#fucili enormi
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autolesionistra · 1 year ago
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Per rassicurare la figlia si mise a spiegare la scarsa efficacia dei fucili dell'esercito regio: parlò della mancanza di rigatura delle canne di quegli enormi schioppi e di quanta scarsa forza di penetrazione fossero dotati i proiettili che da essi uscivano; spiegazioni tecniche in mala fede per giunta, che pochi capirono e dalle quali nessuno fu convinto ma che consolarono tutti perché erano riuscite a trasformare la guerra in un pulito diagramma di forze da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è.
Il Gattopardo - Parte I
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paoloxl · 5 years ago
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Il 31 ottobre Ltf deve per la prima volta espropriare tre terreni in alcune località sopra Mompantero..
“Alle 6,30 il ritrovo lanciato dalla comunità montana è al cimitero di Mompantero, alla salita per Urbiano; i comitati, invece, che la domenica pomeriggio organizzano una “merenda sinoira” in centro al paese, invitano a presidiare lo svincolo sopra il ponte del Seghino, da cui si diramano le due uniche strade che premettono di raggiungere in auto i siti indicati, già a partire dalla notte, mentre alle 4 del mattino del 31 è convocato l’appuntamento per chi andrà a presidiare i terreni in oggetto. […] Dall’ora di cena il camper no tav e una cinquantina di resistenti si preparano a presidiare la zona. Il camper è parcheggiato al bivio, la strada non è molto praticata dai residenti, quindi, pur lasciando libero il passaggio, può essere spostato in mezzo alla strada a chiudere l’accesso con una manovra sola ed immediata. Si organizzano i turni e le strategie. Si valuta l’idea di barricare d a subito la strada. […] A rafforzare la convinzione, che già non manca, si vede il tetto di una casa che porta una scritta NO TAV enorme. Strategicamente la posizione che i resistenti occupano è ideale, le forze dell’ordine avrebbero dovuto agire in salita […] Nella notte si registrano un paio di macchine della Digos che prontamente vengono respinte dai presidianti posti al primo blocco no tav. Alle 4 giungono sul posto il resto dei no tav. […]
I giornali titolavano l’uso di 1000 poliziotti per la giornata, per una volta i titoli non sono solo sensazionalista. […] Alle 8 scatta l’ora dello scontro, le forze dell’ordine iniziano a salire in massa verso il presidio, è un fiume di caschi blu quello che i resistenti hanno davanti capeggiato da agenti della Digos e dal vicequestore Sanna in divisa. Sono accolti dai no tav dietro alla prima barricata fatta di massi e posizionata bel oltre il ponte del Seghino e a due tornanti dal bivio.
Le forze dell’ordine dichiarano di dover passare , nella lunga colonna di mezzi è presente anche una draga che ha il compito di rimuovere le barricate, gli amministratori dal canto loro dichiarano la volontà di resistenza, i presidianti si schierano incordonati e in blocco dichiarano altrettanto. I dirigenti della questura elencano i reati che si stanno per commettere ma ciò non ha l’effetto desiderato, inizia la battaglia: in maniera ridicola con un “permesso” Sanna capeggia l’avanzata dei centurioni: il contatto è immediato, pensano di farcela in poco tempo e con la scelta di spingere senza caricare, inizia il confronto che non avrà fine. Centimetro per centimetro si gioca una battaglia che sarà storica, il numero delle forze dell’ordine surclassa di gran lunga i no tav, ma la determinazione no, si indietreggia un passo per volta facendo sudare ogni piccola avanzata ai poliziotti che dopo poco fanno il primo cambio facendo passare in avanti gli scudi di plexiglass, ma il risultato non cambia la battaglia è sui centimetri. In 50 contro 100 a cambio sistematico non passano. […]
Ad un certo punto qualcosa cambia nel confronto sulla strada del Seghino, la strenua resistenza dei no tav fa sì che il ponte sia ancora lontano, ma ad un tratto un boato e una forza incredibile si aggiunge ai 50 impavidi, centinaia di persone sono giunte in aiuto, a cooperare per la resistenza, sono arrivati dai sentieri, ci sono anche gli amministratori, che vengono accolti da spinte poliziesche e per qualcuno c’è anche qualche calcione.
“La situazione ora è eccellente, la tenuta è massima, tra tutti c’è stanchezza, ma la forza nasce dall’essere comunità in lotta, non c’è mediazione il futuro ce lo giochiamo a spinta.” […]
Nel confronto due ragazzi sono stati presi dalle forze dell’ordine, malmenati e portati alla caserma di Susa per essere denunciati. La notizia è giunta al presidio di Mompantero, che si organizza per non far passare la macchina che li dovrebbe trasportare in caserma, l’opposizione al passaggio genera una carica a cui i presidianti resistono con determinazione.
Nel corso della giornata due vigilesse saranno malmenate e denunciate per resistenza a pubblico ufficiale, a fianco dei sindaci dei rispettivi comuni, mostravano con orgoglio il vessillo dei loro paesi resistendo alle pressioni delle forze dell’ordine.
Il confronto si sposta sul ponte del Seghino, sotto scorre il rio Graduglia, senza barriere laterali, i manifestanti si preparano all’avanzata delle forze dell’ordine. I sindaci chiedono un forma di simil fair play, chiedendo alle prime fila di fare qualche passo indietro per evitare il fosso. E’ lì che si giocherà la sfida finale, ed è da lì che le forze dell’ordine dopo 3-4 tentativi desisteranno. Nessuno cede, non c’è paura del ponte e in tutti i no tav cresce la consapevolezza che sia quello il luogo deputato all’ultima strenua resistenza. La polizia, per accedere al ponte, tenta per molto tempo di sradicare completamente il guard rail, e quando ci riesce lo getta da parapetto dentro il fiume. […]
Il confronto rimane serrato, mancano due curve a raggiungere il luogo deputato al blocco della notte, ma non avanzano di un metro, anche se fosse, prima di arrivare al bivio sono state costruite almeno 6 piccole barricate, e alcune macchine dei residenti sono di traverso. Si pensava che se anche fossero passati a piedi, i mezzi e le pietre avrebbero impedito il passaggio dei mezzi della ditta incaricata di picchettare. […] Al sito del Seghino Superiore intanto la situazione migliora di ora in ora, c’è sempre più gente che dopo aver costruito un’enorme barricata di tutto rispetto, fronteggia la polizia salita con enormi difficoltà a piedi da Urbiano. I manifestanti in cima alla salita , la polizia in equilibrio sotto, non provvederanno mai a passare dopo un primo e unico tentativo andato decisamente male. […] Al ponte la situazione di stallo, continua ad arrivare gente che porta notizie e rifornimenti la Valle è in mobilitazione totale, alcune fabbriche sono in sciopero, alcuni negozi chiudono per accorrere ad Urbiano, le stazioni di Bussoleno e Borgone sono bloccate il traffico internazionale è interrotto.
Nell’ultimo fronteggiamento scatta l’orgoglio dei valligiani, invece che tenere la spinta delle forze dell’ordine le si spinge via e ritornano all’imbocco del ponte, li resteranno.
Una squadra di carabinieri era salita tempo prima da dietro il blocco delle forze dell’ordine in salita era la squadra che andava a dar manforte al Seghino Superiore agli sfortunati colleghi.
Quando giunge al ponte la notizia del completo ritiro dei militari dalla postazione, i presidianti avvertono della discesa delle truppe. Stupidamente, giunte al sentiero da dove erano salite decidono di mettere in atto una vera e propria provocazione pretendendo di passare dal presidio, dall’ingresso alle spalle dei manifestanti. Sono subito bloccati dalla barricata rinforzata immediatamente, e dai resistenti che si preparano a fronteggiarli. Sono minuti di tensione, i militari sono determinati, i loro superiori sordi alle richieste degli amministratori.
I caschi blu imbracciano manganelli e fucili lacrimogeni per vincere l’empasse. Una frenetica mediazione porterà ad accettare il passaggio sotto un’umiliante raffica di insulti e tra due cordoni di valligiani che li fanno sfilare sotto le bandiere. Particolarmente contrariati, i militi visiere e passamontagna calati passano lanciando minacce di ogni genere, ma nessuna paura delle loro missive, oggi la Valle è determinata.
Le ore passano nel dubbio sul da farsi, le ore 19 sono il limite all’invasione dei terreni alcuni avvocati del movimento confermano ed agiscono tramite un giudice con una richiesta di illegittimità, a cui la legge risponderà quattro giorni dopo con esito negativo. Gli amministratori parlando con le forze dell’ordine ricevono garanzie del ritiro alle 19, è ormai buio e dopo una breve consultazione il presidio decide di fidarsi delle norme. Ricevendo rassicurazioni, con poca fiducia nei dirigente della questura, si scioglie il presidio dopo aver contrattato la discesa in massa, a piedi e in macchina, verso gli altri. […] La scelta di andarsene è un po’ sofferta, ma i manifestanti si accorgono di non poter andare oltre e per molti le norme giuridiche hanno ancora un valore, le forze dell’ordine accettano di lasciar scendere tutti, la strada era stata parzialmente liberata dalle centinaia di mezzi parcheggiati, il corteo di macchine e persone sfila in discesa gioioso ma attento a movimenti dei militari. […] Arrivati a Mompantero è festa, gli eroi del Seghino vengono accolti da applausi e urla di gioia, la pioggia condisce il momento. Il movimento ha vinto non sono passati.”
da “NO TAV: La Valle che resiste”
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madonnaaaddolorata · 8 years ago
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sono tre sere che faccio sogni strani, ho sognato in ordine: - la guerra navale. c'era questa guerra mondiale navale e c'erano tutte queste enormi corazzate in mare e io volevo scappare con la mia vespetta (che manco possiedo) in albania ma i trasporti erano tutti bloccati e restavo a piangere al porto di bari. e vabbe. - poi ho sognato un seria killer che mi perseguitava, io riuscivo a far perdere le mie tracce ma lui riusciva sempre a trovarmi. sta di fatto che mi rubano il telefono torno a casa e lui era nascosto sotto il letto con questo enorme coltello pronto a matarmi. tra l'altro mi legava pure (uao) e assomigliava a quello di halloween di carpenter. quindi lo lasciavo fare perché insomma almeno volevo premiarlo per l'impegno. e non potevo neanche chiamare nessuno, quindi... - stanotte ho sognato di stare in questa storica famiglia di malavitosi in questa strana città (boh mezza berlino mezzo paesino, un posto stranissimo) e di dover salvare la vita di questo boss anziano con il nasone. durante una processione qualcuno spunta da sotto le statue dei santi e inizia a lanciare pistole e fucili a persone nel pubblico e queste inizia a sparare sui balconi ma fingendosi morto il boss riesce a salvarsi e ore dopo devo accompagnarlo a cercare gente di cui può fidarsi. ma in questa città stava prendendo piede questa nuova gang in cui tutti erano vestiti di rosso e incappucciati con una strana croce sul petto tipo cavalieri di malta ed erano cattivissimi e con regole assurde (tipo all'alba non poteva girare nessuno per strada, era rigorosamente vietato mangiare cibi non rossi). e il boss mi diceva forse sono morto e io non lo so questo è il paradiso e io rispondevo "se fosse morto su repubblica ci sarebbe il suo nome a lettere cubitali e invece nulla", e ci mettiamo a leggere il giornale sotto questo grattacielo. e poi niente mi sono svegliata.
boh, forse è meglio se torno a drogarmi.
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tuttalamiavitarb · 3 years ago
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Alaska, fine di un discorso.
*****Attenzione questa non é una guida turistica*****
Caso ha voluto che finissi in argomento Alaska con 2 amici, e caso a voluto che per motivi dispari, non Sia riuscito a portare in fono il discorso con nessuno dei 2.
Provo a raggruppare i pensieri in questo post.
A disposizione di chiunque voglia leggere
The Line
La strada (ve la racvomando) che dalla capitale tira su, a Nord, verso proud hoe bay, é praticamente l unica via sicura e presidiata verso il polo.
Partendo da anchorage, Dopo un po si trova Fairbanks, ultimo avamposto della civiltà.
Anche i cani, si premureranno di dirvi che oltre Fairbanks, inizia l Alaska. Ogni 5 min, con ogni scusa.
Viaggiandi Verso est, quindi verso il Canada, si nota una presenza della civiltà, grossomodo, lí la maggior parte della popolazione é importata, principalmente bianca caucasico, o asiatica.
Volgendo sx, quindi verso la Russia, invece la popolazione è principalmente indigena e gli agglomerati di case non sono raggiungibili via strada, io onestamente, non ci sono stato
Questione di priorità
Pensate alle vostre priorità quotidiane, spesa, bollo auto, palestra, asilo figli, dove faccio l aperitivo?
Ecco molta della gente che vive in Alaska non si interessa di quei problemi, ma ha un unico grande problema-> come sopravvivo?
Non mi riferisco a quelli che vivono in città, anche se anche per loro il lungo inverno comporta un alto grado di preparazione, non fossaltro per decidere cosa fare, quando son sepolti sotto la neve.
Ma mi riferisco a tutti quelli sparsi e amanti della natura, che sono li a mantenere una presenza umana, in un luogo che non ce li vuole.
La prima jettura: il fiume yukon
Teoricamente ha un suo percorso, praticamente é sempre in mezzo ai coglioni, é lui l orologio dell Alaska, quando é ghiacciato, funge da autostrada, durante il disgelo, riempie di fango mezza Alaska, quando ci sono i salmoni, son tutti a pescare, quando é placido tutti si spostano in barca.
Io mi son fatto persuaso che più é vicino più aumentano gli animali e gli insetti.
La gente
Gli inuit non sono così incazzati coi bianchi, come gli altri americani nativi. Le ragioni sono molteplici, ma il risultato é che le due etnie, per quello che ho visto, convivono e si aiutano :
gli inuit, portano trucchi e metodi per cacciare e sopravvivere, i bianchi, alcool, fucili, abbigliamento tecnico e pickup.
Non sono rare le coppie miste
Mi hanno detto che ci sono comunità inuit, piuttosto integraliste a nord ovest, ma io non ci sono stato.
Flora e fauna e clima
Praticamente tutto é li per ucciderci.
Le mosche sono milioni di miliardi, ho avuto il terrore degli orsi tutto il tempo che son stato lì.
Ci sono sbalzi termici che fanno prendere la bronchite anche ai pinguini.
Le zanzare invece sono enormi, però non ti pinzano, perché son pigre, però a quello ci pensano una sessantina di specie di pappatacei più o meno invasivi.
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pangeanews · 5 years ago
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“Questo non è un paese per deboli. L’uomo per cercare il divino è disposto a tutto”: viaggio tra Nepal e Tibet, il luna park cinese della spiritualità
“Il lato chiaro”
Cosa cerca l’essere umano? Un significato o un modo per sentirsi immortale? Di cosa ha bisogno un uomo? Di stare seduto a gambe incrociate in un ruscello gelido, tremando come un ossesso, cantando, invocando Dio per farlo entrare in sé? È di questo che abbiamo bisogno? E per fare cosa? Per capire qual è la verità? Chi ha la verità? Dove sta la verità? Perché abbiamo bisogno della verità? Perché abbiamo bisogno di Dio?
*
Kathmandu ha solo risvegliato altre domande, nessuna risposta. Qui è terra di molti e di nessuno, un crocevia di storie ed emozioni. Puoi meditare con i monaci durante la puja, restare in disparte come un fantasma ad ascoltare i loro mantra, le loro formule magiche che in te, umile osservatore che non capisci una parola, non sembrano altro che una specie di lavaggio del cervello. Puoi ascoltare i loro strumenti, i loro piatti, corni, tamburi, e avere la sensazione di sentire il cuore fuori dal petto che pulsa, che ti tiene in vita, che ti omaggia della sua presenza. Il cuore fuori dal corpo e il respiro sordo che striscia nelle vene.
*
Ma poi apri gli occhi e ti accorgi che i giovani monaci, invece, vorrebbero essere altrove, magari a giocare, e che si guardano in giro stufi. Sono irrequieti, la loro mente balla come una scimmia in gabbia. Sfogliano le preghiere poggiate sul tavolino e le contano, per capire quanto manca alla fine di quel tormento. Studiano che tutto è illusione, che la materia non esiste, ma poi piangono come gli altri, come le donne indù durante le cremazioni. Perché la vita sarà pure nient’altro che un ambire al ricongiungimento con l’Assoluto, ma di fronte al cadavere di un marito e di un padre lavato nell’affluente del Gange, tutto torna a essere così maledettamente terreno… e non c’è fede che tenga di fronte al lutto. È il dolore a sembrare più reale del corpo.
*
Il senso d’ingiustizia e d’incomprensione è deturpante e ci rende tutti vicini e simili. Altro che non-attaccamento, altro che impermanenza, altro che coproduzione condizionata. La gente vorrebbe solo restare e continuare ad amare e cogliere la bellezza.
Dare tutto e prendersi il meglio.
Perché se a volte è difficile trovare un motivo per svegliarsi la mattina, lo è anche trovarne uno per morire.
*
Il mal di montagna è come l’ubriachezza. Facile da capire e da superare per chi nella vita ha provato droghe e molto alcool.
Il primo giorno a Lhasa si ha la sensazione di essere in post sbornia.
La lentezza è una condizione naturale. I cinesi invece sono troppi e hanno infestato tutto con le loro inutili autostrade, inutili infrastrutture, inutili palazzi, inutili quartieri.
Le mani sono sempre secche e la testa pulsa. Il cervello sembra voler uscire e tornare a casa. I monasteri sono enormi, i buddha enormi.
I pellegrini si prostrano ovunque e pregano, pregano sempre, lasciano offerte. Chissà cosa chiedono, di cosa hanno così tanto bisogno.
Io non prego.
La spiritualità non è nei monasteri, nei templi o nelle chiese ma nei paesaggi.
Se cerchi qualcosa stai pur certo che non è fuori.
*
Il cielo azzurro sbatte contro la ruota del Dharma. Le nuvole candide danno un tocco di realtà. Nulla è mai limpido e chiaro, nulla è semplice e solo piacevole. Quell’immenso azzurro verrebbe a noia senza nuvole, dopo un po’ nessuno lo guarderebbe più, sarebbe soltanto un riflesso spento, come acqua ferma e stagnante. Guardare il cielo come quando ci si guarda allo specchio. Amarsi anche se non dovesse esistere l’anima.
*
Il cammino in salita a 4.000 metri è solo un cammino utile a diventare più forti. Il respiro si fa corto ma non per chi usa la respirazione yogica.
Bisogna aspettare, mettere un piede davanti all’altro, senza parlare, senza pensare, senza fretta. Arriva soltanto chi ha saputo pazientare. Piano e con fiducia.
Il tetto del mondo è ai miei piedi, la paura non mi potrà più fermare.
Schiavi delle abitudini, delle comodità, del buon cibo. Chi non ha mai patito non può cogliere molto del mondo.
La polvere dà e la polvere toglie.
Sta tutto lì, nel cercare di vivere senza avere troppa paura.
*
E si capiscono molte cose dopo una camminata a 4.700 metri per raggiungere il monastero di Drak Yerpa, abbarbicato sulla montagna con i suoi Buddha e le sue stanze dentro le caverne. Solo tu e la montagna, e quella fatica che si trasforma in forza, quella mancanza di fiato che dopo qualche passo si trasforma in leggerezza, come se si camminasse in assenza di gravità.
E lassù preghi, eccome se preghi; e lasci pure offerte, perché è dura, perché anche se non credi in niente, ringrazi di essere ancora vivo e di avercela fatta.
Il dolore, la sofferenza e la penitenza, acquisiscono maggior valore in questi luoghi. Diventa tutto una sfida con te stesso, e vincerla vuol dire tornare più forte, diverso.
È una vittoria contro la durezza del mondo.
L’uomo, per cercare il divino, è davvero disposto a tutto.
*
Il silenzio delle cappelle nelle caverne è qualcosa di spaventoso; e quell’odore d’incenso, quel fumo che si diffonde e toglie ancora più ossigeno; quel burro di yak che puzza, e che giace ai piedi delle fiammelle delle candele, e permette loro di ardere perpetue; quell’odore di cose mai lavate.
E i pellegrini, e i giochi e le corse dei bambini.
Non è un paese per deboli.
Le anime pulsano nei corpi dei giovani e degli anziani, puoi quasi vederle, quasi toccarle.
La mente si trova in quel vuoto all’interno del cuore.
I corpi sono forti e così gli spiriti.
Mancherà l’ossigeno ma si sorride di più.
L’aria è buona, si è più vicini al cielo: una scorciatoia per il paradiso.
*
In Tibet non esistono nemmeno i funerali. Qui i corpi vengono fatti a pezzi tra le rocce, sparpagliati sulle montagne, e dati in pasto agli uccelli. Niente cimiteri, un ritorno truce e reale alla terra.
Altri due passi e ci si può appendere alle stelle.
Le notti sembrano più corte, il riposo profondo.
I monaci suonano il gong e richiamano alla preghiera. I loro mantra invadono la valle, la loro meditazione penetra anche nei corpi dei più scettici.
Quel vuoto, quell’Assoluto, quel Dio, sembra volersi far cogliere e comprendere, ma la strada è ancora tanta.
*
Non basta l’altitudine, non bastano le preghiere e la contemplazione, né la disciplina. Spesso non basta una sola vita, e i monaci, forse, non sono altro che uomini spaventati, i più paurosi di tutti; timorosi della vita, del desiderio, dell’inferno, di tutto. La rinuncia alla vita è la scelta più facile per avere un cuore sereno. È la vita però che te lo fa battere, agitare, spezzare, fermare, e non l’ascetismo e il ritiro dove è richiesta pace, niente più che pace.
Io invece voglio la guerra nel cuore, voglio sentire, come la sorella di Milarepa.
Ma chi deve pregare per noi deve avere il cuore in pace, altrimenti non si possono trovare le forze per desiderare il bene di tutti.
***
“Il lato scuro”
L’ansia non è la benvenuta in paesi come questo. Il cuore batte più del normale e hai la sensazione di soffocare.
I bagni sono dei tagli nel cemento, delle fessure dove non passa mai acqua e dove puoi vedere gli escrementi di chi è passato prima di te.
Le mosche ci volano sopra, poi passano al ristorante accanto, dove il pranzo viene servito tra sporcizia e mozziconi buttati a terra.
La cenere vola ovunque. La carne di yak è nauseabonda e dura.
*
Inizio a sentire la stanchezza, non basta la spiritualità in questa terra troppo seria, dove le dune di sabbia scivolano nei laghi al cospetto di montagne verdi di 5.000 metri che qui sembrano niente più che colline.
La sabbia è bagnata, gli alberi possono nascere nei prati. Ce ne sono di più grandi, più veloci e in forma, altri più piccoli e fragili, come tutte le creature.
Le nuvole mangiano le montagne.
Guardo Qomulangma, la grande sorella sacra, madre dell’universo.
Il sole la illumina, le nuvole non la sfiorano nemmeno, vanno, vengono, la ricoprono, poi scompaiono.
La luna della notte detta il suo profilo imponente. La punta è ben chiara all’orizzonte, il suo profilo è quello di una bella donna, della Madonna, di Dio. Ma questo vale per noi occidentali, per molti tibetani il monte sarà pur sacro ma è anche il muro più alto del mondo che li divide dalla libertà.
*
Un tibetano mima il gesto dei fucili guardando in alto e poi mi spiega che si potrebbe andare lassù, tutti insieme, armati, passare il confine, scavalcare quel diavolo di Himalaya ed essere liberi.
Resterà un sogno, un racconto sul quale tutti abbiamo riso, ma per un attimo ci abbiamo creduto, lo abbiamo sperato.
Ci siamo guardati negli occhi, abbiamo guardato il monte di fianco all’Everest, più basso, forse solo 7.000, e lo abbiamo immaginato possibile.
Poi l’amico dell’uomo che voleva fare la sparatoria ha guardato di nuovo Qomulangma, e sospirando ha detto: “questo è il mio paese”, un po’ arreso, un po’ fiero, un po’ sorridente.
Ci siamo fumati una sigaretta davanti a quello splendore che stupisce anche chi lo vede tutti i giorni e poi siamo andati a cena.
Perché qui, la neve sui picchi, ti ricorda l’ardore di un paese inginocchiato dal dittatore cinese.
*
Lei è Dejanira Bada; il suo ultimo libro si intitola “Storia di un uomo vescica” (Villaggio Maori, 2018)
Un uomo, a cena, ci ha raccontato di essere stato in carcere dieci anni per aver provato a combattere contro i cinesi negli anni ’90, o meglio, solo per aver osato resistere.
Non possono uscire, sono bloccati, reclusi, prigionieri nella loro stessa terra.
Uno ci ha messo sedici anni per ottenere il passaporto, e solo per andare in Nepal o in India, altrimenti niente visto.
Anche chi è tibetano e se n’è andato anni prima e vuole rientrare è trattato come un delinquente, e a volte bisogna aspettare anni anche per tornare.
La bellezza, la compassione, il Buddha stesso, non bastano a nascondere i divieti, i controlli, le ingiustizie, la propaganda, il totalitarismo, l’occupazione che si respira a ogni angolo di strada.
Paesaggi immensi che non fanno dimenticare la sensazione di essere controllati a vista.
Non si può parlare con chi si vuole, non si può parlare con i monaci, non si può viaggiare da soli, non si possono avere immagini del Dalai Lama, non si può sventolare la bandiera, si deve parlare cinese, obbedire.
*
I cinesi costruiscono immensi palazzi, ponti, autostrade, solo per far sentire il loro potere.
Devono sapere dove sei, con chi sei, dove vai, dove dormi, cosa fai, cosa vai a vedere, perché, quando, che strada fai, quando te ne vai.
Un ragazzo italiano, in aeroporto, ha detto che prima di partire alzava il pugno chiuso, dopo quello che ha visto non si definirà mai più un comunista.
Qui sembra non esserci più salvezza, altro che Buddha.
*
A breve il Tibet sarà definitivamente il luna park del cinese medio in cerca di “spiritualità”, ma non potranno mai avere la dignità dei tibetani, di coloro che stanno in alto.
Ma in fondo, neanche la Cina esiste, è solo un aggregato come tutto il resto, un insieme di corpi che di per sé non esistono.
Ai tibetani la capacità di elevarsi e illuminarsi, ai cinesi altre mille di queste vite.
La verità non è per tutti.
Dejanira Bada
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samdelpapa · 6 years ago
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Torri gemelle: 11/9/2001. Notre Dame: 15/4/2019. Se non fosse un caso… • Unoeditori
Se la mente torna alle Torri Gemelle…
Appena ho visto le immagini che venivano trasmesse in diretta da Parigi, mi sono immediatamente rivista come in un film, mentre guardavo attonita, sempre provenienti dallo stesso televisore, scene analoghe l’undici settembre del 2001.
Molti hanno intuito che c’era qualcosa di deja vu in quelle fiamme altissime che avvolgevano la Cattedrale di Nostra Signora di Parigi.
Com’è ormai assodato, le intuizioni sono in grado di fare collegamenti inusitati, che mai avremmo fatto in modo razionale.
Mi sono balzati subito alla mente dei collegamenti evidenti, ma forse non troppo facili da decodificare.
Le Torri Gemelle di New York erano dei simboli molto potenti: altissime, erette a sfidare la forza di gravità, si ponevano al mondo intero come simbolo della forza del potere e del denaro.
Due enormi simboli fallici, che incutevano paura e ammirazione allo stesso tempo, e che testimoniavano come, in quella terra di frontiera, in quel “ Nuovo Mondo” l’unico simbolo dominante era stato e rimaneva quello maschile.
Un impero costruito sulla dominanza maschile 
Gli Stati Uniti sono stati frutto di un crudele e ingiustificato genocidio che ha insanguinato  tutto il territorio americano, da Est a Ovest. Milioni di nativi sono stati ingannati, uccisi, stuprati e violentemente messi a tacere per sempre… Armi, fucili, pistole hanno fatto strada ai pionieri che penetravano e rubavano la sacra terra dei pellerossa.
Un impero costruito sul Potere della dominanza maschile e patriarcale, che riesce a conquistare il mondo intero o tramite uccisione o tramite uso di patrimonio.
Sul patrimonio, parola che etimologicamente deriva dalla parola pater, si fonda il potere, e le Torri Gemelle erano il paradiso dell’alta finanza mondiale. Lo stesso Presidente Trump incarna perfettamente gli ideali patriarcali rappresentati nel mondo dagli Stati Uniti.
Quando i Plutocrati occulti decisero di minare il simbolo del loro stesso potere, non so se fossero consapevoli di stare minando anche il potere del Patriarcato tutto.
La crisi del patriarcato
Infatti, tutte le istituzioni mondiali collegate ad esso, dal 2001 ad oggi, stanno man mano andando in crisi : le varie Chiese (Cristiana, Cattolica, Ortodossa), i monoteismi in generale (Islam, Giudaismo), le borse della Finanza Internazionale e i soldi stessi, che stanno scomparendo a favore della moneta virtuale.
Da quella fatidica data in avanti sono risorti interessi profondi per le antiche sapienze, per la cultura matrilineare, per le visioni alternative sulla vita e sulla morte.
Le persone, quasi come se fossero state liberate dall’immagine di questi opprimenti simboli, hanno cercato strade alternative, subito represse con atti di forza e violenza inaudita.
Quando il mostro si sente minacciato, inarca la coda e dà fendenti a destra e a manca, come impazzito.
Probabilmente qualcuno, nei piani alti, si è accorto di questi fenomeni e ha capito che bisognava agire anche sull’altro fronte.
Qual era l’altro fronte? Quello della Madre, quello che cominciava di nuovo, dopo millenni, a tornare alla luce.
Quale miglior simbolo che Notre Dame?
Quale miglior simbolo che Notre Dame?
Per gli americani, la culla della civiltà risiede in Francia, anche se è storicamente inesatto.
Per tutti gli americani vedere Parigi equivale a vedere tutta Europa.
Le cattedrali gotiche sono dei poemi in pietra e rappresentano, anche visivamente, la culla della cultura.
La Cattedrale che brucia è un simbolo molto potente, come lo era vedere bruciare le due Torri.
In questo modo sono stati bruciati sia gli uomini sia le donne, in uno spaventoso monito universale.
Con questo feroce e barbaro incendio, sono andati in fumo millenni di storia europea.
Diciotto anni dopo le Torri Gemelle, ecco bruciare la culla europea. Che l’Europa sia la culla di una delle più importanti civiltà del mondo, è cosa acclarata.
Anche il nome “Notre Dame” è significativo: è la  Nostra signora, la Dea Iside, ritornata in vita grazie al camuffamento operato dai costruttori della Cattedrale più famosa del mondo.
Nella Cattedrale erano custoditi tutti i simboli massonici, sapienziali e esoterici europei. Il fenomeno è equiparabile al il rogo che colpì la Biblioteca di Alessandria d’Egitto ai tempi dei Teodosio, dove erano custodite tutte le conoscenze antiche.  Ed è anche come se una nuova Giovanna d’Arco venisse immolata sull’altare perverso della Dominazione.
Distruzione globale
Entrambi i simboli, maschile e femminile, sono stati colpiti, a distanza di 18 anni uno dall’altro. La distruzione globale prevede, infatti, che muoiano tutti, uomini e donne indifferentemente.
A 18 anni si raggiunge la maggior età… che sia un monito per tutti noi che il Potere Occulto abbia raggiunto il tempo della maturazione finale? Mi auguro di no, e che queste siano solo congetture di una mente troppo abituata a pensare…
Autore: Mirella Santamato
Laureata presso l’Università di Bologna, iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti, ha collaborato per anni con alcuni settimanali e mensili a diffusione nazionale. Ha vinto numerosi premi di poesia, ha partecipato a vari programmi Rai e Mediaset. Conduce seminari di riequilibrio tra le energie maschili e femminili e di ricerca della felicità. Tiene conferenze ed incontri in tutta Italia. Autrice di "Quando Troia era solo una città" e "Iniziazione segreta alla felicità". In pubblicazione per Uno Editori "Origini delle narrazioni del mondo".
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mister-alphagdr · 11 years ago
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Nuova arma per Sine Requie - Sanctum Imperium
Per l'articolo di oggi volevo ringraziare un mio lettore che mi ha segnalato questa strana e particolare arma. Premetto che ero scettico io per primo quando ho visto l'allegato, ma facendo un po' di ricerca ho visto che l'idea di questo giocatore non è poi così male! Di cosa sto parlando? Ieri mi trovo in posta elettronica qui sul mio blog una mail che riportava questa singolare foto:
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con scritto sotto che il fucile che mostra questo individuo nella foto in bianco e nero era un'arma usata regolarmente nella caccia agli stormi dei volatili durante tutto il periodo che va più o meno dalla fine della prima guerra mondiale fino alla fine degli anni '60 e '70 nelle zone del delta del Po'!
Lui sta impersonando un nobile usando questo fucilozzo in una campagna di Sine Requie in cui spara ai morti standosene relativamente al sicuro! Aggiungeteci pure l'ottica e proiettili a dir poco devastanti (anche se per sua stessa ammissione un po' al limite del fantarealistico) devo ammettere che si è fatto un fucile non da poco!
Ora mettiamo da parte il fucile che ha creato questo giocatore, per il suo personaggio e passiamo a come e dove è possibile procurarvene uno più simile a quello della foto se volete anche voi provare l'ebrezza di sparare ai morti del Santum Imperium con armi così grosse! Storicamente dovete sapere che nel delta del po' si usavano imbarcazioni dal fondo piatto e per andare a caccia di stormi si arrivava a usare perfino vecchi cannoni come questi ripresi in foto!
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Oppure armi che si trasportavano con l'ausilio di un paio di ruote fatte su misura appunto come questa.
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In molti, e io prima di questa segnalazione, non conoscevo questo tipo di caccia perché ripeto era proprio tipica di quelle parti. Ora ve lo immaginate un gruppo di cacciatori che con due o tre di queste armi a disposizione decidono di diventare cacciatori di morti? Spesso erano armi dai calibri impressionanti come questi. Vi propongo la formula (per chi se ne intende di balistica) per creare questi proiettili:
Cal. 52mm 180x800;
cal. 44mm 110x550;
cal. 41mm 100x500;
Cal. 32mm 30x150;
cal. 4 15x70;
Cal. 8 12x56;
Cal.10 7x42.
Inoltre dovete sapere che spesso, non tanto questi obici, parlo delle spingarde vere e proprie erano dei veri e propri gioielli di artigianato locale, alcune erano perfino talmente bilanciati bene che dalla barca si poteva fare fuoco anche in alzata. Per chi non è cacciatore mi spiego meglio, il bilanciamento di tali armi era tale che lo si poteva imbracciare senza problemi per sparare pure a stormi che all'improvviso da altezza del "fuciliere" si alzavano in volo costringendo ad alzare e prendere la mira sollevando la canna del fucile.
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In termini di gioco quanto danno potrebbe fare? Tenente conto che anche i proiettili erano spesso fatti in casa o da artigiani che gli elaboravano le cartucce al tornio! Il giocatore che mi ha dato lo spunto per questa strana e sconosciuta arma mi ha detto che il suo master gli ha dato un P +2 per la tipologia di proiettili. 
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Tenete conto che questo è solo un calibro 10! Ah finisco l'articolo dicendovi che questa tecnica di caccia non è arrivata fino ai giorni nostri perché negli anni sesanta fu dichiarata illegale. Però nel mondo di Sine non credo che ce ne sia stato il tempo. Se pensate che possa essere utile e che possa dare nuovi spunti al mondo del Sanctum Imperium non abbiate timore nell'usarla. Allo stesso modo non abusatene oh io vi ho avvertiti poi voi fate come volete!
P.s.: si ringrazia il sito http://wew.ilbraccoitaliano.net e il suo forum per tutti i riferimenti storici, per alcune delle foto sulle spingarde e anche alla pagina internet http://www.anatidi.it/cultura/cultura_spingarde.asp per le restanti foto.
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pangeanews · 7 years ago
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Quando Montanelli diede a Burgess del “mercenario”. Il grande scrittore inglese compie (nell’oblio quasi totale) 100 anni
In un Paese culturalmente di nani è ovvio che si dimentichino i giganti. Il gigante, in questo caso, è Anthony Burgess (lo dice anche la Cassandra dei gonzi, Wikipedia: “è considerato uno dei più grandi autori inglesi del Novecento”), scrittore metamorfico, polimorfico, nato 100 anni, nel 1917, insieme alla Rivoluzione di febbraio, e oggi bestemmiato nell’oblio. La sua bibliografia sterminata – una trentina i romanzi – è ridotta in Italia pressoché ad Arancia meccanica, dimenticando altri libri, forse più belli, Il seme inquieto, Abba Abba, Un cadavere a Deptford e soprattutto Gli strumenti delle tenebre, un sontuoso capolavoro dell’eccesso narrativo. Burgess, in Italia, dove vanno di moda i romanzi-sottiletta, non va più di moda, basta guardare su un portale qualsiasi (ibs.it, ad esempio): libri disponibili, Arancia meccanica, la Trilogia malese (stampa Einaudi) e un saggio su Hemingway (minimum fax). Nuove pubblicazioni per il centenario, zero. Della vicenda ho scritto, con le pantofole del critico, un po’ di tempo fa su il Giornale ed è proprio il Giornale a recare, vivaddio, il dono bibliografico più inatteso per l’anniversario. Per la collana editoriale “Firme fuori dal coro”, il quotidiano milanese manda in edicola – allegato al giornale – A lettere maiuscole, che è una raccolta dei ‘pezzi’ più belli scritti da Burgess per il Giornale. Già. Burgess, che aveva un certo amore per il Belpaese – oltre ad aver impalmato la traduttrice italiana Liliana Macellari, ha collaborato con Franco Zeffirelli per il suo Gesù di Nazareth e ha vinto, nel 1983, la prima edizione del Premio Malaparte – fu arruolato quarant’anni fa da quella volpe di Montanelli. “Il risultato furono una serie di pezzi, scritti fra il 1978 e il 1981, per le pagine della gloriosa Terza del Giornale. Burgess, che era autore prolifico e ‘plurimologo’, firmò – tra tanti altri – articoli su Edgar Allan Poe, su Dumas, su Hemingway, Conrad, Rabelais, Beethoven, Shakespeare… La sua cultura era prodigiosa, la sua velocità di scrittura leggendaria. Burgess poteva scrivere ciò che voleva, e Montanelli gli pubblicava ogni cosa che gli mandava”, racconta Luigi Mascheroni in un intro piuttosto partecipe. Dove ci spiega, tra l’altro, perché il rapporto idilliaco tra il grande scrittore e il grande giornalista (caratteracci entrambi) si ruppe. Burgess andò a scrivere al Corriere della Sera. Pagavano meglio. E Montanelli non gliela mandò a dire. “Montanelli spiega che Burgess se n’è andato ‘perché il Corriere lo paga tre volte più di me: un milione ad articolo, mi dicono. Il Corriere può farlo, visto che ha alle spalle delle banche che gli hanno concesso crediti per tre-quattrocento miliardi. Io, per ottenerne uno di trenta-quaranta milioni, devo fare salti mortali’. E poi, la staffilata: ‘Aver perso lo scrittore Burgess mi dispiace molto, aver perso l’uomo Burgess non mi dispiace affatto. In una pattuglia come la nostra, per i mercenari non c’è posto’”. Mirabile. Il succo è un florilegio di articoli che stendono sul lettino anatomico di Burgess i grandi della letteratura, da Hemingway – ancora lui – a Edgar Allan Poe, da Joseph Conrad a Chesterton. Se volete altre ‘chicche’ per fare la festa a Burgess, dovete trasbordare oltremanica. Il Times Literary Supplement, ad esempio, pubblica un inedito ‘italiano’ di Burgess, il quale, poco prima di essere arruolato al Giornale, nel 1976, scrive all’editor della Faber, “non penso di averti mai detto che a mio avviso il Belli è il più grande poeta del XIX secolo”. Si riferisce a Giuseppe Gioacchino Belli, il grande poeta romanesco. Burgess si mette a tradurlo, va matto per lui – detto da un inglese che gorgheggia Keats e Shelley… Pubblicati nel 1977 in calce al romanzo Abba Abba (che ha per protagonisti Keats e Belli), i sonetti del Belli sono lo spunto per una riflessione, Belli into English, finora inedita. Incipit: “Belli è uno di quei poeti che ci fanno rivedere le nostre nozioni di grandezza in campo letterario. Troppo spesso si presume che l’importanza di un grande scrittore sia la sua universalità – cioè la capacità di parlare direttamente, senza note o senza glosse, alla maggior parte degli uomini. Insegnando letteratura occidentale in Malesia, a malesi, cinesi, indiani, mi sono accorto che Dante e Shakespeare erano molto meno universali di quanto supponessi. I miei studenti non capivano il cattolicesimo di Dante e avevano difficoltà a capire i costumi dell’Inghilterra di Shakespeare… Ora. La prospettiva di Belli è davvero stretta. Scrive di romani ai romani, in romanesco. Il suo pubblico è un pubblico da osteria. Gogol’ fu impressionato da lui, Sainte-Beauve scrisse di lui, ma egli non era destinato a superare le frontiere letterarie come Tolstoj o Dickens. Usava un linguaggio misero, inesportabile dalle strade romane… eppure, un certo numero di stranieri – americani, soprattutto – affermano increduli che Belli è uno dei più grandi poeti del XIX secolo; l’altro è John Keats, il quale, sepolto a Roma, è una sorta di romano onorario”. Bizzarro. L’ennesimo omaggio di Burgess all’Italia, lo dobbiamo leggere in Inghilterra. Ma le sorprese sono innumerevoli. Basta fare una gita nel sito della International Anthony Burgess Foundation (nel cui comitato d’onore figurano personaggi come Harold Bloom, William Boyd, A.S. Byatt, Martin Scorsese e Max Saunders) per entrare nel burgessiano mondo delle meraviglie. Esempio. Cosa pensava Burgess di 1984 di George Orwell? “Una delle rare visioni distopiche o cacotopiche che abbiano cambiato il nostro modo di pensare. Possiamo dire che il terribile futuro profetizzato da Orwell non è accaduto perché lo ha predetto lui”. E di Shakespere, cosa pensava Burgess di Shakespeare? “Posso presentarmi soltanto come un uomo che ha letto Shakespeare, che ha idolatrato Shakespeare, che ha tentato di essere influenzato da lui nell’arte della scrittura. Credo che lui sia ancora il migliore modello: l’uomo che ha saputo meglio di chiunque altro come gestire quella bestia intrattabile che è la lingua inglese”. Micidiale. Tra le tante belle cose, sono pubblici alcuni spartiti musicali costruiti da Burgess, instancabile compositore, tra l’altro. Ne segnaliamo due. Quello che mette in musica La terra desolata di Thomas S. Eliot e quello che fa suonare La pioggia nel pineto, la più nota tra le poesie di D’Annunzio. Composta nel 1988, è bello vedere il testo del Vate (“Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane…”), Molto moderato, chiosato dalle note di Burgess. Un dialogo tra giganti.
Per gentile concessione, pubblichiamo un brano tratto da “A lettere maiuscole” ed edito dal quotidiano il Giornale nella collana “Firme fuori dal coro”.
Il mondo di Hemingway tra vigore e dolore
Il giorno della morte di Hemingway ero in Russia. La Pravda pubblicò un titolo di testa, Smert Gemingvaya, mi sembra che fosse. Molti giovani russi con i quali mi trovavo a bere mi chiesero, come se io fossi in grado di saperlo meglio di loro, se si trattava di assassinio o suicidio. Le loro anime russe leggevano «in trasparenza» la dichiarazione, molto sensata, di Mary Hemingway che lo scrittore era morto pulendo uno dei suoi fucili. Una giovane, piangendo lacrime nel suo bicchiere di vodka, disse: «Yerniest Gemingway, lo amavamo tutti quanti». Era un ottimo elogio funebre. «Assomigliava molto a Jack London» proseguì. Verissimo. Aveva la barca, era un buon marinaio, andava a caccia di bestie feroci, prendeva pesci enormi, combatteva per le cause giuste, faceva della composizione letteraria un aspetto della vita fisica. Ma la morte di Jack London a 40 anni era stata prematura; il suicidio di Hemingway a 62 si compiva quando il suo cervello era in sfacelo, quando il piacere fisico che comprendeva anche lo scrivere, si era esaurito. Lo scrittore di un tempo, chiuso nella custodia senile di un corpo venerato come un E.M. Forster per intendersi, andrà bene per l’Europa: l’America lo ricusa, Hemingway era americano al cento per cento. Ho ripensato ai suoi ultimi anni quando, l’autunno scorso, camminavo lentamente sull’erba impietrita dal gelo e mi accostava alle macchine da presa che erano state piazzate nel cimitero di Ketchum, vicino alla sua tomba. Giravamo un filmato televisivo su Hemingway, e non tanto per onorare i suoi successi letterari. Non propriamente. Era anche per solleticare il palato del pubblico televisivo presentando l’immagine di un uomo riuscito come scrittore (cioè aveva fatto molti soldi) ma in ultima analisi un essere umano mancato. Il vasto pubblico che non è ricco, non ha talento né gloria, ama sempre sentirsi raccontare le storie del fallimento dei grandi. Così giustifica in un certo modo la nullità della propria esistenza seguendo in televisione lo sfacelo e la caduta di grandi uomini e donne. Hemingway era stato un uomo grande e stupendo, alto, vigoroso, robusto, un bel fisico di atleta, un buon boxeur, bevitore «solenne», aficionado della plaza de toros, scrittore di genio. Improvvisamente, nell’età di mezzo, divenne difficile e scontento, uno che si arrovellava sui soldi e sul peso eccessivo dei bagagli nelle sale d’imbarco degli aeroporti. Gli venne la mania di persecuzione: quei due laggiù in fondo al bar erano dell’Fbi, lo spiavano; non far guidare la macchina a Bill, vuole farmi ammazzare; quest’anno non ho guadagnato abbastanza, siamo a corto di quattrini (nonostante le centinaia di migliaia di dollari annui di diritti d’autore, gli investimenti immobiliari, i titoli). Ma anche nel decennio che precedette il suo suicidio, mentre nuotava, andava a pesca d’altura e a caccia grossa, seguiva le corride da un capo all’altro della Spagna, già si manifestava un vago sentore del sopraggiungere della nemesi.
Anthony Burgess
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