposta era positiva il canto si limitava a poche strofe e se il responso fosse stato negativo la compagnia di befanotti si asteneva dal canto, transitando nelle vicine vie mantenendo il più rigoroso silenzio, anche se poi generalmente il padrone di casa colpito da lutto in qualche maniera faceva giungere il suo dono. Prendiamo poi in considerazione se in paese vi fosse stata una famiglia talmente povera che anche il più semplice dono sarebbe costato loro un enorme sacrificio, il canto propiziatorio si sarebbe svolto comunque. Perchè mai privare una famiglia di questo momento di aggregazione? Anzi i ruoli si sovvertivano completamente poichè i befanotti, buona parte di quanto regalato fino al momento, lo donavano in parte e con generosità alla misera famiglia. Molto raramente succedeva che qualcuno non aprisse la porta all’allegra brigata,perchè sennò effettivamente erano dolori. Un rifiuto era come non voler partecipare alla vita comunitaria, rompere un consolidato codice di comportamento, era punito con insulti e lanci di pietre. Figuriamoci un po’, proprio per queste eccezioni ci fu un periodo che le befanate di questua furono proibite, ad esempio a Barga nel 1414, così si legge nel “Liber Maleficiorum” (l’attuale codice penale)
“…per ciascuna persona che ardisca, la notte della Befana, di andare alla casa di qualsiasi persona di Barga a dire quelle disoneste parole,le quali sono state dette per l’ adietro,sotto pena di soldi dieci, a ribadire per ciascuna persona e per ciascuna volta che la vigilia dell’Epifania canterà quelle brutte cose che si usano da lungo tempo”
Particolare invece è la befanata di Sassi e di Eglio (comune di Molazzana). Solitamente il canto della Befana negli altri paesi garfagnini non varia di molto ed è quasi sempre uguale, mentre qui già dai giorni precedenti si preparano strofe specifiche per ogni componente della famiglia del paese. Si tratta di un modo di mettere in piazza tutti i peccati,ironizzare sui difetti di ciascuno, raccontare le disavventure occorse durante l’anno, ma la notte della Befana era tutto permesso, i padroni di casa facevano finta di gradire ingoiando amaro, comunque non si rifiutavano mai di donare. Ecco come Alcide Rossi (studioso locale) nel 1966 ricordava questi fatti:
“…al mio paese per il modo i cui venivano fatti i “rispetti”(n.d.r:le strofe dedicate), per quello spirito di spontaneità in cui nascevano tra il goliardico,lo scanzonato ed il rusticano, teneva in fervore tutti i canterini trenta giorni prima del 6 gennaio. Si diventava così tutti poeti…Dovevano essere rivolte affettuose,elogiative per chi donava molti “befanini”(n.d.r.:doni), invece mordaci, caustici, talvolta anche un po’troppo sfacciati contro coloro a cui l’avara porta non si apriva”.
Ma le strofe più belle rimangono quelle di Giovanni Pascoli nel 1897 che da Castelvecchio volle ricordare così la Befana, con il suo più celebre canto:
Viene viene la Befana vien dai monti a notte fonda. Come è stanca! La circonda neve, gelo e tramontana. Viene viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce, e la neve è il suo mantello ed il gelo il suo pannello ed il vento la sua voce. Ha le mani al petto in croce.
E s’accosta piano piano alla villa, al casolare, a guardare, ad ascoltare or più presso, or più lontano. Piano, piano, piano, piano.
Chi c’è dentro questa villa? Uno stropiccìo leggero. Tutto è cheto, tutto è nero. Un lumino passa e brilla. Chi c’è dentro questa villa?
Guarda e guarda… Tre lettini con tre bimbi a nanna, buoni. guarda e guarda… Ai capitoni c’è tre calze lunghe e fini. Oh! Tre calze e tre lettini…
Il lumino brilla e scende, e ne scricchiolano le scale; il lumino brilla e sale, e ne palpitano le tende. Chi mai sale? Chi mai scende?
Co’ suoi doni mamma è scesa, sale con il suo sorriso. Il lumino le arde in viso come lampada di chiesa. Co’ suoi doni mamma è scesa.
La Befana alla finestra sente e vede, e s’allontana. Passa con la tramontana, passa per la via maestra: trema ogni uscio, ogni finestra.
E che c’è nel casolare? Un sospiro lungo e fioco. Qualche lucciola di fuoco brilla ancor nel focolare. Ma che c’è nel casolare?
Guarda e guarda… Tre strapunti con tre bimbi a nanna, buoni. Tra la cenere e i carboni c’è tre zoccoli consunti. Oh! tre scarpe e tre strapunti…
E la mamma veglia e fila sospirando e singhiozzando, e rimira a quando a quando oh! quei tre zoccoli in fila… Veglia e piange, piange e fila.
La Befana vede e sente; fugge al monte, ch’è l’aurora. Quella mamma piange ancora su quei bimbi senza niente. La Befana vede e sente.
La Befana va sul monte. Ciò che vede e ciò che vide: c’è chi piange e c’è chi ride; essa ha nuvoli alla fronte, mentre sta sul bianco monte.
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Il canto della Befana: memorie lontane. Dai precristiani, passando dal Rinascimento, fino ai giorni nostri
New Post has been published on https://www.aneddoticamagazine.com/it/il-canto-della-befana-memorie-lontane-dai-precristiani-passando-dal-rinascimento-fino-ai-giorni-nostri/
Il canto della Befana: memorie lontane. Dai precristiani, passando dal Rinascimento, fino ai giorni nostri
“…Vi ringrazia la Befana che l’avete favorita, Dio vi lasci lunga vita, buone gente state sana …”
Così si conclude il tradizionale canto della Befana, quando i cosiddetti questuanti ringraziano del dono ricevuto. Il canto della Befana è una delle tradizioni più diffuse e radicate in tutta la Garfagnana, non c’è paese o paesino dove la sera del 5 gennaio sulla porta di casa non vengano cantate queste folcloristiche strofe.Le origini di questi canti si perdono nella storia più antica, fanno parte di quel bagaglio ancestrale di riti pagani e che i secoli(e qualche Papa furbone…) trasformeranno in religiosi.
Ma partiamo dall’inizio e tutto è da ricondurre a quelle feste che prima del Cristianesimo indicavano le scadenze di un periodo agricolo (una infatti cadeva proprio in questi giorni), tutto era legato indissolubilmente al buon andamento del raccolto e alla sopravvivenza della comunità che per favorirsi nuovi e floridi raccolti procedeva liturgicamente con dei canti propiziatori e lo scambio di doni che significavano l’abbondanza, segno inequivocabile di ricchezza nella quantità di frutti che la terra avrebbe (forse) generato in quell’anno. Le cose cambiarono e nel II secolo dopo Cristo, fu istituita la festa dell’Epifania e la gente imparò a tenere il piede in due staffe (un po’ come si fa oggi…) da una parte si festeggiava il suo significato religioso,ma dall’altra continuava il suo rito pagano benaugurante. Arriviamo così nel periodo rinascimentale e vediamo ancora che questi canti della Befana sono più che mai presenti nella Valle, si parla in certi documenti che addirittura dopo i canti di questua vengono donate carni di maiale, infatti erano i giorni riconducibili all’uccisione dell’animale e alla conseguente abbondanza di carni che venivano poi redistribuite meticolosamente alle persone più povere.
Canti della Befana (foto di Keane tratta da “Il giornale di Barga”)
Eccoci così arrivare ai giorni nostri (per “giorni nostri” intendo dire da un paio di secoli ad oggi…) e guardiamo come si svolgevano e si svolgono adesso le befanate. La vigilia dell’Epifania verso il tramonto giovani e meno giovani si riuniscono nella piazza principale del paese per partire per il giro di questua,naturalmente dopo che uno di loro aveva indossato i vestiti da Befana e si era cosparso il viso di cenere per non farsi riconoscere. Ma vi siete mai domandati perchè poi la Befana nella stragrande maggioranza dei casi è sempre interpretata da un uomo? Qui si cade nel maschilismo e nel proibizionismo dei secoli cosiddetti “oscuri”, quando alle donne era vietato assolutamente sia recitare che mascherarsi. Ma torniamo però allo svolgimento di questo rito. Almeno uno dei partecipanti doveva avere con se almeno uno strumento musicale, indispensabile per accompagnare il canto, nella maggior parte dei casi una fisarmonica o un violino, fondamentale era anche la presenza dell’ asinello che nelle grandi ceste che portava avrebbe conservato i doni ricevuti nella serata. Aveva così inizio il giro del paese e anche questo non si svolgeva a caso ma aveva un preciso itinerario , prima si cominciava dalle autorità locali e dal prete. Il tutto era guidato da un suonatore che precedeva di pochi passi la Befana e il somaro e dietro stava tutta la compagnia dei befanotti, ci si fermava così di porta in porta e si attaccava con il canto, al termine del quale il padrone porgeva omaggi appositamente preparati per l’occasione: costante era la presenza di noci,nocciole,mandarini e arance. L’ultima parte del rituale prevedeva il canto di una o più strofe di augurio o ringraziamento.
Le befanate (foto di Feliciano Ravera, Fotocine Garfagnana)
Il cerimoniale era, ed è abbastanza consolidato ma poteva (e può) variare per alcuni situazioni particolari. Nel caso che la casa visitata fosse abitata da ragazze in età da marito, i cantori venivano fatti entrare e generalmente si improvvisava qualche giro di danza con le giovani. Anche se si capitava nelle osterie e nei bar la situazione era soggetta a piccole variazioni, il proprietario faceva accomodare il gruppo e dopo aver fatto i doni offriva da bere a tutti.Il caso era totalmente diverso se la famiglia da visitare era stata colpita da un lutto. Giorni prima ci si informava se il padrone di casa avrebbe gradito la visita dei cantori, se la risposta era positiva il canto si limitava a poche strofe e se il responso fosse stato negativo la compagnia di befanotti si asteneva dal canto, transitando nelle vicine vie mantenendo il più rigoroso silenzio, anche se poi generalmente il padrone di casa colpito da lutto in qualche maniera faceva giungere il suo dono. Prendiamo poi in considerazione se in paese vi fosse stata una famiglia talmente povera che anche il più semplice dono sarebbe costato loro un enorme sacrificio, il canto propiziatorio si sarebbe svolto comunque. Perchè mai privare una famiglia di questo momento di aggregazione? Anzi i ruoli si sovvertivano completamente poichè i befanotti, buona parte di quanto regalato fino al momento, lo donavano in parte e con generosità alla misera famiglia. Molto raramente succedeva che qualcuno non aprisse la porta all’allegra brigata,perchè sennò effettivamente erano dolori. Un rifiuto era come non voler partecipare alla vita comunitaria, rompere un consolidato codice di comportamento, era punito con insulti e lanci di pietre. Figuriamoci un po’, proprio per queste eccezioni ci fu un periodo che le befanate di questua furono proibite, ad esempio a Barga nel 1414, così si legge nel “Liber Maleficiorum” (l’attuale codice penale)
“…per ciascuna persona che ardisca, la notte della Befana, di andare alla casa di qualsiasi persona di Barga a dire quelle disoneste parole,le quali sono state dette per l’ adietro,sotto pena di soldi dieci, a ribadire per ciascuna persona e per ciascuna volta che la vigilia dell’Epifania canterà quelle brutte cose che si usano da lungo tempo”
Particolare invece è la befanata di Sassi e di Eglio (comune di Molazzana). Solitamente il canto della Befana negli altri paesi garfagnini non varia di molto ed è quasi sempre uguale, mentre qui già dai giorni precedenti si preparano strofe specifiche per ogni componente della famiglia del paese. Si tratta di un modo di mettere in piazza tutti i peccati,ironizzare sui difetti di ciascuno, raccontare le disavventure occorse durante l’anno, ma la notte della Befana era tutto permesso, i padroni di casa facevano finta di gradire ingoiando amaro, comunque non si rifiutavano mai di donare. Ecco come Alcide Rossi (studioso locale) nel 1966 ricordava questi fatti:
“…al mio paese per il modo i cui venivano fatti i “rispetti”(n.d.r:le strofe dedicate), per quello spirito di spontaneità in cui nascevano tra il goliardico,lo scanzonato ed il rusticano, teneva in fervore tutti i canterini trenta giorni prima del 6 gennaio. Si diventava così tutti poeti…Dovevano essere rivolte affettuose,elogiative per chi donava molti “befanini”(n.d.r.:doni), invece mordaci, caustici, talvolta anche un po’troppo sfacciati contro coloro a cui l’avara porta non si apriva”.
Ma le strofe più belle rimangono quelle di Giovanni Pascoli nel 1897 che da Castelvecchio volle ricordare così la Befana, con il suo più celebre canto:
Viene viene la Befana vien dai monti a notte fonda. Come è stanca! La circonda neve, gelo e tramontana. Viene viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce, e la neve è il suo mantello ed il gelo il suo pannello ed il vento la sua voce. Ha le mani al petto in croce.
E s’accosta piano piano alla villa, al casolare, a guardare, ad ascoltare or più presso, or più lontano. Piano, piano, piano, piano.
Chi c’è dentro questa villa? Uno stropiccìo leggero. Tutto è cheto, tutto è nero. Un lumino passa e brilla. Chi c’è dentro questa villa?
Guarda e guarda… Tre lettini con tre bimbi a nanna, buoni. guarda e guarda… Ai capitoni c’è tre calze lunghe e fini. Oh! Tre calze e tre lettini…
Il lumino brilla e scende, e ne scricchiolano le scale; il lumino brilla e sale, e ne palpitano le tende. Chi mai sale? Chi mai scende?
Co’ suoi doni mamma è scesa, sale con il suo sorriso. Il lumino le arde in viso come lampada di chiesa. Co’ suoi doni mamma è scesa.
La Befana alla finestra sente e vede, e s’allontana. Passa con la tramontana, passa per la via maestra: trema ogni uscio, ogni finestra.
E che c’è nel casolare? Un sospiro lungo e fioco. Qualche lucciola di fuoco brilla ancor nel focolare. Ma che c’è nel casolare?
Guarda e guarda… Tre strapunti con tre bimbi a nanna, buoni. Tra la cenere e i carboni c’è tre zoccoli consunti. Oh! tre scarpe e tre strapunti…
E la mamma veglia e fila sospirando e singhiozzando, e rimira a quando a quando oh! quei tre zoccoli in fila… Veglia e piange, piange e fila.
La Befana vede e sente; fugge al monte, ch’è l’aurora. Quella mamma piange ancora su quei bimbi senza niente. La Befana vede e sente.
La Befana va sul monte. Ciò che vede e ciò che vide: c’è chi piange e c’è chi ride; essa ha nuvoli alla fronte, mentre sta sul bianco monte.
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