#me lo sono promesso solo altre tre volte nella vita
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Appena finisco questo trasloco mi compro una chitarra elettrica, giuro
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La verità, vi prego, sulla violenza domestica.
L’Italia è una Paese pieno di femminicidi. Soprattutto se, come contesto di paragone, teniamo il “Mondo occidentale”, o il “Nord del mondo”. Ultimamente l’attenzione su questa tematica si è fatta più intensa, se ne parla in TV, sui giornali, ci sono campagne informative e ci sono state diverse iniziative legislative sull’argomento. Do per buono, quindi, che condividiamo l’informazione “In Italia molte, troppe, donne vengono uccise da chi diceva di amarle” non occorre che anche io mi metta a snocciolare dati.
Chi diceva di amarle. Si usa spesso questa espressione in questi casi, non è vero? È su questo che voglio scrivere, oggi. Voglio scrivere di questo perché con il mio lavoro mi trovo a essere testimone privilegiata di questo fenomeno e la riflessione che voglio fare non l'ho letta né sentita da nessuna parte. Spesso i casi che seguo, infatti, casi di tutela minori, sono casi di violenza domestica -e do per buono che condividiamo anche il concetto che una donna uccisa dal proprio compagno o ex compagno spesso, se non sempre, è stata prima maltrattata dalla medesima persona. Non pensiamo, infatti, che tutti questi femminicidi intervengano improvvisamente in relazioni serene e sane, giusto? Questo tipo di casistica può esistere, e per quanto ne so esiste, ma si tratta di una sparuta minoranza. Nella maggioranza dei casi, il femminicidio è preceduto da qualche forma di violenza, abuso e maltrattamento: aggressioni fisiche, violenze verbali e psicologiche, abusi economici, persecuzioni, minacce. E nemmeno questi ci piacciono, giusto?
Se diamo per buoni questi due concetti, quindi:
- in Italia i femminicidi sono un problema
- i femminicidi sono in gran parte preceduti da altre forme di abuso
posso arrivare ad affrontare l’argomento come mi propongo di fare ormai da tempo.
Le coppie (genitoriali quantomeno) con cui lavoro e ho lavorato io, sono tutte coppie, per fortuna, in cui la parte femminile è vivente: non si sono verificati femminicidi, quindi. E sono tutte coppie che sono “scoppiate”: i due non hanno più una relazione sentimentale, bensì condividono solo la genitorialità -pare poco. Voglio prendere a esempio tre di queste coppie, cui attribuirò nomi di fantasia:
- Maria e Romeo
- Gianna e Francesco
- Rita e Donato
tutte italiane.
Ve le racconto brevemente. Penso possa servire, calare nel reale qualcuna di queste storie.
Maria e Romeo oggi hanno intorno ai 40 anni. Lui è un ufficiale, lei fa la commessa. Lui è di una cittadina del sud provinciale, lei di una grande città, dove lui è migrato. Si conoscono qualche anno fa, e la loro relazione procede velocemente: presto vanno a convivere, presto si sposano, presto hanno un bambino, poi un altro. Lui le mette le mani addosso, cerca di isolarla, la controlla, la umilia -questo, almeno, è quello che racconta lei, sia a noi che alla magistratura, anche se a uno degli episodi assistono due poliziotti. Pare che lui facesse così anche davanti ai bambini, che sono piccoli quando lei decide di separarsi definitivamente. Un primo ricorso congiunto per affidamento condiviso dei minori, poi un altro episodio di violenza. Ora lui è sottoposto a un procedimento penale per aggressione e minacce, e vede i suoi bambini solo alla presenza di un operatore specializzato, mentre lei è stata refertata in pronto soccorso. Entrambi devono rendere conto ai servizi sociali del loro essere genitori. Lui rischia la decadenza dalla responsabilità genitoriale, che in soldoni significa che rischia di non essere più, legalmente, padre dei suoi figli.
Gianna e Francesco, invece, sono una ex coppia più giovane, intorno ai 30. Entrambi vengono da paesi della provincia e da un ceto socio-culturale basso. Lei faceva l’operaia, ora si arrangia con lavoretti; lui dice di fare trasporti, ma non sappiamo molto di questo, perché è tutto a nero. Anche la loro storia procede velocemente: si conoscono, si innamorano, usano un po’ di sostanze insieme -ci sarà anche un procedimento penale per questo, a carico di entrambi- vanno a convivere, hanno un bambino. Lui le mette le mani addosso, insulta lei e la sua famiglia -o così sostiene lei con noi e con la magistratura. Si separano, poi tornano insieme. Lei resta nuovamente incinta e quando decide di abortire, lui la prende a calci in pancia -o così dice lei- dopodiché si separano definitivamente. Un primo ricorso per affidamento congiunto del loro bambino, poi un ricorso per affidamento esclusivo di lui, poi uno di lei, poi il Tribunale per i Minorenni (di seguito, affettuosamente, “T.M.”), e noi. Oggi i due genitori aspettano le decisioni del T.M., e noi con loro. Nel frattempo cerchiamo di mediare tra i due, dato che il conflitto tra loro è ancora caldissimo -l’ultima denuncia da parte di Gianna è di qualche giorno fa.
Infine, Rita e Donato. Rita e Donato sono la coppia più anziana del nostro piccolo campione. Ultraquarantenni entrambi quando si conoscono, vanno per i 50 oggi. Entrambi dipendenti comunali di una città, ceto medio. Anche la loro storia procede veloce: si conoscono sul lavoro, si innamorano follemente, vanno a convivere, hanno una bambina. Rita scopre che Donato ha avuto un problema con la cocaina in passato, ma sospetta che ce l’abbia ancora, perché a volte lo trova depresso e chiuso in un mutismo che non gli appartiene. Quando lo trova tutto sudato con in braccio la loro bambina di tre anni, Rita decide che basta. Donato non le pagherà mai gli alimenti, si impunterà in polemiche sterili con i giudici -ricorso per affidamento congiunto anche per loro- e verrà denunciato più volte da lei per le sue mancanze materiali e morali (lei sostiene che lui sia del tutto inaffidabile come padre). Alla fine arriva anche per loro la richiesta di indagine da parte del T.M., e ora anche per loro aspettiamo disposizioni. Anche Donato rischia di perdere la propria responsabilità genitoriale, ed entrambi, probabilmente, dovranno rispondere a noi per un bel po’.
Cosa hanno in comune queste tre coppie? Perché, mi sono chiesta tante volte, una donna maltrattata resta con chi la maltratta? Mica è scema! La risposta me l’hanno fornita proprio i più anziani tra i nostri genitori: Rita e Donato. Al primo colloquio, non conoscendoli, li invito insieme: di solito, se ci sono motivi per non voler presenziare congiuntamente, uno dei due o uno degli avvocati, ce lo farà presente dopo aver ricevuto la convocazione. Rita e Donato però vengono insieme, anche se Donato arriva in ritardo. Una cosa mi colpisce subito di questa “coppia”: si amano, mi dico! Durante tutto il colloquio c’è una straordinaria sintonia tra i due, che non possono fare a meno di sorridersi quando si guardano negli occhi. Ridono, perfino, insieme, di questa situazione così poco simpatica. Sembrano due ragazzini innamorati che ridono, imbarazzati ed eccitati, per il solo fatto di essere l’uno alla presenza dell’altro. Si amano, si stanno simpatici, si piacciono, e questo sentimento è palpabile per me, una totale sconosciuta. E Gianna e Francesco? Che sono tornati insieme e hanno concepito un altro bambino dopo che già c’erano state violenze? Qualcosa, anche tra loro due, deve esserci o esserci stato. Una elettricità, una energia, una carica erotica. E così anche tra Maria e Romeo. Lui che arriva e si presenta come un principe azzurro, un uomo un po’ all’antica che la conquista con i suoi modi galanti e il suo desiderio di fondare una famiglia, in una società così slabbrata, in cui i legami sono così ambigui e deboli. Qualcosa, in ciascuno di questi “altri” ha promesso a quella donna o a quella ragazza quel qualcosa che lei desiderava nel profondo di se stessa: sicurezza, eccitazione, amore. E i maschi? Lo stesso per loro, ma certo! Sentimenti, sensazioni, promesse di cura e di vicinanza. L’unica differenza, l’unico problema, è che ai maschi insegniamo che non è loro concesso essere fragili -solo forti, quindi arrabbiati o indifferenti; e alle femmine insegniamo a ignorare sistematicamente le proprie esigenze e a fingere che tutto vada bene.
Cosa abbiamo di fronte, allora? Tre donne che hanno fatto “le crocerossine”?
Questa è un’altra cosa che si dice spesso, quando una donna sta con un uomo fragile e poco consapevole. Io, per indole, mi ribello sempre un po’ a questi concetti pret-a-porter. Sono donne che volevano salvare uomini fragili, queste? Quando ci innamoriamo di persone fragili stiamo agendo una nostra parte narcisista che si sente bene ad assistere un bisognoso? Chi di noi non si è presa una cotta per un tipo un po’ borderline, “sbagliato”, che nel migliore dei casi ci dava un circuito sadomaso di piacere-e-dispiacere? Eravamo crocerossine -quindi sciocche, illuse, dotate di bassa autostima- o magari quella persona e non un’altra ci dava, in quel momento, lo stimolo di cui avevamo bisogno, per quanto questo potesse essere difficile da capire per gli altri?
La verità è che la razionalità ci ha preso un po’ la mano. E l’ingegneria sociale che su essa si fonda, anche. Stiamo nutrendo una narrazione secondo la quale occorre costruirci una vita la più sana e la più sicura possibile, come se il nostro compito evolutivo fosse solo la conservazione eterna. Ma vi do una notizia: anche morire è un compito che la natura ci ha affidato. L’essere umano è anche -soprattutto, direi- irrazionalità. La razionalità è uno strumento che abbiamo sviluppato in un secondo momento per proteggerci. Ma cosa succede quando ha il sopravvento?
Il più naturalista degli scienziati, Darwin, scrive nella sua autobiografia, che, se potesse tornare indietro, dedicherebbe dei giorni della settimana alla musica e all’arte, per coltivare la sua “anima” -irrazionale- in quanto questo avrebbe reso più completa e “potente”, ricca,la sua mente razionale.
No: Maria, Gianna e Rita non sono pazze, né sceme -non più di tante altre. Sono donne che si sono innamorate di uomini che davano loro un tipo di stimolo che a loro serviva e che non trovavano, in quel momento, in nessun altro. A volte un cocainomane, un depresso o un “fragile” sono semplicemente più interessanti degli altri, e questo è quanto. Hanno qualcosa in più da dire. Hanno qualcosa di profondo e complesso da condividere, e noi di quella complessità, a volte, abbiamo bisogno.
“Uccisa da chi diceva di amarla”, allora, o “Uccisa da chi la amava a modo suo, come riusciva”? So che probabilmente queste parole scandalizzeranno qualcuno. Però è così, se depuriamo il pensiero da moralismi. Non stiamo a sindacare, quindi, su come gli altri amano, signori, e scendiamo un po’ da sto piedistallo, che non serve a nessuno, tanto meno alle vittime di violenza. No: riconoscere la bontà, la verità, dei sentimenti coinvolti in queste situazioni è il primo passo perché razionalità possa instaurarsi in tutti i protagonisti, tramite un processo di autodeterminazione e riappropriazione dei propri “poteri della mente” -come avrebbe detto il buon Bruner- con il risultato di proteggere se stessi e gli altri. Perché più cerchiamo di escludere l’irrazionale dalla nostra vita e più quello ci tornerà addosso come un boomerang per prenderci a schiaffi.
No, la violenza sulle donne non si combatte negando i sentimenti loro e dei loro compagni ed ex compagni, né degradandone i comportamenti -e con “comportamenti” non intendo le violenze, che vanno ovviamente stigmatizzate, ma i comportamenti che ciascuno ha in amore. La violenza (tutta e in particolare quella domestica e di genere) si combatte educando tutti a non censurare le proprie esigenze ed emozioni, e usando la razionalità come strumento protettivo.
E la tutela dei minori? Come la perseguiamo? Magari, non dico non procreando con tale velocità, ma almeno essendo preparati alle onde di un destino che è tutto fuorché razionale.
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«Mi chiamo Alberto Paolini, ho ottantotto anni. Ne ho passati quarantadue nel manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. Sono entrato che avevo quindici anni e ho rivisto la città nell’anno dei mondiali, il 1990. Ho subito per tre volte l’elettrochoc perché avevano scambiato i miei silenzi per una malattia.
Ma io non parlavo perché stavo male.
Cominciamo dall’inizio, come in tutte le storie che si rispettino. Vivevo con la mia famiglia a Via Piave 15, nel quartiere Pinciano di Roma. Papà faceva il portiere e per arrotondare riparava le scarpe del vicinato. Mia madre lavorava a mezzo servizio. Era una donna dura, severa. Comandava tutto lei, una mamma “padrona”. Era sempre nervosa, urlava. A mia sorella voleva bene, a me no. Mi brontolava sempre, mi picchiava. A casa nostra nessuno dei parenti si avvicinava più, la temevano.
Papà è morto quando io avevo cinque anni. Stava bene. Una sera si è portato le mani al cuore e ha cominciato a rantolare. Mia sorella ed io ci siamo tanto spaventati. Mamma ha detto poi che era stata una “sincope” a portarlo via da noi. Da quel momento tutto è precipitato. Mia madre non ce la faceva più a sostenerci, abbiamo dovuto lasciare la casa e ci ha messo in due collegi differenti, lontani. Poi, qualche anno dopo, anche lei è morta e ci siamo trovati completamente soli al mondo.
Nel mio collegio le suore erano cattive, non ci trattavano bene, spesso ci picchiavano. Insegnavano a stare zitti e obbedire senza discutere. In collegio era obbligatorio il silenzio, se parlavi eri punito. Tutti sembravano volere solo una cosa, quando ero bambino: che non parlassi. E io obbedivo, non parlavo.
Le suore non erano caritatevoli, stava cominciando la guerra, tutti avevano fame, tutti avevano paura. A 12 anni vengo mandato in un collegio di salesiani. Anche loro erano duri, severi. Anche loro picchiavano per un nonnulla. Io che, va bene, ero silenzioso e timido, subivo tante cattiverie dagli altri ragazzi.
Si faceva l’avviamento professionale e io stavo studiando in un laboratorio di sartoria. Ma quelli più grandi mi prendevano di mira. Io ero piccolo, anche fisicamente, e poi non parlavo, o parlavo poco. Mi facevano scherzi di tutti i tipi. Al laboratorio c’erano, di norma, un capo e un maestro. Il capo però era tornato al suo paese e un giorno il maestro si assentò. Al ritorno trovò una gran confusione e volle sapere di chi era la colpa. Tutti dissero che ero stato io. Ma non era vero. Un’altra volta mi spinsero fuori dalla classe e mi lasciarono in corridoio. Quando arrivò il maestro mi punì. Io non ci volevo più entrare, in quel laboratorio. Cercavo di richiamare l’attenzione del direttore che era più buono, ma non ci riuscii.
A un certo punto vennero due benefattori, due persone ricche che avevano un locale, forse un caffè, in Piazza di Spagna. Ci andava il bel mondo romano e, visto che eravamo alla fine della guerra, anche gli ufficiali americani. La signora, credo fosse svizzera, ho saputo più avanti che aveva fatto un voto. Suo figlio, durante la guerra, si era imboscato e i nazisti lo cercavano per fucilarlo. Lei si era rivolta alla Madonna garantendo che se si fosse salvato, lei avrebbe adottato un bambino in un collegio. Quel bambino fui io. Ma non venni adottato. Stetti a casa loro per un po’ e poi loro mi seguirono nel tempo. Ma da lontano. Perché a un certo punto anche loro pensarono che stessi male. Ero poco esuberante, per essere un bambino. E parlavo poco. Ma che volevano da me? Era quello che tutti, da mia madre al collegio delle suore fino ai salesiani, mi avevano imposto di fare.
D’accordo con i salesiani mi portarono alla clinica neuropsichiatrica dell’Università. C’era un giovane professore di guardia che si chiamava Giovanni Bollea. Lui disse che spesso i bambini strappati dalla famiglia o abbandonati che finiscono in collegio, hanno queste reazioni. E che dovevo solo stare sereno, stare fuori, conoscere la città e la vita. Per un po’ fu così. Ma io ero rotto dentro e le parole non mi uscivano facilmente.
Così i benefattori e i salesiani decisero di farmi ricoverare alla clinica dell’Università. Lì mi facevano tante domande, scrivevano dei moduli, mi fecero la puntura lombare che era molto dolorosa. Fui sottoposto a vari test psicologici, tra i quali quello delle macchie di Rorschach. Il dottor Finzi disse che ero un caso interessante e mi tennero lì cinque mesi.
Poi questo tempo finì e dovevo uscire. I medici dicevano che non avevo patologie, ero solamente stato troppo vessato da un’educazione repressiva.
Ma i benefattori non volevano o non potevano accogliermi e il collegio si rifiutò di riprendermi. Avevo una zia, lo scoprii allora, ma anche lei non mi volle, perché i suoi due figli erano contrari.
Non sapevano dove mettermi. Era il dopoguerra, c’era tanta fame. E allora decisero tutti insieme di ricoverarmi al Santa Maria della Pietà.
Lì mi trovai nel reparto dei bambini, anche se avrei dovuto stare con i grandi perché il limite era quattordici anni. Io ero piccolo, mingherlino e allora mi tennero con i ragazzi. Ho fatto amicizia con un bambino che si chiamava Franco. Lui era il contrario di me, faceva scherzi, si burlava di tutti e in particolare di Italia, un’infermiera che aveva paura dei piccoli insetti con i quali lui, immancabilmente, le riempiva le tasche. D’altra parte in quei tempi erano i ragni o le lucertole i nostri compagni di giochi preferiti. Non avevamo altro. Franco stava bene di testa, aveva però delle crisi epilettiche e per quello lo avevano chiuso lì. Il primo mese giocammo sempre insieme. Scaduto quel periodo, detto di osservazione, o qualcuno ti veniva a prendere oppure il tuo destino era in un padiglione di internamento. Lui fu portato al 22 e io mi sono ritrovato di nuovo solo.
Dopo altre due settimane toccò a me. E qui la storia prende un carattere che non so descrivere. Potrei dirla così: sono finito all’elettrochoc per un equivoco. C’era un giovane medico, non il primario, che mi fece un mucchio di domande. A un certo punto mi chiese se io sentivo ogni tanto delle voci che mi chiamavano senza che ci fosse nessuno vicino. Io risposi candidamente di sì, ma volevo solo dire che ogni tanto qualcuno mi chiamava dal corridoio, insomma che ci sentivo bene. Io ero nuovo lì, non sapevo che l’espressione “sentire le voci” corrispondesse alle allucinazioni. Ho risposto di sì perché volevo dire che non avevo problemi di udito. Quando mi sono accorto dell’equivoco, o del tranello, ho cercato di correggere ma il dottore mi incalzava, era un incubo, e io ero confuso anche perché non ero abituato a parlare, non sapevo rispondere perché, da piccolo, non dovevo rispondere.
Io ho cercato di farmi capire ma lui ha scritto sul verbale che io non ero capace di spiegare la ragione per la quale sentivo le voci. Alla fine lui ha scritto qualcosa sulla cartella clinica: avevo uno “stato depressivo” il che mi rendeva, chissà perché, “una persona pericolosa”. La suora ha chiesto dove mi dovessero mandare. Lui ha risposto gelido: “Al padiglione sei a fare l’elettrochoc”.
Io mi sono subito spaventato. Quando ero con i bambini avevo visto applicare quella tecnica a un ragazzino, Claudio, e lui, a ogni scossa, era come se si alzasse in volo, se levitasse. Lo dovevano tenere per evitare che cadesse dal lettino. E poi faceva la bava alla bocca, mi aveva molto impressionato.
Tornando nella mia camerata ho chiesto a un’infermiera, si chiamava Teresa, se davvero lo avrebbero fatto anche a me. Lei mi rispose “Ma no, stai tranquillo. È per quelli che non capiscono.”. Mi rassicurò.
Ma poi mi chiamarono e mi ritrovai in una fila, tutti erano silenziosi più che disperati, gli avevano detto che dopo la cura sarebbero tornati a casa.
Arrivò il mio turno. Io volevo scappare. Avevo sentito che l’elettrochoc non si poteva fare agli anziani, ai malati di epilessia e a quelli con problemi al cuore. Allora, una volta entrato, dissi al medico che avevo male al cuore, sperando di farla franca. Lui mi appoggiò un istante lo stetoscopio al petto e disse che non avevo nulla e si poteva procedere. E procedettero. In quattro mi tennero mentre la suora mi inumidiva le tempie con un batuffolo bagnato di acqua e sale e mi appoggiava due elettrodi alle tempie. Io piangevo invocando la mamma che non avevo.
Il medico ha chiesto: “È pronto?”. La suora ha risposto: “Sì, è pronto”.
Poi non ho sentito più nulla. Mi sono risvegliato in una corsia piccola, con una sensazione penosa, non sapevo dove fossi e cosa stessi facendo, mi sentivo con la testa con la nebbia, i nervi del corpo tutti tesi.
Me ne hanno fatti tre, così. La cura prevedeva tre cicli di quindici applicazioni. Quarantacinque scosse alla tempia.
Ma poi anche io ho avuto una fortuna. Un giorno è venuta a trovarmi la benefattrice. L’aspettavo da tanto, mi aveva promesso che sarebbe venuta a trovarmi ma era passato più di un mese e non si era visto nessuno. Ero disperato, pensavo che mi avessero abbandonato tutti. Avevo quindici anni. Quando la signora è entrata e mi ha visto in quello stato, in quel padiglione, si è arrabbiata moltissimo. Non era quello che aveva concordato al momento del mio ricovero. Le dissero che c’era stato un disguido e mi mandarono subito al padiglione dei lavoratori. E lì sono rimasto fino al 1990.
Si sono avvicendati, nel tempo, vari direttori. Chi apriva i cancelli dei padiglioni, chi li chiudeva. Un direttore, Buonfiglio, diceva che i pazienti non erano dei reclusi, che dovevano muoversi, dovevano distrarsi. Organizzava feste, spettacoli, veniva spesso Claudio Villa. E anche gite. Vabbé solo una volta all’anno, ma erano bellissime. Ci si poteva anche incontrare con le donne, nascevano degli strani fidanzamenti. Ci si facevano i regalini, che so, un fazzoletto ricamato o cose così. Io avevo conosciuto una ragazza, avevamo fatto amicizia, stavo bene con lei. Ma dopo un mese è uscita e non l’ho più rivista.
Ho lavorato, per trent’anni, in tipografia, all’ufficio statistica e poi in biblioteca. Era per i medici, con testi specializzati, ma c’era un armadio con libri vari. E io li leggevo. Un infermiere una volta mi portò in regalo un pacco di riviste. Ne ero ghiotto. Mi piaceva lo sport, tifavo Venezia perché c’erano Loik e Valentino Mazzola. Poi il mio cuore lasciò posto al Grande Torino, dove giocavano i miei eroi. Di Superga seppi dalla radio e fu un dolore acuto, inconsolabile.
Un giorno vennero a dirmi che sarei uscito, avrei avuto un appartamento con altri al quartiere Ottavia. Stavo al Santa Maria della Pietà dal 1947 e ora eravamo nel 1990, la città fremeva per i mondiali. Ero entrato bambino e ora avevo quasi sessant’anni. Non sapevo cosa ci fosse fuori, in fondo stavo bene lì, tutti mi volevano bene. Quasi mi dispiaceva uscire. Quando nel quartiere seppero che stavamo per venire a vivere qui ci fu una rivolta, non ci volevano. “Questi arrivano dal manicomio, saranno pericolosi”. Hanno fatto pure manifestazioni. Poi, piano piano...
Per me era un’esperienza nuova. Solo quando ero piccolo avevo dormito da solo a casa. Dopo ero sempre in camerate insieme agli altri. Ora avevo una stanza tutta per me e una casa da condividere con altri come me. Avevo un po’ paura.
In manicomio ci ho lasciato un po’ di vita, tanta, e un po’ di cuore, tanto. Ho tanti ricordi.
Per esempio quando, attorno al 1968, vennero dei ragazzi a manifestare perché si aprissero le porte del manicomio. Avevano cartelli, bandiere, i capelli lunghi, esponevano le loro idee, idee di libertà. Parlavano di un professore che si chiamava Basaglia. Occuparono un padiglione. La polizia voleva mandarli via ma loro resistettero. Misero uno striscione con scritto “Centro sociale”. Ci facevano andare per corsi di ceramica, di lavorazione del cuoio. C’era anche un laboratorio di scrittura, che frequentai con passione.
Ed è lì che forse io, Alberto Paolini, ho finalmente imparato a parlare, a parlare con gli altri».
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I romance che rileggo più spesso
Per prima cosa intendo chiarire che quelli che elenco in questo post non sono i miei romance preferiti in assoluto (alcuni sì, ma non tutti), ma bensì quelli che amo rileggere spesso. E per me, le caratteristiche che rendono un libro rileggibile a poca distanza di tempo dall’ultima volta che l’ho letto sono la leggerezza, brevità, e l’ironia che lo permeano.
Un amore inaspettato
TItolo originale: The famouse heroine
Mary Balogh
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L'aver salvato la vita al figlioletto di un duca cambia il destino della bella Cora Downes. La giovane viene infatti introdotta in quegli ambienti aristocratici di cui, come figlia di un semplice mercante, avrebbe solo potuto sognare. Il problema è che dove va lei i guai la seguono e anche se il suo altruismo e sprezzo del pericolo la rendono una beniamina del Ton, un passo falso e una risata di troppo la metteranno in una situazione compromettente con l’ultima persona al mondo a cui avrebbe voluto creare problemi.
La mia opinione: semplice, carino e divertente. Una lettura non impegnativa e veloce in grado di risollvarti la giornata se sei giù di corda, con un poco di romanticismo
Il segreto di Miranda
Titolo originale: The Secret Diaries of Miss Miranda Cheever
Julia Quinn
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Londra, epoca vittoriana. Miranda Cheever si è innamorata del fratello maggiore della sua migliore amica a nove anni e non ha mai smesso di amarlo. Lui non l’ha mai notata, e un matrimonio sbagliato lo ha reso freddo e cinico. Eppure solo ora si accorge di lei
La mia opinione: romanzo veramente dolcissimo e struggente, che con il suo amore non corrisposto mi spezza il cuore ogni volta e poi lo ricostruisce con il lieto fine, fortunatamente. Quando rileggo questo libro di solito dopo rileggo anche il suo seguito intitolato Quella volta a Londra che vede protagonista la migliore amica di Miranda, e che è molto meno struggende, ma molto carino e ironico.
A Sir Philip con amore
Titolo originale: To Sir Philip with love
Julia Quinn
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Trama: Eloise Bridgerton ha ormai ventotto anni compiuti ed è ancora senza marito. A spezzare il grigiore delle sue giornate arrivano le lettere di sir Phillip Crane, un botanico rimasto vedovo con due gemelli da crescere.
Dopo un anno di corrispondenza lui le chiede di sposarlo, ma quando finalmente si incontrano, Eloise scopre che Phillip, più che una compagna, cerca una madre per i suoi figli. Riuscirà il suo amore a fare breccia nel cuore apparentemente insensibile di Phillip?
La mia opinione: mi piace rileggere molti dei romanzi della serie Bridgerton, in particolare il secondo, il quarto, il settimo, ma probabilmente quello che rileggo più spesso è il quinto, questo. Eloise a volte come personaggio è troppo, lo ammetto, ma mi fa sempre ridere tanto.
Courting Miss Hattie
Pamela Morsi
Inedito in italiano
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Trama: 1800. America. Hattie ha ormai più di trenta anni, e non ha mai avuto un corteggiatore. Non è bella ma ha della terra sua e finalmente uno spasimante si fa avanti. Non è bello, è vedovo e non è simpatico, ma è sempre meglio che rimanere zitella. Hattie accetta il corteggiamento e pensa proprio di sposarlo…..ma non sa che qualcuno è molto geloso delle sue attenzioni.
La mia opinione: Un bellissimo libro. I due protagonisti, amici da anni, solo grazie ad un terzo incomodo scoprono di amarsi. Lei è bruttina, lui è bello e più giovane di lei, ma innamoratto cotto di lei. Tra scazzottate, raccolti, lavoro duro, equivoci e risate, il libro scorre via che è un piacere.Courting Miss Hettie Pamela Morsi
Titolo: The Brides of Praire gold
Maggie Osborne
Inedito in italiano
Trama: Cody Snow non sa cosa l’abbia spinto ad accettare l’incarico di guidare una carovana di dodici spose per corrispondenza dal Missouri fino a Clampet Falls, Oregon, ma già prima di partire si è pentito di averlo fatto. Non solo dovrà sorbirsi le loro innumerevoli lamentele e proteggerle dai pericoli del viaggio, ma dovrà anche combattere contro l’attrazione che prova verso una di loro, Perrin Waverly, poiché lei è promessa ad un altro, e lui ha giurato a se stesso dopo la morte della moglie, che non si sarebbe mai più sposato.
La mia opinione: Il mio libro preferito di questa autrice al momento. Non li ho ancora letti tutti, ma sarà sicuramente ai primi posti, poiché mi è piaciuto un sacco, nonostante sia piuttosto corale. Che dire. Mi è piaciuto talmente tanto che ora sto leggendo tutti i romance che riesco a trovare con protagoniste spose per corrispondenza. Nel vecchio west vista la mancanza di donne alla frontiera e nei nuovi territori appena colonizzati, era usanza che gli uomini mettessero annunci sui giornali cercando moglie, e le donne, spinte dalle più varie ragioni potevano rispondere all’annuncio via lettera. Ne conseguiva una corrispondenza che spesso si concludeva con l’uomo che pagava il viaggio alla donna che lo raggiungeva e i due, pur non essendosi mai visti, si sposavano.Ora, di solito, se una donna rispondeva ad un tale annuncio era perché aveva dei problemi a trovare marito in altro modo o non aveva altro modo di mantenersi.In questo libro le dodici donne della carovana hanno avuto diversi motivi per decidere di affrontare un viaggio così duro e pericoloso: Perrin è vedova, non può mantenersi da sola e non vuole rimanere nel suo paesino dove la sua reputazione è a pezzi a causa di un suo errore di giudizio dovuto però alle sue circostanze. Le pesa andare a sposarsi lontano, non per il viaggio, ma per il fatto che gli uomini l’hanno sempre sfruttata o delusa e non crede che la cosa sarà diversa stavolta. Mem invece è una donna troppo indipendente, troppo alta e schietta per trovare marito nel suo paesino, e ha sempre sognato di vivere un’avventura, desidera ardentemente questo viaggio, e le spiace un poco che sua sorella, che dipende un po’ troppo da lei, abbia deciso di seguirla perché è rimasta vedova da poco. Hilda è una maestra troppo brutta per trovare marito in altro modo e abbastanza piena di coraggio tedesco per tirarsi indietro davanti a questa sfida. Sarah, vedova di un ufficiale, ha viaggiato al suo fianco per il mondo e sa cosa aspettarsi da questo viaggio, troppo avanti con gli anni, ormai trentenne se vuole marito deve andarselo a trovare e non ha certo remore a farlo. Augusta dopo gli sbagliati investimenti del padre e il suo suicidio non possiede più nulla al mondo se non l'orgoglio di quella che una volta era la famiglia più ricca della città e odia l'idea di questo viaggio, ma non ha altra scelta. Jane, figlia di un pastore si unisca alla carovana per non viaggiare sola verso il suo promesso sposo che conosce già bene e che l'aspetta. Alice è in fuga sotto falso nome da un marito troppo manesco. Thea, una dotata disegnatrice, timida e riservata, spera in un nuovo inizio. Cora, una povera serva illetterata non ha altre prospettive. Winnie è assuefatta all'oppio e i genitori sperano che allontanarla dal paese potrà aiutarla, mentre Ona nasconde un segreto ancora più oscuro.Il viaggio viene descritto non con troppi tediosi particolari, ma con la giusta accuratezza. Le difficoltà grandi e piccole, i problemi su come e dove occuparsi dei propri bisogni, la polvere, la sporcizia, la stanchezza la malattia, eppure è tutto parte di uno sfondo pittoresco e verosimile a una storia romantica e avvincente. In particolare, oltre alla storia principale tra Perrin e Cody. Assistiamo al triangolo amoroso tra Webb, la guida indiana della carovana (che in realtà è solo per metà indiano ed è unico erede maschio di Lord Albany, Un ricco Duca inglese), Augusta bellissima, ma arrogante e razzista, e Mem, non bella, ma atletica, dolce coraggiosa e sopra ogni cosa amichevole, leale e curiosa. Webb all'inizio è attratto dall'incredibile bellezza di Augusta, ma quando lei lo respinge perché mezzo indiano, per fortuna si accorgerà di Mem…..Ora queste poche parole non vi rendono l'idea della loro storia che è davvero molto dolce ed è la parte del libro che ho amato di più, ma fidatevi se vi dico che vale veramente davvero la pena di leggere questo romanzo. Poiché oltre a tutto ciò che vi ho già detto contiene anche un mistero da risolvere……
The river knows
Amanda Quick
Inedito in italiano
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Trama: tre donne che si suicidano gettandosi nel fiume nella stessa settimana., non può trattarsi di una coincidenza, anche se sembra essere così.
Anthony Stalbridge , il promesso sposo di una della vittime però non crede alle coincidenze ed inizia ad indagare sull'accaduto, è convinto che qualcuno abbia ucciso la sua fidanzata e sospetta di una persona in particolare,Elwin Hastings, ciò che gli manca però è una prova. Così decide di introdursi nella sua casa per trovarla. Lì incontra un'atra persona che sta a sua volta perlustrando la camera da letto, una donna: Louisa Bryce, che cerca prove di altro tipo riguardanti i loschi traffici di Lord Hasting, per un articolo giornalistico.
I due uniscono le loro forse per indagare a fondo su Hastings, scoperchiando segreti molto più oscuri di quelli che cercavano e scoprendosi pericolosamente attratti l'uno dall'altra. Louisa ha molto da nascondere al suo nuovo collaboratore, eppure è proprio il suo passato che fornirà loro la chiave per risolvere il mistero. Infatti lei sa bene come un finto suicidio sia un ottimo metodo per scomparire, e dei tre corpi delle donne suicide, solo uno è stato ritrovato…..
La mia opinione: rileggo spesso i romanzi di Amanda Quick in generale, perchè io la doro, ma al momento uno dei mei èpreferiti è questo perchè presenta un impianto giallo molto ben fatto.
Titolo: Summer Breeze
Autore: Catherine Anderson
Inedito in italiano
Trama: 1889. Rachel Hollister non ha messo piede fuori di casa, un ranch in mezzo alle prateria, da ben 5 anni. Vive tra l'altro non nell'intera casa ma solo in una stanza e mezza e tiene barricato tutto il resto. Il terrore l'attanaglia al solo pensiero di uscire. Ma non è sempre stasta così, tutto ebbe inizio cinque anni prima quando tutti i suoi famigliari durante un pic nic furono uccisi a colpi di pistola da un misterioso omicida posto su un rilievo. Una ad uno caddero davanti ai suoi occhi ma la pallottola destinata a lei si limitò a sfiorarla e farla svenire. Il colpevole dovette crederla morta e Rachel sopravvisse, ma da allora non è più uscita di casa. Sopravvive grazie ad un anziano ranchero che lavorava con i suoi e che le porta cibo e vende i suoi dolci, tramite una fessura tra le assi che barrano le porte. Poi però un giorno lui non viene al loro solito appuntamente asettimanale. E’ stato ferito e al suo posto si presenta il giovane ranchero , un forestiero, che lo ha trovato e curato. Rachel dovrà superare le sue paure e fidarsi di lui se viole sopravvivere….. anche perchè chi ha ucciso la sua famiglia la tiene d'occhio e aspetta solo che lei esca per finire la partita.
La mia opinione: un romanzo interessante, diverso dal solito (l’agorafobia nei romance non è molto diffusa) ,romantico ma anche pieno d'azione e introspezione, molto intimo con i due nostri eroi chiusi in casa all'oscuro di chi voglia uccidere Rachel. Conntiene sia la tensione dei classici gialli in ambiente chiuso, e il romanticismo dei romanzi d'amore nonchè una delle più belle lettere d’amore che sia mai stata scritta. Provare per credere.
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𝐓𝐇𝐄𝐎 & 𝐉𝐀𝐒𝐌𝐈𝐍𝐄
﹙Mini Role﹚⋆ Circle Eight
#𝐫𝐚𝐯𝐞𝐧𝐟𝐢𝐫𝐞𝐫𝐩𝐠
« Allora, quando poserai per me? Vestita, s’intende. »
Sa bene di dover tenere a riposo il braccio e la mano, ma ormai scalpita per riprendere a disegnare. Non sopporta più la vista di tutti i progetti non finiti che occupano il suo studio da quasi due mesi, vuole terminare ciò che ha cominciato e dare vita a nuove idee che gli frullano nella testa ormai da un po’, tra cui un dipinto di Jasmine. Approfittando della serata libera ha deciso di invitarla per una birra al Circle Eight, così da passare qualche ora in sua compagnia e, con un po’ di fortuna, convincerla ad un supplizio come quello di restare immobile in una posa scomoda mentre lui la disegna.
« Giuro che non ti farò tenere in mano un frutto o altre cose strane, promesso. »
Jasmine Persephone A. Harrison
Capelli neri come la notte incorniciavano il volto della dea che ora sembrava nascondere un sorriso sulle labbra carnose. Divertita era l'espressione che aleggiava su una persona che, nonostante la situazione, viveva per quelle attenzioni che il giovane le stava riservando. Aveva accettato immediatamente l'invito dell'amico, non per chissà quale secondo fine, ma solamente con il desiderio di trascorrere una serata all'insegna di quella quiete che ormai andava ricercando. « Ancora non hai finito il disegno? Pensavo che mi sognassi perfino la notte, Hèbert. » Con fare estremamente femminile, Jasmine gli strizzò l'occhiolino approfittando del momento per bere un sorso del liquido ambrato che scaldava più di quanto non volesse ammettere. « Immaginavo una proposta indecente, e invece... Andiamo, non dirmi che hai bisogno ancora di me. Potrei accettare, e dico potrei, solamente se posso decidere che cosa indossare. Non mi alletta il fatto di dover rimanere ferma chissà quante ore... Ah, condizione necessaria affinché accetti è terminarlo per davvero questa volta. »
Theodor Hèbert
« Lo dici come se fosse una mia abitudine quella di accantonare i disegni, non potevo muovere il braccio! Come lo finivo, con i piedi? Mi mettevo la matita nel naso? » Così dicendo porta la cannuccia del suo drink all’altezza del naso e comincia a muovere il capo fingendo di disegnare arabeschi invisibili, incurante degli sguardi che può attirare su di sé. È vero che ha lasciato molti progetti inconclusi e in effetti alcuni non ha più intenzione di riprenderli; preferisce lavorare su nuove idee, almeno per ora, ma questo non significa che sia solito abbandonare le tele iniziate. Uno sbuffo dal naso segue le parole della bruna, specialmente per quella “proposta indecente” che Theo non sarebbe mai in grado di fare, benché il fascino dell’amica sia innegabile. « Solo nei miei incubi, Jas. » Strofina il volto mentre ragiona se accettare o meno quella clausola. Ha già ritratto modelli con abiti moderni, specialmente per lavori su commissione, e non si sente in grado di intraprendere progetti importanti dato che la mano sembra ancora dargli problemi. Non può fare lo schizzinoso, specialmente con dei modelli che nemmeno paga. « Va bene, porta allo studio almeno tre o quattro vestiti che pensi possano andare e ne sceglierò uno. »
Jasmine Persephone A. Harrison
Stuzzicare ecco cosa piaceva realmente alla veggente, vedere nel prossimo la reazione che scatenavano le di lei parole era un qualcosa di irresistibile per lei, e la reazione di Theo non tardò ad arrivare. Ella si ritrovò così a ridacchiare, un ghigno sardonico che impreziosiva il sorriso della venere nera che ora osservava con interesse le movenze dell'amico. « Ehi, potrebbe essere un'idea... » Commentò ridacchiando prima di prendere un sorso del proprio drink. Era una serata come tutte le altre, e l'intenzione era quella solamente di rilassarsi. Certo, chiunque altro avrebbe scelto un locale più tranquillo, ma Jasmine sapeva apprezzare quel locale dedicato solamente agli esseri sovrannaturali. Sapeva di poter essere se stessa, di non dover nascondere la propria natura, ma soprattutto sentiva di non doversi nascondere. « Oh, è dannatamente divertente stuzzicarti, lo sai? E comunque sarebbero incubi bellissimi. E vada per i vestiti, non ti deluderanno. Ma a parte questo, come stai? Il braccio? »
Theodor Hèbert
« Sì, ho intuito che la cosa ti diverte parecchio... » Non è per nulla offeso dai modi di Jas e quella sua naturale propensione che ha di giocare con lui come un gatto gioca con un topo; sa che non c’è alcuna cattiveria dietro, sono solo scherzi innocenti fra due amici di vecchia data. Prende tempo concedendosi un lungo sorso del suo drink fino ad arrivare al fondo del bicchiere, che aspira rumorosamente con la cannuccia senza troppo curarsi del galateo. Non sa bene come rispondere alla veggente senza mentirle spudoratamente, non vuole ammettere di essere ancora lontano dalla guarigione completa ma nemmeno sembrare uno a cui sta per staccarsi il braccio dalla spalla... certo avrebbe profondamente gradito se la folla non avesse deciso di passarci sopra, torcendolo e fratturandolo. Una cosa è sicura, ricorderà quell’ultima festa di halloween per sempre. « Sto meglio, seguo la fisioterapia due volte a settimana ma la dottoressa ha detto che presto potremo ridurre le sedute. Faccio gli esercizi a casa, mi comporto abbastanza bene... ma ho ripreso a dipingere. Solo dipingere, non ho ancora preso lo scalpello in mano, sto cercando di fare il bravo. » Inutile dedicarsi alla scultura quando perfino un pennello sembra pesare troppo nelle giornate no, tanto da far tremare la mano e rendendo impossibile qualsiasi tratto. Non lo dice, Theo, ma è terrorizzato all’idea di non riuscire a recuperare la precisione di un tempo... sarebbe la fine di un sogno e molto di più. « Tu piuttosto, che racconti? Cosa si dice nel mondo di Jasmine? »
Jasmine Persephone A. Harrison
Un sorriso più simile ad un ghigno divertito piegò le labbra della venere nera che ora osservava l'amico bere il suo cocktail. Sapeva che Theodor non se la sarebbe presa per quello stuzzicarsi che ormai era diventato all'ordine del giorno, ma sapeva anche quando era il momento di fermarsi. Mai in alcun caso la veggente avrebbe voluto mettere a disagio l'amico, e mai si sarebbe spinta a tanto. Le conseguenze della festa di Halloween erano ancora ben visibili in molti dei suoi amici, e solamente per una fortuna del caso lei stessa non era rimasta coinvolta in quello che era stato definito un semplice incidente. Osservò con più attenzione l'Hèbert prima di inclinare il capo, assumendo quella posa che usava quando aveva necessità di comprendere appieno ciò che le stava di fronte. « E questa è la versione ufficiale o ufficiosa? Devi semplicemente darti del tempo... Un passo alla volta. Dipingere è già un buon passo, no? » Sapeva quando la scultura fosse importante per Theodor, ma la veggente era anche convinta che tutto avesse bisogno del proprio tempo. Solamente dopo qualche istante, Jasmine prese un sorso del proprio drink e socchiuse gli occhi cercando il punto da cui cominciare. « Il mondo di Jasmine, eh? Potrebbe essere un'idea per il titolo di un libro... Io, le mie avventure, e la straordinaria sensazione che qualcosa di brutto debba capitare da un momento all'altro... Ma a parte questo mi divido tra le lezioni e gli allenamenti. »
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Ti ho cercato, amore mio, in ogni atomo di te che è disperso nell'universo. Ne ho raccolti quanti mi era possibile, nella terra, nell'aria, nel mare, negli sguardi e nei gesti degli uomini. Ti ho cercato perfino nei kouroi, nella lontana montagna di una di queste isole, solo perché una volta mi dicesti che ti eri seduto sul grembo di un kouros. L'ascesa non è stata facile. La corriera mi ha lasciata a Sypouros, se così si chiama un villaggio sconosciuto anche alle mappe geografiche, e poi c'erano tre chilometri da fare a piedi, ho salito lentamente la strada sterrata a curve che più avanti scende verso una valle di ulivi e cipressi. C'era un vecchio pastore lungo la strada, e gli ho solo detto l'unica parola che importava, kouros. E nei suoi occhi è brillata una luce di complicità come se avesse capito, come se sapesse chi ero io e chi cercavo, che cercavo te, e senza dire una parola ha steso una mano indicandomi il cammino, e io ho raccolto il suo gesto che mi ha guidato e quella luce che è brillata un attimo nei suoi occhi e li ho messi in tasca, guarda, li ho qui, potrei disporli sul tavolino di questa terrazza dove sto cenando, sono altre due pietruzze di questo affresco in briciole che sto disperatamente raccogliendo per ricostruirti, oltre all'odore dell'uomo con cui ho passato la notte, l'arcobaleno sull'orizzonte e questo mare celeste che mi angoscia. Ma soprattutto una finestra inferriata che ho trovato a Santorini, sulla quale si inerpicava una vite, e da dove si vedeva il vasto mare e una piazzetta. Il mare era infiniti chilometri, e la piazzetta pochi metri quadrati, e intanto mi ricordavo di poesie che parlano di mari e di piazze, un mare di tegole scintillanti che una volta vidi con te da un cimitero, e una piazzetta dove le persone che l'abitavano avevano visto il tuo volto, e così mentalmente io ti cercavo nello scintillio di quel mare perché tu l'avevi visto, e negli occhi del merciaio, del farmacista, del vecchietto che vendeva caffè ghiacciato in quella piazzetta, perché ti avevano visto. Anche queste cose le ho messe in tasca, in questa tasca che è me stessa e i miei occhi. Un pope è uscito sul sagrato. Sudava nelle sue vesti nere e recitava una liturgia bizantina dove il kyrie aveva un colore di te. C'è un battello all'orizzonte che lascia nell'azzurro una striscia di spuma bianca. Sarai tu anche quella? Forse. Potrei metterla nella mia tasca. Ma intanto una prematura turista straniera, prematura per la stagione, perché l'età è quasi venerabile, telefona dall'apparecchio aperto al vento e ai passanti, davanti al mare, e dice, Here the weather is wonderful. I will remain very well. E questa è una frase tua, la riconosco anche se detta in un'altra lingua, ma in questo caso è solo l'approssimativa traduzione in inglese detta da una turista di ciò che tu hai già detto, lo sappiamo bene. La primavera è passata per noi, mio caro amico, mio caro amore. E l'autunno è già arrivato, con il giallo attuale delle sue foglie. Anzi, è il pieno inverno in questa precoce estate rinfrescata dalla brezza che stasera soffia sulla terrazza affacciata sul porto di Naxos. Finestre, ciò di cui abbiamo bisogno, mi disse una volta un vecchio saggio in un paese lontano, la vastità del reale è incomprensibile, per capirlo bisogna rinchiuderlo in un rettangolo, la geometria si oppone al caos, per questo gli uomini hanno inventato le finestre che sono geometriche, e ogni geometria presuppone gli angoli retti. Sarà che la nostra vita è subordinata anch'essa agli angoli retti? Sai, quei difficili itinerari, fatti di segmenti, che tutti noi dobbiamo percorrere semplicemente per arrivare alla nostra fine. Forse, ma se una donna come me ci pensa da una terrazza spalancata sul Mar Egeo, in una sera come questa, capisce che tutto ciò che pensiamo, che viviamo, che abbiamo vissuto, che immaginiamo, che desideriamo, non può essere governato dalle geometrie. E che le finestre sono solo una pavida forma di geometria degli uomini che temono lo sguardo circolare, dove tutto entra senza senso e senza rimedio, come quando Talete guardava le stelle, che non entrano nel riquadro della finestra. Tutto ho raccolto di te, briciole, frammenti, polvere, tracce, supposizioni, accenti restati in voci altrui, qualche grano di sabbia, una conchiglia, il tuo passato immaginato da me, il nostro supposto futuro, ciò che avrei voluto da te, ciò che mi avevi promesso, i miei sogni infantili, l'innamoramento che bambina sentii per mio padre, certe sciocche rime della mia giovinezza, un papavero sul ciglio di una strada polverosa. Anche quello ho messo in tasca, sai?, la corolla di un papavero come quei papaveri che andavo a cogliere sulle colline a maggio con la mia Volkswagen, mentre tu stavi a casa gravido dei tuoi progetti, attendendo alle complicate ricette che tua madre ti aveva lasciato in un libriccino nero scritto in francese, e io ti raccoglievo papaveri che tu non sapevi capire. Non so se tu hai messo il tuo seme dentro di me o viceversa. Ciascuno è solo se stesso, senza la trasmissione di carne futura, e io soprattutto senza qualcuno che raccoglierà la mia angoscia. Tutte le ho girate queste isole, tutte cercandoti. E questa è l'ultima, come io sono l'ultima. Dopo di me, basta. Chi ti potrebbe cercare ancora se non io? Non si può tradire cosi, tagliando il filo. Senza neppure che io sappia dove riposa il tuo corpo. Ti sei consegnato al tuo Minosse, che credevi di aver beffato ma che alla fine ti ha inghiottito. E così ho decifrato epigrafi in tutti i possibili cimiteri, alla ricerca del tuo nome amato, dove almeno poterti piangere. Due volte mi hai tradito, e la seconda nascondendomi il tuo corpo. E ora sono qui, seduta a un tavolino di questa terrazza, guardando inutilmente il mare e mangiando coniglio insaporito di cannella. Un vecchio greco indolente canta una canzone antica per accattonaggio. Ci sono gatti, bambini, due inglesi della mia età che parlano di Virginia Woolf e un faro in lontananza di cui non si sono accorti. Io ti feci uscire da un labirinto, e tu mi ci hai fatto entrare senza che per me uscita ci sia, neanche se fosse quella estrema. Perché la mia vita è passata, e tutto mi sfugge senza possibilità di un nesso che mi riconduca a me stessa o al cosmo. Sono qui, la brezza mi accarezza i capelli e io brancolo nella notte, perché ho perso il mio filo, quello che avevo dato a te, Teseo...
Antonio Tabucchi, Tristano muore
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Sono molto triste per la scomparsa di Sir Ian Holm.
Ian era un uomo così delizioso e generoso. Tranquillo, ma sfacciato, con un bel luccichio negli occhi.
All'inizio del 2000, prima di iniziare a girare le nostre scene di Bilbo per "La compagnia dell'anello, ero nervoso nel lavorare con un attore così stimato, ma mi ha subito messo a mio agio. Eravamo in Casa Baggins il primo giorno, prima che le macchine da presa iniziassero a girare, mi portò da una parte e disse che avrebbe provato cose diverse in ogni ripresa, ma non avrei dovuto allarmarmi. Se, dopo cinque o sei riprese, non mi avesse dato ciò di cui avevo bisogno, allora avrei dovuto dargli una direzione specifica.
Ed è esattamente quello che abbiamo fatto. Ma incredibilmente le sue varie letture e le interpretazioni sono state tutte meravigliose. Raramente aveva bisogno di una direzione. Ci ha dato una vasta gamma di scelte tra cui scegliere nella sala di montaggio.
Abbiamo trascorso quattro settimane molto piacevoli, mentre giravamo i primi 30 minuti della"Compagnia".
Un giorno abbiamo avuto Bilbo che consegnava un resoconto delle sue prime avventure ad un pubblico di bambini di tre e quattro anni incantati, seduti a gambe incrociate ai suoi piedi nel campo delle feste. Abbiamo iniziato filmando la performance di Ian che raccontava la storia, ma avevamo anche bisogno che i bambini reagissero a vari momenti drammatici. Ma i ragazzini si annoiano molto rapidamente, e Ian e io abbiamo capito subito che non potevano ascoltare la stessa storia più e più volte, poiché abbiamo catturato i vari angoli di cui avevamo bisogno.
Ho suggerito che per mantenere l'attenzione dei bambini, avrebbe dovuto rendere la storia un po' diversa in ogni ripresa...aggiungendo pezzi extra, inventando cose...fintanto che ci ha dato l'essenza di ciò che era nella sceneggiatura. Gli ho detto di non preoccuparsi e che l'avrei scoperto nella sala di montaggio.
Tuttavia, avevamo anche bisogno che i bambini rimanessero al loro posto mentre spostavamo rapidamente le macchine da presa, da un angolo all'altro. Sul set di un film, "rapidamente" significa 15-20 minuti. Quindi, mentre stava accadendo, e nessuna macchina da presa stava girando, ho sussurrato a Ian che avrebbe dovuto farli divertire. Ho suggerito utilmente che potesse "raccontare loro altre storie tra le riprese". Ed è esattamente quello che ha fatto. Dopo un paio d'ore, abbiamo girato tutto ciò di cui avevamo bisogno.
Mentre i bambini venivano introdotti sul set e l'equipaggio passava alla sequenza successiva, Ian disse che non aveva mai lavorato così duramente in vita sua!
Oltre un decennio più tardi, speravamo che Ian interpretasse di nuovo Bilbo per le scene di apertura de Lo Hobbit. Fran e io cenammo con Ian e sua moglie Sophie a Londra, e ci disse che gli dispiaceva molto, ma non ci riusciva. In aggiunta al nostro shock, ha confidato che gli era stato diagnosticato il morbo di Parkinson e non ricordava più le battute. Aveva difficoltà a camminare e certamente non poteva viaggiare in Nuova Zelanda. Sempre un uomo riservato, ci ha detto che sostanzialmente si era ritirato, ma non lo stava annunciando.
Questo è stato un duro colpo perché avevamo escogitato un bel modo per consegnare il ruolo da Ian come Vecchio Bilbo a Martin Freeman come Giovane Bilbo. Gliel'ho descritto e gli è piaciuto. Gli ho anche detto che mia madre e mio zio avevano entrambi sofferto il Parkinson per anni, e conoscevo molto bene gli effetti della malattia.
A questo punto, la nostra cena - che pensavamo sarebbe stata su di noi che descrivevamo le nuove scene che vorremmo che lui facesse, e Ian pensava che sarebbe stata su di lui a spiegare perché non poteva farlo - improvvisamente si è trasformato in un pensatoio, con Ian, Sophie, Fran e io stiamo cercando di capire un modo che consentisse a Ian di interpretare a Bilbo un'ultima volta.
Stiamo girando i film in Nuova Zelanda - siamo venuti a Londra e se girassimo le sue scene vicino a casa?
Alla fine della cena annuì lentamente e disse: "Sì, penso di poterlo fare". Ma sapevo che lo stava facendo solo come un favore a me, e gli ho tenuto le mani e l'ho ringraziato con le lacrime agli occhi.
Abbiamo iniziato a girare in Nuova Zelanda con Martin Freeman, nel ruolo del nostro giovane Bilbo. Martin ammirava enormemente Ian Holm ma non l'aveva mai incontrato. Tuttavia, Martin ha accettato molto generosamente di indossare un trucco prostetico per interpretare Sir Ian Holm nel ruolo del Vecchio Bilbo, per alcuni ampie riprese in Nuova Zelanda di cui avevamo bisogno, e ha catturato molto bene li suoi manierismi.
Un paio di mesi dopo siamo tornati a Londra, portando con noi il nostro set di Casa Baggins, e abbiamo filmato le riprese di Ian con una piccola troupe come promesso. L'amabile moglie di Ian, Sophie, era al suo fianco ogni giorno, aiutando sia lui che noi.
Nel corso di quattro giorni abbiamo filmato tutto ciò di cui avevamo bisogno. Elijah Wood e Ian erano diventati amici durante Il signore degli anelli, ed Elija era sul set a Londra ogni giorno, dando a Ian un ulteriore supporto.
Nel film finito, speravo che il pubblico vedesse Ian Holm riprendere Bilbo. Ma quello che ho vissuto sul set è stato un attore meraviglioso che ha recitato nella sua ultima interpretazione. È stato incredibilmente coraggioso da parte sua farlo ed è stato molto emozionante per coloro che lo hanno assistito.
Saremo sempre enormemente grati a Ian per averlo fatto. Durante il nostro tempo insieme, Fran e io ci siamo così innamorati di lui, e abbiamo apprezzato molto la sua compagnia.
Per celebrare il completamento delle riprese, Ian e Sophie hanno invitato Fran e io a cena a casa loro. È stata una serata incantevole, piena di umorismo e divertimento. Ian e io ci rendemmo conto che entrambi avevamo un forte interesse reciproco per Napoleone e ne parlammo per ore.
Un anno dopo, quando il primo film di Hobbit è stato presentato in anteprima a Londra, un Martin Freeman, leggermente emozionato da tutte quelle star, ha finalmente incontrato Ian Holm.
Guardare Ian Holm recitare mi ha insegnato così tanto - dato che Ian era una persona tranquilla e sicura di sé ha fatto in modo che tutto andasse per il meglio. È stato un privilegio lavorare con lui e una benedizione conoscerlo.
Ho sempre amato la performance di Ian nelle scene finali de Il ritorno del re.
"Penso di essere abbastanza pronto per un'altra avventura."
Addio caro Bilbo. Buon Viaggio caro Ian.
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Roll the dice, puntata 3
Sopporto i seguenti sette chilometri per tornare a casa con rassegnazione, chiacchierando con Rob perché Felicita non è andata giù la storia che quel suo gesto non mi sia piaciuto. Arrivati a casa sono stanco e mi butto nel netto in attesa di ciò che mi è stato promesso per mesi. Avrei dovuto capire che quel tentativo di Felicita di fuggire dalla nonna morente in vacanza non avrebbe fatto nient'altro che ricordargliela, ma bruciavo di desiderio, non resistevo, e lei non capiva che nella solitudine della mia camera quelle promesse d'amore erano state per me le parole di un angelo alle quali aggrapparsi per sopportare il dolore ed avere un minimo di forza di volontà durante gli esami. Felicita non aveva fatto altro che dirmi almeno una volta al giorno che voleva fare l'amore con me, innescando una sorta di processo di odio e amore che provavo verso chi mi prometteva tutto, senza poter darmi di fatto niente, data la distanza, il che sfociava per me sempre in una serie di seghe che riuscivano a calmarmi e farmi procedere negli studi. Ma la figa era la sua, e io non potevo farci niente. Rimasti soli, non succede nulla di ciò che era stato promesso, ci sono solo tante coccole e una sega, nulla di più, a quel punto inizio a pensare che Felicita non m' ama più. Questa e mille altre umiliazioni che ho dovuto sopportare avrebbero reso necessarie almeno un paio di battute per giustificare quel comportamento e invece niente, solo rabbia da parte sua. Io dovevo perdonare per forza. Ma dove sta scritto che un amante debba mandare giù tutta la merda del mondo all'infinito? Questo non è dato sapere.
L'indomani ci svegliamo in tarda mattinata, verso le undici e tre quarti, le sue tette mi fanno ombra, ha una quarta di seno, sta guardando svogliatamente la home di Facebook dallo smartphone, con la faccia morta. Dio quanta invidia, lei ha internet e lo da per scontato, io no. Resto nel letto a coccolarla tentando un approccio mentre lei mi scansa. Poi entra Lataika, e inizia a preparare il pranzo, io vado in terrazzo a fumarmi un sigaro. Le guardo preparare il pranzo, mentre nella pentola per dieci persone l'acqua fatica a bollire, puliscono l'insalata tirando dietro di loro i resti di quella. Mettono in tavola dicendo "Ne abbiamo fatto in più per te, così non ti arrabbi". Era un pranzo triste, pieno di tensione, potevano evitare di rinfacciarmelo, loro buttavano via decine di euro nei bar la sera, e io per poche decine di centesimi venivo accusato di mangiare troppo. Essere stronzi è facile, e sorridere agli stronzi è un passatempo che non mi toglierò mai. I piatti e la cucina devo pulirli io, o meglio avrei dovuto pulirli insieme all'altro ragazzo ma era un'umiliazione tropo grande da dividere in due: ci sono resti ci caffè, insalata e polvere per terra, negli spazi angusti di quella cucina, tre metri per due, sbatto in continuazione con la scopa, metto su i Tool per calmarmi e far sembrare la cosa un po' più piacevole, ma resta una merda. La pentola per dieci persone devo lavarla in piedi sopra una sedia e poi scendo per finire a sciacquarla, il portafrutta-scolapasta mi consuma ettolitri d'acqua, è come dover sottostare alla loro stupidità in silenzio, loro c' hanno messo mezz'ora a cucinare il pranzo, io tre ore a pulirne le conseguenze. Lataika e Felicita restano tutto il pomeriggio a chiacchierare, vogliono guardare la televisione ma non funziona, io vado al mare, mi tuffo in acqua che dopo la mareggiata è diventata torbida piena di meda fuoriuscita dalle fogne e legna che la marea ha guadagnato chissà dove: sembra di nuotare in un immenso fiume pieno di merda, esco dall'acqua e mi stendo al sole sopra un tombino di cemento armato, di fianco all'acciottolato della strada e rimasto lì, mi addormento finché non vengo svegliato dall'odore di piscio che emana quella lastra di cemento sotto al sole, riprendo le scarpe e la maglietta e torno a casa, mi faccio una doccia, che Lataika commenta con un "Almeno ti lavi!". Uscito dalla doccia gli altri stanno discutendo su cosa fare la sera, io penso che il giorno dopo avrei dovuto inviare un racconto per mail e non avevo la Wi Fi. Decidiamo di fare un giro in centro, così mi sorbisco altri sette chilometri a piedi, Felicita non mi vuole parlare, è arrabbiata per il mio comportamento negativo in vacanza, parlo con Bob di non ricordo cosa. Dovevo aver bevuto molto quella sera a cena perché non ricordo niente, ricordo solo il freddo, lo sguardo cattivo di Felicita, Bob Lataika e Felicita che bevono al tavolo e che cercano di darmi dei consigli per il racconto che devo scrivere per un concorso, consigli che poi verranno bocciati dal banditore del concorso, ricordo il freddo, ricordo Felicita che mi fa una sega sotto le coperte, ricordo che voleva un po' di coccole ma ero stufo di lei e del suo modo di fare, per così appena venuto mi addormentai con lei al mio fianco infuriata.
Ecco il motivo per cui sto dedicando questa domenica a rileggere questo scritto dopo almeno sei anni : loro provano ad accettarmi a modo loro, o almeno a tollerarmi, ma io non la sento questa accettazione. Di notte la guardo dormire e scrivo su un pezzo di carta "Ti chiudi muta, alla speme vuota e preghi che una carezza venga a svegliarti dal tuo immobile sonno. Non ricordo più il volto della delicatezza, ma trema la mia mano quando la cruna della matita sfiora, immergendosi nel foglio”. Il giorno dopo mi alzo presto, verso le sei del mattino, Felicità si sveglia e non vuole che vada, ma alla fine mi lascia fare. Faccio colazione con un bicchiere di Rum, e m'incammino con il computer in borsa verso un bar con la Wi Fi che avevo visto il giorno prima, dopo quasi nove chilometri lo raggiungo, completamente distrutto, entrando ordino un pezzo di pizza e aggiungo "Ti prego, la Wi Fi!" invio il racconto il più corretto possibile per non ricevere riscritture dell'ultimo momento da fare, notifiche e uso di internet non mi sarebbero state concesse, non da Felicita almeno che passava due ore al giorno a guardare la home di Facebook. Io le dicevo “Ma se tu carichi una foto se ti metto un pdf dentro il cellulare, e il pdf pesa meno di una foto, che problemi avresti a inviarlo? Lei rispondeva che il suo cellulare si sarebbe bloccato, ma se ogni giorno carichi file più pesanti come le immagini, come fa il cellulare a bloccarsi con un file più leggero? Misteri della fede. Torno a casa, loro preparano il pranzo ed io pulisco come il giorno prima, il pomeriggio decidiamo di andare al centro commerciale, Lataika finalmente prende la macchina. Mentre andiamo al centro commerciale chiedo a Felicita “Perché non porti gli occhiali?”, mi risponde “Per sembrare più bella”. Felicita credeva che potesse risolvere ogni nostro problema con le seghe, illusa, ci sono anche i pompini nella vita. Arrivati al centro commerciale Bob commenta una macchina da ventimila euro dicendo “Vorrei tanto fosse la mia macchina", mentre io penso che vorrei ventimila euro, ma devo essermi scoperto perché Bob mi guarda male. Implicita nel mio pensiero l’idea che io sappia spendere i soldi meglio di Bob. Dentro il centro commerciale io e Bob restiamo due ore dentro la libreria, imparo a memoria tutti i titoli dei libri presenti e compro un libro su Napoleone, vado a fumare e con Bob decidiamo di andare a fare la spesa, compriamo birre di qualità, gelato e altre cose. Le ragazze dopo aver visto la spesa vogliono pagarne solo la metà, "Il gelato non lo pago oppure si se stasera ci facciamo cena.... tu che dici Felicita?" Mi lasciano lì e tornano a fare le loro compere, mi butto sotto in bancone dell'ufficio assistenza e inizio a tentare di collegarmi col telefono alla Wi Fi del posto, senza riuscirci. Io a Giugno avevo risparmiato sull'unghia cinquanta euro, stando in una camera che faceva ventotto gradi di notte e trentaquattro di notte, soffrivo d'insonnia e non avevo i soldi per curarmi, stavo sveglio ventisei ore al giorno, poi svenivo per quattro e ricominciavo da capo con vomiti, ansie e capogiri che mi facevano vivere dei momenti di vuoto terribile, avevo bucato una pipa a fumandola sei volte al giorno con due grammi di tabacco per volta. Felicita aveva vissuto in una situazione diversa ma non aveva dovuto fronteggiare questo, le avevo già dato trenta euro tra regalie di vario genere. Lei ritorna dallo shopping dopo aver speso tutti i soldi che aveva ricevuto in più per la vacanza con un costume da mare e un orrendo paio di scarpe. Non è per tirchieria, se dici d' amare una persona non ti metti sempre in condizione d'aver bisogno di soldi e risparmi, e se hai qualcosa non devi dividere tutto a metà, ma un ovetto Kinder o un libro ad un euro fanno capire che apprezzi il gesto, lei non ci pensava, diceva " Ho pensato di regalarti una maglietta l'altra mattina", io con il pensiero di una maglietta non ci curo l'insonnia. Quella sera usciamo a fare due passi dopocena e rincasiamo presto, poi ognuno in camera sua, ricordo che appena a letto chiedo a Felicita d'indossare il bikini, si rifiuta, e iniziamo a parlare della nonna che sta male. Cerco di dirle che è normale riconsiderare un parente prima della morte, lei due anni prima mi aveva confessato che non gliene fregava niente di lei, in quell' anno però l'aveva riconsiderata venendo a sapere tutto ciò che aveva fatto per Felicita, e non voleva che morisse adesso che i loro rapporti potevano cambiare. Una sera ero a casa sua, lei risponde al telefono ed era la nonna, lei le prometteva di andare al mare, di mangiarsi una pizza insieme, non gli piaceva farsi sentire debole, dopo un quarto d'ora chiuse la chiamata. La morte è inevitabile, purtroppo l'idiozia pure, non si può pensare di riuscire di realizzare la morte di una persona cara anche se si sa che morirà, questo è un dolore, è una mancanza con la quale bisogna imparare a convivere, tra l'irrazionale e l'umano. Nessuno era capace di dirle una cosa del genere, e lei se ne sbatteva di ciò che dicevo io. Lei piange a dirotto e io la sto per cingere a me quando entra Lataika, che la vuole consolare, la strappa da me e lei si butta tra le sue braccia, la fa calmare ed inizia a giocarci a carte.
Per qualche motivo prendo il fatto che le mie parole vengano ignorate in quel momento come un’offesa personale, ma ancora non só se possa essere considerata un’offesa. Forse il fatto di togliermi dal centro dell’attenzione mi da qualche problema, fatto stá che Felicita mi ama e allo stesso tempo si sente meglio giocando a carte con Latakia e non pensandoci troppo.
Chiedo a Lataika cosa sia successo per vedere se c' ha capito qualcosa , mi risponde "È tutto apposto". Ci corichiamo di nuovo, io non riesco ad addormentarmi senza una sega, la chiedo a Felicita che è così gentile da farmela, ci coccolammo un po ' , penso di vuotare il sacco, lei non vuole sentire ragioni, dice che vuole Lataika, che le manca il padre. Mi sembra ovvio a questo punto che questo genere di bestie viva in funzione di un gruppo con strette regole. Io non c'entravo niente con quella gente. L'indomani io e Felicita litighiamo, urliamo come forsennati, inizio a farmi le valigie, Felicita mi dice "Tu non sai cosa vuol dire essere poveri!". Mia madre da piccolo mi picchiava per lo stress da lavoro, mio padre pur essendo dottore si arrangiava facendo l'imbianchino, credo di essere stato il primo a vivere una situazione disagiata, se non agli estremi economici, sicuramente psicologicamente.
Solo che io come i miei ci siamo dotati delle armi per uscirne, abbiamo fatto sacrifici e ce l’abbiamo fatta. Quindi si, so cosa vuol dire essere povero, ma faccio di tutto per non restarci. A due anni avevo già lividi su gambe e braccia che facevano pensare che mia madre mi usasse come una palla anti stress, altri eventi invece li ricordo. Ma non porto rancore, voglio davvero bene alla mia famiglia anche se non riesco a viverci assieme. Io le dico che era un ipocrita a fregarsene della nonna solo perché per il suo diciottesimo compleanno le aveva dato dei soldi, lei mi da uno schiaffo e mi sputa in faccia, vorrei rispondere con lo stesso trattamento, ma non lo faccio. Poi entrarono Bob e Lataika in camera, dico solo " L' ho lasciata", Lataika mi chiede sulla porta di casa cinque euro per gli ortaggi della nonna - Ma perché tua nonna paga un ticket per entrare nel suo orto? -. penso che sono gli ultimi soldi mal spesi della mia vita, prendo la mia valigia e me ne vado. Vago per cinque ore alla ricerca della stazione, ma finalmente ero solo, lungo i campi che portano dalla spiaggia alla città mi sento forte, penso che altri uomini avrebbero accettato di vivere una vita fatta di sigari, bugie, pipe e pippe. Non mi rendevo conto di quanto quella donna mi avesse rammollito. Arrivo alla stazione facendo il giro della città a piedi, sono sudato, ordino una birra al bar e il biglietto del ritorno da un distributore per biglietti ferroviari che accetta solo monete, il treno sarebbe arrivato due ore dopo, raccatto il tabacco nella tabacchiera, foglie di salvia e mozziconi di toscanelli, il sapore è forte, acre, a metà pipa butto via tutto e vado a vomitare. Pioveva ed ero felice, avevo sprecato due anni della mia vita con una persona inutile, ma la cosa non si sarebbe ripetuta. Alla stazione d'arrivo riesco a prendere un bus in sosta che deve andare in revisione, mi da un passaggio fino a casa, poi da lì di nuovo per i campi a piedi, e di nuovo a casa. Racconto che Felicita è voluta tornare a casa, che mi ha portato Lataika a casa. Lei che nel frattempo aveva riportato Felicita a casa, diceva che mi ero comportato da stronzo. Lo so, trovare persone che non siano servi completi della fica a questo mondo non è facile, purtroppo per lei ne aveva trovato uno. Quel pomeriggio esco con un mio amico, andiamo a prenderci un aperitivo e gli racconto tutto, lui mi aggiorna sulle nuove nozioni che aveva appreso, su come investire. Ero felice, ero tornato nel mio mondo di spostati, mi parlava a terra, di fianco ad un museo chiuso, fumando un sigaro alla menta, sembrava un fachiro indiano sopra l'acciottolato, con la faccia segnata ancora dall'acne e dagli eritemi. Poi venne il vuoto, avevo lasciato la mia ragazza e non avevo più i miei scritti.
#puntata 3#lasciare andare#amore sofferto#amore folle#amore sbagliato#addio#estate#vacanze#escluere#esclusione#scrivere#scritture brevi
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L’INGORDO MANIACO - TRISTEZZA E TENEREZZA : PANNA ACIDA E CREMA AL CIOCCOLATO.
Marcellino entro nel negozio di materiale elettrico di mio padre dove lavoravo e levandosi gli occhiali da sole mi guardò; alzando il braccio con un dito teso disse perentorio “Alfiuccio t’haiu parrari” Quando faceva così voleva dire che la cosa era seria e che dovevo dargli retta. Uscimmo e andammo nel bar pasticceria accanto al negozio . Sicilianamente incominciò il discorso partendo da lontano “Alfiuccio ma dimmi na cosa, come va con Enza, ti trovi beni? Vi divittiti?” “Marcello ma lo sai che per come siamo messi andiamo bene! Ma se anche andassimo male andiamo bene lo stesso perché non è chi c’è cosa!” “ come nun c’è cosa….. ma si futtiti comi cunigghi!!” “Marcello: futtiri è na cosa, vuliri beni e n’otra. Si futti sulu e nun c’è u vuliri beni, una vali l’otra” “ e tu cu Enza …. – e fece il gesto di uno stantuffo – e basta” “E basta Marcello…” “E si idda – gesto del pistone – cun n’otru o n’otra a tia nun ti ni frega nenti?” “Nenti!” Mi guardò e fece la faccia scettica disse un “MAHHH!” e fece per alzarsi. Lo bloccai trattenendogli un braccio. “Marcellu, parra mi ti sentu, nun ti mentiri a girari chi paroli” Lui si sedette tutto serio. “Da quanto è che non la vedi?” “Quasi dieci giorni” “E non l’hai cercata per chiederle cosa stava facendo?” “Lo so cosa sta facendo, è dietro a una che le piace al suo solito” Marcello restò sorpreso “E comi u sai?” “ mi ha mandato un messaggio dieci giorni fa” “Tu dissi…?” Fece lui ancor più stupito “Marcello ci diciamo tutto, ogni tanto qualcosa dobbiamo dire tra una fottuta e l’altra” “Ma tu u sai cu è chista?” “No Marcello non sono cazzi miei” Sorrise, aveva riacquistato il vantaggio che aveva quando era entrato in negozio: sapeva qualcosa che io ignoravo! “ ieri al centro estetico di Alessandra è venuta Annarita, l’ex di Provvidenza..” “Pilu russu?” “Chi?” “Marcello : Pelo Rosso, così la chiama Providenza…” “Ma se è mora…” “Marcello è rossa dove serve e quando serve, vai avanti” “ sa pitta ? Chi maiaaaala…?” “Ma lassa stari, vai avanti” “Minchia ma non mi dici mai nenti! Comunque, è venuta Annarita e a detto ad Alessandra che Provvidenza si era messa con Ellen R la regista del teatro , una che ha più di quaranta anni…” “ e allora ? “ “ questa dove va va si fa sempre le ragazzine, le usa e le getta, tu la conosci Provvidenza, lei si innamora sempre con chi si mette e poi quando la lasciano ci muore o fa qualche stronzata!! Devi dirle di lasciarla stare, quella la farà piangere, è una stronza nata” “Marcello non è cosa che mi deve interessare: tu conosci Enza, sai bene che quando è in amore non sente nessuno” “Ma va a sbattere il muso Alfio, ne soffrirà più delle altre volte, questa le ha promesso che la porta con se a Londra!” Questa notizia mi turbo, il solo pensiero di non saperla a Messina mi fece venire il bruciore allo stomaco come quando quella bottanasucaminchia della prof di latino mi chiamava per una interrogazione a sorpresa. “Marcello sinceramente, se la vedo gliene parlo, ma non voglio chiamarla e parlare io per primo della cosa. Capiscimi: noi stiamo insieme solo perché nessuno dei due entra nella vita dell’altro” “Ma qui non si tratta di vita qui si tratta che questa volta farà un botto che si farà veramente male” “Cosa vuoi che ti dica….se l’incontro gliene parlo” “Io nun ti capisciu, e quannu fai accussì non ti vogghiu capiri!” “Si alzò seccato e si stava allontanando “Marcello – lo chiamai e lui si voltò – grazie” Fece la faccia scura “A to cuscina ci ha dire grazie, a n’amicu nun c’è bisognu si no chi minchia d’amicu è” e se ne andò mandandomi a quel paese con la mano e profondamente offeso.
Restai nel bar qualche minuto a pensare a quello che aveva detto Marcello. Poi tornai nel negozio e nel magazzino mi cambiai indossando la tuta e le scarpe per correre “Qualche problema?” Chiese mio padre vedendomi scuro in volto “No, vado a correre in po'” ed uscii “Corri, corri tanto i problemi sono più veloci di te e ti raggiungeranno” Mi disse mentre gli passavo davanti e lo vidi seccato perché a metà pomeriggio me ne andavo dal negozio. Incominciai a correre ed imboccai la circonvallazione; quando arrivai al piazzale del Santuario di Cristo Re, mi sedetti sul muretto che circondava il piazzale da cui si vedeva tutta la città nel suo degradare verso il porto e il mare. La testa mi girava a mille pensando a quello che aveva detto Marcello. Io però non gli avevo detto tutto. Quando Provvidenza mi disse di Ellen andai a casa sua a parlarle, non c’era e l’aspettai. Arrivò dopo qualche ora con una grande macchina scendendo con Ellen e abbracciandola. La vecchia le fece una carezza con tanta tenerezza e se la strinse. Dentro il portone , nella penombra dell’ androne, vidi che si baciavano con quell'intensità e passione che solo Provvidenza ha. Era felice. Quando passeggiava con me non l’avevo mai vista così felice. Inoltre cosa potevo fare? Su di lei o sul suo cuore, non potevo reclamare nessun diritto. Se avessi detto qualche volta che l’amavo, avrei potuto raggiungerle e mandare via quella vecchia. Ma Enza era felice, e la vecchia aveva con lei una tenerezza che io non avevo. Non le avevo mai detto se l’amavo o no dicendomi che quanto provavo non era quello che sentivo per Giovanna, ma anche una carezza a volte è la confessione di un amore che non si riesce a dire o non si sa di avere ed io, quella carezza, nella mia superficialità ed attaccamento ad un ricordo sempre più lontano, non l’avevo mai fatta. Mi sentivo stordito; io e lei eravamo due persone sole, chiuse nella nostra diversità, che non era l’essere l’ingordo io e amare le donne lei, ma nel aver bisogno di un amore che non riuscivamo a trovare per come volevamo. Insieme però non eravamo più soli, trovavamo in parte quello che ci mancava ed ora senza lei ero nuovamente e semplicemente, disperatamente solo. Per la prima volta, per il vuoto che sentivo, l’abbandono che provavo, la solitudine che mi mordeva l’anima, capivo che in fondo io amavo Provvidenza, ma di un amore diverso da quello che provavo per Giovanna e non poteva essere cosi perché lei non era Giovanna: non si misura l‘altezza di una montagna con i chili, ma io così facevo. In Provvidenza cercavo la purezza di Giovanna, ma stavo con lei proprio perchè lei non aveva quella purezza, un po datata e stantia. Sentivo una tristezza enorme perché ad essere più onesto con lei e con me stesso, superando quell’amore in cui mi ero sepolto, avrei potuto esserle più vicino, esserle di maggior aiuto, come lei lo sarebbe stata per me. Le navi entravano ed uscivano dal porto, le macchine correvano sulla strada intorno al Sacrario e lentamente diventava buio, facendo aumentare la tristezza che diventò soffocante, trasformandosi in una repulsione per tutto quasi che il tutto che mi circondava e che rifiutavo fosse panna acida, quella che trovi nei bignè vecchi e che se l’assaggi ti resta in bocca per tutta la giornata con il suo senso di prelibatezza andata a male, di possibilità che muore, di una vita diventata inutile. Una Tristezza più che amara: terribilmente acida.
Capivo anche che per Provvidenza, io ero solo un’eccezione mentre lei cercava il vero amore altrove, con me poteva essere forse temporaneamente felice, ma non secondo la sua natura e interesse. Però, mi dicevo che anche se non avremmo avuto un futuro, se avessi capito di amarla e glielo avessi detto, avremmo avuto un sereno presente che ci avrebbe permesso di non cadere nelle braccia della prima che passava, illudendoci, sognando e sperando. E alla fine, soffrendo. Tornai in negozio ed aiutai mio padre nella contabilità, poi, quando fu l’ora di chiudere prendemmo un po’ di focaccia e andammo a casa a mangiare. Mangiammo in silenzio, da quando mamma è morta io cerco sempre di far parlare mio padre per non farlo intristire, ma quella sera eravamo due vedovi che nelle parole non avrebbero trovato nessuna consolazione. Mi coricai presto con un libro in mano, dopo un po lo misi da parte e mi misi a guardare la foto di quando con Giovanna eravamo con la scuola a visitare il teatro greco di Siracusa. Mi addormentai sul tardi pensando che mi mancavano tutte e due, Giovanna e Provvidenza, di una mi mancava l’amore angelico, dell’altra la passione diabolica ed in assoluto mi mancava tanto l’amore che mi davano quanto quello che a loro donavo. Ed era il fatto che non avrei più potuto farle felici la parte più disgustosa di quella montagna di panna acida in cui stavo, sempre di più affondando.
Nel sonno senza sogni in cui ero finito, Sentì suonare il cellulare e guardai l’orologio stupendomi che erano le tre di notte “Pronto” “Pronto sei Alfio? “ – chiese una voce femminile con un accento straniero “Si chi parla?” “ buonasera, sono Ellen R. – improvvisamente mi svegliai completamente - per favore, vada a prendere Provvidenza all'Oasi Rosa a Giardini Naxos. Faccia presto per favore.” “Le è successo qualcosa?” Chiesi preoccupato “No niente di grave, ma faccia presto e…. le dica che mi dispiace!” Chiuse la telefonata. Era successa qualcosa di grave. Sicuro come era sicura la morte! saltai dal letto e mi vestii in fretta. Nell'uscire, mio padre dal letto mi chiese se era successo qualcosa, risposi che il mio amico Pippo era rimasto in autostrada senza benzina e che andavo a prenderlo. Corsi come un dannato in autostrada ed uscii a Giardini con la macchina che quasi fumava. Trovai la discoteca con qualche difficoltà perché era nascosta in una pineta verso Catania. Quando finalmente arrivai al suo ingresso, con la mia solita perspicacia da bradipo capii che era una discoteca per Gay dal fatto che i buttafuori avevano il rimmel. “ Sto cercando una ragazza alta, robusta, mi hanno chiamato per prenderla..” “Ah, finammenti rivasti – disse il buttafuori con una voce baritonale – vai sulla destra, c’è una porticina con un corridoio che da sui Prive, entra nella terza porta e fai presto che se fa ancora incazzare il capo a rivota comi nu guantu” e mentre mi avviavo lo sentii dire al microfono “Dite al capo che sono venuti a prendere la pazza’ La cosa mi inquietò. Trovai una porticina con una telecamera posta in alto che mi osservava fredda e minacciosa; , dopo qualche secondo che ero li sentii uno scatto e la porta si aprì. Percorsi un corridoio dove le pareti erano coperte di velluto color porpora e pannelli con sottili tubi fluorescenti che disegnavano corpi androgeni e coppie dello stesso sesso in amore. Passai una prima porta coperta da un pesante tendone da cui fuoriuscivano delle risate e il suono di una bottiglia di spumante aperta , nella seconda porta c’erano due della sicurezza con basettoni ed occhiali da sole malgrado la luce fosse fioca. Passai nella parete opposta alla loro dicendo educatamente “buonasera” al che fecero una faccia ancor più truce. Finalmente arrivai alla terza porta e dopo aver lottato con il pesante tendone riuscii ad entrare. Quando mi abituai alla luce rossa della stanza vidi solo un grande casino, tavolini per terra, divani rovesciati, cuscini rotti sparsi da per tutto, bicchieri e bottiglie di spumante buttate ovunque e versato sul velluto di una poltrona e per terra, quello che sembrava una lunga scia di zucchero al velo. Percepii in un angolo un movimento e guardando tra due divani vidi che c’era qualcuno. Avvicinandomi, vidi dei pantaloni di velluto e una camicia di seta e finalmente la riconobbi “Provvidenza.” Dissi stupito. Lei mi guardò e vedendomi si mise a ridere. “ Uh me zitu,” disse con una risata ebete “Ciao amore i puttasti i pasti?” E continuò a ridere L’aiutai ad alzarsi sentendo una puzza terribile di whisky e vodka provenire dalla sua camicia. Non riusciva a stare in piedi e mi mise un braccio intorno al collo. Pensai che la cosa giusta fosse andarsene cosi imboccai la porta ed uscii ne corridoio. Mi trovai davanti un tipo grosso con la barba, un vestito gessato con una piccola rosa all’occhiello della giacca costosa e lo sguardo da boia. “Giustu attia ciccava: u sai quanti danni mi fici l’amicuzza toi? Ammenu ammenu trimila euri i dannu fici! E i buci chi ittoi quannu visti a ‘nglisa ca carusa! Na pazza era in tri nun cia faciumu ma tinemu! A mumenti vinniru puru i sbirri! E non ti dicu chi non rumpiu! E ora cu mi paga?” “basta che raccogli la cipria bianca che c’è sul pavimento e ci guadagni puru” Risposi per nulla intimorito “si, si facemu u spiritusu, attia e a to zita ca non vi vogghiu vidiri chiù chi a ‘nglisa pagava bonu e ora piddì u sceccu chi tutti i carubbi.,. Capisti ahh? Si ti vidu girari ca attonnu ti scippu i paddi e ti fazzu manciari!! Vatinni, pottati a sa pazza fora i ca chi avi ringrazziari a ‘nglisa si nta facci non ci fici n’occhiellu laggu quantu a so bucca !!! U capisti ahhh? O taiu fari nu disegnu cu liccasapuni? Fora nativvinni!!” Mi tirai dietro Provvidenza raggiungendo l’ingresso e da li la macchina. Partii di corsa con Provvidenza che seduta sul sedile sembrava un sacco vuoto. Neanche avevo fatto qualche centinaio di metri che sul lato della strada vidi una macchina dei carabinieri con un milite davanti che mi chiese di fermarmi facendo segno con la paletta. “Documenti e libretto…” Fece guardandomi negli occhi per vedere se erano fatti di alcool o droga. Feci il sorriso più rassicurante che avevo e passai i documenti. Mentre li guardava osservò ad Enza “Sta bene signorina?” Lei lo guardo e fece un sorriso a trentadue denti e subito dopo la sua bocca si gonfio e voltandosi verso il finestrino vomitò di tutto e di più. “Pruvvidenza a machina….” Gridai mentre la macchina si riempiva di schizzi di vomito. Lei restò qualche secondo affacciata alla macchina e rincominciò “È meglio se la porta casa mi sembra che abbia bevuto troppo” “È che non è abituata – mentii spudoratamente – sono andato a prenderla ad una festa universitaria – e rivolta a lei – ora vedi, la mamma non ti farà più uscire per un mese…” “Vada vada - fece il milite e rivolgendosi al collega – Caccamo spostiamoci che qui non si può più stare”.
Aveva ragione c’era una puzza terribile che era rimasta anche in macchina. Tornammo a casa con i finestrini abbassati e lei che ripeteva “Sto male, sto male…” a casa le lavai la faccia e spogliandola, la misi a letto. Misi a lavare i vestiti che avevano l’odore di quella panna acida che era stata la mia solitudine, come se con Enza così vicino eppure così lontana, quel senso di vuoto ed abbandono fosse ancora più grande e tangibile. La casa non era meglio del prive della discoteca, al suo solito Provvidenza doveva aver distrutto Ellen. Mandai un messaggio a mio padre dicendo che dormivo a casa di Pippo. Mi rispose lapidariamente che sperava che prima di morire gli dicessi almeno una volta una mezza verità. Era impossibile dire bugie a mio padre, lui faceva sempre la radiografia della mia anima e la leggeva in trasparenza capendo sempre tutto. Lei si lamentava per il mal di testa e regolarmente quasi ogni ora doveva vomitare. Solo nelle mattinate si addormentò. Mi sedetti sulla poltrona che avevo portato vicino al suo letto; non mi andava di sdraiarmi accanto a lei su, quel letto dove c’era ancora il profumo da ‘nglisa. Caddi in un sonno profondo da cui mi svegliai solo perché sentii qualcuno singhiozzare. Aprendo gli occhi vidi che era lei che piangeva, sdraiata di lato e con gli occhi chiusi. Mi alzai ed andai ad abbracciarla sul letto, dicendole di non pensarci più e di lasciar stare. “Non ho fortuna - disse tra le lacrime – tutte quelle che incontro prima o poi scappano… sono tutta sbagliata” Io l’abbracciai più forte. “Lo sai che l’altro giorno vi ho viste?” “Dove?” Chiese sorpresa “scendevate dalla macchina ed io vi ho visto. Lei era bellissima e tu con lei ancora più bella; bastava guardarvi per capire che vi amavate” “Si è visto il grande amore, appena ho girato gli occhi lei aveva già la mano tra le cosce di una ragazza” “Si, ma in quel momento, a vedervi eravate felici, sia tu che lei che abbracciandoti, guardandoti, accarezzandoti ti riempiva di tenerezza che è l’evidenza più semplice dell’amore. La tenerezza è bellissima, è come la crema di cioccolato dei cannoli: soffice, delicata, una seta in bocca – sentii lo stomaco di lei gorgogliare – e mi sono detto che io non te l’avevo mai data e che solo quella tenerezza, quella complicità che avevate, quella felicità nascosta che bruciava dentro di voi era qualcosa di bellissimo e valeva l’eternità di in amore” Restai qualche secondo in silenzio rivedendole insieme “io sono stato geloso di Ellen…” “davvero” “si perché ti aveva reso cosi felice con così poco. Io non ti ho mai detto che, per come posso e per come so, ti voglio almeno un pochino di bene. Non è molto rispetto a quello che tu cerchi e meriti, ma ora ho capito che può essere un inizio. E se hai tanti che ti vogliono bene per quello che sei, non puoi essere sbagliata, non puoi essere sfortunata: l’amore è un seme piccolo e prezioso, testardo e determinato, ha dentro il fuoco della vita e sicuramente prima o poi germoglierà e tu troverai quello che cerchi” “anche se non sarà con te?” “perché fai delle domande serie ad un bugiardo?” Le dissi sorridendo e le diedi un bacio sulla fronte stringendola. Lei mi abbraccio appoggiando la sua fronte contro la mia tempia. Resto con gli occhi chiusi per un minuto poi senza aprirli disse sottovoce “Io ho bisogno di te. Sempre” Restammo li ascoltando il tempo passare, e lei mi raccontò tutto il casino che aveva fatto in discoteca, ed io gli raccontai la mia corsa fino al piazzale di Cristo Re, ed il mio sentirmi solo e il capire che ogni donna deve essere amata per quello che è, non per quello che qualcheduna altra era stata. Ci venne fame, erano quasi le tre, così uscii per prendere qualcosa. Quando rientrai lei si era appena fatta una doccia ed era con l’accappatoio in bagno. “Ti ho preso un regalo” le gridai dalla cucina appoggiando i vassoi della rosticceria sul tavolo “davvero? Cos’è?” e corse raggiungendomi in cucina Le mostrai una scatola rossa a forma di cuore “Ti ricordi? È il dolce che secondo me è più adatto a te” “Ma cos’è?” Chiese aprendola Dentro c’era una sacca da pasticciere circondata da ghiaccio secco per tenerla al freddo “È la crema al cioccolato dei cannoli” dissi prendendola in mano pronto a riempire i cannoli “E le bucce? – chiede guardandosi intorno. – le hai lasciate in macchina” “No – risposi con un tono naturale – di bucce ne basta una sola” E la guardai “Sei tu – e fissandola negli occhi sorridendo aggiunsi – perché non ti spogli?” Lei mi guardò un secondo ed i suoi occhi si illuminarono come quelli di una bambina che sta per fare una monelleria, con la stessa velocità del suo battito di ciglia il suo accappatoio finì per terra. La crema al cioccolato è l’apoteosi della tenerezza e su Provvidenza aveva un sapore ancora più buono e tenero, mi penti di non aver preso due sacche di crema, in fondo la tenerezza, non basta mai.
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Joey esce di casa con qualche minuto di ritardo, nulla di particolarmente strano, dato che la puntualità non è mai stata il suo forte.
Ian, al contrario, è sempre stato un ragazzo piuttosto preciso. Per questo nel momento in cui - dopo appena un paio di minuti di attesa - avvista l’auto del ragazzo, la Cooper procede a passo svelto con l’intento di raggiungerla e si prepara per una bella ramanzina, naturalmente senza capo né piede.
«Sei in ritardo.»
«Ciao anche a te.»
Esclama il ragazzo col sorriso sulle labbra, mentre aspetta che la Cooper prenda posto accanto a lui.
«Dico sul serio! Aspetto da più di dieci minuti!»
Ian si lascia sfuggire una risatina, per poi scuotere la testa.
«Bugiarda. Sono arrivato un quarto d’ora fa, e di te nemmeno l’ombra.»
«Ma che―Non è vero!»
«Ho immaginato che ne avresti avuto ancora per molto, quindi ho pensato di passare prima in un posto...»
Aggiunge rimanendo piuttosto vago, mentre mette in moto e circumnaviga la piazza.
«Okay.»
Si limita a commentare Joey, per nulla in vena di chiacchiere.
«Allora? Cominci tu o aspetti con ansia il mio interrogatorio?»
Josephine, che osserva fuori dalla finestra completamente assorta dai suoi pensieri, quasi sobbalza in seguito a quella domanda.
«Di che parli?»
«Ma come di che parlo? Dell’appuntamento con il nerd! Perché dici che è andato male?»
«Non so, io… Non mi va di parlarne.»
«Cosa? Ma che dici? Che cosa ci siamo visti a fare allora?»
«Già, hai ragione, forse potevamo anche evitare.»
Commenta Josephine inacidita, senza nemmeno riuscire a spiegarsi il perché.
«Hey, cos'è questa cattiveria gratuita?»
Domanda Ian distogliendo per qualche secondo lo sguardo dalla strada, per poi tornare vigile nel momento in cui il semaforo segnala il verde. Josephine non risponde, ma nel momento in cui si rende conto che Ian sta tirando dritto, si appresta a fargli notare l’errore.
«Il Mondo Dei Pancake di Al è dall'altra parte...»
«Lo so.»
Si limita a rispondere Ian, trattando la ragazza con la stessa freddezza riservatagli da quest’ultima soltanto qualche secondo prima.
«Senti, io ho accettato di vederci soltanto perché mi hai promesso una torta, non credere di―»
«Rilassati tigre, guarda nel sedile posteriore!»
Josephine fa come gli dice e sorride alla vista del classico sacchetto da asporto di Al. Ecco dove è andato poco prima di passarla a prendere.
«Come sei efficiente! Quindi dove stiamo andando?»
«Mercoledì ti ho dato buca, quindi ho pensato di farmi perdonare... »
Confessa nel momento in cui si ritrovano davanti alla Jolly Gym. Josephine strabuzza gli occhi, lasciandosi sfuggire una risata nervosa.
«Come no... Te lo scordi! Non ho intenzione di bruciare calorie in modo da potermi permettere la torta al cioccolato, io me la merito anche ora! E tra l’altro, non ho nemmeno portato il cambio!»
Esclama Joey, facendo notare al ragazzo i jeans attillati che ha indosso.
«Niente del genere, promesso! Ho soltanto pensato che saremmo potuti stare un po’ più tranquilli…»
«Ah… E al tuo capo sta bene che siamo qui?»
«Presumo di sì.»
«Presumi?»
«Finché non danneggiamo qualche macchinario non vedo quale sia il problema.»
Continua Ian, che dopo aver effettuato un semplice parcheggio a spina di pesce, apre con cautela la portiera e invita la Cooper a fare lo stesso.
[...]
«Irrompere in una palestra deserta durante il giorno di chiusura... Mi sento una fuorilegge!»
«Addirittura? Ma se lo fai ogni settimana, da almeno cinque mesi!»
« È diverso... Il mercoledì sera ci alleniamo. Oggi ci abbuffiamo di dolci stravaccati su dei materassini!»
«Già, è tipo l’antitesi della palestra.»
«Esatto!»
Esclama eccitata la Cooper, per poi perdersi completamente nei meandri dell’edificio e raggiungere una sala che non aveva mai visto prima d’ora.
«Oh mio Dio! Non mi avevi mai detto che avevate una piscina!»
Esclama la Cooper guardandosi attorno estasiata, mentre il ragazzo è intento ad improvvisare un telo da picnic con un paio di asciugamani sovrapposti.
«Non me lo hai mai chiesto. E sai, lo sapresti da sé se solo ti fossi decisa a fare un abbonamento come le persone normali e venissi ad allenarti più di una volta a settimana!»
«Sì, ma poi non avrei un istruttore tutto per me! Sai, sarebbe molto dura doverti condividere con altre persone...»
Aggiunge con un pizzico di malinconia. Ian inizia a sospettare che la scelta delle parole di Josephine non sia stata del tutto casuale, ma quel pensiero viene interrotto dalla voce squillante della ragazza.
«Per non parlare dei miei soldi! Non sborserò un solo centesimo per sudare e soffrire, c’è già l’estetista per questo!»
Ian scoppia a ridere in seguito alla battuta di Joey, per poi tornare tornare serio non appena la ragazza prende posto accanto a lui.
«Allora...Il tempo scorre, non ho tutta la sera a disposizione!»
«Spara, cosa vuoi sapere?»
Domanda Josephine senza preoccuparsi di aver parlato a bocca piena, mentre assapora il primo boccone di quella torta deliziosa.
«Non lo so… Cosa avete fatto, cosa vi siete detti, perché dici che non va?»
«Sì, allora...»
Esordisce Joey per poi fare una piccola pausa nel momento in cui si rende conto di essersi sporcata il dorso della mano con della panna montata. Senza preoccuparsi di seguire il galateo e comportarsi da vera “signorina”, la Cooper avvicina la mano alle labbra, facendo sparire la macchia in men che non si dica.
«Come nuova!»
Esclama noncurante del giudizio di Ian, che d’altro canto non potrebbe trovarla più adorabile di così. Sono cose come questa che l’avevano colpito mesi prima, quando si sono conosciuti nella caffetteria della scuola.
«Ti ascolto...»
«Matthew è meraviglioso. È intelligente, è simpatico, abbiamo gli stessi interessi… Ed è molto, molto carino.»
«È gay?»
«Che cosa? No!»
«Eppure c’è un “ma”, non è così? Deve esserci un “ma”, altrimenti non mi spiego il senso dei tuoi messaggi...»
«Nessun “ma”, è perfetto.»
«Niente ex fidanzate psicopatiche? Rapporto morboso con la madre? Problemi a gestire la rabbia?»
«Niente di niente.»
«E cosa allora? Abbiamo frainteso i suoi segnali?»
«No, assolutamente no. Ci siamo baciati, come avevi previsto...»
«Cosa? È grandioso, non è grandioso?»
«Beh… Lo è stato. Fino a quando non l’ho spinto via dicendo che penso ancora al mio ex.»
Ammette a testa bassa, affogando i suoi dispiaceri nella sua fetta di torta al cioccolato. Ian, di fronte alle parole dell’amica, alza gli occhi al cielo esasperato. Non gli è mai andato a genio quel ragazzo e proprio non riesce a capire perché Josephine stia ancora perdendo tempo dietro a lui.
«Che cavolo Jo, è passato un sacco di tempo...»
«Tre mesi.»
«Tre mesi! Meriti di essere di nuovo felice dopo tre mesi, Joey...»
«Lo so, ma―»
«E poi, scusa se te lo faccio notare, ma sei stata tu a scaricarlo. Sbaglio?»
Il punto di Ian è piuttosto chiaro, eppure Josephine non riesce a fare a meno di pensare al ragazzo che ha spezzato il suo cuore ben due volte, all'uomo che -dopo essere piombato di nuovo nella sua vita dopo tutto questo tempo- ha pensato bene di lasciare la città non appena le cose hanno incominciato a farsi complicate.
«Sai, non so nemmeno se ha lasciato il paese oppure no.»
Esordisce Jo in seguito ad una scrollata di spalle. Ian la guarda confusa, decidendo però di lasciare le sue domande alla fine e di lasciarla prima finire di parlare.
«Gli ho detto che se non abbiamo funzionato la prima volta c’è un motivo, gli ho detto che mi sarebbe piaciuto aiutarlo con il suo libro come gli avevo promesso e che, insomma, potevamo provare a restare amici… Qualche settimana mi sono ritrovata davanti a casa sua e ho pensato di, che ne so, di passare a salutarlo e... Indovina? Ho scoperto che non vive più lì da almeno due mesi. Ti rendi conto? Due mesi! Che diavolo è tornato a fare in questo buco di città allora? Poteva evitare di tornare, se il suo intento era quello di incasinarmi la testa e poi sparire di nuovo!»
Domanda Jo più a sé stessa che ad Ian, dando libero sfogo a quel fiume di pensieri che ormai la tormenta da mesi.
«Seriamente? Che codardo.»
Ian si trattiene dal fare ulteriori commenti poco carini portando alla bocca un enorme pezzo di torta al pistacchio. Jo sembra già nervosa di suo, l’ultima cosa di cui ha bisogno è sentire l’amico infierire su tutta quella situazione già particolarmente difficile.
«È da stupide, lo so, ma una parte di me sperava che mi avrebbe fatto capire che mi sbagliavo, che mi avrebbe dimostrato che è lui l’unico giusto per me e che io sono l’unica giusta per lui!»
È un pensiero estremamente sdolcinato per un tipo cinico e realista come Ian, eppure sembra seguire il ragionamento contorto di Joey.
«Certo che voi ragazze siete incredibili. Volevi che lui lottasse per te, perché diavolo non glielo hai detto chiaramente?»
«Perché... Perché doveva capirlo da solo!»
Esclama sull'orlo di una crisi di pianto, ricomponendosi poco dopo grazie all'ausilio di un paio di respiri profondi.
��Sì, insomma...Doveva saperlo e basta.»
Conclude poco dopo, incapace di sostenere ulteriormente lo sguardo di Ian. I suoi occhi vengono invece catturati invece dall'acqua della piscina, incredibilmente azzurra e perfettamente limpida.
Ian segue lo sguardo della ragazza e si ritrova a fissare il punto più profondo della vasca così, senza aggiungere altro. Almeno fino a quando una piccola vocina non si fa strada nella sua testa.
«È per questo che sei stata strana per tutta la settimana? Voglio dire… Il tuo è più un “odio generalizzato nei confronti del sesso maschile” oppure ho fatto io qualcosa di sbagliato?»
Josephine scrolla le spalle come per dire “non è niente di importante”. «Andiamo, Jo, è per l’allenamento di mercoledì?»
«Negli ultimi tre mesi ci saremmo visti si e no cinque volte.»
Puntualizza non appena Ian introduce l’argomento, facendo capire al ragazzo di aver centrato il punto.
«Hey, non pensavo fosse così importante per te mantenere una certa costanza. Anzi, a dire il vero pensavo di farti un favore. Tu odi allenarti! Voglio dire, ormai abbiamo imparato le tecniche di difesa principali. Ti serve ancora parecchia pratica ma credo tu possa―»
«Non me ne frega niente dei nostri allenamenti! È solo che, da quando c’è Tessie, i nostri incontri settimanali sembrano essere drasticamente scesi di posizione nella tua lista delle priorità. Voglio dire… Non te ne faccio una colpa, è solo che―»
Ian non riesce a fare a meno di sorridere, in un certo senso sollevato dalla piega che sembra aver preso quella conversazione.
«Allora è di questo che si tratta, giusto? Sei gelosa?»
Josephine strabuzza gli occhi in seguito a quella domanda, per poi iniziare a scuotere ripetutamente la testa.
«Gelosa? Ti piacerebbe! No, dico solo che preferirei ricoprire un ruolo più importante all'interno della tua “agenda mentale”. Voglio dire, che ne so, cerca di sottolinearmi, usa un’evidenziatore, mettiti un promemoria sul telefonino, ma evita di darmi buca ogni mercoledì sera, per favore.»
Risponde Josephine cercando di spiegare le sue ragioni, mentre Ian si sforza di nascondere quel sorrisetto beffardo che ormai sembra non voler lasciare la sua faccia.
«Sei gelosa...»
Si limita a ripetere alzando gli occhi al cielo, beccandosi una lieve gomitata da parte della Cooper.
«Non sono gelosa!»
Si appresta a precisare, alzando involontariamente il tono di voce.
«Dico solo che sei la cosa più simile ad un migliore amico in questo momento della mia vita, e ho piacere a vederti indipendentemente dalle nostre stupide lezioni di autodifesa!»
Ammette infine, nonostante pronunciare quelle parole a voce alta le sia costato tantissimo. Non ha mai avuto troppi problemi nell'esternare le sue emozioni, ma il timore che ogni sua singola parola possa venir fraintesa e distorta a suo piacimento è ciò che le ha impedito di confessargli prima il motivo per il quale era così tanto infastidita.
«Hey, le mie lezioni non sono affatto stupide! Rimangiatelo subito!»
«La pratica magari, per quanto riguarda la teoria...Ho imparato di più da Google e da Vampire Diaries!»
«Per l’ultima volta, non devi fidarti di quelle stupide serie TV!»
«Le mie serie TV non sono stupide! Tu lo sei!»
Esclama colpendolo un’altra volta.
«La smetti di colpirmi?»
Esclama Ian alzandosi in piedi di scatto, seguito dalla stessa Josephine, che lo guarda con aria di sfida per poi colpirlo di nuovo.
«No!»
«Come dici?»
«No.»
Esclama più forte, continuando a stuzzicarlo con piccoli colpetti sul petto.
«Bene...»
«Che cos― Non ci provare! Ti prego, lasciami andare, ti prego, non so nuot―»
Ian sogghigna sotto i baffi, per poi afferrarla come un sacco di patate e gettarla a peso morto nella piscina. Dopo un primo momento di grasse risate, il viso di Ian diventa più cupo. Sarebbe dovuta riemergere da un pezzo e questo non è mai un buon segno.
«Hey Jo, tutto bene?»
Domanda il ragazzo sporgendosi verso la vasca, in modo da scrutarne meglio il suo interno. È in quel momento che Joey riemerge dall'acqua e fulmina l’amico con lo sguardo.
«Tu...Razza di idiota, ti ho detto che non so nuotare!»
Esclama particolarmente nervosa, sguazzando qua e là in maniera un po’ impacciata fino ad avvicinarsi con fatica al bordo della vasca.
«Merda! Pensavo scherzassi, vieni qui...»
Esclama allungandosi con il braccio, porgendo alla Cooper la sua mano destra. È allora che la vendetta di Josephine prende piede. Si dà lo slancio con entrambe le gambe contro il bordo della piscina e attira il ragazzo a sé, che colto alla sprovvista finisce per perdere l’equilibrio e cadere come un salame in acqua con lei.
«Effettivamente sì, stavo scherzando....»
Esclama Josephine con un sorriso smagliante sulle labbra non appena il ragazzo torna a galla per prendere fiato.
«Tu… Sei tremenda!»
Ribatte senza parole, decidendo di reagire a suon di schizzi d’acqua. I due continuano a farsi i dispetti per qualche minuto, fino a quando non si ritrovano completamente aggrovigliati l’uno all'altro, bagnati fradici e pericolosamente vicini, troppo vicini. Joey è la prima a sentire una sensazione di disagio nel momento in cui un brivido le percorre l’intera colonna vertebrale, e non è così sicura che si tratti di un brivido di freddo.
Si ritrova impacciatamente a fissare le sue labbra per alcuni istanti, ignara del fatto che il ragazzo abbia fatto la stessa identica cosa soltanto qualche secondo prima. Presa dal panico si libera immediatamente dalla presa di Ian, facendo una breve nuotata a stile libero fino al bordo della piscina, dove l’acqua è leggermente più bassa. Con una spinta riesce a sedersi sul bordo della vasca, continuando a tenere i piedi a mollo. Muore dal freddo, ma non ha intenzione di darlo a vedere.
Ian vorrebbe domandare alla ragazza il perché di quel gesto, ma dopo alcuni ripensamenti decide di tenere quella domanda per sé. Teme di non essere l’unico ad aver provato una sensazione piuttosto bizzarra e si rende conto che il parlarne ad alta voce non farebbe altro che complicare le cose. Decide invece di raggiungerla a bordo della piscina, mantenendo comunque una certa “distanza di sicurezza”. Si concede un paio di secondi per riprendere fiato prima di riprendere il discorso lasciato in sospeso poco prima.
«Pensavo che la tua migliore amica fosse la poliziotta, Amerlee...»
Josephine si volta verso il ragazzo e gli sorride, per poi rispondergli prontamente.
«Aimee è come una sorella. Voglio dire, non è mai stata adottata ufficialmente dai Johnson, però...»
«Giusto, chiaro… E che mi dici del tuo coinquilino?»
Josephine scuote la testa e si lascia sfuggire una risata, facendo sorridere anche Ian.
«Ryan? Lo adoro, dico sul serio. Ma non parliamo mai di cose serie… Sai, penso sia innamorato perso di Aimee, e credo anche che lei lo ricambi, eppure nessuno dei due mi ha mai detto nulla a riguardo.»
«Sul serio? E pensi che funzionerebbero?»
«Oh, no. Sarebbero un completo disastro! Ma in senso bello. È complicato saper prendere una ragazza come Amerlee, ma Ryan penso che se la saprebbe cavare egregiamente!»
Aggiunge scrollando le spalle. Sa bene quanto Amerlee fatichi a fidarsi delle persone ed è più che sicura che il suo cuore, nelle mani di un ragazzo come Ryan, non avrebbe niente di cui preoccuparsi.
Ian rimane per qualche secondo in silenzio, pensando a qualcosa da aggiungere prima di cambiare argomento, ma poi scuote la testa lo dice e basta.
«È strano, ma credo sia lo stesso per me.»
Esordisce senza specificare a cosa si stia riferendo. Ma Joey... Joey ha capito perfettamente.
«Voglio dire, ho parecchi amici maschi, c’è Liam, Jay… Ma sai, tra maschi è diverso. Siamo dei cazzoni... Non appena un discorso diventa vagamente serio, sono il primo a proporre una birretta al pub sotto casa e poi...Chi ci pensa più? Ma hey, parlare dei propri sentimenti è sottovalutato!»
Ammette più a sè stesso che a Joey, rendendosi conto di quanto tutte quelle chiacchierate con la ragazza gli abbiano fatto bene.
Josephine non riesce a fare a meno di sorridere in seguito a quella piccola confessione. Allunga una mano fino a raggiungere la spalla di Ian per poi dargli una lieve pacca di incoraggiamento.
«Quando vuoi...»
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✨💄 — 𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄 𝐠𝐢𝐧𝐧𝐲 𝐫. 𝐨𝐜𝐞́𝐚𝐧𝐞 & 𝐧𝐢𝐜𝐨𝐥𝐞 𝐣𝐚𝐲𝐧𝐞 ❪ ↷↷ mini role ❫ r a v e n f i r e 15.02.2019 — #ravenfirerpg #ravenfireevent #ravenfiredarkfog
Sensazioni contrastanti sembravano possedere il corpo della veggente che da giorni era bloccata, isolata in un mondo che stentava a riconoscere. Paura, terrore e profonda tensione si annidavano nel corpo della giovane che stava cercando in tutti i modi di avvicinarsi ad un qualsiasi luogo sicuro. Aveva sentito voci, era tutto il giorno che sentiva quel parlottare riguardo ad una strana nebbia verde, ma solo quando si sentì inerme, capì che avrebbe dovuto prendere la situazione in mano e compiere l'unica cosa sensata da fare: scappare. Le strade di Ravenfire pullulavano di persone intente a correre a destra e a manca per trovare un rifugio, mentre l'aria appariva sempre più irrespirabile. Tossì una, due, tre volte prima di arrivare non troppo distante da dove abitava, eppure una sensazione di disagio cominciò a correrle lungo la schiena, passo dopo passo. Si voltò infinite volte, guardando più spesso ciò che lasciava indietro piuttosto che ciò che la stava aspettando a braccia aperte. Il fiato s'era fatto sempre più breve, il cuore aveva cominciato a pompare più velocemente, ma quando vide quella testa scura che avrebbe riconosciuto ovunque, la Lagarce si bloccò. La persona che le stava di fronte sembrava attenderla, sembrava non aspettare altro che Ginny s'avvicinasse, pronta ad aprire le fauci dell'oscurità e regolare quel conto che avevano ancora in sospeso.
Nicole Jayne Maffei
Quella sera Nicole, oltre a catturare gente che servivano a delle persone, si occupò anche dei suoi nemici e delle altre persone che, per un motivo o per un altro, le avevano dato fastidio. Nella lista ovviamente c'era Ginny. Nicole ricordava vagamente quello che era successo tra le due, ma quello che sapeva per certo, era che tra le due non scorreva buon sangue. Si trattava di rancori passati che ancora li tormentavano. E quello, era il momento perfetto per chiarire una volta per tutte. Così la cercò. Per minuti e anche ore. E quando se la ritrovò davanti, Nicole quasi non riusciva a crederci. La pedinò senza farsi vedere, per permettere a quest'ultima di andare in un luogo isolato e cadere in trappola. E fu proprio quando quest'ultima la portò davanti a un locale che si trovava quasi in periferia, che Nicole decise di mostrarsi. Ancora non l'aveva neanche vista, ma era evidente che Ginny fosse terrorizzata. Probabilmente per la situazione che la circondava. Ma ancora la donzella non aveva visto proprio niente. « Ciao Ginny. » Si mise di fronte a lei e le sorrise in modo maligno.
Ginny R. Océane Lagarce
Era assolutamente bloccata, incapace di muovere anche un solo muscolo, nonostante quella sensazione di timore non correva spesso nelle sue vene. Da sempre Ginny era stata una persona caparbia, nonostante gli insulti ricevuti quando era più piccola, i giudizi in cui affermavano che fosse strana, non aveva lasciato che nulla si frapponesse tra lei e il suo prossimo obiettivo, eppure in piedi davanti a quel viso che ormai conosceva così bene, si sentiva quasi imprigionata. Deglutì un paio di volte prima di rispondere. « Nicole... » Il suono della sua voce apparve intimorito alle sue stesse orecchie. Odiava sentirsi così, ma soprattutto in quel momento sentì che la ragazza che si trovava di fronte a sé non era la semplice Nicole di tutti i giorni. Ella si ritrovò a deglutire ancora un paio di volte prima di trovare coraggio e dare così voce ai suoi pensieri. « Che diavolo ci fai qui? Non dovresti essere qui, anzi nemmeno io... »
Nicole Jayne Maffei
' Cosa? Hai paura? ' Chiese sorridendo a Ginny. Quella ragazza stava tremando dalla paura, ma anche Nicole lo avrebbe fatto se qualcuno l'avesse pedinata come aveva fatto la Maffei quella notte. Poi era evidente che Nicole non stava bene. Aveva lo sguardo completamente assente. C'era si, ma solo fisicamente. ' Potrei ucciderti sai? Anzi no. Voglio ucciderti. L' ultima volta che ci siamo viste hai promesso di rovinare la mia vita e.. Mi dispiace ma non posso permettertelo. ' Disse a pochi centimetri da lei. Ormai erano vicinissime e bastava allungare un braccio per toccarla. ' La domanda è... Come te la faccio pagare adesso? Pareri dolce donzella? '
Ginny R. Océane Lagarce
Era pietrificata davanti alla figura della Maffei, situazione che le dava allo stesso tempo ai nervi, ma qualsiasi potere da veggente, in quel momento, era inutilizzabile. E anche se avesse avuto i suoi poteri come avrebbe potuto difendersi? Negli occhi dell'umana v'era qualcosa di ben riconoscibile, una sorta di malvagità scatenata da qualcosa di potentemente oscuro, una scintilla che colpì profondamente la veggente. Quelle parole dense di odio fecero indietreggiare la veggente, nonostante non si fosse mai dimostrata una codarda, eppure il senso di sopravvivenza stava per aver la meglio. « Nicole, non sei in te... » Provò ad accennare con un timbro di voce che non riconobbe nemmeno alle sue stesse orecchie. Alzò poi le mani mostrandole i palmi, come se servisse a qualcosa, e passo dopo passo indietreggiò. « E dopo che mi hai ucciso, che cosa ne ricaveresti? Ti comporteresti da codarda, sarebbe nascondersi per non affrontare un problema, non credi? Dobbiamo solamente andarcene, Maffei... Credo che i nostri precedenti siano niente in confronto a quello che sta per accadere... Lo sento, Nicole! »
Nicole Jayne Maffei
« No.. Tu non parlare! » Improvvisamente l'afferrò per le spalle e la strattonò. A Nicole dava fastidio la voce di Ginny. Perchè quella sera tutto le dava fastidio? Perchè voleva eliminare tutti, senza un apparente motivo? Nicole era un tipo di persona che si divertiva ad affrontare le persone faccia a faccia. A suon di battute e di offese. Ma non quella sera. Quella sera stava usando le mani e la cosa non le dispiaceva affatto. Anzi, lo trovava spaventosamente giusto. Aveva necessario bisogno di farle un pò del male, tutto quì. Prima avrebbe fatto qualcosa, prima la rabbia che provava in quel momento si sarebbe attenuata. « Non sta accedendo niente questa notte. E' una notte come tante. No, anzi no. Chiamala pure la notte del giudizio. Stanotte tutti gli stronzi, la pagheranno e... soffriranno. Tu.. » la indicò con il dito. « Soffrirai. » Dopo la scaraventò a terra, dove ormai c'era la nebbia tossica e la osservò. Osservò mentre quest'ultima la divorava e la faceva stare malissimo.
Ginny R. Océane Lagarce
Cosa sperava di ottenere con quelle parole la veggente? Aveva indietreggiato di un paio di passi, ma ad ogni passo sembrava che la mora s'avvicinasse maggiormente fino a ritrovarsi di fronte, l'una di fronte all'altra. La Lagarce sbarrò gli occhi quando questa la afferrò all'altezza delle spalle strattonandola, e subito cacciò un urlo di spavento. « Nicole, che diavolo stai facendo?! » Domandò la bionda portando immediatamente le mani sopra i suoi polsi come a volerli ad allontanare. La presa sulle spalle stava cominciando ad affondare sempre di più nella sua carne, facendole provare un dolore sordo. Cominciò a tirare calci cercando di liberarsi mentre negli occhi della Maffei vide qualcosa che non aveva mai visto prima. « Nicole, lasciami andare. Mi stai facendo male! Io non so che cosa ti stai succedendo, ma dobbiamo andarcene, e queste sono solamente stronzate! —— Cazzo!! » Le sue parole finirono in un'imprecazione quando letteralmente voltò a terra sbattendo a terra il capo. Immediatamente sentì un dolore acuto che si propagò in tutto il corpo, ma non era solamente la testa a farle male, ora la nube stava avanzando sempre di più e quell'odore acre e tossico stava per prendere il sopravvento, come la ragazza ora che torreggiava su di lei.
Nicole Jayne Maffei
Fortunatamente la nebbia su Nicole non aveva lo stesso effetto, quindi la Maffei potè rimanere a terra con Ginny, mentre questa le invadeva. Nicole non si era chiesta perchè la nebbia a lei non dava nessun sintomo, pensava che quello fosse semplicemente un ' dono '. Rimase immobile su Ginny mentre la osservava sorridendo. « Questo. Questo succede quando ti metti contro una Maffei. Ricordatelo la prossima volta. Sai, prima di dirmi che me la farai pagare. » Disse infine e quando la ragazza stava ormai quasi per perdere i sensi, si alzò e si sistemò il vestito. D'istinto si guardò intorno, per capire se c'era qualche curiosone. Ma no, erano sole. « Ti auguro un buon proseguimento dolcezza. » Disse infine, mentre si allontanava lenta dalla sua ennesima vittima della serata. Quando sarebbe finita?
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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Un buon uomo
di Antonio De Signoribus
“Se volete che vostro figlio sia intelligente, raccontategli delle fiabe; se volete che sia molto intelligente, raccontategliene di più” ( Albert Einstein)
Sentite questa, non mi sembra male. Attenti, però. Mi raccomando. C’era una volta un uomo buono che, stanco di vivere e di soffrire in mezzo agli uomini, decise di ritirarsi, per il resto della vita, in un bosco lontano dalla città. Un giorno vide, nei pressi della sua umile casetta, un cesto con dentro un bambino appena nato. Non cadde per terra morto per l’emozione perché il buon Dio volle risparmiarlo. Non si fece prendere, però, dalla disperazione, si trattava di una vita da salvare; prese il cesto con il bambino e lo portò sotto una piccola tettoia, dove c’era un po’ di paglia.
Fece una culla e ci mise il bambino. “Con me sarebbe morto subito” disse il buon uomo tra sé e sé “da queste parti, invece, si spera che passi qualcuno che lo veda,magari una donna che lo possa anche allattare…”. Aspettò qualche ora accanto al bambino, ma non passò nessuno; poi, prima di andarsene, gli promise che ogni giorno sarebbe tornato a vedere come stava. Il buon uomo mantenne la promessa. Il giorno dopo rimase incantato nel vedere il bambino sorridente e con la boccuccia sporca di latte.
“Mah! Chi può averlo allattato?” si chiese. Volle scoprirlo nascondendosi dietro un grosso albero poco distante dalla tettoia. L’attesa fu ripagata. Poco dopo arrivò una capra con due mammelle gonfie di latte e si mise, come una brava mamma, ad allattare il bambino. Il buon uomo rimase come incantato: quella scena, tenera tenera, lo aveva fatto commuovere. Ma bisognava fare qualcosa.
“Se la capra allatta il bambino” pensò “io dovrò cercare di nutrire la capra affinché possa continuare ad allattarlo ancora per molto”. E così fece. Dopo un anno, non trovò un altro cesto con un altro bel bambino? Anche questa volta non si perse d’animo, forse era stato scelto dal cielo per salvare i bambini abbandonati…? Chissà! E senza pensarci molto, il tempo di un amen, lo portò dalla capra, che appena lo vide fece salti di gioia e cominciò subito ad allattarlo. L’altro, invece, che aveva già un anno pensò di svezzarlo il buon uomo, impegnandosi come poteva.
La capra, come una vera mamma, allatto’ anche il nuovo arrivato. Ma non finì lì. Dopo un altro anno esatto, ecco un altro cesto. Con una novità, però. Questa volta dentro al cesto c’era una bambina, bianca e rossa come una mela. Come andò?Come le altre volte, e la capra fece festa anche alla terza arrivata. E la nutrì con il suo buon latte, come fece con gli altri due. Per farla breve, i tre bambini crebbero insieme, sani e forti, giocarono insieme felici, nel cuore del bosco, e impararono a chiamare mamma la capra e babbo il buon uomo. E il buon uomo, per riconoscenza, regalò loro una bella catenina d’oro da portare sempre al collo.
Un giorno, un servitore del re, passando per il bosco, raccontò subito alla vecchia regina, cattiva come la fame, e gelosissima della nuora, che aveva visto tre bambini, due maschi e una femminuccia, di una bellezza straordinaria, giocare felici nel bosco. La vecchia regina, quella notte, sì rigirò nel letto, senza chiudere occhio, pensando che quei tre bambini potessero essere i figli della nuora,che lei stessa aveva ordinato, ai suoi complici, di fare uccidere, appena venuti al mondo.
La mattina presto, andò subito nella camera del servitore, lo svegliò e gli disse:” Se ucciderai i tre bambini che hai visto nel bosco, e mi porterai le loro teste, ti prometto una borsa stracolma di monete d’oro che renderà felice te e la tua famiglia per tutta la vita”. Il servitore accettò e si mise in cammino per compiere l’orribile misfatto. Ma appena li vide, felici e contenti, a rincorrersi tra gli alberi del bosco, non ebbe il coraggio di ucciderli; tolse loro le catenine d’oro, questo sì, e le portò alla vecchia regina, dicendo che le teste le aveva seppellite per non correre inutili rischi.
“Ho fatto tutto quello che volevi” disse il servitore “adesso dammi quello che avevi promesso”. La vecchia contenta gli diede il denaro che gli aveva promesso e per un po’ la cosa fini lì. Ma ancora non soddisfatta, la cattiveria non ha confini, tentò in tutti i modi di liberarsi anche della nuora. Sentite come andò. Una mattina, che suo figlio si lamentava per la cattiva sorte che gli era capitata, la regina sua madre, gli disse, senza battere ciglio:” Che te ne fai di una moglie che appena partorisce uccide i suoi figli per non doverli allattare e allevare?”. “Cosa dici? Mia moglie ha ucciso i miei figli? Non ci credo!”.
“E allora sappi che le tue tre creature le ha soffocate con le sue mani e le ha fatte sparire” rispose la regina.” Non te l’ho detto prima perché non volevo immischiarmi in queste tragedie ; ora però è giunto il momento di liberarmi di questa grossa pena che porto nel cuore”. “ Se mia moglie ha fatto davvero quello che mi dici sarà bruciata in mezzo alla piazza, come una strega”.
La povera moglie cercò di spiegare in tutti i modi, chiese pietà per la sua vita, pianse per giorni interi, ma non ci fu nulla da fare. Per lei era già pronta la camicia di pece. In quel triste giorno capitò in città l’uomo buono e vide che si stavano facendo i preparativi per dare fuoco a una donna, forse una strega. Chiese ad alcune persone, ma la risposta che gli diedero era sempre la stessa: “Viene condannata a morte la nuora della regina che ha ucciso tre povere creature appena nate”.
“E quando è successo?” rispose il buon uomo. “ il primo delitto è avvenuto quattro anni fa, poi gli altri due, ma soltanto adesso è venuta fuori la verità”. Allora, il buon uomo pensò tra sé e sé:” Il primo bambino che ho trovato ha quattro anni, sicuramente sono loro i bambini che tutti pensano siano stati uccisi”. Ritornò nel bosco, chiamò i tre bambini e li istruì su da farsi, una volta che si fossero trovati davanti a tutta la corte. In fretta e furia li portò sul luogo dell’esecuzione. Tutto era già pronto per il supplizio della povera innocente, quando il bambino più grande gridò:” Non uccidete la mamma. Noi siamo vivi e vegeti e siamo qua; la mamma è innocente”.
Dopo queste parole si sospese ogni cosa; il re e suo figlio chiamarono il bambino e il buon uomo… “ Perché tutto questo mistero?” dissero “come li hai avuti questi bambini, come hai fatto a farli crescere così bene?”. E il buon uomo spiegò tutto per filo e per segno. La regina, che aveva ascoltato tutto, era diventata nera dalla rabbia contro il servitore che l’aveva ingannata. Il figlio più grande disse,poi, indicando il servitore: “Questo è l’uomo che ci ha tolto le tre catenine che ci aveva donato il buon uomo e che adesso porta al collo la regina”.
A queste parole la regina si sentì male. Il re e suo figlio chiesero al servitore come si erano davvero svolti i fatti, pena la morte. Il servitore raccontò tutta la storia… E come aveva ingannato la regina per risparmiare la vita ai tre poveri innocenti. A quel punto cosa poteva fare la regina se non confessare tutto? Fece anche i nomi dei servitori che si erano resi complici nel trafugare i bambini; poi, tentò in tutti i modi di salvarsi dicendo che l’invidia e la gelosia l’avevano accecata d’odio per la nuora.Ma né il vecchio re, né suo figlio riuscirono a perdonarla.
I complici furono severamente puniti con il carcere a vita, ma non furono uccisi; anche loro avevano, in fondo, provato un po’ di pietà lasciando i bambini nel bosco. Solo la regina fu legata e bruciata. Poi, ci fu una gran festa, che durò più di una settimana. Tutti pregarono il buon uomo di rimanere con loro nel castello, ma il buon uomo, felice che era stata fatta giustizia, ritornò nel bosco a vivere la vita che aveva già scelto di vivere quattro anni prima.
E la capra, che fine fece? Rimase lì, tutta la vita, a salvare altre creature, che altre persone cattive o scellerate, avevano abbandonato nel bosco.
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Opinione: Il Principe Crudele, di Holly Black
Affila la lama
Indurisci il cuore
Certo che vorrei essere come loro. Loro vivranno in eterno. Sono belli come spade forgiate da qualche fuoco divino. E Cardan lo è ancora di più. Lo odio più di chiunque altro. Lo odio talmente tanto che qualche volta, quando lo guardo, mi manca il respiro Jude era solo una bimba quando i suoi genitori furono brutalmente assassinati. Fu allora che sia lei che le sue sorelle vennero rapite e condotte nel profondo della foresta, nel mondo magico. Dieci anni dopo, l'orrore e i ricordi di quel giorno lontano e terribile ormai sfocati, Jude, ora diciassettenne, è stanca di essere maltrattata da tutti e soprattutto vuole sentirsi finalmente parte del luogo in cui è cresciuta, poco importa se non le scorre nemmeno una goccia di sangue magico nelle vene. Ma le creature che le stanno intorno disprezzano gli umani. E in particolare li disprezza il principe Cardan, il figlio più giovane e crudele del Sommo Re. Per ottenere un posto a corte, perciò, Jude sarà costretta a scontrarsi proprio con lui, e nel farlo, a mano a mano che si ritroverà invischiata negli intrighi e negli inganni di palazzo, scoprirà la sua propensione naturale per l'inganno e gli spargimenti di sangue. Quando però si affaccia all'orizzonte il pericolo di una guerra civile che potrebbe far sprofondare la corte in una spirale di violenza, Jude non ha esitazioni. Per salvare il mondo in cui vive è pronta a rischiare il tutto per tutto. ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° °
Vediamo un poco la storia prima di darvi le mie impressioni, che ancora adesso fatico a mettere bene in chiaro.
Tutto inizia nel mondo umano, dove Jude e la sua sorella gemella Taryn vivono insieme alla sorella maggiore Vivi ed i genitori; ma a scombussolare tutto è l'arrivo di Madoc. L'ex marito della loro mamma e padre di Vivi, da cui loro sono scappate fuggendo dal mondo magico. Madoc è pura guerra, infatti senza pietà uccide i genitori di Jude e porta via le bambine con sè, in un distorto senso di "obbligo" verso i loro confronti, per crescerle come sue.
Negli anni Jude non ha mai rimosso quella notte, però (essendo molto piccola all'epoca dei fatti) ha imparato a voler bene a Madoc, che le ha trattate e protette come figlie sue. Invece Vivi è rimasta ribelle, nonostante di sangue elfico che le avrebbe permesso di integrarsi, scappando sempre più nel mondo umano e rifiutando quel luogo, come ha promesso da piccola.
Jude è anche lei una ribelle, ma essendo cresciuta in quel mondo non vuole scappare da lì, vuole ottenere potere ed essere temuta ed accettata, visto che il suo sangue umano provoca solo ritorsioni contro di lei e la gemella, che però ha un atteggiamento opposto al suo, rassegnandosi, da brava "damina", e abbassando la testa per poter diventare la moglie di qualcuno e trovare così il suo posto. Jude no. Vuole combattere. Essere al servizio di qualche nobile ed avere quel tipo di potere per non farsi più mettere i piedi in testa.
A darle contro c'è il principe Cardan, nella sua classe, che insieme al suo gruppetto di "nobili" continua a tormentarla, a volte andando anche nel pesante. Ma Jude non molla e passa spesso al contrattacco, portando avanti questa continua lotta fra di loro, anche se impari perché lei è vulnerabile: basta un ordine e lei sarà obbligata ad obbedire a qualunque cosa; il suo corpo non è immortale; non ha poteri; deve ricordare mille regole che la potrebbero danneggiare (per esempio, se iniziasse a danzare e nessuno ferma lei o la musica, potrebbe continuare in eterno).
In tutto questo si sta avvicinando la fine di un'epoca: il Sommo Re ha deciso di lasciare il trono e l'incoronazione avrà luogo molto presto e fra i suoi figli "solo" tre sono i principali aspiranti. Ma chi verrà incoronato?
Fino a quel momento si aprono delle lotte interne, sempre sotto la superficie, fatte di intrigo, spionaggio, e mettendo in campo personale fidato. E sarà uno dei pretendenti ad andare da Jude chiedendole di entrare al suo servizio come spia. Infatti come umana può muoversi senza dare sospetti ed ha un altro dono fondamentale, negato alla popolazione magica: può mentire.
Inizierà questa sua doppia vita, nascosta da tutti, dove imparerà molte cose e capirà quanto sia pericolosa la corona ed tutto ciò che la circonda. Lentamente apprenderà dei segreti a cui potrà dare un senso solo alla fine di tutto, portandola a scegliere una strada pericolosa, ma l'unica sicura per tutto il popolo.
Come avevo già anticipato su Instagram, ho dedicato parecchie serate a questo libro che, non so bene come mai, faticavo a leggere. La storia è interessante e originale, e la scrittrice è brava, ma...eh, credo che il mio 'ma' siano le scelte riguardanti il tempo di certe azioni. Poiché alcune cose richiedevano più tempo e sono state liquidate in fretta, mentre altre si dilungavano e risultavano pesanti e noiosette (descrizioni di feste e simili; alcuni potrebbero trovarle interessanti, ma per me sono state inutili ai fini narrativi, poichè era contorno e non sostanza).
Fortunatamente le scene di azione salvano il romanzo e la seconda parte decisamente ha fatto pendere la mia bilancia verso il Si, che merita di essere letto. Infatti ho divorato le ultime 100 paginette (forse meno) in poche ore, senza staccarmi più di tanto. Ammetto che il finale è davvero perfetto, lascia la porta aperta per uno spiraglio e nel frattempo lascia il lettore curioso e sorpreso.
Fateci un pensiero, soprattutto se è un genere che leggete, potrebbe piacervi molto.
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I DIALOGHI DI ALBERTO ANGELA:
Capitolo 7 - Alberto Angela e l'incontro ravvicinato di "Angela tipo". Lo spazio, inteso come l’Universo che ci circonda è pieno di certezze e di tantissime incertezze. Una domanda la fa da padrona tra noi umani: siamo soli nell’Universo? Mettiamo che un alieno arrivi sul nostro pianeta. Magari in Italia. Supponiamo che incontri, ma tu guarda la coincidenza neh, il Sommo Divulgatore… beh, io mi immagino uno scambio di battute in questo modo: A- Salve, interessante... una creatura antropomorficamente simile alla razza umana ma con sostanziali diversità. E- Non potresti chiamarmi con il mio aggettivo comune più utilizzato? A- Stiamo parlando – rivolgendosi ad una ipotetica telecamera – di un extraterrestre. E- Ciao a tutti – in stile anonima alcolisti, guardando l’ipotetica telecamera e accompagnando la frase facendo “virgolette” con le dita – sono un extraterrestre. A- *sorrisino* (quale risultato di un certo benessere, un #Angelers si sente in pace) E- Cos’è quel sorriso, non mi credi? A- *sorrisetto* (quale risultato di una certa ilarità, un #Angelers è in trance mistica) E- Suvvia siamo nel 2018 e non mi dirai che tu non credi agli alieni! A- *sorriso pieno* (qui raggiungiamo un’espressione che potrebbe essere un’arma di distruzione di massa tra gli #Angelers) E- Ecco lo sapevo, un altro che non crede alla teoria che può esserci vita, oltre a voi umani, nell’Universo. A- In verità ti dico che ebbi solo un attimo di cedimento, credetti a questa teoria solo per tre singoli minuti…. Avevo sette anni. Scrutavo il cielo, o forse era lui che mi scrutava…. Diciamo che ci guardavamo a vicenda, non vedendo dove stavo camminando perché avevo il naso all’insù, inciampai in un sasso particolare. E- Cioè, non era un sasso? A- No, era lo spigolo in marmo di un bagno pubblico dell’Antica Roma. E- Come hai capito che era il resto di un Antico bagno? A- Recava la scritta inconfutabile: “Vini, Vidi, WC” E- Per tutte le galassie… A- Fu allora – allargando le mani e indicando il terreno – che ho cominciato a credere più a quello che c’è sotto terra che su oltre il cielo. E- Ah... A- Mi sbaglio – sguardo di chi sa di aver appena pronunciato un’eresia (poiché il Sommo non sbaglia mai ndr) – o tu mi sei triste? E- Già – sbuffando da una delle sue dodici bocche – sono un guerriero mandato ad esplorare nuovi pianeti da conquistare. Anche se questo è il mio primo incarico. A- Dovresti essere eccitato, le conquiste planetarie sono in netta ascesa. Un’attività redditizia con possibilità di una rapida carriera. E- Guarda ho appena iniziato il periodo di prova. Non ho ancora un contratto di lavoro. Non sapevo come iniziare, ho cominciato suonando campanelli casa per casa. A- Tecnica gentile e non aggressiva. Il risultato? E- Mah, non male all’inizio. Ho piazzato due Bimby, otto sistemi di pulizia Folletto e convinto una decina di famiglie a seguire i Testimoni di Geova. A- L’invasione deve consistere nella venuta di piccoli esseri verdi o di altre forme strane, come piace a madre natura insomma, che con le loro armi super fanta mega wow tecnologiche fanno scempio del territorio terrestre senza un apparente perché, oltre a seviziare gli esseri umani durante la pausa pranzo. E- Ne sei sicuro? Come fai a sapere queste cose? A- Me lo ha detto Roberto Giacobbo, lui segue molto le vostre incursioni sul pianeta Terra. E- Già, non me lo dire….. se sono qui è per colpa sua. Tutte le sere si posiziona dalla sua cameretta con un potente telescopio regalatogli a Natale direttamente da Babbo Natale, con quello sguardo ed un sorriso di chi auspica un’invasione aliena, per potersi proporre come mediatore tra le due civiltà. Come fai dirgli di no? Con onde elettromagnetiche ad impulso solare, utilizzando un cannone tascabile a onde moventi, manda segnali ad minchiam…. “Venite vi aspetto”, “Qui è bellissimo”, “Ci arrendiamo senza porre resistenza”, “Solo qualche puntata in esclusiva a Voyager, promesso”. “Avrete un permesso speciale, sicuro!” e altre cose del genere. A- Esiste un ramo specifico dell'archeologia che indaga e offre elementi in merito a presunte visite di extraterrestri nell'antichità, viene a volte chiamata "Archeologia Misteriosa", altre "Archeologia Paranoica", in ogni caso non siamo ancora pronti ad affrontare gli alieni. Perlomeno finché le batterie dei cellulari non durano più di due giorni. E- Comunque non siete facili voi umani da conquistare. In particolare quando c’è l’Isola dei Famosi o il Grande Fratello VIP. Diventate tutti rabbiosi e non fate che paraculare gli alieni che vi appaiono in televisione, mentre vi trasmettiamo comunicati di guerra ….. i dati Auditel dicono che voi ci insultate. A- Cerca di impegnarti. La razza umana non è facile. E- Lo so. Siete tremendi. A- Non preoccuparti, diventerai un grande stratega delle conquiste planetarie. Devi solo impegnarti. E- Purtroppo mi hanno assegnato un incarico difficile: devo trattare con l’attuale dittatore nord coreano. A- Corpo di mille Poppea! Ma è quello che cantò Gangnam Style? E- I capi mi hanno chiesto di farlo diventare nostro alleato. Ma non riesco a contattarlo, perché su WhatsApp ha il nickname 김정김은정은김e non riesco a scriverlo. A- Perché puntare su una persona che potrebbe distruggere la Terra da solo? E- Appunto, dobbiamo farlo noi non lui! Siete l’unica civiltà che conosciamo autolesionista, mai visto niente del genere in altre galassie. A- Questo è il nostro paradosso. E- Mi chiedo perché non diano l’incarico di guidare l’umanità a tuo padre. Con lui ci sarebbe un grande futuro per voi. A- Si mio padre è un umano, ma non fa parte dell’umanità. E- Non capisco…. Perché? A- Sarebbe un conflitto d’interessi. E- Fate come vi pare, in breve arriveranno le forze armate del mio pianeta, e vi accorgerete in massa dell’esistenza di noi extraterrestri. E vi prostrerete a noi. A- Siete sicuri? E- Che intendi? A- Potreste essere intervistati da Barbara D’Urso con effetti di luce mentre siete inquadrati. La rivista Charlie Hebdo vi prenderebbe di mira, vi chiederebbero in massa l’amicizia su Facebook …. Ma ci pensate, avreste una notifica ogni secondo! Per non parlare di analfabeti funzionali che vi riempirebbero di messaggi del tipo: “Ciao alieni, giochiamo alla guerra?!”, “Kaffèèèè?”, “Bngiorn”, “Alieni ne abbiamo?”…. per non parlare di selfie a go-go con voi…. Pieni di filtri per giunta. Se non siete davvero verdi vi faranno diventare verdi con il filtro “Perfect-Aliens make-up”. Il presidente degli USA potrebbe scrivere tremendi twitter su di voi. Pensateci. Giacobbo potrebbe inseguirvi con il fiatone (ed il suo fido cameraman Marco) in ogni angolo della Terra. E dove atterrereste? Non sulle aree a verde, gli ambientalisti vi farebbero un culus tantum. Quindi atterrate sul cemento? Allora le navicelle vengono valutate come prima o seconda abitazione? Sapete, c’è l’IMU da pagare. E- Certo è che siete già incasinati di vostro, vero? A- Esatto, non penso che vi darebbero retta più di tanto. E poi vi consiglio di non invaderci di mercoledì perché c’è “Meraviglie – La penisola dei tesori”, il sabato pomeriggio perché c’è “Passaggio a Nord-Ovest” mentre il sabato sera perché c’è “Ulisse”. Non vi guarderebbe nessuno. E- Il lunedì? Magari all’inizio della settimana? A- Scherzi? Ma leggi i post sui social il lunedì mattina? Il lunedì è il giorno in cui l’umanità si accorge che deve tornare al lavoro/scuola, in cui molti smaltiscono le sbornie e che ci si rende conto di quanto si è speso nel fine settimana. Molti sono costretti ad alzarsi in orari ancora notturni, ci si spoglia e ci si ritrova nella doccia senza neanche sapere il perché, dopo averci litigato per una mezz'ora, perché la temperatura dell’acqua sotto zero non è una bella cosa…. In casa poi. Di corsa spalmi marmellata sulla fetta biscottata che si vuole puntualmente suicidare buttandosi dal tavolo, perché lunedì, creando l’effetto spappolamento schizzando marmellata rosso ribes, anzi rosso Pompei, sul pavimento. E- Credo che a questo punto, valutando tutte le circostanze sia utile rivedere i piani d’invasione. Magari facciamo tra qualche anno? A- Mmmm *sguardo di disappunto* (un Angelers sarebbe già genuflesso) E- Un secolo? A- Mmm-mmm-mmm *sguardo di estremo disappunto* (un Angelers si darebbe all’auto fustigazione) E- Capito…. Facciamo un millennio e non se ne parla più, ok? A- Questa è un’altra storia. Alla prossima …. Buonanotte. L’extraterrestre rimane di stucco, mentre un fascio di luce avvolge il sommo divulgatore che si smaterializza sotto i suoi occhi (quali non si sa di preciso, ne ha sette paia), mettendo in lui il dubbio che forse tra i due l’alieno non fosse lui stesso. Così mentre il mondo intero è impegnato nel proprio caos quotidiano, nessuno sa che la Terra è salva con buona pace di tutti. Tutti tranne Giacobbo, Giacobbo non è in pace…. Ma sullo speranzoso andante con permessi speciali, aspetta un ripensamento dell’extraterrestre.
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