#noi eternità e specchio
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«La bellezza è fatta di delicati sussurri parla dentro al nostro spirito la sua voce cede ai nostri silenzi come una fievole luce che trema per paura dell’ombra.
[...]
La bellezza è la vita quando la vita si rivela. La bellezza è l’eternità che si contempla allo specchio e noi siamo l’eternità e lo specchio»
(Kahlil Gibran)
#bellezza#delicati sussurri#voce silente che parla#fievole luce#vita che si rivela#eternità allo specchio#noi eternità e specchio
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O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d'amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d'amore di viola: ma tu nella sera d'amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze.
Ricordo cara: lievi come l'ali di una colomba tu le tue membra posasti sulle mie nobili membra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, alitarono a una più chiara luce le mie membra nella tua docile nuvola dai divini riflessi. O non accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o resta o resta! Non attristarti o Sole!
Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull'infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?
La luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina.
Dino Campana, Canti Orfici.
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la lotta
Ho la tosse non ho la febbre ma ho la tosse ho tanta tosse non dormo perché ho la tosse ho la tosse da 2 giorni, mi son guardata allo specchio tossire e mi si gonfiano le guance simmetriche come quando mamma tossiva, che sembra che facciamo la parodia di qualcosa, prendiamo in giro qualche pubblicità di sciroppo per la tosse, invece no, tossiamo proprio parecchio, gli occhi si aprono un po' le labbra si sporgono, la lingua s'appoggia, la mandibola s'inciccia dove guancia non ha, son i piccoli moti trasfigurati di volto che non parla ma che ha la tosse che le ho visto sempre gli ultimi mesi, e vedermi tossire mi ha fatto tossire di più.
son tornata a casa ho messo l'acqua di profumo al muschio bianco che mi ha regalato mia sorella quando mamma è stata ricoverata in ospedale, come oggetto d'incanto come magia per noi, per entrare in una nuvola di profumo amato nella camera di mamma, perché non potevamo entrare assieme, e invece se lo usavamo tutte e due così a lei sembravamo assieme, l'ho spruzzato addosso a me per tutto marzo aprile maggio, poi basta, era come avere un peluche sottobraccio mentre entravo nei reparti aspettavo in sala, la guardavo dalle vetrate, stavo vicino, camminavo per raggiungerla per allungare il tempo dedicato a lei, ci davamo il cambio aspettavo il dottore inseguivo notizie mi avvicinavo a letto, è il mio turno, letto che tossiva, spalle che tossivano, occhi stretti che tossivano, le parlavo di tutto quel che si può, nuvola di muschio è lei o sei tu? siamo noi, le sistemavo la sirena bambola tra le mani, lei tossiva come se parlasse, era il cicinì di voce sua che m'era rimasto da ascoltare, ormai sapevo leggerlo un poco, nuvola di profumo, portiamo un po' di incanto attorno a questo letto, tossisci cielo, tossisci
l'ho indossato per tre mesi poi non più
l'ho spruzzato ieri di nuovo, addosso, e avevo la tosse, e m'è girato tutto attorno, e poi dentro, come un genio che esce dalla lampada, o uno spiritello che ti entra nel petto, rumore e profumo, senso presente senso assente, no no, presente. eravamo tutte lì sentivo la pioggia addosso al mio camminare sulla collina, sentivo il maniglione dell'ospedale la pelle tesa delle mani le parole dette da sola intervallate dalla tosse di mamma l'occhio ciglia lunghe che s'apre e mi guarda, l'intensità della forza che esce da noi, è il profumo della lotta, della lotta, della lotta che pure se l'andrai a perdere, è lotta, così amata che nessun altro senso, successo vittoria sconfitta non ha alcun serio senso. che bella la lotta, che vigore, che eternità
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Autocommiserazione
Potrei fermarmi ad osservare le mancanze presenti nella mia vita. Potrei stilarne un elenco. Potrei smettere d'ignorare ciò che più mi uccide, ciò che sopprime qualsiasi mio moto emotivo e che mi soffoca. Potrei, no?
E allora cosa mi ferma?
Cosa fa sì che io mi preoccupi di ogni gesto, di ogni parte di me?
Cosa mi porta a vedere ogni mio gesto attraverso gli occhi degli altri?
E da dove proviene quel profondo disagio che mi tiene prigioniero in uno schema fisso di azioni, pensieri, che ripeto ogni giorno, e che mi porta a sentirmi calmo?
Pacato, freddo, sfocato.
Quanto durerà ancora questo teatrino? Quanto ancora reprimerò me stesso per scappare da quello che provo?
E cosa provo?
Che poi ci rifletto.
Osservo le persone, cerco di riconoscere in loro un qualsiasi gesto d'interesse nei miei confronti. Incrocio lo sguardo di un estraneo, magari gli sorrido.
Siamo soltanto passanti in cerca di un attimo di eternità.
La stessa eternità che ci porta a cercare un riconoscimento negli altri.
Cosa siamo senza gli sguardi altrui?
Ci rifletto.
Ci sforziamo di essere forti, alla ricerca di qualcosa molto più grande di noi, ammassi di debolezze riempite con cemento armato.
Io gli sguardi li cerco disperatamente.
Ne necessito, dal giorno in cui ho perso il mio.
Come siamo arrivati a questo punto?
Vorrei riuscire a chiedermelo più spesso. Vorrei ancora riuscire a scrivere qualcosa di pancia, di petto.
Parole ragionate, specchio di un'esistenza fine a se stessa.
Io comunque ci credo ancora.
Giungerà il momento in cui ritornerà ad esserci quella scintilla, caratteristica dell'uomo che vive.
Ci credo. Credo che un giorno riuscirò a guardare i miei occhi allo specchio, e riuscirò a scorgerci ciò che di più bello ci è passato attraverso, e che, fisso con gli occhi verso il futuro, non sono stato in grado di cogliere.
È tempo di rivoluzione. È tempo di vita.
Se non adesso, quando?
Ci rifletto.
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“Nella mia notte interminabile”: il romanzo sulla vita di Emily Dickinson, l’angelo del quotidiano
L’eccentrico, estasiante Luca Merdone, dietro a cui si nasconde un ardito lettore, mi ha fatto conoscere Christian Bobin un tot di anni fa. Fui rincuorato da questo scroscio di farfalle sotto la camicia. Felicemente tradotto in Italia da una miriade di piccoli, delicati editori (provo a non dimenticarli tutti: Gribaudi, Servitium, Quiqajon, San Paolo, AnimaMundi, Camelozampa…), nel 2007, per Gallimard, pubblica il delizioso “La dame blanche”, in omaggio a Emily Dickinson. Abbiamo eletto questo fascicolo, dedicato al poeta irraggiungibile, come nostro, condiviso ‘libro dell’estate’. Dopo i primi assaggi (qui e qui) ecco altre pagine, tradotte da Anna Maria Biondi.
**
Allo stato attuale delle cose, nel quale più nessuno sente niente, compare, accanto alla notizia sul giornale, un odore di vinaccia e di cane bagnato in cui suo padre ha vissuto e viene interrato.
Dove i corni d’oro di caprifoglio, le rose stupite di calore e stipate davanti Evergreen, e la fortuna indiscussa dei Dickinson, emanano un odore più meritevole, Susan lavora per ampliare il suo mondo. Gli invitati – uomini di legge, politici, scrittori, in giro per conferenze – si accalcano come calabroni sotto la lanterna dell’ingresso, prigionieri degli occhi neri della padrona di casa, soggiogati dalla sua durezza, dai suoi scialli indiani rossi e dai braccialetti d’argento tintinnanti ai suoi polsi. Dalla sua camera, di cui una finestra è rivolta su Evergreen, Emily guarda i grandi salire i gradini di granito.
Gli scrittori che l’epoca acclama – come Emerson, pensatore reputato all’invisibile, che ha appena trascorso una notte presso Austin e Susan – ignorano che essi stanno sbagliano porta e che il più grande poeta del secolo è proprio là, nella casa vicina, dietro una tenda di pizzo tremolante.
*
Quando l’eccesso di vanità sale alle labbra di sua cognata, Emily rimette tutto di colpo su di una lettera, con, sopra la gota di carta, uno sfregio improvviso: “i tuoi ricchi mi insegnano la povertà, Susie”.
*
Susan insegna ad Emily la soprannaturale insufficienza di ogni amore.
In risposta Emily riporta a Susan la pienezza che dà alla vita il fatto di pensarla e di scriverla. Le mostra i suoi poemi. Uno di questi, evocando i morti nella sala d’attesa della resurrezione – la loro “camera di alabastro” – viene riscritto dopo la critica di Susan. Costei è menzionata nei poemi, Cleopatra, Golia, Vesuvio, Eternità e, in tre poemi erotici, Bambola. Il genio di Susan è di lasciare giungere a sé migliaia di nomi d’amore senza scacciarne uno solo e senza nemmeno veramente rispondere. In questa assenza di eco l’anima di Emily si galvanizza, come un bimbo che, dalla sua camera nera, chiami invano sua madre e finisca per ottenebrarsi con le sue proprie lacrime.
Nel giugno 1852 Emily scrive a Susan, che soggiornava al tempo a Baltimora, una lettera nella quale inserisce delle violette. Il portalettere è il padre di Emily che passa per Baltimora per recarsi all’assemblea del suo partito. Edward immagina di trasmettere una lettera da ragazze, qualcosa di vaporoso e d’inutilmente sofisticato. Il suo puritanesimo lo acceca.
Fra le mani di un maestro di Amherst, qualche foglietto d’oro bruciante, con, sulla busta che lo protegge, queste parole scritte a matita da Emily: “aprimi molto dolcemente”.
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Tre bambini nascono a Susan, suo malgrado. Il primo, Ned, è epilettico, come se il tremolio di spavento di fronte alla povertà, che la madre aveva sotterrato in fondo alla sua anima, fosse tornato e scuotere la carne del figlio. Austin dà a un cavallo della sua scuderia lo stesso nome del fanciullo: il baio chiaro e flessuoso lo compensa della tristezza di avere generato un bambino tremolante come le foglie secche in cima ai rami in autunno. Questa nascita provoca un primo allontanamento di Emily, appena percettibile – il vapore di un respiro su uno specchio. Le sue lettere continuano a battere le ali davanti alla finestra di Susan – miliardi di parole dotate di una vita imperiosa, imploranti e orgogliose.
*
Ogni viaggio di Susan trasmette la febbre alle frasi di Emily. “La prossima volta io ti serberò in una bara, ti interrerò in giardino e domanderò ad un uccello di sorvegliarne l’angolo”.
Certo, questo non servirà a nulla: nessun luogo resta immobile, neppure quello che noi incateniamo coi morti.
*
L’amore fra le due donne irresistibilmente si fessura ma il vaso d’oro, anche se sbrecciato, raccoglie l’acqua di una parola limpida.
Apprendendo che un pomeriggio Susan è passata nella sua casa senza chiamarla, Emily esclama: “Io sarei uscita dal paradiso per aprirti, se avessi saputo che tu eri là”.
*
Amherst cova i suoi tremila abitanti su di una piana che intrattabili foreste di abeti vegliano: un deserto per Susan che non ama far altro che fuggire a New York per acquistare vestiti neri con lustrini, alla moda intorno al 1860.
In un poema Emily distingue due razze di vincitori. Ci sono quelli che acclamati gioiscono di vestiti scintillanti, di concerti operistici e di viaggi euforizzanti, e coloro che trionfano lasciandosi battere: restano a casa, fieramente vestiti di neve. Nelle grandi città attorno ad Amherst, fioriscono e appassiscono nella stessa serata dei spettacoli di pianoforte o di canto. Ad Emily, proprio come a suo padre, non piacciono queste serate. L’aspetto più stupefacente dello spettacolo sono gli stessi spettatori. Non succede mai nulla ad Amherst e questo nulla è vita allo stato puro. Fra Susan che cerca l’ammirazione mondana ed Emily che cerca il suo nutrimento nel cielo, la distanza aumenta, il freddo cade. Il gelo fa scoppiare il vaso d’oro. Emily ne raccoglie i pezzi dentro il cuore ma non entra più nella casa vicina per sedici anni.
*
Amherst, di cui Emily ha fatto la sua città santa, è descritta anche da Susan: “Un luogo desolante, senza speranza, adatto a dare ad un angelo il male del suo paese. Le lugubri vibrazioni della campana della chiesa risuonano ancora nelle mie fantasie d’inverno”. Il tono è amaro. Colei che parla è attempata, è alla fine della rappresentazione, la maggior parte degli attori hanno lasciato la scena e, nelle poltrone di prima fila, non restano che morti stupefatti.
Austin – soprannominato «il gallo» in gioventù – l’ha da anni tradita con una donna più gioiosa di lei. Dei loro tre figli la morte ha afferrato il più tenero. Amherst restituisce a Susan il suo disprezzo e dà una reputazione di ubriacona e di civetta a colei che Emily, malgrado il loro allontanamento, non aveva mai smesso di giudicare “timida e senza macchia”.
Poi la morte cattura Susan e la addormenta nel suo erbario.
Gli anni passano sui nomi di queste persone, cancellando i contorni delle contestazioni, facendo brillare le devozioni.
*
La tomba di Emily, da poco ricoperta, diviene un campo di battaglia. Passato l’infalsificabile stupore del dolore, la famiglia legge i poemi, penna alla mano. Il poema «avevo una sorella in casa e un’altra dall’altra parte dell’aia», dedicato a Susan, è radiato da Vinnie, e la dedica cancellata. Un altro, evocante il petto di Susan sul quale Emily sogna di piangere, è attribuito all’insospettabile moglie di un pastore. Ma la voce di Emily, invincibile per la propria purezza, fa uscire la sua amica dagli inferni: nel vialetto di ghiaia bordato di altee, fra le due case dei Dickinson, traversando le censure e la morte, appare una Susan trasfigurata, che si sfrega le mani l’una contro l’altra per fare scomparire una macchia di vino visibile solo a lei stessa.
*
“Dovessi errare nella mia notte interminabile, io mormorerò ancora: Sue”.
*
Un canto si eleva, che i poemi lasciano filtrare. Cerca di dire il più puro ed il più vero. I libri mantengono il canto vivente dopo la morte della poetessa, ma la poesia non si deposita solo nei libri. A volte passa senza fare rumore, come l’angelo del quotidiano che non vede nulla. Il pane di spezie per i bambini e i guanciali rimessi sotto la testa divagante della madre erano più puri e più veri di tutto.
Christian Bobin
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O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze. Ricordo cara: lievi come l’ali di una colomba tu le tue membra posasti sulle mie nobili membra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, alitarono a una più chiara luce le mie membra nella tua docile nuvola dai divini riflessi. O non accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o resta o resta! Non attristarti o Sole! Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina. Dino Campana , Canti orfici (1913 ) , II - Il viaggio e il ritorno , La notte
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Libri| Dall'Urna della Storia. Melendugno 1683
Dall’Urna della Storia. Melendugno 1683
Libro in cui vengono annotati i Decreti e gli ordini emanati dall’ill.mo e rev.mo Mons. Don Michele Pignatelli Vescovo di Lecce nell’atto della visita della chiesa parrocchiale della terra di Melendugno, iniziando dalla prima che avvenne il 13 noveMbre 1683, e scritta da me Don Serafino Potì arciprete della medesima Parrocchiale.
di Oronzo Mazzeo
(dalla prefazione)
Capita, a volte, che dall’urna della Storia riemerga un tesoro che per anni e secoli è rimasto sepolto e quasi condannato all’oblìo del tempo.
E allora, il passato riappare sotto i nostri occhi quasi un’iride dopo una oscura e tumultuosa tempesta, come il riflesso in uno specchio, che altro non è che il nostro stesso riflesso oggi, quando sembra che gli insegnamenti della Storia siano stati dimenticati e vengano calpestati in nome di un’antica barbarie mai superata, con tutte le sue pagine di discriminazione e di morte.
L’arcobaleno della nostra esistenza può così immergersi in una dimensione di eternità, splendido come il sentiero della messaggera degli dei in una perenne giovinezza, se solo riusciamo a liberarci da ogni sovrastruttura che ci allontani dalla nostra umanità e tenda a giustificare ogni errore.
E’, purtroppo, un sogno che non alberga in tutte le intelligenze e che corre il rischio di non diventare mai realtà concreta, ma è un sogno che vogliamo ancora accarezzare, un sogno che nell’alba di ogni domani ci fa guardare il nuovo sole con occhi colmi di speranza in una palingenesi di pace, di convivenza e di solidarietà.
Se il futuro non ci appartiene, se il presente ci sfugge, se la “numerata mensuratio rerum”, è una “categoria a priori” della nostra facoltà gnoseologica, che non possiamo cogliere nella sua pienezza, è unicamente ciò che prima eravamo la sola possibilità di porre un piede nel divenire del “panta rei”, l’unico valido aiuto per poter progettare il futuro sulle basi dell’esperienza di ieri.
Succede, quindi, che il forziere di quell’urna si schiuda e ci faccia rivivere giorni che sembrerebbero tramontati per sempre, ma che rivediamo in noi stessi, nel nostro ambiente e nel sangue di quanti ci hanno preceduti e che continuerà a scorrere nelle vene di quanti verranno dopo di noi, ai quali siamo obbligati a consegnare tempi nuovi.
Un semplice invito ci ha fatto riaprire l’urna di tre secoli addietro e la realtà dei nostri antenati, una realtà diversa dalla nostra, tragica e amara forse, ma ricca di vita, riappare sotto i nostri occhi, ormai disincantati, pur tuttavia attoniti, e ci fa riscoprire una Melendugno, la cui storia continua a voltare le pagine dei nostri passi.
Le nostre strade, le nostre campagne, le nostre coste e i nostri nomi e cognomi riemergono e ci proiettano indietro in una dura esperienza di vita.
La macchina del tempo ci ha offerto il fascino di un giorno lontano ormai passato che vogliamo regalare a tutti i cittadini di Melendugno, ai nostri figli e ai nostri nipoti.
La bellezza di un documento eccezionale, vergato da una penna eccezionale ci ha offerto l’eredità di un uomo eccezionale: Don Serafino Potì.
Indice del volume
Pag. 5 Prefazione
Pag. 7 Annotazione di Antonio Nahi
Pag. 8 La parola al parroco Don Leonardo Giannone
Pag. 10 Nota dell’autore
Pag. 11 Il perché dell’opera
Pag. 15 Struttura dell’opera
Pag. 16 Serafino Potì chi era
Pag. 21 Versione italiana del manoscritto di Don Serafino Potì
Pag. 77 Manoscritto latino di Don Serafino Potì
Pag. 131 Note al manoscritto
Pag. 149 Il suo latino e le sue tecniche
Pag. 155 Il suo italiano ed il suo dialetto
Pag. 157 Don Serafino Potì e la sua famiglia ecclesiastica
Pag. 159 La nostra chiesa matrice
Pag. 173 Gli altri luoghi di culto
Pag. 184 Quale società ci ha tramandato
Pag. 187 Qualche curiosità storica
Pag. 194 I nostri antenati
Pag. 198 Toponomastica
Pag. 200 Valore del manoscritto
Pag. 202 Tre Vescovi “Pignatelli” a Lecce
Pag. 206 Barone Placido d’Afflitto
Pag. 208 Melendugno
Pag. 209 Bibliografia
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[…] Chi si innamora, in precedenza ha fatto tanti e tanti tentativi, ha provato ad aprirsi tante e tante volte ma non era pronto o non ha incontrato una risposta. Però anche quando incontra una risposta non può sapere se è una risposta positiva, o piena. Non può dirlo di se stesso e perciò tanto meno dell’altro. L’innamoramento è l’aprirsi ad una esistenza diversa senza che nulla garantisca che sia realizzabile. È un canto altissimo che non �� mai certo di avere risposta. La sua grandezza è disperatamente umana perché offre istanti di felicità e di eternità, ne crea il desiderio struggente, ma non può dare certezze. E quando viene la risposta dell’altro, dell’amato, essa ci appare come qualcosa di immeritato, un dono meraviglioso che non si sarebbe mai pensato di poter avere. Un dono che viene tutto dall’altro, dall’amato, per scelta sua. […] E quando l’altro, l’amato, risponde che anche lui lo ama e fa all’amore con lui, e si abbandona totalmente, allora è felice e il tempo cessa di esistere, e quel momento diventa eterno. E non lo dimenticherà, non potrà più dimenticarlo. Se si sentirà riamato, di fronte a qualunque dolore, a qualunque difficoltà, gli basterà ricordarlo per sopportare ogni cosa. Lì troverà il suo rifugio, lì la fonte di ogni desiderio. Se un giorno invece l’amato lo abbandonerà, allora quel ricordo, proprio perché resta immortale, sarà il motivo della sua infelicità perché ogni altra cosa gli sembrerà nulla in confronto a ciò che ha perso. E tutto ciò durerà finché un altro stato nascente non rifarà il passato. Noi conosciamo questo rischio terribile, ma nell’innamoramento lo affrontiamo. […] L’innamoramento, lo abbiamo detto, è un apparire, un prevalere. Noi diciamo di no perché sappiamo cosa significa dire di sì e non abbiamo alcuna garanzia che la porta che si apre sull’essere non sia quella della disperazione. Diciamo di no, diciamo che era solo un’illusione, ma poi la coscienza torna limpida come uno specchio e da una parte c’è il bene e dall’altra c’è il nulla della quotidianità. E la coscienza scopre che nulla può scegliere ciò che non ha valore, ciò che non è bene. La coscienza scopre che può volere soltanto il bene e che la sua vita empirica non vale nulla rispetto a ciò che le si presenta come bene, di fronte a ciò che ha valore per sé. Il fatto di desiderare questo bene assoluto fa sì che in noi scompare ogni paura del futuro. Ogni incontro con l’amato potrebbe essere l’ultimo incontro. Tutto ciò che desideriamo è stare con lui, fosse pure per l’ultima volta. La dimensione dell’amore che trova il suo oggetto è IL PRESENTE, quell’istante che vale tutta la vita passata e tutte le cose del mondo. Vi è sempre perciò nell’amore, accanto alla felicità, una nota di tristezza perché quando “fermiamo il tempo” sappiamo che così facendo sacrifichiamo ogni sicurezza ed ogni nostra risorsa. Quel “fermare il tempo” è la felicità, ma anche rinunciare a guidare le cose, ad essere forti. È rinuncia ad ogni potere e ad ogni orgoglio. Questo gettarsi dalla parte dell’essere senza la certezza del futuro, questo fermare il tem-po, è rappresentato nell’arte come la morte. L’amore che finisce nella morte costituisce l’artificio per raccontare tutte le incertezze, tutti i dubbi, tutto il desiderio dell’anima innamo-rata e il loro finire al di là del passato e del futuro in quel presente eterno in cui cessa ogni domanda. La morte è quindi il significante artistico della fine del tempo di cui l’anima innamorata fa l’esperienza. È una finzione affascinante che ha il potere di evocare in noi tutto lo spasimo della ricerca d’amore, che quindi ci fa rivivere il desiderio, lo struggimento per l’amato lontano fino al punto in cui non c’è più alcun desiderio, ma soltanto la pace dell’assorbirsi in lui. […]
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“Non sognate di seguirmi nel mezzo delle fiaccole”. Per Remo Pagnanelli, poeta intransigente
“Dare la voce; e vorrei che non fosse come accendere un titolo, solito titolo al gioco della borsa letteraria. Oggi esperto di crolli anche colui che mai ebbe pensiero, né bezzi da giocarseli all’illusione, all’incanto. Degno dei poeti cui crediamo sarebbe l’atto di fede, il lasciarli dimenticare”, Marzio Pieri.
Troppo spesso si assiste ad un uso critico deleterio, scialbo, se non fuorviante della poesia. La mappatura nebulosa che noi ci ostiniamo a chiamare Canone, Stile, comincia ad essere tentata dall’idea di fare una riserva delle sue zone inesplorate. Luoghi di selva, entropie e fuga, esperienza di parole che hanno costeggiato senza accedervi, la tradizione quale “uso amministrato del senso comune”: un cumulo di cicatrici del vento. Ma per una strana ostinazione, forse silvestre, le parole si sono tenute fuori dal gioco, librandosi in aria, la loro tradizione sta per paradosso di potere di nuovo darsi voce nella loro singolarità di voce, non affraternata a nessun simile, mai fattasi questuante di un coro di sodali o ad un qualche tributo di civiltà.
Ansie di canoni, terrori di oblio, forsennate edificazioni di menzogna per accaparrarsi un brandello di eternità. Far luce sul cono d’ombra, neutralizzare l’orfanità, costituzione stessa del poeta, che perdura in un ramo senza tronco di genealogie approntate. Una certa tentazione delittuosa pervade il tempo dell’ossessione della memoria per istantanee in sequele. I compilatori della memoria collettiva si affacciano felici del dominio allo scranno del fantasma pubblico. Illusorio trono d’ombre e subissi! Questo il destino dei compilatori della posterità, la cerimonia svuotante. Ma la voce del poeta è più ostinata, mai ostile e sempre destinata a recedere dalla fila delle liste, strama la rete fatua della gloria come promessa dell’eterno. Si ripone nel luogo di chi non ritorna colui che scelse il canto. Per custodire e fondare una memoria altra, oltre la voracità stentorea dei regesti e degli annali. Un esempio di questa istanza pura è rinvenibile nell’opera del poeta Remo Pagnanelli. Questo ci attrae della cifra e del coraggio di questo giovane poeta e critico di Macerata, che qui vogliamo ricordare, senza consolazione o rammarico di sorta: riammettere nel canone dei perduti, come contentino di colpevolezza e superficialità della storia dei suoi testimoni è cosa ridicola. La società dei poeti è molto simile al popolo di delatori nelle cloache della storia presente. L’assassinio è il più puro fiore del silenzio.
*
Pagnanelli si volge in un altrove più chiaro, sonda con forza e attenzione, per fare capire cosa sia il rammemorare, cosa sia l’oblio speculare, riuscendo a spossessare le nostre debolezze troppo umane, e per dirla con un suo adagio di ironia assorta, farci come per paradosso godere la “luce ultima della fine senza fine”. Egli ci ha condotto per vari capitoli sommersi e riemersi di un’opera dai titoli sempre icastici, possenti, ironicamente sottili: Epigrammi dell’inconsistenza (1975-1977), Dopo (1981), Musica da viaggio (1984), Atelier d’inverno (1985), L’orto botanico (1986), Preparativi per la villeggiatura (1988). Un viaggio in una dimensione di rigore bianco ed insanguinato, in cui la parola sonda l’entità multiforme della sua insorgenza, del suo farsi via o sprezzatura col mondo: “amici delle corte arcate, amici che/ invecchiate in fontane bambine, non/ sognate di seguirmi nel mezzo delle/ fiaccole, vi attende la consolazione/ di un battello gigante tra estuari erbosi/ fino allo spazio degli Elisi/ un’incursione/ dietro quinte oleose di piante e rare alghe/ umane (un dio più perituro di altri avendo/ simulato una forma di pietà)”.
Queste parole del poeta spiegano con la forza di emblema la gloria come imposizione ed impostura. Egli vide che la storia degli uomini nella scrittura non era un manipolo di volumi rilegati, condotti da tribunali di complici col suono di corone di alloro e rotocalchi. Solo una confluenza plurima di orizzonti a cui guardare integralmente, in un rigore feroce. Il rigore non risparmia nessuno: “la purezza è un vessillo luttuoso” come ebbe a scrivere. Persino agli amici si può chiedere di condursi tutti ad un bivio, senza chiedere una possibilità di seguito.
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Di un poeta andrebbero difese le tattiche di diversione piuttosto che le prove di ammissione della sua presenza al mondo. Pagnanelli sembra a volte esortarci alla diversione che l’opera stessa impone sul mondo: “Volgi il canto in un cantuccio spoglio/ muto come l’Incomprensibile”. Questi versi hanno una qualità di sanificazione dello sguardo. La mutezza e incomprensibilità non sono delle derive di annichilimento, quanto piuttosto delle soglie di un luogo definitivo, spoglio, univoco. Dove la parola sappia adeguatamente germinare, senza sdoppiamenti o giochi anagrafici di sorta. Pagnanelli stesso, nelle sue accortissime indagini critiche su tutto il secondo novecento della poesia italiana, da uomo del suo tempo, proprio nel paradosso di seguire ogni attualità e differenza, sapeva scorgere una insondabile alterità in cui memoria storica e oblio permanente sono facce similari di un unico fondamento su cui non smise di interrogarsi mai.
L’altezza della sua “lezione” (se mai egli stesso si sia condotto in una postura didattica), nella poesia e nella critica, consiste proprio nell’aver saputo sondare l’ampio spettro di Mnemosyne, esservisi condotto dentro con ogni fedeltà ad un suo ritratto: il ciclico perdersi e ridonarsi di Mnemosyne, di cui l’arte musaica del poeta è figlia ed esecutrice. In alcuni versi il poeta afferma: “Scucita l’anima si cerchi un ordine di altra memoria/ si conservi per quella senza soccorso”. Vedersi nello specchio convesso dell’al di là, nel Dopo e in una sorta di veglia dell’eterno, verso un oltrepassamento del confine biologico: l’anima non ha luogo di sorta, in cui riadagiarsi, conservarsi senza alcuna difesa possibile, che non sia forse un tentativo di lambire il futuro. Questa trama di congedo non ci conduca in aporie senza uscita. Fuorviante è credere che si tratti di una semplificante tentazione dimissionaria del gesto della parola. Nessuna dichiarazione di autoannullamento o esodo extrastorico, una dichiarazione di poetica non può essere che uno sguardo fedele, sul mondo, come lo stesso poeta ebbe a pronunciarsi: “La poesia è per me operazione archeologica, nella duplice direzione di discorso del Principio e conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o che si sta perdendo, di ciò che comunque il nostro cervello antichissimo vede di continuo ‘riaffiorare’. Nell’esistenza catacombale che si presenta al nostro ‘mandato’ rifiutato dalla società del rumore, il poeta è il custode non solo del linguaggio quale patrimonio della specie e della Memoria, ma il custode di quel museo che raccoglie i reperti (per tramandarli) della Natura […]. Non c’è chi non veda che in questo compito è rilevante l’aspetto politico. Ecco perché non si può parlare di Neo-Arcadia per la produzione di quanti, in maniera anche eccessiva e animistica, assumono l’Enciclopedia, non nelle tonalità nostalgiche ma con intenti catalogatori. Il Museo, allora, sarà il luogo mentale attivo e non passivo, di continenti sommersi che il futuro forse sarà in grado di raccogliere e restituire all’autentico. Il poeta, cioè colui che sta dalla parte della terra, di ciò che si sottrae rispetto all’apparenza del mondo, ha di nuovo un ruolo cardine da svolgere”.
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Col sodale Guido Garufi, amico di poesia, avventure e vita, l’interrogazione sul senso dell’opera, sulla sfera della sua più interna memoria fu per lui perentoria. Il rapporto della parola con la memoria collettiva è un rapporto di avvolgimento del tempo e incrinatura della rappresentazione, come si può avvedere da un saggio scritto insieme del 1979, Alterità e presenza della scrittura: “La scrittura è il luogo chiuso di un lavoro senza fine” (Blanchot), l’editore decreta la morte del libro, ma non la fine della scrittura, l’artefice prosegue nella scrittura, non cessa il cammino, non rinnega le precedenti stazioni. […] Non c’è futuro né passato, la scrittura è presenzialità intenzionale (della mano e della mente) che si aggancia alle due fasi, in una probabile intuibile circolarità dove l’ultima opera è anche la prima scritta, dove l’ultimo capitolo si Aggancia al primo. Nella biblioteca di Alessandria, secondo un racconto metaforico di Borges, era conservato il primo libro, quello nel quale era scritta la parola che poteva incidere nella storia, mutare forse la dialettica del servo-padrone ma un incendio distrusse il primo libro. Tutti gli altri, che da quello discendono, sono conservati nella biblioteca di Babele, ma questi sono duplicazioni del “proto”, tendenza a recuperare l’archetipo perduto, quella verità o quella parola, che per dirla con S. Paolo è facitrice. Sarebbe opportuno esaminare il senso di questo incendio, magari mettendolo in relazione al sorgere dell’istituzione, alla sempre più frustrante operazione di controllo da parte del potere”.
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Il tentativo della parola poetica si configura dunque come istanza di far convergere l’ultima parola pronunciata verso il primo libro ormai perduto nel rogo, nella tensione di restituzione. Non casualmente le parole di Pagnanelli hanno spesso la forma di fughe o inni: la fuga si compone come proiezione ultimativa, l’inno come evocazione inaugurale. In questi due poli Pagnanelli ha dato prove di un’altissima concertazione del suo destino singolare ed umano, in ogni sua componente, in immagini di grande spessore evocativo e visionario. La sua attenzione per le minuzie, l’oggetto minimo, le figure di isolamento e intimità (a volte si scorgono deità nascoste, pittori dimenticati, reverendi, scribi, insetti, ministri cinesi, querceti), lo fanno partecipante attraverso una pratica di visione, di dilatazione psichica che oltrepassa o sfrondi il tempo in una serie di fotogrammi o dagherrotipi, impasse e accelerazioni. L’interazione tra la natura e la psiche sembra a volte completamente abolirsi, conducendoci in una sorta di “arcadia infinitesimale”, mente del poeta abitata da una natura in costante simbiosi con la coscienza stessa di chi la ritrae. In questa natura, nei suoi enigmi di metamorfosi, si è chiamati ad un compito più arduo, ad una memoria più profonda, ad un fondo inaspettato i dettagli rivelatori al passaggio. In questa sorta di sorpresa di gravità e vertigine dei suoi versi, dei suoi molteplici fondali, si può rinvenire la bellezza di una avventura unica.
Edoardo Manuel Salvioni
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Qui allegata una selezione di testi, alcuni da anni non più rinvenibili su rivista, altri dalle opere edite:
Inno
l’opera continua, continuamente passiva e paziente di adulti querceti centenari, in odore di santità, l’opulenza ostentata di ministri cinesi, dalle barbe e pelurie, nella sera smosse e smorzate come la loro saggezza, da ondulati mormorii d’acque in pausa – qui piccoli ritardatari giocano a perdersi in zattere invase da convoi di farfalle, insetti a eliche.
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Preludio e principio di fuga
Non pensarla come una trasgressione, Non vantartene. È passata … Soltanto una concisa trasvolata Che termina in un clamore svolazzante Di piume, con il solito scelto fondale Biondo oro.
Te la sei vista brutta un momento E credevi di non poter passare. Invece attraverso te, bucandoti il corpo È stato più facile del previsto; Oh icona traditrice, so stare al gioco E starci comporta far finta di non Capire gli spostamenti e accettare Compostamente la regressione.
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Versi protocristiani
anima che manchi, se siamo davvero congiunti, prendiamo una vacanza dalla terra, diamoci per vinti, (cinti come quegli etruschi sul coperchio, tutto è finito un’altra volta) nella formella ho i grandi occhi deboli e non sorridenti di Teodora, spalancati sul buio fetido degli acquitrini … (oh, i tonfi sordi della storia, i bulbi gonfi)
*
G.G.
Devi avere la forza e l’entusiasmo – dice – Di altri passati e invetrati in bella mostra, Un po’ benedicenti, di altre lontanissime Generazioni. Come posso – non t’accorgi Che anche le suppellettili non sono più le stesse. Nella nebbia ci arrotolano su carri bestiame E via, strutture di cemento, a far da sculture Nei giardini (pochi) dei nuovi ricchi cristiano Socialisti. Ma è da credere – presto o tardi daranno Compostezza e ordine, anche per noi ci sarà Un posto frondoso e tranquillo, di faglie In cui pescare e assopirsi (lui che va giù Senza accorgersene, senza fiatare, è così che Vuole, e lei che traguardandolo intuisce La microstoria, il dio selvaggio addetto Alle sparizioni)
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preparativi per la villeggiatura
bè, non ardono di nessuna giovinezza (gli invisibili), nemmeno nel visibilio. Se li hanno spazzati senza riguardo, per questo vuoi dire che lo stesso vivono nella memoria, nella poesia che la memoria resuscita? Non vivono, sono larve nella mente di qualcuno. Se li hanno spazzati via e la loro gioventù non illumina alcun tramonto, non importa… , per qualche reverendo Smith, per qualche metafisico scriba cristiano, essi solleticano il tumulo pesante delle parole. Direbbero, per allentare la rabbia, che lo stesso albergano nei nostri cuori. No, è finita per essi, e nessuno che non sia colpevole, pensa alla trovata della poesia.
*
Inediti da varie riviste
Ora che il fuoco sottile delle lamine è il sogno Della visibilità, un verde pendant di pellicani neri Si versa nel parco opaco e voi, fratelli separati, che la nebbia sbriciola via corruciati e stanchi, scendete dando le spalle
*
-.-.-.
(al demiurgo)
anche noi scendendo dalle Porte Scee che ancora si dispongono vi scivoliamo come lubrificati. Per i crudeli il sorriso non è Dei migliori ma ne tentiamo uno Sotto luttuosi ombrelli
…
Caro demiurgo, per quanto lontano sei, i miei lai non t’hanno mai raggiunto. È per rassicurarti che ti scrivo. Sto per venire da te ma non ho più bocca.
Il dio che ogni tanto mi visita Disse: – torna a essere uccello dell’alba Il frullo argenteo del mattino, che scuote E guida le acque specchianti fuori dalle secche, che infine imbuca le foglie del giovane dormiente –
Remo Pagnanelli
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“Siamo un sognare senza limiti”. Macedonio Fernández, il mastro di Borges (cioè, una sua invenzione)
La cosa più semplice – cioè: la via che ho praticato – fu quella di crederlo una figura fittizia, un uomo inventato da una mente labirintica. D’altronde, se spalanchi il costato di quel tizio prima trovi una metropoli di carta, poi la pericope di uno gnostico alessandrino, poi i vicoli di una biblioteca disegnata sotto ipotesi di Marsilio Ficino, infine l’aleph. Frugando nel corpo di un uomo, infine, trovi l’uomo autentico – se l’illusione ha miniere di marmo.
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Poteva essere, intendo, Pierre Menard o Herbert Quain o Alejandro Ferri. Per ciò che mi riguarda, dubito che Borges abbia letto davvero Dante – ma sono certo che lo ha visto –, a volte cita frasi aggiogandole a Herman Melville che in verità appartengono a Maimonide e il suo Walt Whitman è un parto mistico, l’effemeride di Blake. Mi colpì un dettaglio, questo: “Macedonio non attribuiva il minimo valore alla sua parola scritta; quando cambiava alloggio, non si portava via i manoscritti di indole metafisica o letteraria che si erano andati accumulando sul tavolino e riempivano i cassetti e gli armadi. Così molto andò perduto, forse irrevocabilmente”. L’episodio, intendo, mi pare troppo borgesiano per essere vero. Scoprii più tardi che lo sketch era autentico – e che Borges sibilava una innocente menzogna.
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Prólogos è un libro di Borges del 1975; è uno strepitoso rafting bibliografico, pur consapevoli che ciò che è scritto di Cervantes e di Wilkie Collins, di Henry James e di Kafka, di Lewis Carroll e di Shakespeare serve a capire l’opera di JLB, non certo quella di quei grandi. Il desiderio remoto di Borges, gran cannibale della letteratura, è divorare e riscrivere i libri secondo la sua memoria. Nel riassunto cova l’omicidio, l’estro è sempre una forma aurea di vendetta.
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Tra i ‘prologhi’ il più bello – una iscrizione sul culmine della Città Azzurra – è dedicato a Macedonio Fernández. Pensai, appunto, che in una collezione di plastici titani, Borges si fosse inventato l’identità fittizia, singolare, stralunata, stramba. “Non è stata ancora scritta la biografia di Macedonio Fernández, uomo che rare volte accondiscese all’azione e che visse dedito ai puri piaceri del pensiero… Nel corso di una esistenza ormai lunga ho conversato con persone famose; nessuno mi impressionò come lui, neppure in modo analogo”.
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Macedonio Fernández esiste, ha vissuto, si è incarnato – se le fotografie, sporche di decenni, sono autentiche – nella figura fantomatica di un uomo vestito di nero, con una barba bianca aguzza, gli occhi come un lupo che divora galassie. Un po’ cabbalista un po’ vampiro, un po’ alienato un po’ architetto del caos, prestigiatore e scudiero presocratico del caso. Da ciò che risulta, Macedonio Fernández è morto a Buenos Aires il 10 febbraio del 1952, dove è nato, nel giugno del 1874: fu avvocato, ha avuto quattro figli dalla stessa moglie, Elena, morta nel 1920. A quel punto, parendogli un peso la stirpe e una idiozia la legge, lasciò tutti – in figli, in particolare, a nonni e zii – per fare del proprio tempo un monastero. Visse, per trent’anni, pensando – o meglio, pensando l’impensabile. Due dettagli specificati da Borges sono affascinanti. Intanto, l’etica della solitudine: “Macedonio possedeva in grado eminente le arti dell’inazione e della solitudine… Macedonio stava solo e non aspettava nulla, abbandonandosi dolcemente al dolce trascorrere del tempo”. Poi, un grottesco desiderio di grandezza, la sollecita esagerazione di chi è fuori dal mondo, può permettersi tutto: “Il meccanismo della fama lo interessava, non il conseguimento di essa. Per un anno o due si baloccò con il vasto e vago progetto di diventare presidente della Repubblica”.
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In un punto, però, Borges, che frasi da cobra, dice una mezza bugia. “Scrivere non era un’occupazione degna di Macedonio Fernández. Viveva (più che alcun’altra persona a me nota) per pensare”. In realtà, Macedonio pensava per poter scrivere l’opera suprema, l’estrema, quella in grado di ricapitolare l’intero getto della letteratura passata e che sarà. L’opera s’intitola Museo de la Novela de la Eterna ed è il rovescio di un romanzo, la pelle scuoiata, la radiografia, il grafomane messo a testa sotto da un traditore di Abulafia. Il negativo di una incisione. Naturalmente incompiuto, ovviamente postumo, il libro – tradotto nel 2010 negli States, per merito di Margaret Schwartz, ha lasciato i recensori di stucco davanti a tale monumento dell’‘anti-romanzo’ – atterra in Italia nel 1992, per la cura di Fabio Rodríguez Amaya, stampato da Il Melangolo; ora rientra nel caravanserraglio editoriale grazie a Castelvecchi.
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Il libro, appunto, è l’esplosione del romanzo in tessere, per bagliori, l’implosione dell’autore in magnete di occultismi. Per dire, uno dei capitoli del romanzo-museo (nello stesso tempo: la musealizzazione del ‘genere’ e l’ostensione delle sue pudenda) inizia così: “Tutto quanto è ed esiste è un sentire, quello che ognuno di noi è stato sempre e senza interruzione… La nostra eternità, un sognare infinito uguale al presente e certissimo”. Titolo del capitolo: Siamo un sognare senza limiti e solo un sognare. Non possiamo, quindi, avere idea di cosa sia un non-sognare. S’intenda: quello di Macedonio non è l’ennesimo romanzo-saggio, macedonia sul romanziere che riflette sul romanzo, ‘da dentro’, e sui drammi della propria interiorità. No: questa è la condanna a morte – cioè, a vita eterna – del romanzo, l’esposizione del cadavere, la sua dissennata dissezione. (Nel capitolo Il presidente e la morte si dice che Don Chisciotte è “l’opera del pessimismo più spontaneo e imprevedibile di tutta la Letteratura” in cui “involontariamente si sanciscono il fallimento del Vivente, la sua Effemirità, e il fallimento dell’Innocenza”).
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Nel romanzo-non-romanzo, tra le tante cose, c’è una Lettera ai critici (“Sono del tutto consapevole che la mia opera vi lascerà in attesa della Perfezione, forse con maggiore intensità”), un allarme Ai critici (sfizioso e cinico: “Il suicidio ha dato gloria a qualche scrittore mediocre; prima di compierlo egli potrebbe arrivare a quella ‘seconda edizione’ che tanto appaga. Che aspetti il suicidio, finché abbia ragione di attuarsi”), un Prologo al mai visto, una Descrizione della Eterna (“Chi le passa davanti perde il dono dell’oblio”), un Prologo che si sente romanzo (“Io ho il portale d’ingresso al mio Romanzo, è il primo punto da varcare; da qui si entra per diventare primo capitolo di romanzo”). Dico la mia. Tutto ciò che in Borges è frenato, in Macedonio è sfrenato; il Museo è il continente di cui Finzioni e L’Aleph sono la capitale, sulla cima di un monte. In sintesi: Macedonio Fernández è il cervello di Borges, è la ‘quinta’ di ogni suo libro.
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Prestando fede a JLB – che è come dare ai dadi statura di dio –, egli conosce Macedonio atterrato da Ginevra a Buenos Aires, nel 1921. “Ho ereditato da mio padre l’amicizia e il culto di Macedonio Fernández”. Più che un maestro, Macedonio Fernández è l’inventore del Borges scrittore: i codici perpetui di quest’ultimo – specchi, labirinti, sobborghi argentini, mistica e tango, fato ed erudizione sfatata in gioco – sono le ossessioni del primo. Come Borges, Macedonio Fernández si diceva devoto a una verità per incenerirla l’attimo dopo, pronunciandone con la stessa esatta dedizione l’opposta. Non faceva differenza tra il druido e il samurai, tra Tao e Edda, tra il Concilio di Nicea e le battaglie di Simon Bolivar: tutto stava, con equanime potenza, tra le sue dita. In uno dei suoi più limpidi sketch letterari Borges scrive: “In un cortile interno di via Sarandí ci disse una sera che se egli avesse potuto andare in campagna, sdraiarsi per terra a mezzogiorno, chiudere gli occhi e pensare dimenticando tutte le circostanze che ci distraggono, avrebbe potuto risolvere immediatamente l’enigma dell’universo. Non so se tale felicità gli venne concessa, ma sono sicuro che la intravvide. Qualche anno dopo la sua morte, lessi che in certi monasteri buddisti il maestro suole ravvivare il fuoco gettandovi qualche immagine sacra, o destinare a usi immondi i libri canonici, per insegnare ai discepoli che la lettera uccide e lo spirito vivifica; pensai che questa curiosa notizia poteva rientrare negli abiti mentali di Macedonio, ma che egli si sarebbe seccato, se gliel’avessi comunicata, dato il suo carattere esotico”.
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Nel Prologo destinato a Macedonio Fernández, Borges non accenna ai suoi libri – tra cui risultano alcune raccolte di poesie. Nel 1974 Franco Maria Ricci, su impeto borgesiano, nella leggendaria ‘Biblioteca Blu’, edita una raccolta di pensieri di Macedonio, La materia del nulla. Forse è Borges ad aver scritto quel testo, ad aver collezionato i capitoli sparsi del Museo, ad essersi inventato un maestro come Macedonio Fernández. Per poter dire di avere avuto un maestro, di esserne l’infante, il delfino, lo specchio, l’altro, lo stesso. (d.b.)
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Non esiste più il Festival di una volta, ora è una puntata di “Uomini e donne” che dura cinque lunghi giorni. Altro che la trap: rimpiangiamo i Matia Bazar, Massimo Ranieri, il Renato Zero di “Ave Maria”…
Dall’ultimo decennio a oggi il Festival di Sanremo ricalca sempre più fedelmente certe tendenze musicali e di costume che costituiscono la spina dorsale dell’intrattenimento del piccolo schermo. Sanremo è uno specchio della società, un teatro di frivolezze, la quintessenza dell’effimero e delle debolezze umane, un po’ come il teatro di Brecht. Da prendere con le pinze o sul serio, non importa. C’è la musica ma ci sono anche le mode, le gaffe dei conduttori, i comici, l’orchestra. Per le generazioni che hanno oltrepassato la boa dei trenta Sanremo è stato il paese dei balocchi e dei primi amori a occhi aperti, l’evento che si seguiva per vedere sfilare i vestiti indossati dalle modelle e attrici più belle su quell’alta scalinata, il luogo in cui sarebbero nate le liriche di quella canzone d’amore che avremmo dedicato al fidanzatino delle scuole medie il giorno di San Valentino, magari scritte sopra un foglio bianco strappato dal quaderno dei compiti. Perché Sanremo fa anche un po’ rima con amore, d’altronde arriva sempre poco prima del 14 febbraio. Che bilancio possiamo fare allora dagli anni Ottanta a oggi, ‘noi che siamo alla fine ormai di questa eternità’, come ci diceva Raf trent’anni fa? Appuntiamoci l’indimenticabile, perché senza uno sguardo al passato non si può approfondire la nuova edizione appena conclusa. Sicuramente da riscoprire ancora oggi è l’elettronica di Vacanze Romane dei Matia Bazar, avanguardia dei primi anni Ottanta; guardiamo con emozione su youtube certe interpretazioni assurde di ospiti nostrani, come la coreografia di Re di Loredana con tanto di pancione finto dell’86, né dimenticheremo mai Madonna, i Duran Duran o Whitney Houston tra gli ospiti stranieri. Sanremo per molti è sinonimo di debutto per future glorie soul come Giorgia, che ha cominciato proprio sull’Ariston a farsi le ossa in un’epoca precedente a quella dei talent show. Sanremo ha segnato anche la nascita della stella Laura Pausini, la ragazza della porta accanto che da Faenza ha poi conquistato il Sudamerica.
Ma c’è molto di più, perché Sanremo è il luogo degli artisti destinati all’oblio come i Jalisse e della caduta di alcuni dei, come Mia Martini, perseguitata da maldicenze stupide. A Sanremo si è diventati testimoni di grandi storie d’amore, come quella tra Albano e Romina, possibili flirt come quello tra Jovanotti e Irene Grandi o Mietta e Amedeo Minghi
Insomma, c’era una volta Sanremo, con i suoi frizzi e lazzi, gli artisti che venivano da Hollywood e da Los Angeles, le canzoni d’amore. E ovviamente qualche scandaluccio, qualche pettegolezzo, giusto per condire il piatto ricco che ogni anno seduce milioni di telespettatori. Ma mai come a questa edizione si è assistito a una continua, costante critica nei confronti del Festival e degli eventi collaterali al festival, che ha destato dal torpore il popolo di facebook e di tutte le piattaforme telematiche, dal primo giorno fino all’ultimo, da martedì sera fino al sabato notte. Meglio Ultimo o Mahmood? C’è una sorta di protesta all’attuale governo nella vittoria del ragazzo per metà egiziano che canta usando il fraseggio rap? Ma quanto conta il televoto rispetto alla giuria di qualità? La regina del rock Loredana Bertè meritava di vincere più di Mahmood? Francesco Renga è un maschilista? Perché non è più venuta Ariana Grande come ospite internazionale? E come mai Arisa ha stonato sabato sera?
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L’edizione 2019 di questa kermesse è sembrata una versione più sofisticata del filmaccio di Pingitore Gole Ruggenti. I nati degli anni Ottanta hanno visto sfiorire per sempre la gara canora il cui ingrediente principale erano le canzoni pop e melodiche.
Nel 1996 la ballata d’amore riuscì a spazzare canzoni dal sound più particolare e con testo sarcastico come La terra dei cachi degli Elio e le Storie tese. Oggi, annus Domini 2019, ballate come Vorrei incontrarti fra cent’anni di Ron non potrebbero mai sperare di vincere contro il rap, l’hip hop, l’urban e la trap in salsa italica.
Il pubblico esulta davanti al tatuatissimo Achille Lauro e alla sua Rolls Royce, costruita sulle basi molto simili a 1979 degli Smashing Pampkins. Poi sono stati applauditi Ghemon, i reucci del reggae ton Boomdabash, la nuova voce del rhythm and blues in salsa italica Irama. Insomma, tracce del Sanremo di una volta si sono riviste quasi con ‘celeste nostalgia’ nell’Ultimo ostacolo di Paola Turci, nelle Anime della notte della Tatangelo e forse nella melodica I tuoi particolari del quasi vincitore Ultimo, secondo in classifica che è tornato a casa con la coda tra le gambe e con il premio di consolazione della TIM. Silvestri e Cristicchi sono stati ricoperti di premi della Critica, della stampa e chi più ne ha più ne metta, probabilmente per i loro testi pieni di pathos, che francamente mi hanno sedotta fino a un certo punto, visto che non ho rintracciato nessuna particolare acrobazia vocale in stile Perdere l’amore di Massimo Ranieri. Purtroppo appartengo ancora a una scuola vecchia e polverosa, che apprezza intonazione e timbro vocale.
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Niente abiti da sera con strascichi o esagerati luccichii, la sobrietà Armani è stata scelta per vestire Virginia Raffaele, comica e dall’accento molto romano, che faceva la spalla a Claudio Bisio e a un sempre più stanco Claudio Baglioni. Niente ospiti internazionali, solo cantanti italiani che si sono lanciati in duetti con Baglioni, da Giorgia a Eros Ramazzotti, da Cocciante a Venditti, vecchi miti che ricordano i fasti della canzone tradizionale popolare italiana e che non sono altro che ricordi sbiaditi e anacronistici. Le uniche davvero inarrestabili, più forti dei mulini a vento del tempo, sono Patty Pravo e Loredana Bertè, quest’ultima poi con una canzone incisiva scritta da Gaetano Curreri, che sicuramente sarà molto amata in radio e che doveva essere il testamento di tante battaglie e dolori personali. Questa volta però il mancato podio della Bertè ha causato una sorta di rivolta popolare tra il pubblico di Sanremo che stringe il cuore, che fa tornare in mente lo stesso disappunto del pubblico per la mancata vittoria nel ’93 di Renato Zero per Ave Maria. Loredana è il volto del rock italiano, quello che non si arrende e che ruggisce forte ancora. Sarebbe stata l’occasione per rendere omaggio a tanti successi e tante sperimentazioni che l’artista ha collezionato in più di quarant’anni di carriera. Per tutta risposta, Loredana è rimasta a casa e non è andata da Mara Venier il giorno dopo la kermesse, mi piacerebbe immaginarla mentre si riposa e si fa un bagno caldo, guardando la tivù e facendosi beffe di tutti, pettinandosi i suoi bei capelli lunghi blu. Insomma, questa edizione di Sanremo è stata un continuo colpo di scena. Reale? Fasullo?
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A me è sembrata una puntata di Uomini e Donne, con litigi e critiche costruite a tavolino, fatte per avere qualcosa di cui parlare e sparlare per cinque interminabili giorni su ogni piattaforma. Insomma, anche quest’anno Sanremo ha vinto, tutti lo seguono e tutti lo vogliono. Ed è molto più vicino alla realtà quotidiana di quanto possiamo immaginarci. Quando c’è addirittura un Ministro degli Interni che esprime un parere sul vincitore significa che Sanremo è in assoluto la soap opera più amata dagli italiani, che appassiona e commuove come i Mondiali di Calcio o i matrimoni dei reali inglesi. Gli ingredienti sono cambiati ma la sua popolarità cresce di anno in anno ineluttabilmente.
Virginia Longo
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“Ci sarebbe da impazzire… ma possediamo l’eternità”: su Schopenhauer, il filosofo più grande
Il più grande romanziere di ogni tempo, Lev Tolstoj, attraversò una crisi epica, assoluta. L’origine della crisi accadde nel 1869. Scoppiò, in modo definitivo, nel 1878. Fu come se un punteruolo principiasse a scavare gli occhi e la gola del grande scrittore russo. Tolstoj percepì, con potenza inaudita, il punteruolo del nulla. Percepì, acutamente, la nullità delle cose, l’annientamento del senso della vita, la sovranità della morte. Lev Tolstoj aveva appena terminato di scrivere i due più alti capolavori della letteratura occidentale, Guerra e pace e Anna Karenina. Li ripudiò. E ripudiò l’arte, gioco troppo ambiguo per adulti cresciuti nella bambagia. Come solo i rari titani della scrittura hanno fatto, Tolstoj rientrò nei suoi capolavori, scardinandoli, sconfiggendoli. “Era rallegrante per me guardare la vita nello specchietto dell’arte; ma quando cominciai a cercare il senso della vita, quando sentii l’esigenza di vivere la vita mia propria, questo specchietto mi divenne o inutile, superfluo e ridicolo oppure tormentoso. […] Se avessi semplicemente capito che la vita non ha senso, avrei potuto saperlo tranquillamente, avrei potuto sapere che questo era il mio destino. Ma io non potevo darmene pace. […] Per liberarmi da questo terrore io volevo uccidermi”. In quegli anni, fino al 1880, Tolstoj lavora a Confessioni, il libro della rivelazione del tormento. Negata la pubblicazione in Russia, Confessioni sarà edito a Ginevra, nel 1884. In quel breve saggio, Tolstoj disseziona il suo cuore e si affanna a cercare il senso della vita, che troverà – in misura illusoria – nella sua originale e radicale rilettura dei Vangeli. Quando tenta la via della filosofia, quella che “non perde di vista il problema essenziale”, Tolstoj si riferisce ai suoi personali maestri: Socrate, Buddha, la Bibbia (esemplificata dal Kohèlet), Arthur Schopenhauer. Tra i filosofi dell’era medioevale, moderna e contemporanea, Tolstoj sceglie Schopenhauer, l’unico che ama, che lo accompagna, che lo squassa. La filosofia devastatrice e corroborante di Schopenhauer, che sputtana tutti gli ottimismi atti a imbambolare il ‘popolino’, che assegna all’arte un ruolo rivelativo – per quanto parziale, “la liberazione offerta dall’arte non può essere che provvisoria, legata com’è ai brevi momenti della contemplazione estetica” (Giuseppe Riconda) – decisivo nella via verso l’ascesi, ha influenzato pressoché tutta la letteratura occidentale moderna. Nessun artista e nessun filosofo può prescindere dalla vertigine di Schopenhauer, riassunta nella sua opera somma, Il mondo come volontà e rappresentazione, che si chiude sguainando quella frase memorabile, “questo nostro mondo tanto reale con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – nulla”.
Schopenhauer, l’esegeta del nulla, il pensatore che mette tutto in discussione e che procede per interrogativi incendiari e metafore abbacinanti, affascina – chiedere al suo lettore più intelligente, Nietzsche. Dopo aver letto Schopenhauer, lo dimostra Tolstoj, tutto cambia. “Chi legge quest’opera, alla fine non è più la stessa persona e tutti saranno grati all’autore di un’esperienza unica e altissima, il cui esito non può che essere una rigenerazione della mente e del cuore”, ha scritto Sossio Giametta, tra i grandi traduttori e interpreti di Schopenhauer. Anche Schopenhauer, per altro, come Tolstoj, si è inabissato nel nulla – esperienza necessaria per l’artista, che culmina con la distruzione totale di sé: l’esito è la resurrezione o l’estinzione. Pubblicato nel 1818, Il mondo come volontà e rappresentazione fu, editorialmente, un disastro. L’insuccesso, dopo tutto, è consustanziale al carattere del filosofo che scriverà, con atroce lucidità: “In ogni tempo i grandi geni della poesia, della filosofia, delle arti, si ergono come eroi solitari che conducono una lotta disperata e unica contro un intero esercito. L’idiozia, la banalità, la diseducazione, la violenza del genere umano si oppongono in eterno all’opera dei grandi spiriti, in ogni campo e in ogni arte, formando un esercito che finisce per soffocare e uccidere l’artista”. Il filosofo nato a Danzica non sarà soffocato dall’incomprensione. Malaccetto dalle accademie – dove era in voga il suo arcinemico, Hegel – nel 1851 Schopenhauer pubblica i Parerga e paralipomena. Nonostante il filosofo giudichi il tomo come una raccolta “scritti minori” che “non hanno potuto trovar posto nelle opere sistematiche”, il libro ha un successo importante, che fece “di Schopenhauer un avvenimento culturale non passeggero” (Giorgio Colli). Cosa è successo? Che Schopenhauer affronta le grandi questioni di sempre (“che cos’è il mondo? come dobbiamo vivere?”), solo che per la prima volta quelle questioni e quei concetti “trovano una forma di esposizione adatta”. Schopenhauer non ha più bisogno di dimostrare il suo genio filosofico, è più libero, più scaltro. Quel gran genio – troppo sottovalutato – di Giorgio Colli ha parlato di “popolarizzazione della filosofia”. Precisando: “popolare la filosofia diventa già nel linguaggio semplice e aperto, in antitesi con un atteggiamento soltanto teoretico, o con un’esposizione matematizzante, o con un qualsiasi gergo astruso, e comunque in rottura con ogni indirizzo specialistico”. Schopenhauer, che diffidava delle cattedre di filosofia e dei filosofi da università, trova un linguaggio adatto a divulgare le sue inquietudini. Finalmente, l’opera del filosofo tedesco viene riscoperta, letta, tradotta, divulgata nel resto del mondo. […]
Animalista (“in verità, gli uomini sono i diavoli sulla terra e gli animali le anime torturate”), anatomista della fugacità (“Ciò che è stato, non è più; tutto ciò che è, un attimo dopo è già stato”), cronista della compassione (“Ciascuno porta in se stesso gli errori dell’umanità intera, anche quelli per cui ora ci indigniamo”: concetto che ha assonanze concrete con il refrain che sibila in tutti i romanzi di Fëdor Dostoevskij, così ne I demoni, per dire, “peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui”) Schopenhauer ha scoperto la via di fuga dal nulla. Il mondo è quello che è, ring di soprusi e di bestialità, l’inquietudine ci tortura, eppure, “il nostro vero essere è indistruttibile”, “ciascuno porta in sé il centro immobile dell’infinito”. Non esiste un regno oltre questo, non esiste Dio, ogni cosa nasce per morire, ma la nostra essenza è immortale. “L’è ci appartiene solo per un attimo, l’attimo dopo abitiamo il fu. Ogni sera, siamo più poveri di un giorno. Ci sarebbe da impazzire, non fosse che nei recessi del nostro essere abbiamo la percezione di possedere l’essenza dell’eternità, quella forza grazie alla quale si rinnova continuamente la vita”. Eccola, la perla che ci consegna Schopenhauer: l’individuo che guardiamo ogni giorno allo specchio non è che una forma transitoria, parziale, coagulata su questa Terra, regno di virus e di malattie. Qual è la nostra vera forma? Perché nel tramonto, nella luna o nella congiura delle nubi intuiamo qualcosa che ci sorpassa, fino alla commozione? Di quale eternit�� siamo il calco?
L’eminenza di Schopenhauer, ad ogni modo, è sostanzialmente linguistica. La visionaria vivacità delle metafore, la laconica rapacità delle conclusioni, mai paghe, sempre estreme (“Guardare l’immensità delle stelle, che fiammeggiano illuminando mondi dove domina la sofferenza o la noia, porta allo sgomento, alla follia. Se l’atto del generare non fosse un bisogno, accompagnato dal godimento, ma fosse un semplice gesto razionale: come potrebbe esistere il genere umano?”), ci squarciano. Come se qualcuno gettasse la nostra testa nel cosmo, e noi, nati, morti e rinati miliardi di volte, contemplassimo la vita con animo sicuro e scuro. Certi del nulla; con la certezza che siamo indistruttibili.
Federico Scardanelli
*Pubblichiamo per gentile concessione parte dell’introduzione a Arthur Schopenhauer, “Più forti della morte”, Theoria 2018, una selezione dei brani più potenti del filosofo tedesco
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