#occhiali da sole levis
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Altri pensieri sparsi:
- I Levi's 507 e 512.
- Non capisco la gelosia. Cioè si in una relazione potrei anche capirla (non attuarla) ma in un'amicizia non capisco che senso abbia. Amica, sente che devo uscire con un'altra, sclera di gelosia, annullo per stare con lei, finisce tardi di lavorare, stiamo in macchina 20 minuti a parlare di lavoro. A me ste cose mi danno un fastidio incredibile. Mi sento tipo il palo pisciato dal cane per marcare il territorio.
- Devo prendere degli occhiali da sole.
- Se non ti ha fatto stare male La zona di interesse c'hai un problema molto grosso con la pornografia del dolore.
- Non capisco quando mi arriverà il primo stipendio.
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𝐜𝐚𝐩. 𝟐 | 𝐧𝐞𝐥 𝐩𝐨𝐬𝐭𝐨 𝐠𝐢𝐮𝐬𝐭𝐨 | 𝐥𝐞𝐯𝐢 𝐱 𝐟𝐞𝐦!𝐫𝐞𝐚𝐝𝐞𝐫 𝐟𝐟
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𝐰𝐜: +3k
𝐠𝐞𝐧𝐞𝐫𝐞: mafia/gangster au, sfw
𝐭𝐚𝐠𝐬: lemon, hurt/comfort, childhood friends to lovers, forbidden love, one-sided love, love triangle, implied eruri
Levi si scusa per la terza volta quella sera: non è solito avere ospiti in casa, men che meno donne, non ha nulla darti per rimuovere il mascara che continua a colarti lungo le guance. Gli dici che del sapone e un po’ d’acqua saranno più che sufficienti.
Lui ti indica una porta sulla sinistra dicendoti che sotto il lavandino troverai tutto il necessario: uno spazzolino nuovo, asciugamani puliti ed un accappatoio nel caso volessi rinfrescarti.
Mentre sei in bagno a darti una sistemata, Levi è appena riemerso dalla sua cabina armadio con un paio di vestiti da prestarti per la notte. Un pantalone, una felpa ed un paio di calzini. Lascia tutto sul letto, poi vai in cucina a farsi un goccio.
Qualche minuto prima sul letto lo hai supplicato di non riportarti a casa, di non lasciarti sola almeno questa notte. Levi non aveva intenzione di fare nessuna delle due cose, anche se avrebbe assolutamente dovuto.
Guardando ora fuori dalle vetrate la città che si accende ai suoi piedi, riflette sui recentissimi eventi. Si massaggia lentamente la nuca poi butta giù un altro bicchiere. Ripensa alle tue labbra sulle sue e ai suoi pantaloni gonfiarsi. La situazione gli è sfuggita di mano.
Così non va bene, non va affatto bene.
Non trovandolo in camera, tu intanto ne approfitti per cambiarti. Il tessuto dei suoi vestiti è morbido e accogliente, sa ancora di lui e di quella casa. Tutto intorno a te sa di Levi. Poco prima mentre ti lavavi la faccia ti è sembrato che persino l’acqua che sgorgava nuova dal rubinetto avesse il suo sapore.
Ti infili il felpone e ti perdi ad inalare il tessuto, ci immergi il volto stringendo forte gli occhi. Se questo è un sogno speri tanto che nessuno venga presto a svegliarti.
Quando i passi di Levi sopraggiungono dal corridoio non ti lasci sopraffare, ti volti piano e osservi la sagoma scura appena apparsa sulla soglia. La luce alle sue spalle ne disegna il contorno. La linea dritta dei pantaloni, la pelle lucida della cinta, le maniche tirate su fino ai gomiti, la piega del colletto della camicia. Più in alto, i suoi lineamente sono ancora totalmente impercettibili, adombrati dal buio della stanza.
Levi si ferma e si appoggia allo stipite incrociando le braccia al petto. Senti i suoi occhi addosso. Lo chiami e vedi il suo capo inclinarsi di scatto verso terra, come gli fosse appena caduto dal collo. Non sa cosa fare, ti dice che forse sarebbe il caso riportarti a casa, che tutto questo è sbagliato.
Ti avvicini e lo implori di farti restare. “Solo per stasera. Non ti chiedo altro.”
Levi non ti risponde e si lascia trascinare di nuovo a letto da te. Si addormenta con il tuo corpo tra le braccia mentre rimugina sul da farsi. Si sente così impotente e, prima di addormentarsi cullato dai tuoi respiri sul suo collo, incolpa Erwin di avergli fatto questo brutto scherzo nella peggiore delle occasioni.
Il giorno seguente ti svegli completamente avvolta in un cappotto, il tuo. Sei rannicchiata su un sedile di pelle scura. La rigidità dello schienale ti è familiare: realizzi di essere nella macchina di Levi. Lui è al tuo fianco, al volante. Un paio di occhiali da sole impediscono ai raggi, ora alti in cielo, di distrarlo mentre è alla guida.
Ti stropicci gli occhi e gli chiede dove state andando. Lui freddamente ti fa: “Ti riporto a casa, Cass”
Apri la bocca come per ribattere ma niente sembra uscire fuori. Sei troppo stanca, senti le palpebre ricaderti pesanti oltre gli occhi, impedendoti quasi di guardare oltre. La pelle è come livida, ogni minimo movimento sembra uno sforzo assolutamente disumano. Non riesci a protestare. Ti lasci andare contro il sedile mentre intorno a te la Metropoli si sveglia.
Levi indica alle sue spalle. C’è qualcosa da mangiare per te, un po’ d’acqua e un’aspirina nel caso avessi dolore o anche solo mal di testa. Senti le tempie pulsarti e non riesci a stento a buttar giù la saliva, figuriamoci una medicina o del cibo.
Rifiuti e senti di nuovo gli occhi di Levi addosso. Vorrebbe fermarsi nel bel mezzo della corsia e forzarti quel boccone in gola pur di farti mangiare. In realtà vorrebbe solo fare marcia indietro e dimenticarsi di cosa sia giusto o non giusto fare a quel punto. Eppure accanto a te, decide di rimanere in silenzio e procedere senza fiatare verso villa Smith.
Arrivati alle soglie dell’immenso cancello d’entrata, trovi la forza di aggrapparti al suo braccio. La pelle della sua giacca sembra quasi scivolarti tra le dita. Disperata lo afferri più forte e a quel punto Levi è costretto a voltarsi.
Hai di nuovo gli occhi rossi e inquieti, lo supplichi di non lasciarti, le parole si rincorrono una dietro l’altra. Sai già cosa ti aspetta varcata la soglia: una vita senza la protezione di Erwin, una vita che non sei ancora pronta ad iniziare.
“Ti prego, non voglio tornare a casa, ti supplico, non sono pronta, ti prego-”
Mentre ti affanni ad implorarlo, Levi si è fatto più vicino e ti ha slacciato la cintura di sicurezza. Continui a pregarlo, lui sta cercando qualcosa nella tua giacca.
Si tira appena indietro e con il tuo telefono ora in mano inizia a digitare qualcosa, così ti spiega: “Questo è il mio numero. Starò via per alcuni giorni. Sentiti libera di chiamarmi o scrivermi o quello che vuoi nel caso ci fossero novità o ne avessi bisogno”, alza lo sguardo per incontrare il tuo, “Ma non ti aspettare una mia risposta. Né subito né mai.”
Senti il labbro inferiore tremarti, ma tieni duro.
“Quando potrò rivederti?”, gli chiedi abbassando gli occhi.
“Quando li avrò trovati.”
Ti volti di scatto, ma non per guardare Levi. Il cancello d’ingresso si è appena aperto, eppure in giro non si vede ancora nessuno. Forse qualcuno deve aver notato l’auto, forse qualcuno vi sta osservando proprio in questo momento.
“Vai.”, ti fa Levi rimettendo le mani sul volante.
Ora ti giri verso di lui. Sai che non hai più molto tempo. Vorresti baciarlo di nuovo, forse per l’ultima volta, ma è troppo rischioso.
Non qui. Non ora. Non oggi.
Non hai bisogno di dire a Levi Ackerman di stare attento, di farsi sentire o di tornare presto. Sai benissimo che non farà nessuna di queste cose. Senza aggiungere altro apri lo sportello, scendi e ti incammini verso il portone di ingresso.
Rigidamente seduto nella sua Aston Martin DBS Superleggera, Levi stringe la pelle del volante e inala forte dalle narici. Poi finalmente si concede di guardarti un’ultima volta mentre procedi lungo l’immenso viale d’ingresso.
Intanto una finestra al secondo piano si è appena chiusa. All’ombra di una pesante tenda in velluto rosso, un’affusolata silhouette ha visto l’erede dell’impero Ackerman scortarti a casa, ha visto le tue mani aggrapparsi disperatamente al suo braccio, ha visto le sue cingerti per qualche secondo. Poi ha seguito i tuoi passi lenti dalla sua macchina fino all’entrata e ha aspettato impazientemente il tuo ritorno dopo più di undici ore di latitanza. Ecco dov’eri finita.
Al piano inferiore, superata la soglia, la casa ti accoglie freddamente. Il gelo del marmo sembra trapassare la spessa suola dei tuoi stivali, l’algido bianco delle pareti ti accieca. Costretta ad attraversare il salone principale, origli discorsi asettici e distaccati: c’è da fare questo o quello, come fosse un giorno qualunque.
Ti precipiti dall’altra parte della villa, verso camera tua. Speri di poter ignorare le prossime ore del giorno, e forse la vita da lì in avanti, sotto la buia coltre delle tue coperte. Sai che tra qualche ora non sentirai la voce di Erwin riecheggiare nell’androne principale, sai che non verrà a chiamarti per cena.
Volente o nolente, il giorno seguenti devi alzarti dal letto, hai una riunione da sopraintendere. Un paio di anni fa hai giurato fedeltà al tuo clan, impegnandoti a contribuire agli affari più nobili in cui la vostra famiglia è immischiata. Erwin non ti ha mai permesso di ficcare il naso in nulla che potesse tangerti psicologicamente, figuriamoci fisicamente. Hai mansioni semplici ma rispettabili, eppure in quello stato persino mettere un paio di firme ti sembra un’impresa impossibile.
Seduta nella sala riunioni, quella mattina ti senti un misero fantoccio di te stessa, una carcassa che si trascina da una parte all’altra, che sorride quando le viene richiesto e che solleva appena la penna tanto da apporre almeno le proprie iniziali qui e lì, e poi sull’ultima pagina di quel contratto.
Il giorno dopo quel macabro teatrino si ripete, come anche quello dopo ancora e poi il seguente.
La notte chiudere occhio è quasi impossibile. Le poche ore di sonno che ti concedi sono infestate dal ricordo del cadavere malconcio di tuo fratello. Ti svegli annaspando tra le tue coperte, una riga di sudore ti taglia la tempia. Afferri il telefono sul comodino e provi a fare quella chiamata. Lasci che squilli, conscia del fatto che anche stanotte Levi non ti risponderà. Il regolare rintocco dei beep riconduce il tuo respiro alla regolarità, ti culla verso una temporanea calma apparente.
Ti nascondi sotto il piumone e gli scrivi qualche riga. Gli dici che stai bene, che hai solo avuto un altro brutto sogno e che a casa stanno tutti facendo finta che nulla sia successo. Il mondo anche senza Erwin continua a girare.
Levi visualizza sempre qualche secondo dopo. Non risponde, ma non si perde nemmeno uno dei tuoi messaggi. Se è in macchina, guarda lo schermo illumarsi, il tuo nome apparire mentre tu dall’altro capo attendi che prema “Rispondi”. Non lo fa, stringe il volante e prega che sia solo un altro brutto sogno.
Circa una settimana dopo Levi Ackerman crede di essere sulla pista giusta. Si trova in un seminterrato insieme ad Hange Zoe, il suo fidato braccio destro. Pensano di aver catturato l’uomo giusto, ora legato ad una sedia. Se non risponderà correttamente alla prossima domanda perderà molto probabilmente l’uso di entrambe le gambe.
Qualche metro più in là, su un vecchio tavolo di legno, il cellulare dell’erede Ackerman squilla. Rinchiusa in una vecchia auto di Erwin, una Mercedes-AMG GT Coupè bianca, stai cercando di metterti in contatto con lui.
Levi si volta e inspira forte dalle narici. Non risponderà.
Un istante dopo il telefono inizia a squillare di nuovo. Al suono ovattato della vibrazione che riverbera contro il legno, il giovane Ackerman inizia a sentirsi irrequieto.
Dal fondo della stanza sua cugina Mikasa avanza e si affaccia per sbirciare chi lo stia chiamando con tanta insistenza. Riconosce il tuo numero sullo schermo e quasi stenta a crederci. Tu e lei siete molto legate, ma non ti sente da giorni, probabilmente dal funerale. Perchè stai chiamando lui e non lei?
“Che fai non rispondi?”, punzecchia il cugino.
“Non vedi che ho da fare?”, le fa lui senza nemmeno voltarsi.
Il cellulare sul tavolo si quieta, ma solo per qualche secondo. Il suono della vibrazione, inizialmente impercettibile, riprende. Ora sembra quasi un rintocco assordante.
Levi stringe forte le palpebre. Perchè lo stai chiamando così tante volte? Che diavolo succede?
“Non smetterà, lo sai? Deve essere successo qualcosa.”, Mikasa dà voce ai suoi pensieri. “Se non rispondi tu, lo farà io.”
Il giovane Ackerman gira di scatto i tacchi e in pochi, lunghi passi raggiunge il tavolo. Ruotando il capo oltre la spalla si scambia un breve sguardo d’intesa con Hange. “Tranquillo, qui ci penso io, ho tutto sotto controllo.”, gli fa in risposta, incitandolo ad andarsene.
Levi afferra il telefono e supera Mikasa senza proferire parola, esce dalla stanza e si appresta ad entrare in macchina. Lì nessuno potrà sentirlo.
“Cass”, la sua voce ti coglie alla sprovvista dall’altro capo del telefono.
Boccheggi disperatamente, ti sembra di aver dimenticato come respirare.
“Che succede?”
“Levi”, balbetti a stento. Il tono spezzato della tua voce è abbastanza per mettere in allarme l’erede Ackerman.
“Che. Succede.”, ripete. “Dove sei?”
“Nella vecchia GT di Erwin. In un parcheggio lungo la statale.”
Levi serra la mascella. Se c’è qualcuno assetato di vendetta contro gli Smith ancora a piede libero, farsi vedere in giro con una delle loro iconiche macchine bianche non è una grande idea.
“Stai bene? Sei ferita?”
Non sai davvero cosa rispondere. Nell’indecisione scoppi a piangere. Tra un singhiozzo e l’altro gli chiedi di tornare, gli dici che hai bisogno di lui e che non ce la fai più.
Levi resta in silenzio e si perde con lo sguardo in un punto tra i suoi piedi sullo zerbino sotto di lui. Tu intanto tiri su con il naso e ti asciughi con la manica del pigiama. Sei scappata senza pensarci troppo, hai ancora le pantofole da casa e con te solo il cellulare.
“Respira.”, ti fa lui dall’altro capo del telefono. Tu obbedisci e prendi una bella manciata d’aria nei polmoni, poi espiri. Continui finchè non senti di esserti calmata.
“Che succede.”, ripete Levi. Non sembra nemmeno una domanda.
Raccolto un po’ di coraggio e riassemblati i ricordi di quella sera, gli spieghi che forse ti sei lasciata un po’ sopraffare da una conversazione avuta a cena con tua madre. Gli confessi di aver alzato la voce e che Evangeline ti ha subito redarguita sul tuo comportamento di fronte a tutta la famiglia. Poi ti ha spiegato che le indagini stanno procedendo anche senza i tuoi continui starnazzi. Tuo fratello è già morto, agitarsi tanto non lo farà di certo tornare in vita.
Al solo ripercorrere a parole la conversazione avuta con il resto del clan, senti di nuovo il fiato farsi corto e i battiti accelerare.
“Levi mi sento morire qui, ti prego, vieni a prendermi.”
A quelle parole, il giovane Ackerman si sente sprofondare nel sedile. Se potesse verrebbe seduta stante, ma stanotte è troppo lontano da te e troppo vicino alla risposta che sta disperatamente cercando. Sospira, poi ti ordina di mettere in moto mentre ti invia le coordinate per il suo appartamento in città. Ti dice di rimanerci fino all’indomani. Per le otto forse riuscirà a tornare.
“Allora li hai trovati??”, gli chiedi di soprassalto lasciandoti travolgere dall’entusiasmo. Ti aveva promesso che non sarebbe tornato fino a che non avesse identificato gli assassini di Erwin.
“Quasi.”
Lo sconforto ti spinge contro il sedile, poi lo metti in vivavoce e parti. Ha detto quasi, quasi è meglio di niente.
“Levi, casa tua è blindata. Come faccio ad entrare?”, lo interroghi proseguendo lungo la strada.
Lui al telefono ti detta i codici da inserire e ti rivela che gli scanner vocali riconosceranno la tua voce. Immagini sia stata un’idea di Erwin, invece Levi ha impostato quell’opzione il giorno dopo aver comprato l’appartamento. Non sa nemmeno lui perchè l’ha fatto. Nessun altro Ackerman può entrare lì dentro, nè tanto meno Hange. Solo tu e Erwin.
Dopo un po’ lo avvisi che sei quasi arrivata, lui ti dice che adesso deve proprio lasciarti. Lo ringrazi ancora e ancora, Levi ti risponde che non ce n’è davvero bisogno.
“A domani, allora.”
“A domani, Cass.”
Entrata in casa di Levi senza alcun intoppo, ti aggiri con sicurezza. Gli scuri toni dell’appartamento emergono dalle luci che ad ogni tuo passo si attivano. Le stanze sono ancora praticamente immerse nell’oscurità della sera, eppure lì finalmente ti senti al sicuro. Ti sembra di poter respirare.
Decidi di dare un’occhiata in giro.
Nulla è fuori posto o di troppo; tutto è fine ed essenziale, curato nei minimi dettagli, elegante e senza tempo, proprio come il suo proprietario.
Una cucina con vista su un’ampia zona giorno che si estende per quasi tutta la lunghezza dell’appartamento, una palestra privata con servizi e sauna annessi, una camera da letto con bagno privato e in fine, all’estremità del corridoio, una porta secretata dall’ennesimo codice di sicurezza.
Hai la password. “Ci sono solo scartoffie”, ti aveva però avvertito Levi poco prima. Eppure la curiosità ti sta mangiando viva, vuoi assolutamente vedere il suo ufficio.
Digiti i numeri sul display e la serratura si allenta. All’interno ti aspetta uno stanzone trapezoidale circondato da pareti di libri. Nel mezzo un’elegante scrivania fornita di un portatile e altri accessori tecnologici. Sulla parete dirimpetto un paio di schermi probabilmente connessi a quello centrale, su quella posteriore una carta celeste.
Ti avvicini e osservi la mappa. Vi è raffigurata una costellazione, ti sembra di conoscerla. Un ricordo nascosto in qualche meandro della tua memoria ti colpisce e ti costringe a lasciarti andare sulla sedia alle tue spalle.
Eri appena tornata da scuola con il broncio stampato in faccia. Erwin lo aveva notato da quando avevi fatto capolino nel vialetto di casa. Seduti al divano, qualche ora più tardi ti aveva chiesto cosa fosse quel muso lungo.
“Voglio andare all’anagrafe a farmi cambiare nome.”, avevi detto piuttosto seriamente incrociando le braccia al petto.
“Ah questa è bella! E come mai?”, ti aveva chiesto tuo fratello con leggerezza.
“Erwin, tu c’eri quando me l’hanno messo?”
“Non ricordo… Penso di no. Avrò avuto a malapena quattro anni.”
“Ecco. Male.”
“Ma si può sapere qual è adesso il problema con il tuo nome?”
“Oggi a storia dell’arte abbiamo fatto un quadro tremendo. C’era raffigurata la regina d’Etiopia, una ninfa odiosa e vanitosa che ne ha fatte di tutti i colori. Sai com’è andata a finire? L’hanno legata ad una sedia e spedita in cielo. Adesso è un ammasso di stelle che ruota attorno alla stella polare, così non se la fila più nessuno.”
Erwin ti guardò interdetto. Non capiva dove fosse il problema.
“Perchè devo chiamarmi come quella lì? E’ una cosa orribile.”
Tuo fratello scoppiò a ridere, poi ti disse: “Non ne sapevo nulla… Di questa regina, intendo. Non me ne intendo di mitologia, però di stelle sì.” Erwin da ragazzo aveva fatto la gavetta da militare, il cielo era stato la sua bussola per anni.
“Cassiopea è una costellazione circumpolare, sai.”
Facesti una smorfia. “Cioè?”
“Cioè che dalle nostre latitudini è sempre visibile, perché non tramonta mai”, ti spiegò. “Ogni sua singola stella brilla a proprio modo, ma tutte insieme creano una forma riconoscibile e unica. Si dice che guidino come il polo, ma verso il cambiamento.”
Riuscisti a stento a trattenere un sorriso.
“Non vedevo l'ora di vedere quelle stelle nelle notti più buie. Non vedevo l'ora di vederti, Cass. Trovo che il tuo nome sia stupendo”, aggiunse poi lui.
A quelle parole gli saltasti al collo stringendolo forte a te. Erwin sapeva sempre, esattamente cosa dire.
Ora, seduta alla scrivania di Levi, osservi la carta celeste di fronte ai tuoi occhi e con il braccio teso ripercorri la scia delle sue stelle. Ti domandi cosa ci faccia proprio quella costellazione appesa nel suo ufficio.
Scivolando più in basso con la punta dell'indice, noti una scritta dorata appuntata nel buio del firmamento:
“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.
E.S.”
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“ Avevo affisso alla porta del mio studio un cartellino con questo avviso:
Sospese da oggi le udienze a tutti i personaggi, uomini e donne, d’ogni ceto, d’ogni età, d’ogni professione, che hanno fatto domanda e presentato titoli per essere ammessi in qualche romanzo o novella. N.B. Domande e titoli sono a disposizione di quei signori personaggi che, non vergognandosi d’esporre in un momento come questo la miseria dei loro casi particolari, vorranno rivolgersi ad altri scrittori, se pure ne troveranno.
Mi toccò la mattina appresso di sostenere un’aspra discussione con uno dei più petulanti, che da circa un anno mi s’era attaccato alle costole per persuadermi a trarre da lui e dalle sue avventure argomento per un romanzo che sarebbe riuscito – a suo credere – un capolavoro. Lo trovai, quella mattina, innanzi alla porta dello studio, che s’aiutava con gli occhiali e in punta di piedi – piccolo e mezzo cieco com’era – a decifrare l’avviso. In qualità di personaggio, cioè di creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo, egli non aveva l’obbligo, lo so, di conoscere in quale orrendo e miserando scompiglio si trovasse in quei giorni l’Europa. S’era perciò arrestato alle parole dell’avviso: «in un momento come questo», e pretendeva da me una spiegazione. Erano ancora i giorni di torbida agonia che precedettero la dichiarazione della nostra guerra all’Austria, ed entravo di furia nello studio con un fascio di giornali, ansioso di leggere le ultime notizie. Mi si parò davanti: – Scusi… permette? – Non permetto un corno! – gli gridai. – Mi si levi dai piedi! Ha letto l’avviso? – Sissignore, appunto per questo… Se mi volesse spiegare… – Non ho nulla da spiegarle! Non ho più tempo da perdere con lei! Via! Vuole le sue carte, i suoi documenti? Venga, entri, prenda e se ne vada! – Sissignore… ecco, ma se volesse dirmi almeno che cosa è accaduto?… Sperando di farlo schizzar per aria, polvere, come per una cannonata a bruciapelo, gli urlai in faccia: – La guerra! Rimase lì impassibile, come se non gli avessi detto nulla. – La guerra? Che guerra? Me lo tolsi davanti con uno strappo violento; entrai nello studio, sbattendogli la porta in faccia; e, buttandomi sul divano, corsi con gli occhi alle ultime notizie dei giornali, se finalmente la dichiarazione di guerra era avvenuta, se gli ambasciatori d’Austria e di Germania erano partiti da Roma, se c’erano già i primi fatti d’armi per mare o alla frontiera. Nulla! ancora nulla! E fremevo. «Ma come? ma come?», dicevo. «Che s’aspetta? E che aspettano ancora questi signori ambasciatori, dopo le sedute solenni della Camera e del Senato e il delirio di tutto un popolo che da tanti giorni grida per le vie di Roma guerra, guerra! Son diventati sordi? ciechi? L’albagìa tedesca, la tracotanza austriaca dove sono più? Quattro, cinque volte, nei giornali del mattino, nei giornali del pomeriggio, in quelli della sera s’è loro annunziato che i treni speciali sono pronti per essi. Niente. Sordi. Ciechi. E intanto a Trieste, a Fiume, a Pola, in tutto il Trentino si fa scempio e strazio dei nostri fratelli che ci aspettano; e noi li abbiamo lasciati partire protetti e tranquilli, i signori sudditi austriaci e tedeschi!» Mentre così pensavo, fremendo, m’avvenne di levar gli occhi dal giornale, e che vidi? Lui, quel petulante, quell’insoffribile personaggio, ch’era entrato non so come, non so donde, e se ne stava pacificamente seduto su una poltroncina presso una delle finestre che guardano sul mio giardinetto, tutto ridente e squillante, in quei giorni di maggio, di rose gialle, di rose bianche, di rose rosse e di garofani e di geranii. Guardava fuori, con faccia beata, i cipressi e i pini di Villa Torlonia dirimpetto, dorati dal sole, abbagliati sotto l’intenso azzurro del cielo e stava a udire con delizia evidente il fitto cinguettio degli uccellini felicemente nati con la stagione e il chioccolio della fontanella del mio giardinetto. La sua vista inopinata, quel suo atteggiamento di delizia mi suscitarono una rabbia che non so dire: una rabbia che avrebbe dovuto lanciarmi addosso a lui, e invece restava lì come schiacciata dal peso d’uno stupore, ch’era anche nausea e avvilimento. Gli vidi, a un tratto, voltare verso me quella beata faccia. Con l’orecchio intento e una mano appena levata: – Sente? – mi disse, – sente che bel trillo? È un merlo, questo, sicuramente. Afferrai i giornali stesi su le ginocchia con l’impeto di piombargli con essi sopra ad accopparlo, urlandogli nel furore tutte le ingiurie, tutti i vituperii che mi venivano in bocca. E poi? Sarebbe stato inutile. Scaraventai a terra i giornali, puntai i gomiti su le ginocchia, mi presi la testa tra le mani. Poco dopo, con placida voce, quegli ricominciò a dire: – E che c’entro io, scusi, se il merlo canta? se le rose ridono nel suo giardinetto? Corra a mettere la museruola a quel merlo, se le riesce, e a strappar queste rose! Non credo, sa, che se la lasceranno mettere la museruola gli uccellini; e tutte le rose di questo maggio da tutti i giardini, non le sarà mica facile strapparle… Mi vuol far saltare dalla finestra? Non mi farò male; e le rientrerò nello studio dall’altra. Che vuole che importi a me, agli uccellini, alle rose, alla fontanella della sua guerra? Cacci il merlo da quell’acacia; se ne volerà nel giardino accanto, su un altro albero, e seguiterà di lì a cantare tranquillo e felice. Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa; e gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi. Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra, debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra. Un cataclisma, una catastrofe, guerre, terremoti la scacciano da un punto; vi ritorna poco dopo, uguale, come se nulla fosse stato. “
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Brano tratto da:
Luigi Pirandello, Colloquii coi personaggi.
NOTA: il racconto breve Colloquii coi personaggi fu pubblicato per la prima volta a puntate sul quotidiano palermitano Il Giornale di Sicilia (17-18 agosto e 11-12 settembre 1915; il Regno d’Italia era entrato in guerra il 24 maggio). Assieme ai racconti Personaggi e La tragedia d’un personaggio questo testo ha fornito lo spunto per l’innovativo Sei personaggi in cerca d’autore, dramma rappresentato per la prima volta il 9 maggio 1921 al teatro Valle di Roma.
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Con mia grande sorpresa, ho scoperto che non tutti sono d’accordo con la semplice affermazione che dà il titolo a questo post, affermazione che ora riscriverò per chi non avesse voglia di andare su a rileggerla: gli uomini sono più violenti delle donne.In generale, dico. Poi è ovvio che esistano uomini mansueti come gattini e donne violente come uomini.Com'è possibile che tante persone non lo vedano? Per me è un dato sensoriale di prima mano, come dire che il cielo è blu, il fuoco scotta o i rapper milanesi sono alghe.È vero che le mie esperienze personali mi hanno avvantaggiato, visto che è da quando sono nato che sperimento la violenza maschile in tutte le sue forme: scortesie, prepotenze, insulti e a volte, quando ero più giovane, anche cazzotti. Ah, quanti ricordi! Mentre della violenza femminile non ho molta cognizione.Per questo motivo, per aiutare chi non è stato fortunato come me, ricorrerò alle statistiche. A differenza dei casi personali, che ognuno ha un po' i suoi, le statistiche hanno un valore generale.Iniziamo con gli omicidi. In base a uno studio delle Nazioni Unite (link), il 95% dei condannati per omicidio sono uomini. Novantacinque, percento, uomini. È tantino. E questa percentuale è più o meno la stessa in tutti i paesi considerati e per tutti i tipi di arma utilizzata: pistola, coltello, cotoletta alla bolognese. Che sia giorno o che sia notte, con il sole o con la pioggia, se una persona ti sta ammazzando è quasi sicuramente un uomo. Uno potrebbe dire: va beh, ma la criminalità mondiale è gestita dagli uomini, come le banche. È ovvio che gli assassini siano perlopiù loro.Questa si chiama ipotesi ad hoc: invece di trarre la conclusione più semplice, si introduce un elemento che può spiegare i dati in un altro modo. Allora consideriamo esclusivamente gli omicidi di coppia, chiamiamoli così. Nello stesso studio si legge che, se consideriamo solo le persone uccise dal proprio partner, il 79% delle vittime sono donne. Un altro potrebbe dire: grazie, ma gli uomini hanno una maggiore forza fisica. È ovvio che in un combattimento all'ultimo sangue in tinello vincano loro.Altra ipotesi ad hoc. Consideriamo lo stalking. Per spiare una persona, assillarla col telefono, minacciarla e farsi trovare nudi nella sua vasca da bagno, non serve la forza fisica, basta avere costanza, dedizione e tanta voglia di realizzare i propri sogni, anche se questi sogni coincidono con l'incubo di quella persona. In una parola, basta essere violenti.In base a una survey condotta negli USA dai Centri per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (link), le donne che nell'arco della loro vita hanno subito almeno un episodio di stalking sono circa il triplo degli uomini. Ipotesi ad hoc: sì, ma gli uomini non vanno a denunciare i loro stalker, mentre le donne basta che le sfiori con un grissino e corrono subito alla polizia. Secondo un rapporto speciale del Dipartimento di Giustizia USA basato su un'altra survey (link), gli uomini denunciano i loro stalker nel 37% dei casi, mentre le donne nel 41%, una differenza troppo piccola per essere considerata significativa. Questa non è una mia opinione personale, eh, non mi permetterei mai, è scritto nel rapporto (pag. 8).Sempre nello stesso rapporto si legge anche una cosa abbastanza curiosa: mentre gli stalker delle donne sono soprattutto uomini (67%), gli stalker degli uomini non sono soprattutto donne (43%). Non è bellissimo? Volevo dire "convincente". Non è convincente? Ipotesi ad hoc: no. La consapevolezza della propria superiorità fisica dà il coraggio di fare stalking con una persona più debole, anche se poi magari non si rende necessario picchiarla. Prendiamo allora un tipo di violenza in cui la forza fisica non conta assolutamente niente, la violenza contro se stessi. Che ci vuole a suicidarsi? Basta avare la forza di saltare giù da un ponte, non è faticoso. Una volta scavalcata la ringhiera, fa tutto la forza di gravità. Eppure, nonostante il suicidio sembri una cosa "da signorine", secondo l'OMS gli uomini si suicidano molto più spesso delle donne. Per ogni donna che si suicida, ci sono almeno tre uomini che fanno altrettanto (link). Ipotesi ad hoc: va beh, ma che vuol dire? Nel tipo di società in cui viviamo, gli uomini sono più esposti alle pressioni sociali, dunque è più facile che siano portati a uccidersi. Tante donne, invece, fanno ancora le casalinghe ed è improbabile che una si uccida perché ha fatto bruciare lo sformato. Gli incidenti stradali. Ad hoc: Gli incidenti stradali? Gli incidenti stradali possono essere causati da comportamenti aggressivi coi piloti avversari. Secondo uno studio basato sui dati del Dipartimento dei Trasporti USA (link), gli uomini fanno molti meno incidenti mortali delle donne. Ad hoc: Ah! Visto? Quindi non è vero che gli uomini sono più violenti. Del resto, si sa, donna al volante, pericolo costante. Stavo scherzano, in realtà è il contrario. Secondo lo studio appena citato, gli uomini fanno 2,3 incidenti mortali ogni 100 milioni di miglia percorse, mentre le donne ne fanno 1,5. Si noti che, siccome gli incidenti sono contati per miglia percorse, questi valori non dipendono dal fatto che ci sono più uomini che guidano. Ci fosse anche una sola donna che guida, questa morirebbe 1,5 volte appena ha percorso 100 milioni di miglia. Ci metterebbe solo molto tempo.Se poi consideriamo l'età degli amori (16-29 anni), la differenza diventa ancora più grande (6,2 incidenti mortali per gli uomini, 3,1 per le donne). Ad hoc: ma le cause di un incidente possono essere tantissime: la stanchezza, l'alcol, gli occhiali appannati, non c'è mica solo l'aggressività. A questo proposito ho fatto una statistica personale molto accurata: quelli che lampeggiano in autostrada. Ad hoc: eh? Quelli che lampeggiano in autostrada. Ad hoc: ok. Intendo quelli che vogliono che ti levi di mezzo solo perché si sentono i padroni del mondo. Comportamento abbastanza innocuo, ma decisamente aggressivo. È come se uno ti desse dei calci nelle caviglie mentre sei in coda al supermercato nella speranza che tu sparisca. Quando una di queste persone mi lampeggia, io adotto una procedura che mi permette di studiare attentamente la sua faccia nello specchietto retrovisore. Ne parlo in un vecchio post (link).Ora, in tanti anni di onorata carriera autostradale, ho avuto modo di osservare centinaia e centinaia di lampeggiatori. Gli uomini non li ho contati, sarebbe stato come contare la sabbia del mare, invece ho contato le donne, le ho contate e mentalmente annotate, e posso dire con una certa precisione che finora sono state in numero di: una. Centinaia di uomini, una donna. 1. 👩. Ad hoc: questa è colpa del tuo bias cognitivo che non ti fa vedere i miliardi di donne che guidano col coltello fra i denti, lampeggiando e clacsonando a tutto ciò che respira. Non posso dimostrare che non sia così. Dico però questo: un'ipotesi ad hoc non è necessariamente sbagliata, ma se per spiegare cento statistiche diverse servono cento ipotesi ad hoc diverse, allora bisogna arrendersi alla conclusione più semplice che le spiega tutte in una volta sola: gli uomini sono più violenti delle donne.E se non sei d’accordo, ti spacco la faccia.
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A luglio Antonio un nome non ce l'ha ancora, l'aria è rovente e il piccolo ombrellone che ha comprato, più per proforma che per reale volontà, non basta davvero a coprirgli la schiena, l'acqua nella borsa frigo si riscalda velocemente e il suo cellulare sembra bollire nonostante le premure.
Ha archiviato l'ultimo esame con un sospiro di sollievo, l'afa romana che faceva appiccicare le suole delle scarpe all'asfalto e l'urlo di gioia sulle scale di Lettere, ed ora progetta la tesi libro dopo libro, una birra gelata alla volta, riscrive la vita una decisione giusta dopo l'altra — e così decide di avvicinarsi un passettino al nuovo compagno della madre, che si è ostinato a non voler apprezzare anche se è una brava persona, e così decide di fare il bravo fratello con Chiara che, pur non condividendo lo stesso sangue, è sua sorella dalla prima volta che l'ha vista ed ora si pente di non esser stato presente quanto avrebbe voluto.
E lei gli parla tanto, parla delle sue paure per l'università che comincerà a breve, del suo dispiacere nel non vedere più quel compagno che le faceva tremare le mani, della sua eccitazione nel trasferirsi a Perugia, di piccole e grandi cose che Flavio ascolta con pazienza, a cui risponde con affetto, l'aria di mare che scompiglia loro i capelli e il sole che macchia il naso di efelidi.
A luglio Antonio non è ancora Antonio, è solo quel ragazzo col costume blu di cui non conosce il nome ma che, ogni tanto, arriva a chiedere se uno dei due vuole giocare, ché son sempre dispari e non c'è modo di far le squadre — poi diventa il ragazzo con gli occhi azzurri ed il sorriso che sa di buono che lavora al bar sotto casa e scherza con tutti e prende la vita come deve esser presa e non come la prendono gli adulti, che parla dei suoi progetti asciugando i bicchieri, che un paio di volte l'ha invitato a scendere a fumare una sigaretta con lui quando Flavio non riesce a dormire e aspetta il sonno fuori dal balcone e Antonio lo vede chiudendo la saracinesca del bar.
Settembre a Roma è ancora sudaticcio ed i tram su viale Regina Margherita passano in ritardo, lo zaino pesa di un portatile che ha visto giorni migliori e minaccia di abbandonarlo ma almeno l'abbronzatura resiste — e resiste il suono della risata che s'è fatto Antonio sentendolo lamentarsi del suo non riuscire a prendere davvero colore, quei capelli rossicci che gli regalano una pelle più chiara di quanto vorrebbe, il modo in cui l'altro aveva poggiato la mano sulla sua spalla per vedere la differenza. «Qua più che pallore elitario è aria di morte!» aveva sentenziato, serissimo, e Flavio gli aveva solo mollato una gomitata che aveva lasciato, senza volerlo, il segno.
Il lavoro scorre lento come la fila di macchine incolonnata davanti a lui, i pensieri invece corrono veloci e arrivano a Gabriele che presto si laureerà e con lui anche Rosa ─ per un secondo pensa a quanto gli mancheranno seduti sul suo divano a raccontarsi i segreti dell’universo un bacio alla volta, al modo che avevano di rubarsi il cibo quando pranzavano tutti insieme.
A settembre Antonio è solo un ricordo fresco ma abbastanza lontano, di quelli con un persistente retrogusto di salsedine e ghiaccioli al limone ─ ha il suo numero in rubrica e spesso l’osserva, l'elenco contatti di whatsapp che gli regala l’immagine dell’altro che, con aria sospettosa, sorseggia una Coca-Cola, addosso quel costume blu a cui ripensa un po' troppo spesso, gli occhiali da sole tra capelli spettinati.
Quando arriva è in ritardo perché non c'è stato verso di uscire prima da lavoro e i mezzi non passavano, la musica è già alta nelle casse e Rosa s'è già tolta le scarpe col tacco e balla con le sue amiche stringendo forte un bicchiere di birra.
Gabriele è dall'altra parte della stanza e chiacchiera con qualcuno che non riesce a riconoscere, nella penombra gli fa cenno di avvicinarsi non appena lo vede entrare, l'unico con la camicia stirata in un branco di maglie già sudate, già vissute — e gli fa così strano vederlo vestito bene, Gabriele che ha sempre buttato addosso le prime due cose che trovava, i capelli costantemente in disordine e la barbetta incolta che ora non ci sono più e quello che ha davanti è un ometto ordinato.
Ad ottobre Antonio è inaspettatamente di fronte a lui, con la camicia dentro ai pantaloni ed un bicchiere rosso in mano, e lo abbraccia come se si conoscessero da una vita davanti ad un perplesso Gabriele pronto a fare gli onori di casa — e gli chiede di Chiara, di come va a Perugia, indica i suoi occhi e dice solo «Ma allora ogni tanto te li levi.» e lui ci mette un po' a capire che sta parlando degli occhiali da sole, si tocca la faccia come se ci sentisse qualcosa sopra.
«Ma allora ogni tanto te li metti.» replica lui, indicando i pantaloni, e Antonio scuote la testa, butta giù un sorso di qualsiasi cosa ci sia dentro al bicchiere che stringe nella destra, alza le mani in segno di resa.
Gabriele li guarda interagire per un po', in silenzio, non fa domande ma, mentre si allontana, gli chiede con gli occhi di non far cazzate — «Come hai fatto con Francesca.» gli dice il suo cervello, «Come voleva farti fare Lorenzo.»
Antonio, invece, non dice niente: gli piazza un piattino in mano e attribuisce, forse, il suo essere stralunato ad un calo glicemico.
«Ma tu lo sai che mi sono trasferito a Roma due settimane fa?»
Novembre arriva con la pioggia e le scarpe di tela inzuppate, le domeniche libere al museo, ché «Io a Roma ci son sempre e solo stato con la scuola, le cose belle tutte me le devi far vedere!», e quelle meno libere allo stadio, le partite sul divano e la sua chat di WhatsApp in cima alla lista.
Gli fa pizzicare il naso come i sipari polverosi del vecchio teatro in cui il gruppo di Antonio fa le prove, lo ascolta recitare lo stesso copione dieci, cento, mille volte e ci vede dentro ogni volta una persona diversa, lo vede consumare i giorni e le suole delle scarpe mentre cerca di costruire qualcosa un passo dopo l'altro.
Novembre sfuma tra le facce di tutte le persone che l'altro gli fa conoscere («Se vuoi essere un bravo attore devi conoscere gente, gente in generale, devi proprio impararli bene gli esseri umani!»), la tesi da stampare, e le chiamate di Gabriele che gli chiede come va, cosa fa, se è tranquillo, come va con la tesi — e Flavio risponde sempre di buon grado, risponde sì a tutto, risponde a tozzi e bocconi solo quando si parla di Antonio.
«Siamo buoni amici, Gabriè.» ripete sempre e l'altro sospira di rimando, non chiede anche se sente l'interrogativo nei suoi sospiri un po' avviliti.
«Stavolta se fai una cazzata te ne penti davvero, fidati di Capriè tuo.»
Dicembre quasi non lo sente, scivola via tra la laurea, Chiara che scende per lui e resta per Natale, che gli racconta di quanto è felice, che sembra un po' più grande di quando l'ha lasciata andare, capodanno a Terminillo e infinite partite a scopone, Antonio che lo bacia il ventisette dicembre davanti all'uscita sul retro del teatro e che poi sparisce fino al dieci gennaio, lui che vede l'anno vecchio andarsene un biscotto alle nocciole alla volta, sua madre che quasi non ci crede.
Gennaio è d'assestamento: è fatto di scosse e momenti tranquilli, di affanni e dubbi e riorganizzazione, a tratti è difficile capire come andrà a finire, a tratti è invece tutto chiaro e cristallino.
Gennaio esiste su un altro piano temporale e Flavio lo subisce, più che viverlo, guarda i giorni srotolarsi con i gomitoli di sua nonna quando li faceva cadere a terra da bambino e quelli rotolavano sul pavimento prima di fermarsi contro la credenza e lui passava pomeriggi interi a riavvolgerli come ora riavvolge i suoi pensieri, prima che il prossimo messaggino compaia sullo schermo del suo telefono, prima della prossima risposta sfuggente a chi fa domande ─ e sua nonna cerca di capire cosa sia successo e lui cerca di buttare i chili presi a Natale nonostante lei gli riempia il piatto, si chiede se è davvero pronto ad affrontarsi mentre Antonio, metodicamente e senza scalpore, raschia via un po’ di maschera alla volta e gli spiega cosa c’è sotto a quel sorriso ─ e Flavio si chiede se non sia ora, a sua volta, di smontare l’armatura e Antonio che, senza saperlo, ne porta via un pezzettino alla volta.
Febbraio non ha senso, è solo umido e fatto di decisioni sul filo del rasoio, di ennesimi arrivederci ad amici che sa che non rivedrà se non in nostalgiche rimpatriate tra vent’anni, baci caldi in macchina e mani gelate appena si esce, Antonio che gli frega un cappello e lui che gli ruba il tempo libero e un paio di confessioni.
Marzo non esiste, portato via dal vento che sferza la capitale, dal polline dai temporali improvvisi, da tutte le parole che si vomitano addosso e che, in alcuni punti, fanno male.
Aprile li trova abbracciati nello stesso letto, scatolette di antistaminici sul comodino e vestiti buttati alla rinfusa su due sedie diverse, le coperte alla rinfusa e il respiro dell’altro addosso.
E Flavio si ritrova a pensare che lei sei di mattina non le ha mai viste a casa sua, ché di solito è già fuori a correre e non lo sa che ombre proiettano le tapparelle sul pavimento, sull’armadio con un’anca un po’ sbilenca che deve decidersi a sistemare.
Antonio gli dice che lui le sei di mattina le conosce proprio bene, ché andava a scuola un po’ a fanculo rispetto a dove viveva e ci si doveva svegliare presto per salire sull’ennesimo autobus un po’ troppo pieno, ché però le sei di mattina a Roma sembrano diverse ─ e come le racconta lui sembrano diverse davvero, belle di quella bellezza di chi le cosa ha imparato a conoscerle e non c’è stato gettato dentro a forza, e si ferma a pensare che a lui piace così, ancora troppo addormentato per esercitarsi come al suo solito con la dizione che si è imposto di imparare, con le parole che, anziché fluire fuori senza sosta come al solito, arrivano con lunghe pause che quasi sembrano volute.
Ad aprile Antonio sa già d’estate e Flavio non sa cosa questo potrebbe significare, l’altro continua ad insistere perché resti a casa sua quando può e lui, senza accorgersene, ha già piazzato il suo dopobarba nell’armadietto dell’altro ed un paio di suoi libri che deve ancora finire di leggere sul mobile dell’ingresso.
Maggio è fatto di piccole sorprese, di Giacomo che viene preso a Mantova, di Gabriele che diventerà padre e di Rosa che lo dice ridendo, di sua madre che dice di volersi sposare ma che «Tranquillo, non sarà prima dell’anno prossimo.», l’albero che oscurava il lampione davanti alla sua finestra che viene tagliato e Antonio che inizia a venire a pranzo a casa sua sempre più spesso, Cicerone che inizia a fargli le fusa e suo nonno che davvero non sa che dire e si limita solo a stringere la mano della nonna.
È giugno quando Chiara gli chiede se stanno insieme e lui, per la prima volta, risponde pubblicamente sì.
Sua sorella gli sorride dall’altra parte dello schermo, il viso un po’ pixellato a causa della connessione stranamente lenta, e Antonio che sospira a fondo nella stanza accanto, che si alza quando ha ormai chiuso la chiamata per baciarlo ─ quel pomeriggio fanno l’amore senza urgenza, con i telefoni spenti e le tapparelle abbassate, Cicerone che sembra quasi capire la situazione e, per la prima volta, non sale sul letto.
A luglio Antonio non è più solo Antonio, ha smesso di esserlo ormai da mesi, ed è anche il suo ragazzo, il suo migliore amico, sdraiato placidamente sul telo mare accanto al suo, gli occhiali da sole appoggiati sull’asciugamano e le sopracciglia un po’ aggrottate.
Ha addosso lo stesso costume blu che aveva quando l’ha conosciuto, gli ha rivelato che ne ha due per sbaglio, ché uno se l’è comprato da sé e l’altro gliel’ha fatto trovare sul letto sua madre appena poche ore dopo, e che davvero non capisce perché il blu sia il colore della tristezza ─ e, a guardarlo, neanche Flavio lo capisce: ché il blu è come Antonio e, più che della tristezza, è il colore della profondità, di quel che c’è sotto, è il colore del mare, del cielo, e degli occhi del ragazzo che gli ha letteralmente fatto perdere l’appiglio ai pochi (e sbagliati) punti saldi che aveva.
E la sua vita inizia a sembrare un po’ un cliché ma non se ne lamenta, perfino quei giorni in cui tutto quel che fanno è abbaiarsi parole che sembrano stranamente in linea, come se ci fosse bisogno di scuotere la scatola per trovare il pezzo del puzzle giusto.
«Pensa che, se non ci fosse stata Chiara, io l’anno scorso dovevo annà ‘nvacanza a Santorini: ‘nt’avrei mai beccato.» borbotta, a mezza bocca, mentre stanno tornando a casa con l’ombrellone sotto braccio e Antonio si ferma solo, in mezzo alla strada, appoggia l’ombrellone a terra e lo guarda solo stralunato.
«Pensa che, se non avessi trovato quel lavoretto a Gaeta, io dovevo andare a fare l’animatore a Santorini.» _________________________________________________________
Questa cosina doveva saltar fuori per il compleanno di Anna cara (dove ti taggo? @blogitalianissimo? @putesseessereallero?) ma, sorpresona, come la ritardataria che sono non ci sono riuscita. PERO’, ECCO, REGALO IN RITARDO SPERO TI PIACCIA <3
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I libri e gli autori citati in “Chiamami col tuo nome” (libro e film) 1) Armance di Stendhal: Elio regala una copia di questo libro a Oliver (nel libro, nel film lo tiene Oliver tra le mani il giorno dopo la notte passata con Elio) . Un taciturno ma brillante giovane uomo chiamato Octave de Malivert è attratto da Armance Zohiloff, che condivide i suoi sentimenti. Il libro continua sui fraintendimenti che li hanno tenuti separati Tuttavia, quando si sposano, non possono consumare il loro amore, perché Octave soffre di "impotenza". Armance è basato su un altro romanzo, chiamato "Olivier" o "Le Secret", di Claire de Duras (1821-1823). Il libro di Claire evoca l'omosessualità maschile mascherata da "impotenza". 2) Cristo si è fermato a Eboli ( di Carlo Levi (1945) (solo nel libro di Aciman) Elio fa uno scherzo ad Oliver riferendosi a questo libro per dire che Bordighera è l'unico posto dove il treno con a bordo Gesù Cristo era sfrecciato senza fermarsi. E' il racconto dello scrittore che fu condannato all'esilio a causa della sua opposizione al regime fascista italiano. 3) Iliade di Omero (VIII secolo aC) (solo nel libro di Aciman)- Elio menziona che era lui Glauco e Oliver era Diomede, entrambi personaggi nel poema epico. Come è detto nell'Iliade, Glauco in guerra si ritrovò faccia a faccia con Diomede ma, scoperto un antico legame di ospitalità, entrambi rifiutarono di battersi e si scambiarono dei doni: Glauco offrì a Diomede la sua armatura d'oro del valore di cento buoi ricevendo in cambio quella in bronzo di Diomede - meno preziosa ma più efficace in battaglia - che valeva nove buoi). 4) Inferno di Dante (solo nel libro di Aciman) - Elio cita: "Amor, ch'a nullo amato amar perdona" è il verso 103 del canto V nell'Inferno della Divina Commedia, dedicato all'amore tra Paolo e Francesca. 5) The Well Beloved di Thomas Hardy (1897) - (Solo nel libro di Aciman) Elio chiede a Oliver nel loro primo incontro dopo quell'estate se avesse mai letto il romanzo. Il romanzo racconta la storia della ricerca dello scultore Jocelyn Pierston della donna ideale, attraverso tre generazioni della stessa famiglia. 6) Heart of Darkness, di Joseph Conrad (1899) (solo nel film), è il libro che Elio legge durante la scena della pesca . Un capitano inglese di nome Charles Marlow intraprende un viaggio fino al fiume Congo. Egli è ossessionato da un commerciante di avorio di nome Kurtz. Marlow è un personaggio ambiguo, che presenta sia tendenze omosessuali che eterosessuali. 7) Cosmic Fragment di Eraclito" (nel libro e nel film) Oliver sta lavorando ad un libro su Eraclito, da cui è tratto questo passo che Elio legge nel film "Il significato del fiume che scorre non è che tutte le cose stiano cambiando, così che non possiamo incontrarle due volte, ma che alcune cose rimangono le stesse solo cambiando". 8) Lucrezio Edizione rossa Loeb (nel libro di Aciman) Oliver afferra il libro insieme ai suoi occhiali da sole quando arriva Chiara. 9) L'Heptameron di Margaret of Valois (nel libro e nel film) Annella traduce la storia in tedesco con papà Perlman ed Elio. Più tardi la storia è discussa tra Elio e Oliver a bordo piscina. "E meglio parlare o morire". L'Eptameron è una raccolta di racconti e tra cui si narra della storia di una giovane nobildonna spagnola che è vedova e che resiste alle avances di un guerriero di nome Amadour diventando suora. 10) Parole di Antonia Pozzi, una raccolta di poesie (solo nel film), Elio dona a Marzia il libro. La poetessa si è suicidata in giovane età perchè suo padre era contro l'uomo che amava. Le sue poesie parlano del desiderio per il suo amante, con il quale non poteva stare. 11) Paul Celan (solo nel libro) Oliver fa riferimento alla passione di Elio per Celan quando parla con Chiara. Inoltre Elio collega il rapporto con Oliver alla frase di Celan "Zwischen Immer und Nie. Tra sempre e mai" e la trascrive come dedica ad Oliver sulla copia di Armance che poi gli regala. 12)P. Shelley - (solo nel libro) Elio e Oliver parlano in piedi vicino al punto in cui è Shelley è annegato, la cosiddetta baia dei poeti, e cita l''epigrafe che la moglie di Shelley fece apporre sulla tomba del marito "Cor Cordium" dopo che il cuore gli fu estratto dal corpo da un amico prima che fosse cremato. La frase viene usata oggi per significare "dal più profondo del mio cuore" 13) Edgar Allan Poe (solo nel libro) Elio fa riferimento a Poe quando racconta che ogni volta che passa per Roma torna sempre nel posto dove lui e Oliver si erano baciati contro il muro e dice "per me è ancora vivo, risuona ancora di qualcosa che appartiene al presente in tutto e per tutto, come se sotto l'antico marciapiede in ardesia battesse ancora un cuore rubato da un racconto di Poe, per ricordarmi che qui avevo trovato la vita perfetta per me ma non ero stato capace di viverla 14) Cime tempestose (solo nel libro) Quando Oliver indossa il costume da bagno di Elio, questi medita sul concetto degli individui che "diventano così totalmente duttili che ognuno diventa l'altro" e conclude che Oliver "è stato il mio segreto canale verso me stesso". Elio pensa a una citazione di Emily Bronte: "è più me stesso di me." 15) Montaigne (nel libro e nel film) Quando Elio risponde "Oliver era ... Oliver", suo padre cita la famosa frase contenuta nel saggio di Montaigne riguardo la sua amicizia con La Boétie: "Parce que c'était lui: parce que c'était moi" (perché era lui: perché ero io) 16) M Heiddeger - (nel film) è in un passo del libro che Oliver legge ad Elio sul bordo piscina, relativo all'interpretazione di Heiddeger del pensiero dei filosofi greci riguardo all'accezione negativa della parola verità, intesa come occultamento, ovvero nascondere qualcosa sia a se stessi che agli altri.
Ho riassunto in questi post tutti (credo) i riferimenti a libri o ad autori che vengono fatti sia nel libro che nel film. 1) Armance di Stendhal: Elio regala una copia di questo libro a Oliver (nel libro, nel film lo tiene Oliver tra le mani il giorno dopo la notte passata con Elio) . Un taciturno ma brillante giovane uomo chiamato Octave de Malivert è attratto da Armance Zohiloff, che condivide i suoi sentimenti. Il libro continua sui fraintendimenti che li hanno tenuti separati Tuttavia, quando si sposano, non possono consumare il loro amore, perché Octave soffre di "impotenza". Armance è basato su un altro romanzo, chiamato "Olivier" o "Le Secret", di Claire de Duras (1821-1823). Il libro di Claire evoca l'omosessualità maschile mascherata da "impotenza". 2) Cristo si è fermato a Eboli ( di Carlo Levi (1945) (solo nel libro di Aciman) Elio fa uno scherzo ad Oliver riferendosi a questo libro per dire che Bordighera è l'unico posto dove il treno con a bordo Gesù Cristo era sfrecciato senza fermarsi. E' il racconto dello scrittore che fu condannato all'esilio a causa della sua opposizione al regime fascista italiano. 3) Iliade di Omero (VIII secolo aC) (solo nel libro di Aciman)- Elio menziona che era lui Glauco e Oliver era Diomede, entrambi personaggi nel poema epico. Come è detto nell'Iliade, Glauco in guerra si ritrovò faccia a faccia con Diomede ma, scoperto un antico legame di ospitalità, entrambi rifiutarono di battersi e si scambiarono dei doni: Glauco offrì a Diomede la sua armatura d'oro del valore di cento buoi ricevendo in cambio quella in bronzo di Diomede - meno preziosa ma più efficace in battaglia - che valeva nove buoi). 4) Inferno di Dante (solo nel libro di Aciman) - Elio cita: "Amor, ch'a nullo amato amar perdona" è il verso 103 del canto V nell'Inferno della Divina Commedia, dedicato all'amore tra Paolo e Francesca. 5) The Well Beloved di Thomas Hardy (1897) - (Solo nel libro di Aciman) Elio chiede a Oliver nel loro primo incontro dopo quell'estate se avesse mai letto il romanzo. Il romanzo racconta la storia della ricerca dello scultore Jocelyn Pierston della donna ideale, attraverso tre generazioni della stessa famiglia. 6) Heart of Darkness, di Joseph Conrad (1899) (solo nel film), è il libro che Elio legge durante la scena della pesca . Un capitano inglese di nome Charles Marlow intraprende un viaggio fino al fiume Congo. Egli è ossessionato da un commerciante di avorio di nome Kurtz. Marlow è un personaggio ambiguo, che presenta sia tendenze omosessuali che eterosessuali. 7) Cosmic Fragment di Eraclito" (nel libro e nel film) Oliver sta lavorando ad un libro su Eraclito, da cui è tratto questo passo che Elio legge nel film "Il significato del fiume che scorre non è che tutte le cose stiano cambiando, così che non possiamo incontrarle due volte, ma che alcune cose rimangono le stesse solo cambiando". 8) Lucrezio Edizione rossa Loeb (nel libro di Aciman) Oliver afferra il libro insieme ai suoi occhiali da sole quando arriva Chiara. 9) L'Heptameron di Margaret of Valois (nel libro e nel film) Annella traduce la storia in tedesco con papà Perlman ed Elio. Più tardi la storia è discussa tra Elio e Oliver a bordo piscina. "E meglio parlare o morire". L'Eptameron è una raccolta di racconti e tra cui si narra della storia di una giovane nobildonna spagnola che è vedova e che resiste alle avances di un guerriero di nome Amadour diventando suora. 10) Parole di Antonia Pozzi, una raccolta di poesie (solo nel film), Elio dona a Marzia il libro. La poetessa si è suicidata in giovane età perchè suo padre era contro l'uomo che amava. Le sue poesie parlano del desiderio per il suo amante, con il quale non poteva stare. 11) Paul Celan (solo nel libro) Oliver fa riferimento alla passione di Elio per Celan quando parla con Chiara. Inoltre Elio collega il rapporto con Oliver alla frase di Celan "Zwischen Immer und Nie. Tra sempre e mai" e la trascrive come dedica ad Oliver sulla copia di Armance che poi gli regala. 12)P. Shelley - (solo nel libro) Elio e Oliver parlano in piedi vicino al punto in cui è Shelley è annegato, la cosiddetta baia dei poeti, e cita l''epigrafe che la moglie di Shelley fece apporre sulla tomba del marito "Cor Cordium" dopo che il cuore gli fu estratto dal corpo da un amico prima che fosse cremato. La frase viene usata oggi per significare "dal più profondo del mio cuore" 13) Edgar Allan Poe (solo nel libro) Elio fa riferimento a Poe quando racconta che ogni volta che passa per Roma torna sempre nel posto dove lui e Oliver si erano baciati contro il muro e dice "per me è ancora vivo, risuona ancora di qualcosa che appartiene al presente in tutto e per tutto, come se sotto l'antico marciapiede in ardesia battesse ancora un cuore rubato da un racconto di Poe, per ricordarmi che qui avevo trovato la vita perfetta per me ma non ero stato capace di viverla 14) Cime tempestose (solo nel libro) Quando Oliver indossa il costume da bagno di Elio, questi medita sul concetto degli individui che "diventano così totalmente duttili che ognuno diventa l'altro" e conclude che Oliver "è stato il mio segreto canale verso me stesso". Elio pensa a una citazione di Emily Bronte: "è più me stesso di me." 15) Montaigne (nel libro e nel film) Quando Elio risponde "Oliver era ... Oliver", suo padre cita la famosa frase contenuta nel saggio di Montaigne riguardo la sua amicizia con La Boétie: "Parce que c'était lui: parce que c'était moi" (perché era lui: perché ero io) 16) M Heiddeger - (nel film) è in un passo del libro che Oliver legge ad Elio sul bordo piscina, relativo all'interpretazione di Heiddeger del pensiero dei filosofi greci riguardo all'accezione negativa della parola verità, intesa come occultamento, ovvero nascondere qualcosa sia a se stessi che agli altri.
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SOLO QUALCUNO CHE HO CONOSCIUTO 3 parte Poi un giorno per un motivo stupido, che nemmeno ricorderemo tra dieci anni, smetterai di chiamarmi per nome o io smetterò di risponderti, ci perderemo e saremo solo due persone che si sono conosciute. La scala mobile ci porta su in silenzio e una volta in strada non c’è il sole a giustificare i tuoi occhiali scuri ma scoppia a piovere e tu ti levi la giacca per coprirti la testa poi ti avvicini e copri anche me. ‘Mi chiamo Margherita’ dico guardandoti negli occhi. ‘Io sono uno come tanti, se vai anche tu in quella direzione facciamo un pezzo di strada insieme Margherita.’ Sorrido, che belli che sono i tuoi occhi, lo so, faremo un pezzo di strada insieme, in fondo la vita non è che questo. (Estratto da Margherita -L’amore uccide lentamente di Karen Lojelo)#karenlojelo #amazonbooks #amazonbestseller #kindle #margheritalamoreuccidelentamente #libro #scrittrice #ioscrivo #raccontibrevi #citazionilibri #margherita #quotes #metropolitana (presso Nowhere) https://www.instagram.com/p/CHpIPtPn5Rz/?igshid=s7baby5mh2r3
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Il Viaggio della Memoria: testimoniare ciò che è stato
Si dice che la violenza sia insita nell'uomo, che sia parte imperfetta dell'umanità ma, quei fatti accaduti tra il 1939 e il 1945, corrispondenti allo sterminio denominato Shoah o Olocausto, sono oltre a ciò che è umano e i sopravvissuti hanno dato le loro testimonianze che sottoscrivo per il dovere che mi è stato dato ed è stato ricevuto a chi ha affrontato quest'oggi il viaggio della memoria: testimoniare ciò che è stato. Il principio del disastro furono i ghetti: uno dei primi fu quello di Cracovia (in Polonia). Delimitato dalla città da due barriere naturali, che sono il fiume Vistola e uno strapiombo vicino a un asilo, costudisce l'inizio drammatico testimoniato dalle molteplici storie. Il ghetto appare come un quartiere normalissimo di una qualunque grande città, palazzi, negozi e famiglie che trascorrono la loro quotidianità, eppure quelle mura, quelle costruzioni non trasmettono quiete né serenità bensì una sensazione di pesantezza, di una malinconia percepita dall'anima. Come un carcere, gli ebrei che vivevano lì non avevano possibilità di uscire, erano prigionieri senza colpe quando passeggiavamo per le loro familiari strade dovevano guardarsi le spalle, tenere lo sguardo basso perché i generali nazisti, spesso, sparavano e uccidevano uomini di cui non conoscevano il nome né le colpe solo perché gli era stato ordinato, poiché non avevano coscienza ma solo malignità. Nonostante ciò, nel ghetto lavorava il primo Giusto fra le nazioni, un farmacista, Tadeusz Pankiewic, che aveva deciso di rimanere nel ghetto per lavorare nella sua farmacia con l'intento di poter aiutare gli ebrei portando loro medicine, cibo e cercando di farli uscire, usando la scusa del «gli Ebrei mi rovinano il business» abbindolando le SS per poter rimanere senza indurre sospetti. La farmacia si trova dove ora c'è la Piazza delle Sedie, chiamata così poiché sono allestite delle sculture in piombo, appunto, a forma di sedie: l'artista si è ispirato a una fotografia la quale raffigurava una bambina che portava con sé una sedia della sua scuola, ubbidendo agli insegnanti che avevamo ordinato di portarsi nel ghetto le sedie e i banchi della scuola così da costruire una nuova aula, gli insegnanti non hanno fatto altro che rassicurare i bambini, ricreando un ambiente familiare e affinché non perdessero lo studio, la conoscenza che è coscienza e coraggio. Nel ghetto c'era un asilo che è stato, purtroppo, anche ospite di una delle più grandi tragedie, ovvero l'uccisione dell'innocenza: la fine della speranza; una sera, i soldati nazisti andarono in quell'asilo per prelevare tutti i bambini (i genitori molto giovani li lasciavano all'asilo durante la giornata mentre erano a lavorare) per portarli nel bosco dietro dove c'era lo strapiombo, uno dei confini del ghetto, e lì compirono una delle più atroci azioni: li fucilarono. La morte di quegli innocenti era stata decisa per il bieco motivo che la loro perdita potesse limitare la volontà degli Ebrei di combattere, di vivere e sperare. Era oppressione, togliere tutto anche i bambini per non avere più nessun affetto a cui aggrapparsi. Quel luogo ora è un parco giochi circondato da uno strapiombo che pare voler caderti addosso. È surreale e mostruoso e io ho posto i miei passi lì, in quella quiete che era stata eco degli spari omicidi. Il ghetto si poteva considerare la prima stazione di quel treno che ha condotto migliaia di innocenti alla fine, ai campi di concentramento. Questi si dividono in tre tipologie: campi di lavoro, campi di concentramento e di sterminio (quest'ultimi presenti solo in Polonia). Il sistema di campi di Auschwitz (Auschwitz 1, Auschwitz 2 o Birkenau, Auschwitz 3 o Monowitz) è di quest'ultima tipologia. Auschwitz 2 o Birkenau, 120 ettari di sciagura delimitato dal filo spinato (elettrificato a 40 Volt), è uno dei più vasti campi di concentramento e di sterminio. Gli Ebrei, i criminali politici, i Testimoni di Geova, i Rom e i Sinti, omosessuali e asociali venivano deportati, come è risaputo, per la ferrovia che si estende oltre l'entrata del campo ammassati dentro i vagoni merci. Ce ne hanno mostrato uno: più che una vagone pare una grossa scatola di legno, ammuffito, senza aperture se non qualche foro. Lì dentro ci avrebbero dovuto trasportare merci come cibo o pacchi postali invece venivano ammassati decine di persone, senza cibo e acqua. Anche non entrandoci. Osservandolo dall'esterno si percepisce il senso di claustrofobia, l'istinto di sgomitare per recuperare il proprio spazio, per respirare, per vivere erge dalla ragione, la sensazione si perdere il respiro sembra reale. Birkenau è impressionante anche solo osservando l'entrata: immenso nella nebbia perenne, pare che la luce non lo abbia mai illuminato, il grigiore che aleggia in quella zona è il dolore immenso di tutte quelle donne, quegli uomini, quei bambini e quegli anziani che hanno patito e che ancora adesso percepiscono nel cuore, come i sopravvissuti Sami Modiano, Tatiana Bucci e Piero Terracina, che troppo giovani hanno conosciuto tutto il male dell'umanità. Birkenau diviene l'inferno in terra, non tanto per come si mostra ma per i racconti di chi ci è stato che sembrano materializzarsi in quei luoghi. Sami che a quattordici anni ha dovuto vedere il padre sottostare alle violenze dei nazisti, che ha dovuto patire il freddo, la fame, il lutto per la morte di suo padre e della sorella. Tatiana che ancora bambina ha visto tutto il suo mondo crollare, la sua infanzia andarsene via e di dover crescere troppo in fretta. Piero che ha visto tutta la sua famiglia andarsene poco a poco, essere ripudiato dal proprio Paese e dalle persone che conosceva per poi ritornare solo e senza nulla. Toglievano tutto: i propri beni, la propria identità, il proprio nome e la dignità e chi non era abbastanza forte o necessario (anziani, malati e donne incinte) per divertire il sadismo di quegli uomini che uomini non sono, veniva direttamente ucciso nelle camere a gas. Chi invece lo era, veniva portato alla Sauna, un edificio in cui levavano tutto e i deportati venivano registrati. Di legno erano le baracche dove dormivano gli uomini, nel lato destro, di muratura quelle delle donne, nel lato sinistro. 52 cavalli avrebbero dovuto stare nelle baracche invece dormivano oltre 209 persone! I bambini rimanevano soli assieme una donna che se ne occupava circondati dai disegni realizzati dagli adulti per allietare quei lunghi giorni senza sole e quelle lunghe notti su letti di cemento o legno senza sogni. Gli uomini che cercavano fra le donne, in lontananza, un viso familiare, la propria madre, moglie, figlia, sorella, le donne che cercavano il proprio padre, marito, figlio, fratello e resistevano semplicemente per ricordarsi di essere persone e non bestie come erano trattati. Chi si faceva forza o chi si abbandonava, chi si ripeteva la Divina Commedia (come Primo Levi) per ricordarsi di avere dignità e ragione o chi si lasciava trasportare dall'istinto. Così tante persone che non ci si rende conto di quante sono state dai numeri stampati sui libri ma dai ricordi che hanno lasciato, dei loro resti, dei loro vestiti. Ad Auschwitz 1, infatti, sono state allestite delle teche contenenti i beni dei deportati contenuti, allora, nella baracca Canada (il nome rimandava alla ricchezza come lo era, appunto, quel Paese). Questo secondo campo differisce da Birkenau per le strutture ma non diverse le sofferenze; è più piccolo (sono circa 12 ettari) e precedentemente era stato una caserma infatti lo si può notare dagli edifici a due o tre piani di muratura nei quali dormivano i deportati. Ora all'interno ci sono delle mostre dei beni ritrovati, camere intere che raccolgono occhiali, valigie con le firme dei proprietari, scarpe, abiti, creme, spazzole e persino capelli ancora pettinati o intrecciati con i nastri. Centinaia, migliaia, ogni oggetto rappresenta una persona viva o morta che è stata lì dentro e a me sembrava che per ogni di quegli oggetti si materializzasse chi la possedeva, ed erano così tante. C'erano anche fotografie: ragazzi e ragazze che sorridevano, famiglie in posa e ritratti delle persone care. Persone normalissime che hanno vissuto, amato, gioito e pianto, che hanno avuto una loro storia, le proprie idee e memorie che ora sono svanite perché qualcuno aveva deciso che doveva essere così. Qualcuno di così marcio si è preso il diritto di decidere chi doveva vivere o morire di malattie o di fame, fuciliate o nelle camere a gas. Camere a gas che non avevano parvenze di una doccia piuttosto di un magazzino, un parallelepipedo di cemento dove quando si entra non si riesce a respirare, non c'è luce se non dalle lampade o da quella filtrata dai fori di uscita nei quali veniva inserito il gas Zyklon B, sassolini grigio-verde dalla parvenza innocua che venivano fatte riscaldare per trasformarle in sassolini mortali. Un corridoio dalle pareti grigie che raccoglieva centinaia di persone ammassate addosso l'un l'altra, che a malapena riuscivano a dilatare i polmoni. Non sembra però una doccia, come viene spesso raccontato, i soffioni ci sono ma si scorgono a malapena e sono ossidati e l'atrio con il pavimento di legno marcio incute timore. Si comincia a tremare solo stando dinnanzi l'entrata, anche l'odore dell'aria è diversa, pesante e acida come lo è il cielo, smorto e incolore. Incolore è anche la stanza dei forni crematori, dall'altra parte, nel quale si trovano tre forni crematori piccoli e poco profondi e arrugginiti, il muro sovrastante è ancora nero per il fumo. È in questi luoghi che ci si rende conto della violenza e la pericolosità dell'indifferenza, di ciò che comporta il non sapere e il non denunciare, il silenzio e il cinismo. Questi viaggi sono organizzati non solo per conoscenza di nuovi fatti storici o per comprendere il dolore dei deportati ma per capire il dovere di non stare in silenzio di fronte alle violenze, di non sottostare a regimi oppressivi credendo a ogni cosa che viene detta, senza criticare e indagare. I sopravvissuti ci hanno passato il testimone, ci hanno dato la responsabilità di portare avanti e rendere eterni quei ricordi, quelle storie, non solo per noi ma per un futuro il migliore possibile. Un futuro in cui non deve succedere MAI PIÙ! Viviana Rizzo @ilbiancodellefarfalle https://www.bombagiu.it/il-viaggio-della-memoria-testimoniare-cio-che-e-stato/
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Domani
“Domani” lo ha scritto sulla lavagna di Iris.
Lo ha scritto perchè c’è qualcosa che vuole essere certo di ricordarsi di fare, domani.
Delle fin troppe cose che c’erano a casa di Maximilian Lee e Arthur Blake se ne sono salvate davvero poche. Una di queste, è un ormai vecchio album di fotografie, il tratto di Blake Diderot-Levy in prima pagina ad augurare alla coppia di aspettarsi sempre, e tante fotografie scattate a due uomini innamorati, giovani e felici.
Lamarac è un nuovo livello di assurdità ancora, e per un momento quasi ci si ritroverebbe a ridere per quanto essere rapito dagli alieni pure entri a fare parte delle sue esperienze e non sembri nemmeno troppo implausibile. I due soli che splendono nel cielo sul ponte (non invisibile e nemmeno del Caucaso) sospeso nel vuoto non gli bruciano la pelle, lui cammina in un ennesimo disastro a mento alto e aria fiera, Irene e Galen e Climber e Hakan assieme a lui fino alle porte intarsiate. Mr Hawk all’inizio lo prende solo per un galoppino, gli ci vuole un attimo per capire che il vero galoppino è il Faraone-Cesare-Wannabe-Tutancazzo, sul suo trono celestiale della minchia.
Ha passato la giornata a spostare il resto delle cose che appartengono a lui ed ai suoi figli nell’alloggio che condivide con Iris e gli altri bambini, ha pranzato e cenato con loro, fino a quando è rimasta solo una parete di fotografie nella sua vecchia stanza che si siede a guardare con il vecchio album sulle ginocchia e le dita che rigirano l’anello con la piuma all’anulare sinistro. Volta le pagine, fino a trovarne una vuota, da cui toglie la pellicola trasparente, la superficie adesiva pronta. La prima foto che stacca dalla parete è quella di un ragazzo coi capelli lunghi e un cane. Chissà se se avesse dato retta a zia Beth avrebbe salvato non una ma due vite quando lei diceva che Sydney Katz era più alla sua portata e al suo livello di Arthur. Sydney se lo ricorda come il ragazzo della pizza, con Belle di fianco e avvolto in ali color nocciola che non voleva saperne di nascondere sul serio; ricorda la sensazione delle piume sulla pelle nuda e il sapore del sesso occasionale nel letto in cui è cresciuto facendo l’amore con Jade- non vuole ricordare le lacrime o le sofferenze, solo lo scatto di quella foto, in una casa di Bella Vista, con l’odore penetrante di cane bagnato ancora nelle narici.
In poco tempo diventa chiaro che Mr Hawk è il vero problema, quando da sfoggio dei suoi poteri e mostra eventualità nemmeno remote. Assieme, arriva la consapevolezza che una popolazione così potente da tenere in scacco qualunque persona sulla Terra con laser misteriosi, è una popolazione nemica e che non può essere ignorata. Parte della frustrazione cresce al pensiero che quando (se) tornerà a casa non potrà semplicemente andare a Washington a sbattere in faccia al congresso la minaccia di Lamarac, prepararsi col resto del mondo ad un’altra guerra, che può farsi chiamare Vice Comandante ma non ha più insegne e mostrine da sfoggiare e un’autorità che gli States non possono ignorare. L’impotenza fa il resto, la promessa di guerra e morte se la stampa a fuoco nella mente e nel cuore, in attesa di essere trasformata in fatti, mentre i denti schioccano a vuoto e i corridoi del palazzo si affacciano sullo stadio inondato dalla luce dei due soli alieni.
La seconda foto se la rigira tra le dita un po’ di più e gli fa prendere in mano il telefono, valutare l’ipotesi di inoltrare una chiamata, una possibilità che alla fine rimanda. Hilde Jenkins sorride in quella Polaroid e anche Max sorride, entrambi troppo vicini all’obiettivo per essere inquadrati del tutto. Cerca di ricordarsi quando quella foto è stata scattata, ma non ci sono dettagli che aiutano, se le cicatrici ci sono non si vedono, il bianco e nero rende difficile immaginare i colori. Hilde, Hilde che non è li, ma sua sorella lo è. Hilde che su Helen si sbagliava, perché l’espressione della nuova cameriera di Bella Vista alla menzione di lei è stata inconfondibile: Helen non la odia. Hilde a cui potrebbe mandare almeno un messaggio e tenere fede alla promessa fatta, ma... Non oggi. Poggia la foto sulla superficie adesiva, copre con la pellicola. Volta la pagina.
Ha visto Brendan e Iphigenia nella cella di fronte, li ha visti per un istante, e ha riconosciuto senza difficoltà le voci. E ciò nonostante, ha scelto di dare loro le spalle. Ha parlato poco con Iphigenia, ha parlato nulla con Brendan, in quella prigionia ha in effetti parlato poco con tutti, limitando le comunicazioni allo stretto indispensabile, l’istinto di recuperare la routine di quindici anni di Sandman Machine. Viso al muro, ha il cervello altrove, ha il cervello verso casa e verso Iris che lo cerca, verso i suoi bambini spaventati- e il cervello s’incastra in loop a ripensare a quelle poche parole che hanno aggiunto un peso nel cuore, perchè quel “Cinque... No, quattro.” è rimasto dentro l’anima, ha lacerato uno squarcio già aperto. Senza poter fare nulla più che attendere, formulare piani che chissà se mai saranno anche solo praticabili.
Il viso di Arthur gli sorride dalla fotografia che adagia sull’album, luminoso e caldo come quello del ragazzo che gli sta accanto, un ragazzo che sembra provenire da così tanto tempo fa che lui non riesce davvero a ricordarselo. Ma la sera, quella se la ricorda. Ricorda la pista di pattinaggio che si vede dietro i volti sorridenti, ricorda le risate, ricorda un bacio sfacciato in mezzo alla pista e l’imbarazzo di Arthur, e la foto scattata, il selfie di un primo appuntamento che diventa presto la foto di un matrimonio. Stavolta si riconosce, la benta su un occhio, le fedi scintillanti al dito, nuove di zecca, in una mattina di maggio di cui si sente ancora il tepore addosso. Sfiora con la punta delle dita il volto dell’ex marito, e sceglie di ricordare il buono di quella favola vissuta assieme, lo tiene stretto e lo assapora, e sa di dolce e di innocente e puro mentre se lo rigira in bocca. Rigirando quello, gira anche la pagina, chiude ancora un capitolo.
Non ha avuto scelta quando lo hanno tirato fuori dalla cella. Quando lo hanno privato dei suoi vestiti. Quando hanno tagliato i capeli, rasato la barba, quando gli hanno dipinto il corpo con terracotta profumata che qui e li ha nacosto sfregi e tatuaggi, non è stato possibile scegliere. Ma quando infine lo mettono davanti alla rastrelliera delle armi, le dita si chiudono di sua volontà attorno all’elsa di una xiphos. La lama laser ronza azzurrina nell’aria, e di li è un passo verso l’armatura, vestendo le insegne di suo padre, schineri e gambali e bracciali, la corazza, lo scudo -il proposito di tornare con esso o su di esso- e l’elmo scintillante, il pennacchio olografico. Indossa quasi con fierezza quell’armatura, e quando lo fa è l’adrenalina a scoppiare nelle vene, a ruggire più forte della folla dell’arena. Accanto a Brendan sente il sangue ribollire, pronto a combattere, e quei momenti sono momenti in cui quasi la condizione di schiavo non pesa, come fosse nato per quello, per la battaglia che si prepara, appena oltre la soglia.
Le foto poggiate nell’album si susseguono fino a quando non è il volto di Iris a fissarlo oltre la patina lucida della carta. Ma non è Iris che lo chiama amore, quella. Non è Iris che gli obbedisce, non è Iris con l’abito d’oro ed i sandali da schiava, non è Iris che lo vuole padre dei suoi figli, non è Iris che lo ama dell’amore di cui una donna ama un uomo: è Iris che lo ama dell’amore di cui le madri amano i figli, e che lo sopporta e lo tollera quando va da lei, le dice che vuole scattare una foto assieme, che la vuole con gli occhiali da sole. Poco ne sa Max, nel 2024, che per molti anni non avrebbe più scattato una foto ad Iris Carter, poco ne sa che la prossima sarebbe stata quella di un sorriso mattutino tra le lenzuola del suo letto. La guarda, e l’immagine di lei oggi, di lei con quel test negativo in mano, si sovrappone come nei fotogrammi di una pellicola arrotolata su se stessa- e lo stomaco si chiude, e la foto finisce sotto la pellicola trasparente, con le altre.
Le porte si aprono e il potere degli Dei gli si rovescia addosso. E’ un potere che ha l’effetto e la potenza di un’orgasmo, che lo fa tremare, che gli fa rintoccare il sangue, un potere tale che se ne lascia pervadere completamente e vi si abbandona. Si abbandona allo scorrere del richiamo della Guerra e della Morte dentro di lui, scatta- e la velocità è al di sopra del concepibile, salta, colpisce, lotta, l’odore ed il sapore del sangue che si mischiano al sudore ed alla polvere. E ne vuole ancora, ne vuole di più, e forse potrebbe vivere così, con la violenza del combattimento addosso, per dieci, venti, cinquanta o cent’anni. Potrebbe farlo, vivere per quello, per scendere nell’arena, per affondare la xiphos bruciante nelle carni del Campione, nel ritrovarsi a terra a fronteggiare Genosha che lo ostacola- volere il suo sangue. Volerlo davvero. E cercare di prenderselo sottoforma di decapitazione.
E’ rimasta solo una foto, ormai, che tiene tra le dita e non riesce a poggiare sulla superficie adesiva, accanto alla pagina dove spicca un bacio morbido e divertito- se stesso che sorride, come se quel bacio fosse il regalo più bello che avesse potutto ricevere, su una guancia, quasi senza pretendere di più. Ma gli occhi non indugiano su esso, scivolano invece tra le pieghe di una stoffa blu che contrasta con le scale del XIX, accarezzano un viso incorniciato dai boccoli, le Edelweiss tra i riflessi scuri, intrecciate come il fermaglio di Principesse d’altri tempi. Quella foto che ricorda quella sera in cui lui è un po’ Edward Lewis sul balcone di un attico, per fortuna senza una Vivian che siede e si sporge, “Senza mani! Senza mani!”, a picco sulla città. Sorride, che oggi quella paura ormai è andata, perduta durante la guerra, con troppe missioi sul Wing, per aria, col rischio di sfracellarsi al suolo e con Felipe sospesi a tirare giù dal cielo le astronavi di Magnus a colpi di palle di fuoco. Ma le dita non riescono a riporre la fotografia, come dotate di vita propria, la tengono stretta.
Ha visto l’universo, ha attraversato il cosmo, lo spazio, il tempo e le dimensioni, spogliato del potere degli Dei, strappato a quella gloria, per venire vomitato di nuovo sulla Terra- con lo spirito che stenta a tornare quello di un umano, le parole che lo tradiscono, i silenzi che si dilatano, e quell’ossessione, il desiderio di quei cinque figli, frantumato in poche ore. Quel desiderio di cui con quella foto tra le dita, e il ricordo intenso e ancora pungente dopo tutto questo tempo ed è impossibile non domandarsi quale sia l’origine, di quel desiderio. La risposta fa contrarre lo stomaco, porta un senso di nausea violento a scuotere il petto e rendere doloroso il respiro. La foto viene infiata nell’album, una patina di plastica a proteggerla e preservarla dal tempo, le pagine chiuse come lo spirito e il cuore quando realizza qualcosa.
Per la prima volta in quarantacinque anni, Maximilian Lee inizia a preoccuparsi della possibilità di concepire un figlio.
“Domani” è arrivato, ed è trascorso, come i giorni, le settimane.
L’album ha sostato in un cassetto del comodino che gli compete nella “loro” camera fino a stasera. Stacca una foto dalla memory board di Iris, e assieme a quella è l’unico oggetto che preleva quando va a recuperare i suoi figli. Disobbedisce, fregandosene delle conseguenze, e bacia James e Zoe sulla testa, dice loro che li ama tremendamente, gli da la buona notte. Poi, Iris Jr in spalla, John per una mano, semplicemente va via. Johnny non piange più, ha pianto ieri, ha pianto stamattina, ma stasera no. Stasera si rannicchia contro la pancia di papà, nel letto della “sua” camera, dove sono tornati. Nessuno fa domande. Nessuno da spiegazioni, mentre Maximilian Lee incolla ancora una foto nell’album.
La fotografia ritrae Mr e Mrs Ryder, in una sera alla vigilia del Carnevale di New Orleans.
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Week end al mare: il bagaglio perfetto
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Week end al mare: il bagaglio perfetto
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Il sole che scotta, le temperature che salgono e una voglia irrefrenabile di andare in vacanza. In attesa delle vere e proprie ferie, iniziamo a goderci qualche week end al mare e a rilassarci almeno un paio di giorni, così da affrontare meglio la settimana lavorativa. Pochi capi e accessori, ma ben studiati, da mettere in un borsone, (qui quello in twill e cuoio di Ghurka) permetteranno di assaporare meglio il senso di libertà di questa breve fuga. Meglio prediligere i colori classici come il bianco, il beige, il blu così da non sbagliare e poter creare vari outfit, ma naturalmente portate con voi anche qualche indumento a tinte vivaci o con qualche stampa divertente.
Per la spiaggia bastano una t-shirt (fa parte della serie dedicata al mondo Peanuts quella di Roy Roger’s) un costume, (sono ispirati alle maioliche e alle località balneari più esclusive quelli di Peninsula Swimwear), un paio di ciabatte in gomma dai colori accesi come quelle di Prada, degli occhiali da sole dalla montatura leggera (Saraghina eyewear) e un cappello di paglia (questo è di Pepe Jeans London). Per il pomeriggio o per l’aperitivo, il bermuda Tommy Hilfiger con stampa ananas, un vero must di stagione, una polo, semplice ma originale, per esempio la Raf Simons Denim Cuff Piqué Shirt, nata in collaborazione con Fred Perry, e un paio di sandali in pelle come quelli di Bally. In alternativa potrete indossare delle comode sneakers (quelle nella gallery sono di Givenchy).
Per la cena, magari in barca, un paio di classici chinos in cotone, beige (Levi’s) o blu (con pinces, di Brooksfield), una camicia bianca in lino, ma con il collo alla coreana (American Vintage) da portare fuori dai pantaloni, un paio di mocassini in morbida pelle con gommini (Massimo Dutti) e un giubbino per proteggervi dalla brezza marina. Quello di North Sails, è in softshell impermeabile e antivento.
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SOLO QUALCUNO CHE HO CONOSCIUTO 3 parte Poi un giorno per un motivo stupido, che nemmeno ricorderemo tra dieci anni, smetterai di chiamarmi per nome o io smetterò di risponderti, ci perderemo e saremo solo due persone che si sono conosciute. La scala mobile ci porta su in silenzio e una volta in strada non c’è il sole a giustificare i tuoi occhiali scuri ma scoppia a piovere e tu ti levi la giacca per coprirti la testa poi ti avvicini e copri anche me. ‘Mi chiamo Margherita’ dico guardandoti negli occhi. ‘Io sono uno come tanti, se vai anche tu in quella direzione facciamo un pezzo di strada insieme Margherita.’ Sorrido, che belli che sono i tuoi occhi, lo so, faremo un pezzo di strada insieme, in fondo la vita non è che questo. (Estratto da Margherita -L’amore uccide lentamente di Karen Lojelo)#karenlojelo #amazonbooks #amazonbestseller #kindle #margheritalamoreuccidelentamente #libro #scrittrice #ioscrivo #raccontibrevi #citazionilibri #margherita #quotes #metropolitana https://www.instagram.com/p/CDdfAPXnGh3/?igshid=uomsfhy71eos
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SOLO QUALCUNO CHE HO CONOSCIUTO 3 parte Poi un giorno per un motivo stupido, che nemmeno ricorderemo tra dieci anni, smetterai di chiamarmi per nome o io smetterò di risponderti, ci perderemo e saremo solo due persone che si sono conosciute. La scala mobile ci porta su in silenzio e una volta in strada non c’è il sole a giustificare i tuoi occhiali scuri ma scoppia a piovere e tu ti levi la giacca per coprirti la testa poi ti avvicini e copri anche me. ‘Mi chiamo Margherita’ dico guardandoti negli occhi. ‘Io sono uno come tanti, se vai anche tu in quella direzione facciamo un pezzo di strada insieme Margherita.’ Sorrido, che belli che sono i tuoi occhi, lo so, faremo un pezzo di strada insieme, in fondo la vita non è che questo. (Estratto da Margherita -L’amore uccide lentamente di Karen Lojelo)#karenlojelo #amazonbooks #amazonbestseller #kindle #margheritalamoreuccidelentamente #libro #scrittrice #ioscrivo #raccontibrevi #citazionilibri #margherita #quotes #metropolitana https://www.instagram.com/p/BznLXe6onTr/?igshid=1kyg5m8btwagy
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